ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 Epoché e conoscenza: filosofia, fenomenologia, psicoterapia Prima parte Giovanni Fanucchi Ciò che si esperisce offre ragioni empiriche, vale a dire ragionevoli fondamenti di probabilità, per ciò che non si esperisce, ma – beninteso – unicamente per ciò che è esperibile. Ma il trascendente è inesperibile per principio. E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie Prima delle epistemologie e delle scienze, ci sono i fenomeni e le cose dati. Al fondo, non è il come delle scienze che parlano di noi, a lasciarci insoddisfatti. È il cosa mettono al nostro posto. R. De Monticelli, La conoscenza personale 1. Premessa Nella professione di psicologo e psicoterapeuta si incontrano persone diverse che si presentano a noi ognuna con la manifestazione della propria “essenzialità”, unica per problematicità o sofferenza. Se ogni individuo è un fenomeno-persona a sé, e da subito lo vediamo, è però col tempo che impariamo ad ascoltarlo, conoscerlo e ri-conoscerlo. La crescita personale e professionale che scaturisce da questi incontri si basa sull’integrazione di queste esperienze, integrazione che procede in base alle proprie qualità soggettive e costitutive (atteggiamenti, carattere, stile), e non può fare a meno di nutrirsi e spesso con-fondersi con gli aspetti etici e valoriali adottati da ogni singolo terapeuta (aspetti che si traducono in motivi di convinzione sia teoretici che pragmatici). Ogni psicoterapeuta inoltre, pure se in minima parte e mutevolmente, si ri1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 conosce in un ‘approccio’ o ‘visione’: atteggiamenti e teorie, obiettivi e filosofie personali che – oltre ad avere l’utile funzione di trame e linguaggi che permettono la codifica, la traduzione nonché la possibilità di scambiare e comunicare il proprio operato – possono anche diventare un letto di Procuste su cui far ‘accomodare’ i nostri visitatori (non è raro che dopo una psicanalisi un paziente diventi un po’ più psicanalista e meno se stesso). Nello specifico di chi si riconosce in un orientamento fenomenologicoesistenziale, in cui possiamo inscrivere la Terapia Centrata sul Cliente di Carl Rogers, è proprio in virtù di questa peculiare visione umana e teorica che si rende necessario fare maggiore attenzione a come viene percepita e interpretata la manifestazione dell’altro nonché significati e modalità della propria esperienza ad essa correlati, giacché ogni operazione di conoscenza comporta una visione, un sentire che nell’essere simbolizzati e tradotti implicano una ri-creazione; costruzione che può essere più o meno articolata e conforme all’originale presentificazione di un dato fenomeno-persona. Può essere il caso allora di provare a compiere una sorta di nekia, una discesa verso le fondamenta epistemologiche della propria soggettività alla riscoperta delle nostre fonti teoriche, influenze esperienziali, strutture conoscitive e modalità operative, e quindi rivedere tutto questo da vicino per una migliore consapevolezza e conoscenza del proprio modo di essere, operare, conoscere. Da quanto delineato si può già intravedere la complessità di quel particolare rapporto intersoggettivo che è una relazione terapeutica: un rapporto di conoscenza e cambiamento. In questa sede ci limiteremo ad enucleare e approfondire solo alcuni aspetti quali la conoscenza dell’altro e, necessariamente, la conoscenza di sé, atti intenzionali inscindibilmente legati in quanto, come ci ricorda Blankenburg, «la globalità di quel che si incontra (per esempio, quella di un individuo malato) non è una somma di dettagli isolati ma è, sempre, già co-esperienza».1 Riguardo il problema della conoscenza in generale, vediamo come questo, una volta avvenuta la separazione ontologica tra soggetto ed oggetto, si sia sviluppato in seno al discorso filosofico per poi venire quasi definitivamente acquisito dalla scienza moderna, la nuova agenzia della verità. Noi ci soffermeremo sul passaggio dal dominio filosofico a quello della scienza positiva e psicologica cercando di individuare alcuni dei temi emergenti e più rilevanti. Particolare attenzione sarà rivolta al pensiero di Edmund Husserl (18591938) e al suo obiettivo centrale: la conoscenza e la sua rifondazione metodologica mediante la riduzione fenomenologica e il metodo dell’epoché. Nel ripercorrere le modalità e le possibilità dell’atto conoscitivo, che nell’intersoggettività viene in gran parte a coincidere con la reciprocità del vedere e intuire, emerge tutta l’importanza del metodo fenomenologico di Husserl per gli approcci umanistico-esistenziali in psicologia – metodo che illumina la specifica situazionalità della relazione terapeuta-cliente al punto 1 BLANKENBURG W. (1971), Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit; trad. it. La perdita dell’evidenza naturale, Milano, Raffaello Cortina, 1998, p. 17. 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 da rendere la fenomenologia, come afferma Spiegelberg, «una forza viva all’interno della psichiatria e della psicologia piuttosto che un intruso dall’esterno»,2 una forza viva che alimenta più o meno consapevolmente il lavoro psicoterapeutico. L’obiettivo sarà quello di analizzare e giustificare l’approccio fenomenologico come momento necessario e primario rispetto a ogni successivo o concomitante svolgimento empirico o ermeneutico. 