GUGLIELMO DA OCKHAM La vita e gli scritti Guglielmo nacque ad Ockham, nel Surrey, non lontano da Londra, tra il 1295 e il 1300. Entrò ancor molto giovane nell’ordine francescano e Studiò a Oxford, dove era molto viva l’influenza di Ruggero Bacone e di Duns Scoto. Nella medesima università inglese iniziò la sua attività di insegnamento, scrivendo anche importanti testi di carattere logico, tra i quali un Commento all’Isagoge di Porfirio e la Summa totius logicae, considerata il suo capolavoro. Sospettato di eresia. Nel 1324 fu sottoposto a procedimento inquisitorio per sospetto di eresia. Il filosofo si recò dunque presso la curia di Avignone, allora sede del papato, per difendersi, ma le sue tesi furono condannate nel 1326. In fuga presso l’imperatore Ludovico il Bavaro. Ockham si trovò nella Città francese proprio nel momento dello scontro tra il pontefice Giovanni XXII e Michele da Cesena, generale dei francescani. Quest’ultimo richiamava l’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli e sosteneva la necessità per la Chiesa di seguire quel modello. Giovanni XXII ritenne eretica questa posizione. Ockham si schierò con il superiore del suo ordine e insieme fuggirono da Avignone, rifugiandosi presso la corte dell’imperatore Ludovico il Bavaro, dove era anche Marsilio da Padova, prima a Pisa, quindi a Monaco dal 1330. Qui Ockham scrisse numerose opere soprattutto di carattere teologico-politico, avverse alle posizioni curiali. Il riavvicinamento all’ordine francescano. Dopo la morte di Michele da Cesena e dell’imperatore Ludovico, ci fu un riavvicinamento tra il filosofo e il proprio ordine. I francescani, nel 1348, pregarono il nuovo pontefice Clemente VI di perdonare Ockham. La richiesta fu accolta l’anno successivo. Ma sembra che il filosofo sia morto nella città bavarese durante l’epidemia di peste del 1348-1350, prima che potesse aver luogo la riconciliazione. Guglielmo di Ockham: la teoria della conoscenza e la logica La radicalizzazione di Scoto. Nella teoria della conoscenza di Ockham si portano alle estreme conseguenze le posizioni di Duns Scoto sulla conoscenza individuale. Ora, tuttavia, a differenza di quanto era accaduto con lo scozzese, si approda ad un deciso empirismo. Per Ockham l’unica realtà è l’individuo, cioè la cosa particolare, e di conseguenza la conoscenza riguarda l’individuale incontrato nell’esperienza sensibile. La mente, dunque, si può rivolgere solo agli oggetti particolari. L’intuizione della cosa individuale. L’intuizione che ha luogo nell’esperienza permette la conoscenza diretta della cosa. L’intuizione possiede in se stessa l’evidenza, nel senso che avverte immediatamente la corrispondenza tra l’ente e il termine che lo designa. Il ‘rasoio’. Affermato questo presupposto, diventa chiara l’inutilità delle eccessive costruzioni concettuali, come gli universali, che finiscono con l’intralciare la comprensione della realtà. Non c’è bisogno di un ampio apparato logico che si frapponga tra la mente conoscente e l’oggetto conosciuto. Di qui la necessità di fare a meno del superfluo logico. Ecco dunque quello che è passato alla storia come il ‘rasoio di Ockham’. Tale metodo si riassume nella frase: «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem» (“non si devono moltiplicare gli enti oltre la necessità”). Occorre allora procedere con la massima semplicità e ‘tagliar via’ ciò che non serve, e che è, anzi, controproducente per la conoscenza. Oltretutto, l’economia concettuale consente di agire in maniera più sicura: può evitare di complicarsi la vita, visto anche il naturale disorientamento dell’uomo nel mondo. Anche Ockham, come Scoto, considera l’essere umano nello stato terreno come homo viator, cioè come viandante, incerto ed errante: essere finito rivolto al finito. L’uomo è impossibilitato a conoscere ciò che è fuori dell’ordine dell’esperienza. Dunque, non può intuire Dio. Proprio