U S M F L P u bblicazion i della Facoltà di Lettere e Filosofia Critica

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UNIVERSITÀ
DEGLI
STUDI
DI
MILANO
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Pubblicazioni
della
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia
EZIO
PARTESANA
Critica
del
non
vero.
Per
una
teoria
dell’interpretazione
in
Th.
W.
Adorno
Firenze,
La
Nuova
Italia,
1997
(Pubblicazioni
della
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia
dell’Università
degli
Studi
di
Milano,
171)
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PUBBLICAZIONI
DELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
CLXXI
SEZIONE DI FILOSOFIA
25
EZIO PARTESANA
CRITICA DEL NON VERO
PER UNA TEORIA DELL'INTERPRETAZIONE
IN TH.W. ADORNO
LA NUOVA ITALIA EDITRICE
FIRENZE
Partesana, Ezio
Critica del non vero :
Per una teoria dell'interpretazione in Th.W. Adorno. (Pubblicazioni della Facoltà di lettere
e filosofia dell'Università degli Studi di Milano ; 171.
Sezione di Filosofia ; 25). -
ISBN 88-221-1891-X
I. Tit.
1. Ermeneutica - Teorie di Theodor Wiesengrund Adorno
121.68
Proprietà letteraria riservata
Printed in Italy
© Copyright 1995 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze
l a edizione: febbraio 1997
a mio padre, Carlo
INDICE
Prefazione
p.
1
CAPITOLO I. INTRODUZIONE. L'INTERPRETAZIONE NEI PRIMI
SCRITTI DEGLI ANNI '30
»
7
L'idea di storia naturale
La esatta fantasia
»
»
17
24
CAPITOLO II. LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
»
35
Troppa fiducia nella coscienza attuale
Perché Ulisse non ascoltò il canto delle sirene
Desiderio, etica e interpretazione
»
»
»
35
43
50
CAPITOLO III. MODELLI INTERPRETATIVI
»
61
II passaggio dialettico
Linguaggio e interpretazione
Freud e Kafka
»
»
»
77
87
97
CAPITOLO IV. LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
» 113
Verità, processo e immaginazione. La lettura di Hegel
La memoria del gioco e il dolore del ricordo
Ideologia, utopia e obbligo al concetto
Dialettica negativa. La costruzione dell'immaginazione critica
»
»
»
»
118
136
148
155
CAPITOLO V. DIALETTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA.
LA PARODIA
» 161
Memoria tra traduzione e desiderio
Ontologia e deontologia: l'unità di logica e etica
La contraddizione come chiave ermeneutica
II debito storico e il rapporto tra verità e piacere
Per una teoria dell'interpretazione: la parodia
Fine dell'interpretazione
»
»
»
»
»
»
161
174
181
190
202
215
X
INDICE
BIBLIOGRAFIA GENERALE
Parte prima: opere e saggi di Th.W. Adorno, secondo la data
di pubblicazione in Italia
Parte seconda: edizione tedesca delle opere complete
di Th.W. Adorno
Parte terza: bibliografia critica
Parte quarta: emeroteca
Parte quinta: altri testi
p. 226
» 226
»
»
»
»
227
228
231
233
PREFAZIONE
Anche quando la filosofia pretende di elaborare i rap­
porti secondo principi puri e astratti, essa assume in sé,
positivamente o negativamente, categorie immanenti
alla società esistente.
Th.W. Adorno 1
II problema che si intende porre in questo volume è quello dei rap­
porti tra Adorno e l'ermeneutica. A prima vista esiste una soluzione im­
mediata: poiché quello dei rapporti tra Adorno e l'ermeneutica è, come
direbbero i logici, un insieme vuoto, la soluzione sta nel fatto che non
esista alcun rapporto. Tuttavia basta considerare non rapporti tra autori,
bensì rapporti tra effettive pratiche filosofiche, che il vuoto si riempie. Ci si
trova allora a guardare l'opera di Adorno da un altro punto di vista, e cioè
a domandarsi su cosa poggi la straordinaria capacità di penetrazione cri­
tica di quel pensiero; e poiché lo studio dei fondamenti e della pratica
interpretativa è l'oggetto attorno al quale oggi si riunisce quell'insieme
eterogeneo di teorie che si può chiamare genericamente ermeneutico, vien
fatto di pensare se non sia possibile descrivere la forza critico-interpreta­
tiva della dialettica nei termini di una pratica ermeneutica.
Ora, se è palese che Adorno dovesse possedere una prassi interpre­
tativa, e che sia dunque possibile, almeno in linea di principio, individuar­
la e descriverla a partire dai suoi lavori, si presentano, però, per farlo, due
vie percorribili entrambe insoddisfacenti. L'una consisterebbe nell'ennesi­
ma sintesi teorica di che cosa sia e come funzioni la negative Dialektik,
lavoro che non solo è già stato compiuto da ottimi studiosi, e che dunque
non è necessario ripetere, ma che soprattutto non può comprendere in sé,
dato il suo carattere filologico, la «battaglia» attuale tra dialettica ed erme1 Th.W. Adorno e M. Horkheimer a cura di, Lezioni di sociologia, voi. IV dei
«Frankfurter Beitràge zur Soziologie» dell'Instttut fùr Sozialforschung di Francoforte,
editi da Th.W. Adorno e W. Dirks, Europàische Verlagsansalt, Frankfurt a. M. 1956,
trad. A. Mazzone, Einaudi, Torino 1966, p. 15.
2
CRITICA DEL NON VERO
nautica. L'altra opzione, simmetrica e contraria, sarebbe di interpretare la
filosofia critica alla luce, come si suoi dire, dell'ermeneutica, cioè mostrare
e dimostrare come e in che misura essa sia all'altezza della contemporanea
koyné filosofica. Una strategia di inglobamento che avrebbe il prevedibile
difetto di oscurare l'identità specifica del pensar dialettico, e di conse­
guenza di perderne la portata critica anche nei confronti della stessa er­
meneutica.