2. Introduzione: il bisogno di conoscere Se consideriamo il conoscere come una particolare modalità dell’esperienza (dal greco peîra = prova) non possiamo affrontare la teoria della conoscenza escludendo il “referente antropologico”, l’uomo, il conoscente per eccellenza in quanto l’unico essere vivente capace di dare significati; un essere con bisogni, obiettivi e una peculiare capacità di problematizzazione dell’esistenza. L’affermazione di C.T. Altan che «il soddisfacimento dei bisogni, nell’uomo, è mediato dalla cultura, in quanto per realizzarlo egli fa ricorso al patrimonio del sapere culturale del suo gruppo»,3 ci conduce al suo corollario: l’emergenza del comune “bisogno di sapere”, ovvero di possedere e trasmettere gli strumenti necessari al soddisfacimento dei propri bisogni. In questa ottica di tipo funzionalistico, è la cultura quindi che permette con la sua mediazione, sia la possibilità della problematizzazione sia la possibilità di soddisfacimento dei bisogni individuali. Il discorso sulla conoscenza non si è però basato esclusivamente sull’imperativo del soddisfacimento dei bisogni primari legati alla sopravvivenza e alla riproduzione sociale; parallelamente a queste esigenze bio-sociali, l’attività del conoscere si è configurata come l’espressione diretta di quei bisogni “integrativi” che si esplicano a livello esistenziale, come la ricerca del senso e del significato, la riflessione sul mondo coi suoi fenomeni e il continuo tentativo per un loro oltrepassamento; dominî – questi – della filosofia, della religione e dell’arte. Ma nonostante la spinta verso il trascendente (che va considerata un bisogno vero e proprio), ogni riflessione sulla conoscenza si è comunque e necessariamente basata sui soli dati realmente accessibili alla coscienza: i dati fenomenici, esterni e interni al soggetto/individuo che si offrono alla sua percezione sensibile (la visione e il sentire) di un mondo di cose e di fatti. Anche le formulazioni, le interpretazioni e le spiegazioni dei dati di realtà che conducono alla costruzione del sapere, quindi alla definizione degli oggetti, delle verità e delle condizioni della conoscenza, non sono riuscite a eludere questa contingenza. Oscillando spesso tra il piano dell’immanenza – relativo al rapporto tra la coscienza e i fenomeni – e il piano della trascendenza – relativo all’esistenza di oggetti e leggi indipendenti dalle 2 SPIEGELBERG H. (1972), Phenomenology in Psychology and Psychiatry. A Historical Introduction, Evanston, Northwestern U. Press, p. XX. 3 ALTAN C.T. (1983), Antropologia. Storia e problemi, Milano, Feltrinelli, p. 206. 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 operazioni della coscienza e dalle manifestazioni dell’apparire – ogni sforzo conoscitivo rimane fortemente connotato dal suo taglio epistemologico nei termini di una scelta di campo in risposta all’aut-aut imposto dalla caratteristica d’ogni oggetto di conoscenza. Infatti, il darsi solo fenomenicamente di ogni oggetto ci costringe o a fermarsi al momento descrittivo del “cosa” o procedere nella formulazione di ipotesi per spiegare ciò che non appare, il “perché” da indagare e svelare. Per questi motivi anche la questione della conoscenza in sé rimane un problema sempre aperto e mai univocamente risolvibile. Che cosa significa infatti conoscere e come è possibile? Cosa è “oggetto” di conoscenza? Cosa vuol dire sapere circa qualcosa di esterno e alieno al sé (ma anche interno; è il problema della conoscenza di sé)? E spostandoci sul piano relazionale, come ci conosciamo a livello intersoggettivo e interpersonale e quale è il prodotto di questo tipo di conoscenza? Cosa distingue un “oggetto” da una “soggettività”? Se consideriamo il progressivo allontanarsi della conoscenza scientifica e obiettiva dal piano della percezione immanente (dall’appercezione come direbbe Husserl) e quindi dai bisogni e dai significati che hanno origine nell’esperienza diretta e accessibile all’essere umano, al punto che oggi si parla più di metodologia del conoscere che non di conoscenza come categoria dello spirito o specifica attività umana indagabile in astratto4 viene da chiedersi se ha ancora senso oggi riesumare concetti e dibattiti passati o cercare di ridefinire l’operazione conoscitiva, distinguere i suoi possibili oggetti, individuare la sua finalità, il suo telos. A questi interrogativi non ci sembra tanto necessario dare una risposta in sé esatta – forse nemmeno esiste una tale risposta. È sufficiente provare a comprendere come noi, nella nostra epoca, nella quotidianità, nel qui e ora di una data situazione, perveniamo in ogni caso a una risposta; capire come si genera e opera il nostro atteggiamento conoscitivo e dove ci conduce è essenziale, dato che è innegabile che rimaniamo impressionati e trasformati dopo aver compiuto un vero atto di conoscenza verso qualcosa o qualcuno. Questa consapevolezza è determinante perché ci informa su come generiamo e programmiamo le nostre verità che vanno poi a orientare i nostri atti e le nostre scelte; consapevolezza tanto più necessaria se ci occupiamo di rapporti umani come in psicoterapia, dove le persone coinvolte sono reciprocamente sconosciute ed estranee in quanto soggettività e individualità essenzialmente ed esperienzialmente diverse, e in cui il nostro personale ‘modo’ di sapere circa l’altro, professionale e umano, può incidere sul suo destino. È evidente come la dialettica tra conoscere e ri-conoscere entri prepotentemente nella relazione terapeutica; basti pensare alla discrepanza esistente tra spiegazione e comprensione, tra tecnica e relazione terapeutica, tra diagnosi e cura. È necessario sapere dove ci collochiamo rispetto a questi punti di osservazione più o meno consapevolmente, come ad esempio il 4 ABBAGNANO N. (1998), Dizionario di filosofia, III ed. aggiornata e ampliata da Fornero, G, Torino, UTET, p. 201. 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 riuscire a distinguere sufficientemente tra ciò che “già conosciamo” (teorie, tecniche, memorie esperienziali, dati sensoriali pre-filtrati nell’apprensione percettiva), che a volte può trasformarsi in un pericoloso trascendimento dell’altro, e ciò che ci è sconosciuto, nuovo, incontaminato, fenomeno ancora da svelare nella sua essenzialità: l’altro inteso come unico, irripetibile e non riducibile a un sosia. Da queste brevi considerazioni possiamo intravedere tutta la problematicità di una relazione, quella terapeutica, in cui per essere d’aiuto dobbiamo contemporaneamente sapere e saper ‘conoscere’. 