la finitezza della mente dell’uomo fa capire il perché siano Sorti i cosiddetti universali. La mente umana, dato che non è infinita, non ha la capacità di assimilare e distinguere tutti gli oggetti delle sue intuizioni. Occorrono dunque dei concetti che siano in grado di abbracciare, secondo una regola comune, più elementi. Tuttavia i concetti con valore universale non sono qualcosa in più rispetto alle cose, ma sono espedienti per comprendere i molti sotto un unico segno mentale. L’universale è una finzione. Per Ockham l’universale è dunque una finzione, una fictio, ovvero un segno, cioè qualcosa che sta al posto delle cose appartenenti ad una classe. A queste cose esso si riferisce in tutte le proposizioni in cui esse sono indicate. L’universale è insomma una costruzione della mente che è sì indispensabile, ma che non fa conoscere la realtà individuale; essa serve soltanto a classificare secondo certi schemi più individui. Essendo solo un segno prodotto dalla mente umana, l’universale non può essere una cosa (res), come pretendeva il realismo, il quale appunto pensava l’universale come ante rem, come esistente indipendentemente dalla mente che lo pensa. Il “terminiamo”. Per il filosofo inglese, gli universali sono quindi dei termini (di qui il nome di terminismo per designare la posizione occamista, che rientra comunque nel filone del nominalismo). Ora, i termini possono essere utilizzati sia con valore individuale, cioè per designare singoli enti, sia con valore universale, cioè per indicare delle collettività. Comunque, in quest’ultimo caso, al termine non corrisponde alcuna realtà comune a più individui. La conoscenza si fonda sull’intuizione dell’individuo quale esso si presenta alla mente nella sua immediatezza. Ma la conoscenza diventa tanto più confusa quanto più il termine si universalizza. Dall’impressione deriva il ricordo e da quest’ultimo il nome, che è uno strumento per poter avere presente la cosa indirettamente anche in sua assenza. Lo studio dei rapporti tra i termini costituisce l’oggetto proprio della logica, la quale allora non riguarda l’essere, ma i modi in cui i segni mentali vengono usati. Gli universali come segni. Per Ockham, i cosiddetti universali usati per indicare più cose non hanno dunque alcuna realtà metafisica. Gli universali sono dei segni, segni naturali perché naturale è il loro processo di formazione e perché, secondo un’immagine del filosofo, richiamano la realtà significata come il fumo richiama il fuoco. L’intenzione. L’atto mediante con il quale la mente si riferisce a qualcosa, è detto intenzione (da in-tendere, tendere verso). L’universalità ha perciò solo un valore intenzionale. In altre parole essa non esiste se non nella mente. Gli universali indicano più cose che sono, però, individuali se considerate a sé. Come scrive il filosofo inglese: «l’atto conoscitivo è una intentio nel senso che si riferisce direttamente alla cosa significata; come intenzione, il concetto non è che un segno che sta in luogo di una classe di oggetti» (Summa totius logicae). Se ci riferiamo a specie, come ad esempio l’uomo, avremo intenzioni prime perché il termine uomo sta a significare gli individui umani concretamente percepiti. Se invece ci riferiamo a generi, come l’umanità, avremo intenzioni seconde; ‘seconde’ nel senso che rinviano ad una precedente intenzione, cioè a un precedente atto mentale. L’universalità dipende solo dall’intenzione, e l’universale non è che segno. Ma esso non è comunque arbitrario, va considerato il risultato di un processo naturale di formazione, scaturito dall’azione delle cose sulla mente. Il concetto universale si produce per il riconoscimento di una somiglianza tra le cose comprese sotto lo stesso segno. Invece, i termini linguistici, orali o scritti, che designano le stesse cose significate dagli universali, sono segni convenzionali. Il legame tra i termini, che siano di