Qualsiasi scelta si compia per cavar fuori dall'opera di Adorno una
teoria generale dell'interpretazione è esposta ai difetti di cui sopra, o ancor
peggio al rischio di sistematizzare un pensiero di sua volontà critico atten­
to di ogni totalità. Lo stesso vale per quella qui proposta - che è solo
apparentemente semplice - con a suo favore, però, il pregio di derivare
dai presupposti teorici dello stesso Adorno. Si tratta, in breve, di porre agli
scritti di Adorno le domande della tradizione ermeneutica. In questo modo
l'oggetto della ricerca è bensì "illuminato" dall'ermeneutica - è, per dir
così, lo stesso oggetto - ma inserito in una configurazione tale (il pensiero
di Adorno), che né l'oggetto né la sua comprensione risultino / medesimi
dell'ermeneutica. E quindi rimangono presenti per intero le questioni che
questa pone alla riflessione, ma senza che questa interezza azzeri lo spe­
cifico della filosofia critica. Ricostruire attraverso le effettive interpretazioni critiche di Adorno e, va da sé, attraverso la sua dialettica, una «teoria
dell'interpretazione», risulta allora possibile senza dover forzare i testi ad
essere quel che non sono, e cioè scritti sull'ermeneutica.
Un simile escamotage è attuabile perché, come dicevamo prima, una
pratica critico-interpretativa è costantemente all'opera nei testi di Adorno
e sebbene non sia concepita affatto come ermeneutica - anzi sia in forte
polemica con la versione heideggeriana di essa - ha anche ricevuto una
formulazione teorica in Dialettica negativa. Lo sguardo parziale alla quale
intendiamo sottoporla, cioè il fatto che le faremo domande solo circa
l'oggetto «interpretazione critica», è una «colpa» non solo inevitabile ma
fruttuosa 2 . Essa deriva e trova una sua giustificazione, del resto, proprio
nella dialettica tra pensiero filosofico e «categorie immanenti alla socie­
tà» 3 , che costituisce oggetto di tanta parte degli scritti adorniani.
Poiché la filosofia, secondo Adorno, accede all'esperienza solo per
tramite di concetti, i quali, a loro volta, sono il risultato di determinazioni
2 Cfr. Th.W. Adorno, «II saggio come forma», in Note per la letteratura, voi. I,
Einaudi, Torino 1979, pp. 5-30; L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.
3 Vedi l'incipit a questa prefazione.
PREFAZIONE
3
extra-concettuali, essa deve, quale che sia l'oggetto a cui si applica, ottem­
perare a due obblighi incompatibili: comprendere il non-identico-da-lei e
insieme di ricondurlo, in un qualche modo, all'identità con se stessa.
Questa precarietà del procedere filosofico, che non ha da nessuna parte
un punto di appoggio fermo, e continuamente viene rimandato dalla lo­
gica dei concetti al non-concettuale e viceversa, fa tuttavia sì che compren­
dere filosoficamente non significhi solo ricostruire l'oggetto, ma in pari
tempo ridislocare sé in base ad esso. Dall'imbarazzante scelta tra affidarsi
all'immediatezza e richiudersi nell'autonomia delle proprie categorie, in­
fatti, la filosofia «esce» grazie al fatto che né i suoi concetti né i suoi
oggetti sono esseri ontologici bensì - come riportato nell'incipit a questa
prefazione - rapporti elaborati e assunti da categorie immanenti alla socie­
tà. Allora il pensiero, che è mediazione e non rispecchiamento di ciò su
cui si esercita, ha il dovere di porsi continuamente di fronte se stesso,
compiendo quell'operazione interpretativa fondamentale che consiste nell'afferrare le proprie categorie nel concreto della relazione dialettica che
esse intrattengono con l'altro da sé, e non nel ciclo tranquillo dell'iperuranio. Detto altrimenti: poiché non le è possibile l'immediatezza - né qui
troverebbe alcunché - la interpretazione filosofica parte dal mediato, da
quel quel che viene per secondo', e la mediazione stessa le diviene essenzia­
le. Così anche riflessione sulla filosofia non può che essere percorsa obli­
quamente, essendole interdetti sia l'abbandonarsi al puro ordine dei con­
cetti, sia l'accettazione incondizionata dell'immediato positivo.
Tutto questo comporta che il confronto tra le categorie adorniane e
quelle ermeneutiche, poiché in quanto tali esse sono mediazioni e non
essenze eterne né mera matter offacts, sia tanto più vicino all'essenziale
quanto più venga condotto in dirczione del rapporto che esse costituisco­
no in quanto interpretazioni ed espressioni della realtà. Ovvero tale con­
fronto deve essere per un lato critica dell'ideologia e per l'altro aggiorna­
mento della teoria. E le due cose, processualmente, coincidono. Non si
tratta di capire perché a certi periodi corrispondano certe Weltanschauungen filosofiche, quanto di sapere quali strumenti intellettuali siano in gra­
do di comprendere la realtà - e se stessi come parti di quella - e quali no.
Un non filosofo direbbe: sapere chi ha torto.