3. Aspetti della teoria della conoscenza Pur non volendo entrare nella lunga e complessa storia della filosofia della conoscenza – e non tanto per condividere il rischio intravisto da alcuni che ‘dialogando’ con gli antichi filosofi e i loro cogitata, si sia coinvolti in «un dizionario comune e una problematicità decontestualizzata e destoricizzata»5 (anzi, vedremo come Husserl, riprendendo il pirroniano concetto di epoché e affrancandolo da significati scettici o metafisici, si avvicini più di altri al suo senso originario) – è comunque necessario individuare alcuni concetti chiave e coglierli nel loro divenire storico e ‘biografico’. Partendo dall’attuale discorso gnoseologico vediamo come siano stati individuati diversi tipi di conoscenza: empirica, a priori, diretta, intuitiva, pratica, morale, storica, di sé. Un problema inerente a queste distinzioni è se partecipino a una stessa natura del conoscere o se si debba parlare di vere e proprie modalità conoscitive separate, quindi di “conoscenze” e non più di “conoscenza”. Vanno inoltre individuate e distinte la dimensione ontologica della conoscenza, cosa esiste, «cosa c’è nel mondo», e quella epistemologica, il «come ne parliamo»6 in termini di postulati, giudizi e critica. In questa sede ci soffermeremo non tanto sul significato generale della conoscenza oggettiva e impersonale, legata a criteri di oggettività e verità programmaticamente e convenzionalmente condivise da una data cultura, quanto sui significati che si originano a livello personale e intersoggettivo, dove si vengono a intersecare elementi idiosincrasici come la coscienza e la storia personale, il sapere “pregresso” (pregiudiziale e concettuale) e quello “in atto” (esperienziale e processuale) dei singoli attori coinvolti. Possiamo definire questo tipo di conoscenza come “conoscenza personale”.7 Questa scelta di campo è motivata dal fatto che nella dimensione microcosmica della relazione terapeutica dobbiamo necessariamente adottare un’ottica di tipo umanistico e pragmatico pure usando delle tecniche. Ha un altro senso cercare di costruire una teoria oggettivante, 5 PAGNINI A. (1995), Teoria della conoscenza in AA.VV. La filosofia, Vol. III. Le discipline filosofiche, Torino, UTET, pp. 109-185; p. 111. 6 Cfr. Pagnini, 1995, p. 110. 7 Cfr. DE MONTICELLI R. (1998), La conoscenza personale, Milano, Guerini. 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 idealizzante ed estendibile da un segmento di esperienza – così procede la psicologia ‘scientifica’ correndo forse il rischio di perdere di vista la persona reale – in quanto l’incontro tra il mondo di ‘quel’ terapeuta e il mondo di ‘quel’ cliente dà luogo ad uno spazio di co-esistenza unico, originale e non replicabile. Per definizione ogni forma di conoscenza parte dalla necessaria distinzione tra una ‘entità’ che conosce e una ‘entità’ che è conosciuta. In senso oggettivo e impersonale, assumiamo che la conoscenza è «una tecnica per l’accertamento di un oggetto qualsiasi» e intendiamo per “tecnica di accertamento” il fatto di possedere una procedura per la descrizione, il calcolo o la previsione di un determinato oggetto o fenomeno (fatto, cosa, realtà o proprietà).8 Essendo ogni tecnica sempre strumentale, è in questo senso che il “possesso”, sempre secondo Abbagnano, designa una partecipazione personale a tale tecnica. Occupandoci primariamente del senso, del significato personale e soggettivo del conoscere, bisogna insistere sull’ulteriore distinzione tra tecniche, strumenti e oggetti del sapere individuale (le modalità e le caratteristiche di quel particolare organismo-persona come costituzione organica, psicologica, percettiva, cognitiva, dati esperienziali, valori, credenze, ecc.), e tecniche, strumenti e oggetti del sapere comune e/o scientifico, condiviso e dato dalla cultura di appartenenza, forme di sapere “naturale” nel senso husserliano. Dobbiamo premettere, inoltre, che se nell’individuo «ogni operazione conoscitiva è diretta a un oggetto e tende a instaurare con l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di esso»,9 ne consegue che la conoscenza viene sempre a fondarsi su un rapporto, una relazione. Il modo in cui questo rapporto è interpretato determina i significati, le possibilità e gli oggetti della conoscenza. Questo legame tra conoscente e conosciuto si è storicamente e concettualmente distinto in due modalità, corrispondenti a due opzioni epistemologiche alternative: la conoscenza è stata concepita o come identità e somiglianza dove l’atto del conoscere corrisponde all’identificazione con l’oggetto, oppure come presentazione dell’oggetto al soggetto dove la conoscenza è intesa come un processo di trascendenza.10 Questi due percorsi sono gnoseologicamente alternativi, in quanto i fenomeni vengono assunti o come ‘immagini’ della realtà o come ‘cose in sé’, determinando così una radicale inconciliabilità tra i diversi assunti circa l’oggetto e la prassi conoscitiva. 3.1 La conoscenza come identità Se l’operazione di conoscenza consiste nell’identificazione con l’oggetto o 8 Cfr. ABBAGNANO N. (1998), p. 193. La conoscenza intesa come “tecnica” implica quella porzione del “fare” che può essere presente nell’atto conoscitivo. 9 Ibidem, p. 193. 10 Ibidem, p. 193. 