genere o di specie, è solo un legame logico, cioè relativo al pensiero umano, e non ontologico. Infatti, le relazioni tra i termini non sono oggettive, nel senso che non dipendono dai termini stessi ma solo dalle intenzioni mentali che ne fanno uso. ‘Categoremi’ e ‘sincategoremi’. In senso stretto, termini sono il soggetto e il predicato che hanno significazione compiuta e sono detti categoremi (dal verbo kategoréin, asserire, mostrare). Sono categoremi parole come cavallo o camminare, il cui significato è chiaro e autonomo. In senso lato sono termini tutti gli elementi della proposizione, anche quelli che non hanno una significazione compiuta, ma significano solo insieme ai categoremi e sono detti sincategoremi (da syn che significa insieme e kategorema, predicato), ad esempio, parole come per, ogni, qualche, nessuno, oppure la negazione o la copula è. Scrive Ockham: Proposizioni come ‘Socrate è un uomo o Socrate è un animale’ non significano che Socrate ha l’umanità o l’animalità. Né significano che l’umanità o l’animalità è in Socrate, né che l’uomo o l’animale è in Socrate, né che l’uomo o l’animale è una parte del concetto o della sostanza di Socrate. Ma significano che Socrate è in realtà un uomo e in realtà un animale: non nel senso che Socrate sia questo predicato uomo o questo predicato animale, 2 ma nel senso che c’è qualcosa per il quale questi due predicati stanno; come quando accade che questi predicati stanno per Socrate. Commento all’Isagoge di Porfirio Il rapporto tra soggetto e predicato è solo un rapporto tra segni, ognuno dei quali rinvia alla realtà rappresentata nella proposizione. Soggetto e predicato rimandano alla stessa realtà individuale. La proposizione sarà allora vera se la relazione è corretta, quando invece soggetto e predicato rimandano a realtà diverse la proposizione deve essere considerata falsa. Tale diversità rende infatti tra loro incompatibili i significati dei due termini. La ‘supposizione’. La capacità della proposizione di esprimere logicamente le cose del mondo empirico, dipende dalla supposizione. Con questo vocabolo, che deriva dall’espressione supponunt pro (stanno per), si indica il fatto che, nelle proposizioni, le parole stanno per le cose, cioè hanno la funzione di denotare le cose. La supposizione è distinta dalla significazione che invece è il rimando della parola da sola alla cosa. La funzione significativa del termine è presupposta all’uso di esso in una proposizione. Il segno, nella proposizione, sta per le cose significate, e le rappresenta. La supposizione conferisce al termine il compito di rappresentare nella proposizione le cose di cui parla. Ockham distingue tre tipi di supposizione: La supposizione ‘materiale’, ‘semplice’ e personale’ La supposizione è definita materiale se il temine sta per se stesso (per esempio: ‘uomo’ è un nome, dove ‘uomo’ indica il nome medesimo). È detta semplice se il termine sta per il concetto o nozione universale (uomo è una specie). Infine, la supposizione si definisce personale se il termine sta per la realtà extramentale ed è assunto nella pienezza della sua funzione significativa (ogni uomo è mortale). Nella proposizione, la supposizione del termine è regolata dai sincategoremi presenti, perché essa non è autonoma, ma ha senso solo in questo contesto. E la relazione con gli altri termini è stabilita dai sincategoremi, che stabiliscono il valore affermativo o negativo, e le quantità. La logica è la scienza razionale che studia i rapporti tra i termini o segni, mentre la realtà è costituita di individui che sono le uniche sostanze effettivamente esistenti. Come si è detto, la forma primaria di conoscenza è quella intuitiva che apprende il particolare concreto. Ockham si fa così sostenitore di un radicale empirismo gnoseologico e del nominalismo logico. Guglielmo di Ockham: la teologia e la metafisica Sulla base della concezione empiristica