Ma non è certo attraverso un confronto tra idee e realtà, comunque,
che può essere formato un simile giudizio; non c'è un grado di rispecchia­
mento da quantificare. Un progetto di ricerca quale quello qui delineato
è eminentemente anti-nominalista. Nel senso che la resistenza che gli
universali, quelli ermeneutici come quelli impiegati dalla dialettica ador-
4
CRITICA DEL NON VERO
niana, manifestano alla loro totale sussunzione sotto un processo induttivo-deduttivo è irriducibile a questioni definitorie di chiarezza e distinzio­
ne. Limitarsi a prendere categorie chiave della tradizione ermeneutica quali ad esempio quelle di circolo, precomprensione, orizzonte, ricezione,
etc. -, mostrare se ad esse «corrisponda» o meno la realtà, e quindi cer­
carne una versione dialettica negli scritti di Adorno, sarebbe come credere
di poter guarire da una malattia stilando l'elenco dei malanni che non si
hanno, oppure convincendosi di averne una comoda e ben curabile al
posto di quella che realmente si ha. Chiariamo quindi che non si tratta per
nulla di compiere l'artificio dello stiracchiare i testi e i modi del pensiero
adorniano fino a che questi non confessino - sottoposti a simile tortura d'essere anch'essi inconsciamente iscritti nella grande madre della tradi­
zione ermeneutica; così facendo si mancherebbe di rispetto tanto agli uni
quanto all'altra. E d'altronde, ricondurre Adorno e l'ermeneutica ad una
comune radice di critica del razionalismo, per esempio, significherebbe
trattare intenti e categorie filosofiche come meri sintomi a partire dai quali
si possa risalire indietro ad una loro autentica causa, sociale, psicologica
o filosofica che sia. Al contrario, la loro mediatezza, o secondarietà, è sì
sedimentata dal momento sociale, ma come per negativo, senza che sia
possibile una rappresentazione immediata della mediazione. Il modo in
cui il pensiero domina l'essere dopo esserne stato determinato non può
semplicemente essere tolto per ritrovare l'essenza di quella determinazio­
ne; allo stesso modo il confronto tra Adorno e l'ermeneutica non può e non deve - giungere a delle Verità antecedenti entrambi. Porre alla
filosofia dialettica negativa le questioni dell'ermeneutica - affermando al
contempo che questo comporti, almeno implicitamente, la comprensione
del momento sociale di entrambe - non vuoi dire diminuire l'opposizione
che esiste tra le due, ma piuttosto mostrare come la dialettica sia in grado
di formulare al proprio interno domande e risposte sul medesimo ordine
di problemi, conferendo loro un aspetto diverso.
Questo far questione di se stessa che la filosofia porta avanti non è
un momento di secondaria importanza. In esso è presente anche il sospet­
to legittimo sul significato stesso del lavorio filosofico. Non che il dimo­
strare che la dialettica negativa sia all'altezza dei temi ermeneutici possa
giustificare la sua esistenza, ma se è vero che la filosofia è «il proprio
tempo appreso per concetti», e non essendoci dubbio che il nostro tempo
si apprenda per una gran parte per concetti ermeneutici, allora presentare
una teoria dialettica dell'interpretazione, significa dimostrare che la dialetti­
ca in quanto tale è ancora all'altezza del nostro tempo.
PREFAZIONE
Si obbietterà forse a questo punto che è dubbio che le ermeneutiche
costituiscano un'unità, e che anzi di fatto un oggetto «ermeneutica» non
si da. È vero, e non si può certo costruirsi una unità ad hoc riferendosi ad
un presunto nucleo di problemi che esisterebbe indipendentemente dalla
teoria che li tratta. Questo intento, che è già nella sua sostanza interpre­
tativo, deve poter mostrare non solo quali siano queste contraddizioni ma
anche in che modo siano state assunte in essa - dunque conservate e
rimosse - e attraverso quale mediazione si sia tentato concettualmente di
corrispondervi. Se di ogni filosofia si può affermare, secondo Adorno, che
se non è vuota, risponda a contraddizioni essenziali, tuttavia la compren­
sione di tale rispondenza non è a portata di mano, essa dipende piuttosto
dalla lettura critica, ma questa è il risultato che qui ci proponiamo, non il
punto di partenza. Tuttavia poiché non è nostra intenzione una disamina
esplicita di nessuna ermeneutica, ma solo la ricerca di un primo abbozzo
di una teoria dell'interpretazione in Adorno, e semmai ci aspettiamo solo
di riflesso e implicitamente che una tale teoria dialettica dell'interpretazio­
ne possa essere spunto di riflessione su certi aspetti di alcune prassi di
lettura critica contemporanee, non è necessario per noi formulare una
unità della scienza dell'interpretazione o della storia delle teoria ermeneu­
tiche, ma è sufficiente sottintendere un riferimento ad un insieme di que­
stioni e soluzioni - e cioè ad una certa convergenza che si verifica oggi nel
decidere i criteri di pregnanza di questioni e soluzioni, intorno alle radici
del pensiero ermeneutico 4 .
Il processo dell'esecuzione - «esecuzione» nell'accezione adorniana,
cioè nel senso in cui si può dire «eseguire un brano musicale» o di «in­
terpretarlo» - che qui ci accingiamo a compiere non consiste dunque
affatto nella comparazione della varie teorie per estrarre poi predicati
generali da sottoporre a verifica del maglio dialettico. Al contrario; essa si
muove perché, restando in metafora, il musicista (nel nostro caso i libri di
Adorno) prima di eseguire la partitura deve interpretarla, renderla sua.
4 Giacché non verranno riassunte né espresse sistematicamente nel prosieguo del
lavoro, è necessaria qui l'onestà di indicare l'origine delle conoscenze ermeneutiche
dell'autore. Esse derivano in parte dallo studio diretto, ma anche dalle lezioni, dai testi
e dalle discussioni avute con Paolo D'Alessandro. A questi - e alle sue ricerche sulla
lettura sintomale - l'autore è debitore soprattutto dell'incontro con la possibilità di
differenziazione tra ideologia e scienza ermeneutica. Così si potrebbe dire che mentre
l'autore è responsabile dell'esperienza dell'ermeneutica come ideologia apologetica,
deve a D'Alessandro la conoscenza delle questioni di una teoria interpretativa filosofica, in tutta la loro serietà.