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 la sua riproduzione, gli elementi della conoscenza sono considerati identici o simili con quelli dell’oggetto. Questo è il modello “iconico” della conoscenza intesa come immagine mentale corrispondente all’oggetto e dove viene seguito il percorso dell’identità, del «simile che conosce il simile», del «rendere simile il pensante al pensato» (secondo Platone, il mondo della supposizione si rapporta alle immagini, quello dell’opinione alle cose sensibili, quello della ragione scientifica alla matematica, quello della filosofia all’essere). Il dato che a diversi gradi di conoscenza corrispondono diversi oggetti è riassumibile nell’affermazione di Aristotele che «la scienza in atto è identica col suo oggetto».11 Questo è anche il significato della successiva identificazione galileiana tra natura e scienze matematiche: metodo e oggetto vengono strettamente correlati e si determinano reciprocamente. Cartesio, il fondatore del razionalismo moderno, rappresenta il punto più alto nell’elaborazione concettuale di questa modalità. Avendo come obiettivo l’applicazione del metodo della conoscenza scientifica al campo filosofico «in modo che la certezza filosofica risultasse analoga a quella della scienza moderna, cioè “chiara e distinta”, rigorosa e oggettivamente valida»,12 egli arriva ad identificare l’operazione del conoscere esclusivamente con la riproduzione dei rapporti costitutivi dell’oggetto; di conseguenza, sarà possibile giungere solo a un’identità dell’«ordine» delle idee con l’«ordine» oggettivo, in quanto l’idea pensata, il cogitata, preso come unico oggetto immediato della conoscenza, non ci può informare per niente sull’esistenza reale dell’oggetto.13 Quindi, la conoscenza non è più di cose in sé, ma di relazioni tra esse, di fatti. Per Cartesio la res cogitans e la res extensa verranno assegnate allo stesso ordine logico e gnoseologico, ma saranno oggettività in sé diverse, determinando così la definitiva frattura tra conoscenza oggettiva ed esperienza sensibile in quanto categorie ontologicamente diverse. Successivamente, sotto l’imperativo positivista e scientista dell’oggettività della realtà, il metodo conoscitivo porterà alle uniche verità oggettive rispondenti ai criteri di credenza, verità e giustificazione:14 l’unica conoscenza possibile diviene quella proposizionale (enunciativa) di leggi di causalità obiettive, indipendenti dall’apparire fenomenico e inferibili tramite un’osservazione non più di tipo percettivo-sensoriale ma primariamente tecnico-strumentale, più potente e precisa ma sempre più lontana dall’esperienza diretta e dall’intuizione. Questo riduzionismo finisce col dissolvere l’unità fenomenica dell’oggetto, il suo apparire, sezionandolo in proprietà, elementi e funzioni (al punto che la spiegazione di una parte serve a spiegare il tutto; come nella causalità fisica, così nella causalità psichica e comportamentale dell’individuo). Kant rappresenta il punto d’incontro e di passaggio tra le due vie della 11 Cfr. Ibidem, 194. 12 GAVA G. (1991), Scienza e filosofia della coscienza, Milano, Angeli, p. 113. 13 Cfr. ABBAGNANO N. (1998), p. 196. 14 Cfr. PAGNINI A. (1995). 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 conoscenza. Con le categorie “a priori”, viene stabilito come l’ordine oggettivo si modelli sulle condizioni della conoscenza ma non viceversa, fondando così il primato dell’ordine del pensiero (la sintesi) in quanto struttura condizionale della conoscenza.15 Questa nuova attenzione alle caratteristiche razionali e organizzative del soggetto conoscente ci riavvicina alla sua dimensione ontologica che sta alla base dell’altra modalità conoscitiva ove è implicita una distinzione sostanziale e categoriale tra soggetto e oggetto. 3.2 La conoscenza come trascendenza Secondo questa interpretazione, la conoscenza consiste in un’operazione di trascendenza dove il reale viene appunto assunto come trascendente rispetto alla coscienza umana. Il termine trascendenza indica l’andare o il trovarsi oltre, al di sopra di qualcosa d’altro; diviene sinonimo di «esterno a...» o «irriducibile a...».16 È quanto ritroviamo nel realismo di Husserl contrapposto all’idealismo di Hegel. Conoscere significa giungere alla presenza dell’oggetto; è «l’operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente»,17 in persona o come significità, per cui possa essere rintracciato, descritto o previsto (Abbagnano, 1998). In questo procedere il metodo conoscitivo non si identifica più con l’oggetto conosciuto: «le cose vengono di per se stesse alla nostra conoscenza» come affermavano gli Stoici, le altre rimangono «oscure». Il conoscere ha bisogno quindi dell’esperienza delle cose, dei fenomeni e di un atto intuitivo, ovvero di percezione diretta. Non c’è identità tra pensiero e oggetto come non c’è uniformità tra gli oggetti e i relativi metodi di indagine. Con Kant viene comunque affermato che il soggetto conoscente non è mentalmente passivo rispetto all’esperienza fenomenico-sensoriale, né puramente pre-determinato da un razionalismo pre-esperienziale: conoscere è un’attività di sintesi in cui i percetti vengono organizzati in base alle caratteristiche del pensiero. Ma conoscere non è solo collegare rappresentazioni (sintesi): primariamente è «un’operazione di collegamento con l’oggetto di queste rappresentazioni per il tramite dell’intuizione».18 Ma affinché una conoscenza abbia una realtà oggettiva, e avere quindi significato e senso, «l’oggetto deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato». Senza questa “datità”, senza questa effettiva presenza, abbiamo solo concetti vuoti, frutto di un pensiero che gioca con le rappresentazioni, mentre «dare un oggetto […] non è altro che connettere la sua rappresentazione con l’esperienza» (Abbagnano, 1998). Pensare e conoscere divengono quindi atti sostanzialmente diversi, come dissimili sono le categorie razionali rispetto all’intuizione della datità che è 15 Cfr. ABBAGNANO N. (1998), p. 197. Le categorie in Kant sono forme a priori dell’intelletto che consentono di cogliere e ordinare le esperienze fenomeniche ma non i ‘noumeni’ cioè le “cose in sé”. 16 Cfr. Enciclopedia Garzanti di Filosofia (1990), Milano, Garzanti, p. 948. 17 Cfr. ABBAGNANO N. (1998), p. 197. 18 Ibidem, p. 198. 