non è possibile elaborare alcuna metafisica: i concetti propri di questa disciplina sono, infatti, puri nomi. Non c’è modo dunque di ascendere razionalmente dall’individualità finita all’assoluto. A Dio, dunque, si giunge più con la fede che con la ragione. L’impossibilita della metafisica Dato che l’uomo è finito e si può rivolgere solo al finito, si deve ammettere l’impossibilità della metafisica. Non si può risalire dal finito all’infinito, cioè dalla creatura al Creatore. Segue da questo una critica serrata contro le argomentazioni sull’esistenza di Dio. In particolare, a partire dalle ‘vie’ di Tommaso d’Aquino, tali argomentazioni tendevano a fondarsi sulla causalità fisica. Ma è questo stesso concetto che deve essere messo in discussione. Il rapporto ‘causa-effetto’ non è connessione necessaria; si può dimostrare l’esistenza di Dio? Come l’universale, anche il rapporto di causa-effetto è nulla più che una costruzione mentale basata sull’associazione di fenomeni intuiti nell’esperienza come congiunti. Nulla pero ci autorizza a considerare tale connessione come necessaria. Di conseguenza non è nemmeno possibile dimostrare l’esistenza di Dio utilizzando il principio di causalità come nelle vie tomiste o nei ragionamenti aristotelici. In primo luogo, Dio è fuori dall’ordine dell’esperienza, dunque incomprensibile alla mente umana. In secondo luogo, che ogni cosa sia mossa da un’altra è un principio che non ha alcun fondamento logico. D’altra parte, non si può nemmeno escludere un processo all’infinito nella successione dei motori. Neppure l’argomentazione basata sulla finalità della natura può avere valore. Infatti, di finalità si può parlare con sicurezza a proposito delle azioni compiute da esseri dotati di intelligenza e di volontà. Se si considerano, invece, i movimenti delle entità naturali inanimate, prive di quelle facoltà, non è corretto introdurre il finalismo, appunto perché non ci può essere alcuna consapevolezza di uno scopo. Il primum conservans 3 Tuttavia attraverso un percorso razionale si può giungere all’affermazione dell’esistenza di un Ente che mantiene nell’essere gli individui, che sono contingenti, in ogni momento della loro esistenza e che richiedono di essere conservati nell’essere grazie ad una creazione continua. Questa creazione continua esige un primum conservans, che in quanto conserva gli individui è anche causa efficiente di essi. Però questo primum conservans rintracciato razionalmente, per Ockham non si può senz’altro e immediatamente identificare con il Dio della tradizione cristiana. Inoltre di un tale essere non si può nemmeno dimostrare l’unicità, dato che, se esistessero altri mondi o altri ordini di enti, potrebbero esserci più enti sommi. Che ci sia un unico Dio lo può dire solo la fede. Il Dio dei filosofi non è il Dio dei cristiani Insomma, il Dio dei filosofi non è il Dio dei cristiani. Perciò la teologia non può essere la filosofia, né v’è continuità tra le due. Esse hanno domini eterogenei. Il Dio cristiano è il Dio della fede, e può essere colto solo attraverso l’amore e la volontà e non attraverso la logica. Tutto questo pone Ockham contro la metafisica scolastica di stampo aristotelico-tomista. Per il filosofo, fede e ragione sono radicalmente separate perché eterogenee. Si ha quindi una negazione della fides quaerens intellectum (‘la fede che cerca l’intelletto’), come pure della capacità della ragione di dimostrare i preambula fidei (le premesse della fede). Gli articoli di fede non sono verità logiche dato che non sono principi né conclusioni di dimostrazioni. E non sono nemmeno ragionevolmente probabili perché appaiono falsi «a tutti o ai più o ai sapienti», cioè a coloro che si affidano alla ragione naturale. Quella sapienza umana che, come insegnava San Paolo (I Corinzi, II), impallidisce di fronte alla potenza di Dio, e deve cedergli il passo. In sintonia con la cultura dei