6
CRITICA DEL NON VERO
Questa dialettica ha il suo lato mefistofelico nel mostrare, attraverso dif­
ferenti costellazioni concettuali, tutto quel che è, esplicitamente o impli­
citamente, contenuto in un pensiero ma che dalla prospettiva immanente
risulterebbe invisibile. Proprio come nella psicologia individuale, in linea
generale ad ognuno è inaccessibile non una rimozione qualsiasi bensì la
sua propria, allo stesso modo se sottoponiamo Adorno ai temi dell'erme­
neutica filosofica è perché da questa dislocazione ci aspettiamo emergano
ragioni che all'interno del loro proprio paradigma rischierebbero di resta­
re invisibili. In un certo senso si tratta non di togliere ma di cogliere
l'ideologia presente nelle problematiche, che in essa deve trovarsi, nasco­
sto, anche il suo contenuto di verità.
Da questo dipende infine quel che più importa: la riflessione dell'er­
meneutica sulla dialettica adorniana deve illuminare il proprio oggetto,
interpretare criticamente Vethos ermeneutico, e - se è coerente con il
nucleo teoretico dialettico della verità come processo - venir trasformata
essa stessa. L'opera di chiarificazione della mediazione concettuale dei
suoi contenuti non ha, per dir così, quartiere; del resto Adorno lo espresse
nel modo più chiaro: «non si da vita vera nella falsa» 5 , dunque neanche
filosofia. Abbiamo così un doppio vuoto da oltrepassare: una prassi inter­
pretativa dialettica che non si è coscientemente posta come tale di fronte
ai problemi dell'ermeneutica, e una teoria ermeneutica che riflette 6 su di
sé attraverso la dialettica negativa. È un po' come se l'ermeneutica andasse
in analisi dalla filosofia di Adorno e noi però trascrivessimo solo le rifles­
sioni private dell'analista. Esse avranno sempre a che fare col dialogo
terapeutico ma non direttamente, saranno invece indice di quanto i rac­
conti dell'analizzato siano in grado di destare del pensiero dell'analista.
Detto altrimenti; se Adorno ha scritto la sua filosofia come dialettica
negativa, che è lo sforzo di ottenere, secondo le parole del suo autore, la
prospettiva dalla quale le cose appaiano dissestate 7 , ed è dunque sempre
dipendente dal proprio oggetto o, detto altrimenti, eseguibile solo per
modelli, altro non vuole essere questa ricerca su ermeneutica e dialettica
negativa che un modello di quest'ultima.
5 Th.W. Adorno, Minima moralia, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1951, trad.
it. di L. Ceppa, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979, p. 35.
6 Questa pars destruens risulterà, nel presente lavoro, implicita; un suo svolgimen­
to soddisfacente, com'è evidente, richiederebbe una ricerca a sé e non può certo venir
fatto en passant.
1 Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.
CAPITOLO I
INTRODUZIONE
L'INTERPRETAZIONE NEI PRIMI SCRITTI DEGLI ANNI '30
Qualsiasi critica filosofica è oggi possibile come critica del linguag­
gio. Essa deve estendersi non solo alla cosi detta adeguazione delle
parole alle cose, ma anche alla situazione delle parole in se stesse;
ci si deve domandare quanto siano idonee alla loro propria inten­
zione, quanta della loro forza si sia storicamente estinta, quanto in
esse possa divenire configurativamente valido.
[...]
La struttura reale (sachliche) di un'immagine filosofica può già sta­
re in una tensione figurativa con la sua propria struttura linguistica.
Th.W. Adorno '
Se pure è vero che non si può ricavare dai testi più di quanto si sia
disposti a immettervi 2 , tuttavia non si deve poter estrarre l'oro dal piom­
bo. Cosi il fatto che Adorno abbia cominciato la sua riflessione filosofica
con scritti dove si pongono esplicitamente le questioni dell'interpretazione
e del rapporto tra questa e le strutture linguistiche, costituisce per la
presente ricerca più un problema che non una conferma; la formazione
culturale in genere e filosofica in particolare di Adorno non consentono
una lettura di questi primi lavori come anticipazioni di interessi ermeneu­
tici poi abbandonati. Come già detto nella Prefazione, simili interessi sono
estranei all'orizzonte di problemi in cui si muove adesso (e si muoverà in
seguito) il giovane Theodor Wisengrund. Semmai è da notare come prima ancora di un'esaudiente lettura di Hegel - il significato della filo­
sofia fosse, per Adorno, da ricondursi alla critica filosofica, e questa a sua
volta avesse un aspetto fondamentale nel rapporto tra configurazione lin­
guistica e struttura reale storica. E vero che questa dialettica è fortemente
influenzata da Benjamin, e che dunque manca ancora dell'aspetto più
tipicamente adorniano dell'uso delle determinazioni come negazioni senza
risoluzione in una forma storica più alta, ma ciò costituisce un indizio
' Th.W. Adorno, Thesen iiber die Sprache des Philosopben, in Th.W. Adorno,
Gesammelte Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973, pp. 336-74. Il
saggio risale, secondo le indicazione della bibliografia ufficiale Suhrkamp, all'inizio
degli anni Trenta.
2 Cfr. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M.
1963; ed. it. Tre studi su Hegel, trad. R. Bodei, II Mulino, Bologna 1971, p. 191.
CRITICA DEL NON VERPO
prezioso di come i problemi di una teoria dell'interpretazione fossero
posti autonomamente da Adorno. Essi cioè ricevettero una formulazione
linguistica che se non era dialettica non era neppure ermeneutica. Cosi se
non si può dire che questi scritti forniscano già una prima sistemazione
della forma critica nella dialettica di Adorno, tuttavia rappresentano la
giustificazione e il primo passo del nostro intento, che è quello di tradurre
- senza alcuna illusione di fedeltà o neutralità - le questioni ermeneutiche
all'interno della dialettica negativa.