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 l’esperienza. In definitiva, sono l’intuizione e la presenza dell’oggetto che rendono possibile la conoscenza, anche se per Kant, a differenza di Husserl, l’oggetto rimane pur sempre un ‘fenomeno’, ciò che appare, in quanto la ‘cosa in sé’, il ‘noumeno’, sfugge a una conoscenza positiva.19 A questo punto è evidente come i procedimenti conoscitivi, storicamente e concettualmente determinatisi, conducano verso esiti opposti. Vengono formulati metodi diversi non solo nel procedere gnoseologico, ma anche nel definire l’oggetto della conoscenza. Se da una parte il razionalismo fonda l’oggetto partendo dall’evidenza razionale e dall’altra l’empirismo che in un certo senso segue il percorso inverso, procedendo dal particolare alla generalizzazione di leggi universali, queste diverse modalità prese isolatamente conducono sempre ad un’incompletezza di osservazione ed esplicativa, una in-com-prensione o pre-comprensione dell’oggetto. Si rimane vincolati alla spirale che va dall’eterna metonimia del qualcosa che sta sempre per qualcos’altro (quando il fenomeno è identificato come metafora di una realtà celata altrove, metafisica), fino alla riduzione della globalità dell’oggetto limitandosi ai soli fatti passibili di indagine col metodo scientifico (descrizioni, tassonomie, comparazioni e teorie divengono la realtà). Questo è causato da quel «doppio volto dell’esperienza» (composta di fatticità ed essenzialità) di cui parla Blankenburg quando individua l’essenza della descrizione fenomenologica nella «capacità di apertura elementare all’essenza incontrata, come pure una capacità di cogliere l’oggetto attraverso constatazioni: vale a dire una capacità di esperienza che unisce in nuce i due atteggiamenti opposti»20 ovvero la contemplazione nell’indifferenza della dialettica tra scienza delle essenze e scienza dei fatti. Nell’epoca contemporanea la filosofia della conoscenza si è spostata però sempre più sul versante epistemologico, rinunciando alla ricerca ed alla definizione di verità reali e oggettive (questo compito è assegnato alla scienza che nel suo procedere empirico mantiene il dominio dell’esplicazione e della causalità). Ciò al punto che oggi la teoria della conoscenza ha perso il suo originario significato sotto le spinte antiessenzialiste, storicizzanti ed ermeneutiche.21 Ma almeno fino alla crisi del positivismo e alla successiva rinuncia alla “Verità” (parola oggi sostituita con “complessità”!), la conoscenza veniva intesa tout-court come il risultato della continua ricerca e scoperta di leggi immutabili e universali basate sul formalismo matematico delle scienze della natura che permettevano il dominio sulla realtà nella progressiva determinazione dell’indeterminato. Soggetto ed oggetto, logica ed esperienza venivano posti sullo stesso piano nell’imperativo di spiegare, prevedere, precomprendere (come nel mito, non ancora tramontato, della psicologia scientifica di fine ’800). 19 Ibidem, p. 198. 20 BLANKENBURG W. (1971), p. 16. 21 ABBAGNANO N. (1998), p. 202. 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 4. La conoscenza nella fenomenologia di Edmund Husserl Con Husserl prende avvio quel movimento filosofico che metterà in crisi non solo il modello classico della gnoseologia, ma anche la presunta neutralità etica e ideologica delle scienze positive. La fenomenologia husserliana si oppone prima di tutto alle visioni ‘monoculari’ dove l’oggetto della conoscenza viene necessitato e ipostatizzato oltre il fenomeno e viene interpretato esclusivamente o come puro ‘dato’ (la conoscenza scientifica), o come pura ‘essenza’ (la conoscenza metafisica), finendo così col non percepire più la realtà e la globalità dell’oggetto che si dà nell’esperienza conoscitiva. Possiamo così schematizzare le differenze sostanziali fra la conoscenza fenomenologica e la conoscenza di tipo scientifico/naturalistico: Conoscenza naturalistica Conoscenza fenomenologica • percezione sensoriale di cose ed • percezione sovrasensoriale intesa eventi come cogliere l’essenza, il ‘modo’ del fenomeno, l’intrinseca forma con cui si manifesta • scomposizione concettuale in dati, • esplicita il fenomeno nel suo in proprietà, elementi e funzioni umano significato, nell’ordine che lo regge, nella sua ordinatività • si appoggia a una teoria, formula o • è teoricamente ateoretica arricchisce una teoria • tende ad enunciare spiegare i fenomeni leggi per • non si occupa del perché e del quando dei fenomeni (da Giusti E., Iannazzo A., Fenomenologia e integrazione pluralistica, Roma, E.U.R., 1998, p. 153) La relazione conoscitiva tra soggetto e oggetto non viene intesa come l’alternativa riduzione all’uno o all’altro termine dove si gioca la passività o l’attività del soggetto conoscente (nell’alternativa tra lo psicologismo e la reificazione dell’in sé), ma come movimento, come relazione dinamica, un andare, in-tendere, rapportarsi del soggetto verso l’oggetto e un darsi, insistere di quest’ultimo verso la soggettività, la coscienza. Tutto questo senza confusione o assorbimento reciproci pur rimanendo nel dominio della co-determinazione (vedremo come il concetto di «intenzionalità della coscienza» mutuato da Brentano abbia permesso una corretta identificazione di questo rapportarsi originario tra coscienza e oggetto). Affermando poi l’autonomia e il significato critico-fondativo della filosofia rispetto all’empirismo e all’utilizzo tecnico-pratico della conoscenza, Husserl ritiene necessario il ritorno a un significato originario e prescientifico del conoscere, sospendendo (senza negare!) ogni teoria preesistente, per rifondare la teoria della conoscenza su basi razionali, solide ed evidenti. Le 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 precedenti dialettiche tra metodo e oggetto avevano determinato risultati contrastanti: ogni forma di riduzionismo operato all’insegna di una realtà vera e obiettiva ha finito col distruggere o deformare gli oggetti, il che è risultato assai più grave nel caso delle scienze umane e della pratica clinica. Ed