francescani spirituali, Ockham cerca un recupero dell’originario spirito della Scrittura di contro alle contaminazioni mondane sia in senso politico (come si vedrà), sia in senso culturale. L’obiettivo è quello della povertà evangelica. Povertà che deve essere vissuta in tutti i sensi, da quello economico a quello logico, come si è visto a proposito del ‘rasoio di Ockham’, utilizzato contro il ‘lusso’ concettuale. L”assurdità’ della fede; fede e ragione In questa prospettiva rientra l’avversione alla sapienza del mondo, inteso nel senso negativo del Vangelo. Si esalta, invece, quella che, agli occhi del mondo, è l’assurdità della fede. Tutto questo però non comporta un rifiuto della ragione, ma semplicemente il riconoscimento che la ragione deve tacere su ciò che è più grande di lei e che lei stessa non è in grado di comprendere. Sul piano strettamente logico è perfettamente legittimo procedere per argomentazioni. Anzi, le procedure devono essere assolutamente rigorose, senza scorciatoie, ma con la massima snellezza, evitando ridondanze. Il primato della volontà nell’uomo Tra ragione e fede c’è un salto che la volontà umana può compiere solo per grazia di Dio. Nella fede ci si affida alla rivelazione del testo sacro. L’uomo è dunque soprattutto volontà. La volontà è libera e la libertà è la capacità di scelta, cioè la facoltà di Causare o non causare un certo effetto. Il merito che può essere riconosciuto all’agire umano dipende da questa libertà. Ma tale merito vale sul piano morale umano e non autorizza ad alcuna conclusione di ordine ultraterreno. Perché il valore etico non determina la sorte dell’anima, che dipende solo da Dio. Egli la stabilisce unicamente sulla base della propria volontà. In tal modo si giunge ad una negazione dell’oggettività dell’etica, nel senso che Bene e Male, ossia i concetti morali fondamentali, non hanno una realtà autonoma. Soltanto Dio può definire ciò che è bene e ciò che è male, secondo la sua imperscrutabile volontà. Non è, quindi, che Dio voglia il bene perché esso è bene; piuttosto è bene quello che è voluto da Dio. In questa prospettiva la fede non può più essere una condizione necessaria alla salvezza. Si potrebbe anche essere salvati senza fede o condannati con la fede. Quel che conta, nel discorso teologico occamista, è non imprigionare Dio entro categorie umane, non assoggettarlo a una necessità modellata sulla ragione umana. Il primato della volontà in Dio Posto che in Dio prevale l’aspetto della volontà, che è assoluta onnipotenza non soggetta a restrizioni, si deve pensare che Dio può fare tutto ciò che non implica contraddizione. Ne segue che non può esserci una legge di natura necessaria. La natura, in quanto creata, dipende dall’assoluta e libera volontà di Dio, che può in ogni istante cambiare quelle leggi poste da lui stesso. In generale Ockham esprime una visione fortemente razionalista per le questioni logico-metafisiche, mentre si pone al di là della ragione per le questioni di fede. La radicale separazione tra la fede e la ragione, ha la sua corrispondenza in quella tra la comunità dei credenti che ha come suo capo Dio stesso, e non il Papa, e il potere civile che non può spettare alla Chiesa. 4 Guglielmo di Ockham la riflessione politica Ockham, partito da studi logici e teologici, si dedicò sempre più a questioni politiche, stimolato anche dalle traversie dell’ordine francescano e dalle vicende della sua vita. La riflessione politica comunque non si può considerare un corpo estraneo, essendo profondamente coerente con la sua impostazione filosofica. La netta separazione, in campo politico, tra il Papato e l’impero corrisponde pienamente a quella tra la teologia e la filosofia. L’autorità è unica. Nell’ambito civile, unica dev’essere l’autorità. Come si vede, anche qui vige un principio di semplicità. Ma soprattutto l’unità deve garantire la compattezza sociale e la pace. 5