Il fatto che questa traduzione la si trovi già compiuta, se da un lato
alleggerisce dalla responsabilità di impostarla e dall'arbitrio di compierla,
dall'altro, appunto, costituisce evidentemente un problema; nel senso che
è da spiegare come mai essa apparentemente scompaia negli scritti succes­
sivi. L'ipotesi che si presenta è, naturalmente, che essa non scompaia
affatto, ma che anzi venga continuamente riproposta, alimentandosi con­
temporaneamente delle interpretazioni effettive di fenomeni artistici pro­
poste da Adorno e delle autoriflessioni critiche sui poteri e doveri del
discorso filosofico; e che l'espressione che qui riceve il problema interpre­
tativo sia «in una tensione figurativa con la sua propria struttura linguisti­
ca» 5 . Bisogna perciò sciogliere l'aspetto enigmatico di questa tensione
perché si dispieghi il contenuto della sua «presenza in assenza».
Nel 1931, dunque, Adorno tenne il suo discorso inaugurale all'uni­
versità di Francoforte: Die Aktualitdt der Philosophie 1*. L'attualità della
3 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit. p. 374.
4 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, in Th.W. Adorno, Gesammelte
Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973, pp. 325-44; traduzione
italiana è comparsa sulla rivista «Utopia» III, 1973, n. 7-8, a cura di C. Pettazzi.
Vista la data di questo discorso inaugurale sulla attualità, viene spontaneo riflet­
tere sulla sua ingenuità politica. E oramai topos riconoscere la poca scaltrezza politica
di Adorno nei confronti del nazionalsocialismo, soprattutto vista la violenza di alcuni
suoi attacchi nei confronti di Heidegger, e della importanza che i crimini nazisti avran­
no nel suo pensiero. La cosa è certamente vera, e se ne potrebbero portare riscontri
oggettivi. Si deve tuttavia ricordare come anche altri autori, e amici di Adorno, pur
assai più lungimiranti abbiano molto tardato a riconoscere il carattere irrimediabile
degli avvenimenti che si andavano maturando dall'inizio della seconda metà degli anni
venti in Germania. A questo proposito si può vedere il libro di E. Rusconi, La crisi di
Weimar, Einaudi, Torino 1977, dal quale si possono trarre interessanti notizie e dati
sociologici e politici. Ma anche Ernst Bloch ebbe qualche lapsus per eccesso di ottimi­
smo. Un esempio eclatante di ciò si può avere nel libro Erbschaft dieser Zeit, pubblicato
la prima volta a Zurigo nel 1935, ma con aggiunte successive fino agli anni Quaranta,
e poi uscito per i tipi della Suhrkamp nel 1962, in italiano: Eredità del nostro tempo,
traduzione di L. Boella, Coliseum, Milano 1992. Proprio in un testo paradigmatico per
INTRODUZIONE
^
filosofia si definirebbe innanzitutto per differenza dalla scienza, ma un
tipo di differenza che concerna da vicino il nostro oggetto, infatti:
la filosofia non si differenzia dalla scienza [...] per un più elevato grado di gene­
ralità. Essa non si separa dalla scienza né per astrattezza di categorie né per la
natura del suo materiale. La differenza consiste piuttosto principalmente nel fatto
che la singola scienza accetta i suoi reperti, in ogni caso gli ultimi e i più profondi,
come non scioglibili e riposanti su sé, mentre la filosofia intende già il primo
reperto che incontra come segno che a lei spetta decifrare. Detto semplicemente:
l'idea della scienza è la ricerca, quella della filosofia è la interpretazione 5 .
Questa presa di posizione, che si può ben chiamare programmatica
vista l'occasione della sua pronuncia, è tutt'altro che sorprendente. La
distinzione tra ricerca (Forschung] e interpretazione (Deutung] appartiene
alla tradizione della differenza tra scienze della natura e scienze dello
spirito, segnatamente quelle ermeneutiche. Tuttavia l'introduzione alla
differenza se espressa «semplicemente» nel detto che per la filosofia non
esista "nulla di immediato tra ciclo e terra" 6 , è tutt'altro che scontata e
anzi è ulteriormente complicata da una sorta di «realismo ingenuo» come si legge poco oltre: «le nostre percezioni possono sempre essere
forme, ma il mondo, nel quale viviamo e che si costituisce diversamente
dalle nostre percezioni, non lo è». Il «realismo ingenuo» deriva senz'altro,
dal punto di vista soggettivo, dal distacco di Adorno da Kant - sia quello
letto assieme all'amico Krakauer che quello appreso tramite la filosofia del
maestro Cornelius ' -, e serve in prima istanza contro l'idealismo specula­
la lucidità delle analisi sociali e politiche, in alcuni passi Bloch si lascia andare alla tesi
diffusa che il nazionalsocialismo non avrebbe avuto futuro, e che per smontarlo sarebbe
stato sufficiente che prendesse un poco, e per poco tempo, il potere; cfr. pp. 4, 35, 1023, etc. Probabilmente uno dei pochi che vide giusto fin dal principio fu M. Horkheimer
che riuscì, con la collaborazione di Pollock e Grossman, a salvare per tempo i fondi e
spesso i membri stessi dell'Istituto per le ricerche sociali.
5 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, cit., p. 334.
6 Cfr. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M.
1966; ed. it. Dialettica negativa, trad. di C. Donolo, Einaudi, Torino 1970, p. 153.
1 La tesi di abilitazione di Adorno recava il titolo Der Begriff des Unbewuftten in
der transzendentalen Seelenlehre. Per altro verso non pare si possa condividere appieno
la tesi ricostruttiva di un interesse di Adorno per Marx e Freud tardo e dovuto più ad
amicizie personali che non a esigenze effettive. Il testo più accurato nell'esaminare la
penetrazione adorniana del pensiero di Freud, meglio detto: quella del pensiero di
Freud all'interno di Adorno, è Susan Buck-Morss, The ongin of negative dialectics, cfr.
pp. 17-20.