è appunto dalla fenomenologia husserliana in generale, col suo metodo rigorosamente logico e scientifico e col suo spirito ‘rivoluzionario’ per la salvaguardia della centralità dell’uomo, del suo essere coscienza che dà significato (l’Io trascendentale che si dà il suo mondo), che si svilupperà quel nuovo filone di pensiero che andrà ad arricchire e motivare i nuovi approcci psichiatrici della prima metà del secolo nonché gli approcci psicologici umanistico-esistenziali. Possiamo intanto affermare che la fenomenologia di Husserl oltrepassa le precedenti tradizioni interpretative della conoscenza, in quanto afferma che l’operazione di identificazione conoscitiva avviene sì nella coscienza, ma è contemporaneamente necessaria l’esperienza come atto fondante, cioè un originario rapportarsi con la datità del reale. Conoscere corrisponde al fare emergere gli oggetti.22 Sempre nell’ambito gnoseologico lo scopo della fenomenologia consiste nel volersi costituire come «scienza della conoscenza» per fondare una conoscenza oggettiva delle essenze (eidos) e non delle sole apparenze (le sole manifestazioni sensibili della realtà), procedendo sempre dalle cose stesse, dalla pura realtà (e ogni cosa che si presenta alla coscienza è reale). Identificandosi come scienza dei fenomeni che si manifestano alla coscienza intenzionale, la filosofia diviene pura ricerca fenomenologica che utilizza il metodo della riduzione fenomenologica e della sospensione del giudizio o Epoché.23 Questa nuova impostazione metodologica amplia e delimita nello stesso tempo le possibilità e potenzialità della conoscenza. È infatti col superamento del dualismo ontologico cartesiano, dei limiti relativistici posti dal criticismo kantiano, nonché della stessa psicologia di Brentano, che la fenomenologia si apre, come afferma Gadamer, verso un’estensione del problema della giustificazione della conoscenza e dei criteri di verità che non riguarderanno più la sola conoscenza scientifica, ma l’intera nostra esperienza naturale del mondo,24 esperienza che si costituisce come atto fondante del conoscere; Husserl si occupa infatti di ogni tipo di conoscenza, da quella rappresentazionale (teorico-scientifica) a quella non rappresentazionale cioè intenzionale. L’esigenza di rigore metodologico rende altresì necessaria la netta separazione del «pensiero naturale» (comune e scientifico), mediato ed interposto tra coscienza e datità del reale, da quello «filosofico» inteso esclusivamente come critica della conoscenza; deve essere perciò eliminato ogni rischio di confusione tra leggi della conoscenza (che promanano dalla 22 ABBAGNANO N. (1998), pp. 196 e 198. 23 PIERETTI A. (1975), Storia del pensiero occidentale. Vol. IV: Dalla critica del positivismo ad oggi, Milano, Marzorati, p. 265. 24 GADAMER H.G. (1963), Die phänomenologische Bewegung; trad. it. Il movimento fenomenologico, Bari, Laterza, 1994, p. 44. 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 natura fenomenica dell’oggetto) e leggi del pensiero, tra realtà e idealità, tra oggettività universali e processi psicologici individuali (questo comporta l’importante distinzione tra «fenomeno puro» e «fenomeno psicologico»).25 In definitiva quella di Husserl è una presa di distanza sia dallo psicologismo che dall’idealismo nella loro pretesa riduttiva e ‘naturalizzante’ della conoscenza, tendenza che ha portato a confondere il piano del significato con quello della possibilità della conoscenza, il piano soggettivo con quello oggettivo, nonché l’oggetto col metodo; anche se concettualmente ben distinte, teoresi e prassi vengono saldamente legate in una reciproca e sincronica determinazione. Sempre Gadamer ci dice che la fenomenologia «intendeva portare a espressione i fenomeni, nel senso che cercava di evitare ogni costruzione illegittima e di esaminare criticamente l’indiscusso dominio delle teorie filosofiche».26 Per Husserl la filosofia si era allontana dalle cose: la speculazione, le costruzioni e i riduzionismi della teoria della conoscenza avevano portato a un suo allontanamento dai fatti reali fino a riprodurre la stessa «obiettivazione in senso trascendente» della conoscenza naturale (scientifica e prescientifica), con la pretesa di cogliere cose non date nell’immanenza tramite deduzioni, astrazioni, teorizzazioni. È per questo motivo che «la gnoseologia mai e poi mai può essere edificata su una scienza di tipo naturale, qualunque essa sia»;27 è anzi necessaria l’esclusione di tutte le conoscenze proposizionali delle scienze naturali e obiettivanti per ricondurre tutto al campo dell’immanenza, della contingenza, dove i fenomeni hanno in sé il loro senso e non possono essere compresi tramite categorie esterne a essi, ma solo in base alla coscienza e all’intuizione. A differenza dell’approccio esclusivamente «rappresentazionale» della conoscenza «naturale» che reifica le rappresentazioni mentali dell’oggetto al punto che il rapporto non è più tra la coscienza e un oggetto intenzionato, ma tra la mente e un concetto astratto, una «teoria dell’oggetto», l’approccio fenomenologico si basa sull’appercezione o apprensione degli oggetti fenomenicamente presenti, la percezione nel puro «guardare» (schauen) diretto e intuitivo. È in questo senso che la manifestazione originaria della realtà si dà nella coscienza e, come riassume L. Binswanger (1922), il principio fondamentale del metodo fenomenologico consiste nella «limitazione dell’analisi a ciò che è realmente reperibile nella coscienza, o in altri termini, a ciò che è immanente alla coscienza».28 La specificità della fenomenologia sta proprio in questo capovolgimento: arrivare a una fondazione dell’eidos (la ricerca delle essenze, la mappatura di quelle «ontologie regionali» proprie di ogni distinta tipologia di fenomeni) procedendo però dall’evidenza di ogni dato fenomenico e dalla relativa percezione immanente della coscienza. 25 HUSSERL E. (1950), p. 35. XXX 26 GADAMER H.G. (1963), p. 7. 27 HUSSERL E. (1907), Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen; trad. it. L’idea della fenomenologia, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 82. 28 BINSWANGER L. (1922), Über Phänomenologie, trad. it. Sulla fenomenologia, in Per un’antropologia fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 19. 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 È in questo senso che la fenomenologia è da considerarsi una vera e propria scienza delle necessità; non per convenzione come nelle scienze naturali, ma in quanto scienza rigorosa. Non pretende infatti di uscire fuori dal fenomeno ma si ferma alla descrizione di ciò che si dà e come si dà contemplando sia la dimensione “noematica” (le oggettività ideali) che la dimensione “noetica” (le modalità intenzionali). L’obiettivo tematico di Husserl è mettere a nudo la razionalità (non la convenzione della scienza o la presunzione del filosofo metafisico): lasciare emergere le relazioni che intercorrono, il tessuto connettivo di ciò che si presenta alla coscienza.29 4.1 Intenzionalità della coscienza, visione, significato La fenomenologia è la scienza della pura visione: descrive (Deskription) ciò che vede e procede verso il logos, il tema, l’essenza dell’oggetto. È un vedere precategoriale diverso dal vedere delle scienze naturali che osservano e rilevano, ma non in modo neutrale in quanto «la categoria è già dissimulata nelle categorie con le quali viene descritto il percepito».30 Inoltre, pur fermandosi agli oggetti, la ricerca fenomenologica non vuole arrivare a capire come stanno le cose in se stesse, ma solo di quali oggettività è portatrice la coscienza. Se il sapere è un oggetto costruito, in che modo la soggettività si rapporta all’oggetto? Questo paradosso della soggettività, che produce il mondo degli oggetti senza sapere come31 è chiaramente problematizzato da Husserl quando scrive: Un sordo nato sa che esistono i suoni e che i suoni danno luogo ad armonie, e che su queste si fonda una magnifica arte; ma come i suoni facciano questo, come siano possibili le opere musicali, questo non può capirlo. Una cosa di questo genere egli non può appunto rappresentarsela, cioè non può guardarla e guardandola afferrare il come […] Dedurre da esistenze puramente sapute e non guardate è cosa che non riesce. Il guardare non si lascia dimostrare o dedurre.32 Non ci può essere un vedere senza un oggetto che si dà alla visione ed è proprio la modalità di questo «vedere», il suo «come» (che coincide con il significato «per me») che Husserl vuole individuare. Se, in definitiva il problema fondamentale a cui la fenomenologia vuole rispondere è la conoscenza della conoscenza, vediamo come per Husserl la conoscenza e la sua possibilità debbano fondarsi sull’immanenza del «come» le cose si danno nell’intenzione e nell’intuizione, e non sulle «conoscenze non evidenti» dei «perché» del pensiero naturale, «perché» oggettivi e lontani dal vissuto e dall’esperito (è a questo punto che si innesta la distinzione tra spiegazione e comprensione sviluppata da Jaspers anche se questi si fermerà al solo momento descrittivo della particolare individualità è criticherà la 29 Appunti personali dalla lezione del Prof. Masullo A. al Corso di perfezionamento per psichiatri e psicologi «Fenomenologia applicata alla psicopatologia clinica», Massa, 13.11.1999. 30 BLANKENBURG W. (1971), p. 15. 31 Appunti personali dalla lezione del Prof. Masullo A. (1999) 32 HUSSERL E. (1907), p. 84. 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 fenomenologia nel suo voler essere un metodo gnoseologico per giungere agli universali, alle essenze; per Jaspers non è altro che un metodo per entrare nel mondo unico e irripetibile di ogni persona). Husserl si chiede: «come può il puro fenomeno di conoscenza cogliere qualcosa che non gli sia immanente?»:33 bisogna quindi fermarsi alla descrizione dell’immanente dove contenuto e vissuto sono co-generati nell’atto conoscitivo stesso. La conoscenza nasce da questa correlazione tra esperienza e costituzione di significato dove la trascendenza, ciò che rimane fuori dalla coscienza perché non direttamente percepito e intuito, non può assolutamente essere assunta come base per una vera conoscenza originaria. Ma cosa è la coscienza per Husserl, visto che su di essa si fonda e si condiziona ogni possibilità gnoseologica? È evidente che non è la res cartesiana, oggetto tra gli oggetti, chiusa in sé con le proprie estensioni, leggi e rappresentazioni dove apparenza e realtà coincidono (conoscere non è trovare un’esclusiva corrispondenza tra le rappresentazioni mentali e le caratteristiche degli oggetti, o con una struttura aprioristica e razionale), ma «essa è, in base alla sua propria struttura essenziale, già da sempre presso le cose [...] e l’immagine che noi abbiamo della cosa è piuttosto in generale il modo in cui noi abbiamo coscienza della cosa stessa».34 La coscienza scaturisce quindi da questo rapportarsi, da questa relazione; non un oggetto, ma un atto. Nelle Ideen del 1913 Husserl scrive:35 Io sono consapevole di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzi tutto che io trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, ecc., le cose corporee sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano [vorhanden], in senso letterale e figurato, sia che io presti o non presti loro attenzione, sia che io mi occupi o no di esse nel pensiero, nel sentimento, nella volontà. Anche gli esseri animali come gli uomini sono qui per me […] Ma non è indispensabile che essi, e gli altri oggetti, si trovino precisamente nel mio campo di percezione. Infatti, insieme con gli oggetti percepiti, sono “qui per me” anche oggetti reali determinati, più o meno noti, senza che siano percepiti, visivamente presenti. Io posso lasciar vagare la mia attenzione […] verso tutti quegli oggetti che “so” essere qua e là nelle mie vicinanze – un sapere che però non ha nulla del pensare concettuale e che d’altra parte soltanto grazie al volgersi dell’attenzione su quegli oggetti si tramuta […] in chiara visione, in un percepire nel senso per cui il percepire è un cogliere, è anche un esperire che include una conferma. Conoscere è percepire, accorgersi, cogliere cose “alla mano” e la coscienza è il cogito stesso, il «modo» operativo del puro rapportarsi della presenza che esperisce, in-tende verso qualcosa. È la «meravigliosa correlazione», come la chiama Husserl,36 tra fenomeno e oggetto di conoscenza che genera il vissuto, l’Erlebnis. L’attività intenzionale è quindi la caratteristica fondamentale dei fenomeni psichici che esprimono sempre un interiore 33 Ibidem, p. 46. 