10
CRITICA DEL NON VERPO
tivo. Ma il suo legame con il carattere di secondarietà del materiale filosofico (a differenza di quello scientifico) allarga la sua portata; quella
mediatezza non è da riferirsi all'attività del soggetto, o meglio: non è da
riferirsi all'attività cosciente del singolo soggetto; la filosofia, anzi, è essen­
zialmente interpretazione proprio perché non va alla ricerca di alcun apriori né del soggetto né dell'oggetto, non almeno nel senso extrasociale
in sui s'intende l'a-priori nella filosofia kantiana:
compito della filosofia non è quello di scrutare le intenzioni nascoste e palesi della
realtà, ma quello di interpretare la realtà priva di intenzioni (die intentionslose
Wirklichkeit zu deuteri} [...] forse [l'interpretazione] completerebbe proprio l'or­
dito che potrebbe trasformare le cifre in un testo 8 .
Il privo di intenzione che si cifra nel testo, escluso il richiamo kantia­
no, sembra allora indicare più la dialettica sociale (si pensi a Dialettica
dell'illuminismo] che non è mai semplicemente duplicata in modo aperto
dal pensiero, piuttosto che non un elemento individuale. Quel che condu­
ce la riflessione a farsi interpretazione critica, insomma, non si trova in
campo psicologico, ma nell'apparente insensatezza del dato di partenza
come immediatamente esso è. Se il primato dell'oggetto, oggetto non
naturale, e la critica dell'idealismo e dell'immediato motivano il rifiuto
adorniano alla comprensione psicologica, come ben chiarifica la critica
fuggevolmente rivolta a Dilthey in Die Idee der Naturgeschichte 9, il riferirsi
al privo di intenzioni nelle cose, desta stupore poiché le cose non hanno,
in senso letterale, alcuna intenzione. Il dubbio legittimo è che Adorno
pensi già, sebbene in modo ancora incerto, al privo di intenzione all'inter­
no della totalità sociale data 10 , dove «nessuna ragione che faccia giustizia
(Rechtfertigende Vernunft) può ritrovarsi in una realtà la cui forma e il cui
ordine costernano ogni diritto della ragione» 11 ; con l'attenzione precoce-
8 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.
9 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, in Th.W. Adorno, Gesammelte
Schriften, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. pp. 345-65. Il saggio è del 1932.
La traduzione italiana, a opera di M. Tosti Croce, è comparsa sulla rivista «II cannoc­
chiale», 1977, n. 1-2, pp. 91-112. Il passo in questione è a p. 361 dell'edizione originale.
1(1 Si ricordi che gli scritti di Horkheimer sulla teoria critica iniziano proprio nel
1932. Cfr. M. Horkheimer, Teoria critica. Scritti 1932-41, trad. G. Backhaus, 2 voli.,
Einaudi, Torino 1974, voi. II, pp. 178-83.
11 Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, p. 325. La traduzione che qui
offro è grammaticalmente «scorretta» al fine di mostrare meglio i significati del termine
tedesco Rechtfertigende...
INTRODUZIONE
11
mente rivolta a quel nesso di Ragione e Storia dove l'affermazione della
ragione illuminista è effetto e insieme condizione dell'affermazione della
società borghese — che appunto scrive Storia e Ragione con l'iniziale
maiuscola.
Che l'intenzione di levarla di mezzo, quella maiuscola, non sia sorta
solo più tardi in Adorno, è testimoniato intanto dalla convinzione di dover
preparare una Naturgeschichte [2, e quindi una critica della pretesa ideolo­
gica di immutabilità di ragione e storia che in quelle maiuscole si esprime.
Ma poi anche, in modo evidente, dalla possibilità di accostare giudizi
espressi da Adorno su quel nesso in scritti della maturità a quelli presenti
in questi tre saggi degli anni '30. Nelle Thesen ùber die Sprache des Philosophen, ad esempio, si dice che «nessuna società che contraddica il suo
proprio concetto, il concetto di umanità, può avere piena coscienza di se
stessa» 15 , come ventidue anni dopo, in Prismi: «Senza società conchiusa
non si da obiettività e con ciò nessun linguaggio vero e comprensibile» 14 .
Deve essere chiaro, quindi, che se non ci fosse società - cioè una storia
sociale della ragione - non esisterebbe il privo di intenzione, né linguag­
gio, né critica; solo una società, non un'astratta individualità umana, può
cifrarsi nei propri testi come enigma.
Si legga, dunque in proposito, il saggio Die Idee der Naturgeschichte 1 ''. In esso vien resa palese la trasformazione del naturale in storico e
dello storico in naturale. Questo tema prenderà il suo aspetto genealogico
nella Dialettica dell'illuminismo, ma la sua parte nel processo della "filo­
sofia interpretativa", per esprimersi con le parole di Adorno, è chiaro fin
d'ora, prima ancora che nella sua rielaborazione all'interno della Dialettica
negativa. Il privo di intenzioni è la storia che appare agli uomini come
destino, come natura, e allo stesso tempo la natura dalla quale i soggetti
e la storia si sono a dura forza staccati. È un privo di intenzioni dove le
intenzioni sono quelle del soggetto, del soggetto quale è - nell'intreccio di
12 Cfr. Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschtchte, op. cit. Per la trattazione di
questo saggio si veda più avanti nel capitolo.
15 Th.W. Adorno, Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt a. M. 1955; ed. it. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino
1972, p. 13, trad. C. Mainoldi.
14 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 367.
15 II rapporto tra Benjamin e Adorno è analizzato nei dettagli, e avendo avuto a
disposizione gli archivi con gli inediti, dalla Buck-Morss in The origin of negative
dialectics, op. cit. È l'unica, per quanto mi risulti, a dare notevole importanza all'impe­
gno verbale che Adorno e Benjamin presero nell'autunno del 1929 a Kònigstein.