34 GADAMER H.G. (1963), p. 7. 35 HUSSERL E. (1913), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit. in ROSSI MONTI M. (1978), Psichiatria e fenomenologia, Torino, Loescher, pp. 60-61. 36 HUSSERL E. (1907), p. 51. 14 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 rapportarsi a un contenuto. La critica della conoscenza allora non può prescindere dall’analisi della coscienza intesa come «l’analisi degli atti con cui la coscienza si rapporta ai suoi oggetti, o che è lo stesso, l’analisi dei modi con cui questi oggetti si danno alla coscienza» e la soggettività consiste proprio in questo rapportarsi con qualcosa al di là di sé, in questo atto di trascendimento «che essendo la fonte di ogni oggettivazione, non si può oggettivare, ma solo esperire».37 Un rapportarsi sempre fluttuante e mai conclusivo per Husserl, in quanto «il correlato dell’intenzionalità della coscienza è sempre qualcosa di altro da essa e non si identifica però con il dato vissuto» quindi «l’oggetto della coscienza è altro dall’atto con cui essa lo intenziona»; pertanto l’oggetto è costituito nel suo significato, ma non creato né esaurito dalla coscienza per la quale l’oggetto rimane il suo telos, la sua meta. Questo è un altro motivo per comprendere come la coscienza costituisca l’oggetto e allo stesso tempo venga costituita da esso.38 Nonostante questa continua «tensione», l’intenzionalità costituisce l’essenza e il limite dell’atto conoscitivo e, per procedere scientificamente, deve essere connessa ad una teoria della soggettività «pura», non empirica, una teoria della coscienza che vada oltre il soggettivismo empirico spiegato dalla psicologia. Il «ritorno alle cose stesse», l’andare ai fatti, alla loro ‘datità’ non vuol dire ridurre la conoscenza alla sola esperienza empirica col rischio di rimanere fermi all’apparenza, alla pura soggettività (spiegata nelle sue funzioni in base alle leggi ‘naturali’ della percezione sensibile e dalla scienza dei fenomeni psichici) che sfocia nel relativismo gnoseologico dello scetticismo; tantomeno implica la negazione dell’esistenza di oggettività universali, le essenze; ma anche tali «idee» e «universali» (come le regole logiche), le strutture «a priori» della conoscenza, devono necessariamente originarsi dall’intuizione e dall’effettiva “esperienza vissuta” (Erlebnis). L’intuizione, nell’accezione husserliana, corrisponde al portare a compimento l’operazione che caratterizza l’intenzione proporzionata all’oggetto che vuole intenzionare ovvero attuare le procedure intenzionali richieste dal carattere dell’oggetto, dal suo ordine di appartenenza (sensibile, dimostrativo, razionale, ecc.). L’intenzione ha bisogno dell’intuizione per essere portata a compimento.39 Se restiamo alla descrizione del noetico non andremmo oltre una tematizzazione dell’apparenza, un’apparenza fenomenica sensibile ben descritta (senza attribuzioni predeterminate), ma senza coglierne il tipo, quel che c’è di essenziale nel modo di essere e di apparire di quel determinato oggetto. Per fare un esempio, un libro e un mattone sono oggetti materiali: ma il libro non si limita al suo apparire fenomenico, “esige”, ci “invita” a un approfondimento secondo la sua essenzialità; se il mattone si dà tutto nel suo apparire sensibile, il libro rimanda a un’entità ideale (l’opera in esso 37 GALIMBERTI U. (1994), Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, p. 186. 38 PIERETTI A. (1975), pp. 277-279. 39 Appunti personali dalla lezione del Prof. A. Masullo (1999). 15 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2000 stampata) che richiede di essere letta: la lettura è per il libro la sua modalità appropriata di approfondimento. Per questo Husserl individua nelle esperienze intuitive i fenomeni costitutivi del conoscere: assieme all’intuizione «empirico-esperienziale», inerente gli oggetti individuali, c’è quella «categoriale» o «ideativa», che conduce alle strutture costanti dell’esperienza che sono gli oggetti della conoscenza scientifica (nel senso fenomenologico), ovvero le forme, le essenze, i modi di essere delle cose (Giusti, Iannazzo, 1998).40 In questo modo la fenomenologia si identifica come scienza delle essenze («eidetica») che tramite la riduzione fenomenologica può arrivare alla struttura ontologica dell’oggetto, alla sua essenza, alla cosa così come si dà e nei limiti in cui si dà.41 Tali essenze devono assumere un’evidenza rigorosamente fondata ed è in questo senso che Husserl mira a una fondazione critica delle varie oggettività universali e ‘ideali’42 rispettando le necessità logiche che la descrizione e la sua tipizzazione portano dentro di sé. È nel concepire una conoscenza non più separabile dall’esperienza (a meno, come abbiamo visto, di non compiere un’indebita riduzione), che si delinea la novità e l’apertura della fenomenologia, da intendersi come il punto culminante di quell’antico ricercare la verità oggettiva, trascendente e fondante, partendo però dal solo piano dell’immanenza dove vige l’apoditticità dei vissuti coscienti. 40 GIUSTI E., IANNAZZO A. (1998), pp. 19-20. 41 Cfr. ROSSI MONTI M. (1978), p. 50. 42 PIERETTI A. (1975), p. 275. 16