12
CRITICA DEL NON VERPO
società e natura trascorsa - e non quale si pretende di essere nell'idealismo
filosofico. Ovvero un soggetto che non è psicologico e nemmeno trascen­
dentale 16, al quale la benjaminiana Urgeschichte des Subjects 17si riferisce. E
proprio in Die Idee der Naturgeschichte si legge, dopo una escursione da
Lukàcs atta a chiarire inizialmente la categoria di «seconda natura», una
citazione tratta da Benjamin:
La storia in tutto quanto ha, fin dall'inizio, di inopportuno, di doloroso, di sba­
gliato si configura in un volto - anzi: nel teschio di un morto. [...] Non soltanto
la natura dell'esistenza umana tout court, ma anche la storicità biografica di un
singolo si esprime significativamente, in forma di enigma, in questo suo aspetto,
l'aspetto naturale supremamente degradato 18.
Quel che importa qui vedere, prima delle parti relative all'interpretazione come decifrazione, è come la storia e la natura siano condensate in
oggetti naturali morti, anzi supremamente morti - ma appunto: che furo­
no altro da morti. Se fossero subito immediatamente la loro propria fissità,
nulla in essi potrebbe essere da leggere. Poco più oltre Adorno afferma
che in Benjamin sia da superare (welter zu gehen - non 'aufheberì) proprio
l'idea che la storia come natura sia venuta prima della natura come storia.
Il problema di un eventuale primato mancherebbe, secondo Adorno, il
suo proprio oggetto: «non si tratta qui solo di dimostrare che nella storia
si presentano sempre di bel nuovo motivi di storia originaria, ma che la
storia originaria stessa ha in sé, in quanto caducità, il motivo della sua
16 In questo senso è semmai proto-marxiano. Cfr. M. Barzaghi, Dialettica e ma­
terialismo in Adorno, Bulzoni, Roma 1982, pp. 18-19; A. Schmidt, Begriff des Materialismus bei Adorno, in Adorno-Konferenz 1983, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1983,
pp. 14-34.
17 Sebbene sia piuttosto vacuo citare testi ufficiali per i rapporti tra i due, vista
la mole di conversazioni dirette, scambio di abbozzi e epistole, cfr. W. Benjamin, //
dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971.
Per una ricognizione dei rapporti tra Adorno e Benjamin si possono vedere, quasi
estremi opposti, i saggi: S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, op. cit., G.
Agamben, // principe e il ranocchio. Il problema del metodo in Adorno e Benjamin, in
«Aut Aut», 1979, n. 165-66, pp. 105-17. In quest'ultimo saggio, in particolare, ci sono
alcune sorprendenti affermazioni non tanto sul rapporto o sul pensiero di Benjamin
stesso, quanto nella ricostruzione operata da Agamben del pensiero di Adorno la cui
dialettica negativa viene letta come uno storicismo sospettoso ma assolutamente immo­
bile su se stesso.
18 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, pp. 102-03. Adorno sta citando W.
Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, 1928, ed. it., Il dramma barocco
tedesco, op. cit.
INTRODUZIONE
13
storia» I9; nulla di ontologico, nel senso che «proprio l'illusione dell'inizio
è ciò che soggiace [...] alla critica» 20 . Nei fatti questo è quanto Adorno,
prima di conoscerlo adeguatamente, tuttavia considerò essenziale del
materialismo di Marx, che fosse eliminato come falso problema il proble­
ma dell'origine: «il movimento che si esegue qui per gioco lo esegue il
materialismo sul serio. Sul serio vuoi dire che la risposta non continua a
restare nello spazio chiuso della conoscenza, ma viene impartita dalla
prassi» 21 . In che modo?
Il materialismo ha chiamato questo rapporto con un nome che è filosoficamente
giustificato: dialettica. [...] Quando Marx rimproverò di aver solamente interpre­
tato (interpretieren} in modi diversi il mondo [...] la affermazione era legittimata
non soltanto dalla prassi politica, ma altrettanto da quella filosofica.
nel senso che l'unione di dialettica e materialismo è in grado finalmente
di porre il problema dell'interpretazione (Deutung) filosofica in una pro­
spettiva che non sia quella del mero interpretare (interpretieren} idealisti­
co; questa prospettiva è quella che assume a suo oggetto l'incongruità che
esso oggetto mostra, e ne rintraccia la logica; perché anche per la filosofia:
il testo che [...] deve leggere è incompleto, pieno di contrasti e lacunoso e molto
vi può essere attribuito alla cieca demonfa; allora il leggere è forse proprio il nostro
compito, perché con ciò noi, leggendo, si possa imparare a meglio riconoscere e
bandire le potenze demoniache 22.
Se teniamo presente come in questo testo siano presenti a titolo di
«lettori prodigiosi» 23 Marx e Freud, allora ha perfettamente ragione la
Buck-Morss a richiamare l'attenzione sul fatto che le parole di Ricouer sui
«maestri del sospetto», si possano applicare trent'anni e più prima ad
Adorno 24 . Prendiamo allora per chiaro intanto questo: la interpretazione
è per Adorno esercizio di sospetto, contro la soggettività in entrambe le
19 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., pp. 359-60.
20 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 9.
21 Ibidem, p. 7.
22 Ibidem, p. 7.
23 L. Althusser, Lire le Capital, Librairie Francois Maspero, Paris 1965; ed. it.
Leggere il Capitale, a cura di R. Rinaldi e V. Oskian, Feltrinelli, Milano 1968. Il passo
sul che cosa significhi leggere e perché sia cruciale si trova alle pp. 14-16 del testo
italiano.
24 S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, cit., p. 236.
14
CRITICA DEL NON VERPO
sue forme idealistiche - di soggetto assoluto o di primato ontologico contro l'idea di una interpretazione che non sia prassi di modifica del
reale, e infine contro le potenze demoniche che rendono il testo della fi­
losofia lacunoso e irregolare. Qualcosa nel reale è cifrato, omesso, eppure
nascosto, forse addirittura costituisce l'essenza del reale, ma esso non è a
disposizione. «Il vivere non è a disposizione» scrisse Brecht 25 , e tuttavia:
«l'idea di interpretazione non incoraggia la supposizione di un [...] dua­
lismo di intelligibile e empirico», ovvero di «una separazione tra la verità
dell'esistente e la sua apparenza» 26; dopo la Scienza della logica di Hegel
tale separazione è impensabile. Vero è che Adorno non studiò Hegel
sistematicamente fin ben oltre gli anni dei quali ci stiamo occupando. È
tuttavia certo che egli conoscesse bene sia la persona che l'opera di Bloch,
e quindi un certo «sapore» dialettico hegeliano doveva essergli del tutto
noto 27 , infatti scrive, contro la separazione di empirico e intelligibile, che
chi interpretando ricerca dietro al mondo fenomenico un mondo in sé [...] si
comporta come chi in un enigma voglia ricercare il riflesso di un essere che gli sta
dietro, un essere che l'enigma riflette e dal quale si lascia sorreggere, laddove la
funzione della soluzione dell'enigma è quella di rischiarare a lampi e di sciogliere
(aufheben) la forma dell'enigma, non quella di persistere dietro l'enigma e d'essergli simile 28 .
L'enigma non è rappresentazione della sua soluzione, al contrario la
sua soluzione è espressione della falsità dell'enigma come qualcosa che
viene annientato da questa, e insieme la scoperta della necessità dell'enig­
ma come unica forma di testo possibile. La presenza di un residuo non
intenzionale nell'oggetto è traccia della dialettica di natura e storia; tanto
più questa si presenta come naturale - perdendo così la sua trasparenza
- tanto più quella diventa enigmatica, intreccio di natura e storia sotto
l'aspetto della sola natura. Che la natura debba comprendere in sé la storia
originaria del soggetto dalla quale ancora non s'è usciti, ed anche la storia
sociale riflessa, questo è quanto costituisce l'enigma. Non a torto allora
Adorno indica nella dialettica come riflessione contro l'originario e nel
25 B. Brecht, Gegen Verfùhrung, traduzione italiana con testo a fronte della poesia
si trova in B. Brecht, Poesie e canzoni, tr. F. Fortini e R. Leiser, Einaudi, Torino 1981.
Uria quartina della poesia è citata da Adorno in Terminologia filoso/tea.
26 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.
27 Cfr. S. Buck-Morss, The origin of negative dialectics, cit., p. 4.
28 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 7.
INTRODUZIONE
15
materialismo come prassi concreta contro la fonte dell'oscuramento, la
lettura critica che dalla stessa forma del falso - una volta compreso come
tale - può attingere il vero, secondo il classico schema marxiano della
critica dell'ideologia. Già qui è evidente come la soluzione dell'enigma sia
entrambe le cose: la soppressione del suo carattere di enigma e la sua
conservazione nel passaggio alla prassi. Ecco perché Adorno prende come
esempio di interpretazione filosofica proprio il passo in cui Marx rim­
proverava ai filosofi di aver meramente interpretato il mondo senza mu­
tarlo. E per lo stesso motivo Adorno non ha affatto in mente la prassi
come lotta politica, bensì parla esplicitamente di «prassi filosofica» che
deve passare dalla interpretazione alla modificazione del suo oggetto. Che
cosa sia tale prassi, e perché meriti questo nome, è spiegato poco oltre:
e - come le soluzioni degli enigmi si costruiscono mediante un procedimento che
consiste nel condurre gli elementi singoli e dispersi della domanda in differenti
disposizioni, fino a che essi non si riuniscano a formare una figura, da cui salti
fuori la soluzione, mentre la domanda dilegua - così la filosofia deve condurre i
suoi elementi, che essa riceve dalla scienza, in mutevoli costellazioni, o, per dirla
con una espressione meno astrologica e scientificamente più attuale, in mutevoli
tentativi di disposizione, fino a che essi formino una figura, che sia leggibile come
risposta, mentre la domanda dilegua 29 .
Si deve innanzitutto far attenzione a non confondere questa metafora
con un modello euristico: non è che il carattere enigmatico sussista solo
grazie alla sua configurazione, e che dunque per prova ed errore si possa
mutarla fino a che non salti fuori bella e pronta la soluzione. Ma neppure
l'enigma in quanto tale è, una volta svelato come enigma, la sua soluzione.
Carattere enigmatico e risposta stanno in opposizione, la lettura che dis­
solve il primo è la medesima che fornisce la seconda. Non si tratta in alcun
modo di sostituire la struttura dell'enigma come risposta alla domanda
determinata che l'enigma pone. Non perché tale struttura non esista; così
come quella linguistica o storica - e Adorno lo riconoscerà in più occasio­
ni - essa è scientificamente valida, ma quale che sia il suo potere assumerla
come origine e da essa trarre le leggi della interpretazione della cosa signi­
ficherebbe assumere a priori che la cosa si risolva interamente nella pro­
pria struttura, il che è proprio quel che Adorno fin da allora contestava.
Egli, in un certo senso, radicalizza l'idea di decostruzione delle varie mi-
16
CRITICA DEL NON VERPO
tologie sul soggetto, la volontà, l'intenzione e via dicendo, mostrando
come sia esse che il loro rischiaramento non siano dati ultimi né primi, ma
ancora e sempre formazioni scientifiche che costituiscono proprio il pro­
blema della filosofia, i suoi enigmi, con tanto di carattere demoniaco,
la filosofia deve procedere continuamente interpretando, con la pretesa alla verità
senza mai possedere una chiave certa dell'interpretazione e senza che le venga dato
qualcosa di più dei cenni fugaci che dileguano nelle figure enigmatiche dell'ente
e nei loro strani intrecci. La storia della filosofia non è altro che la storia di questi
intrecci; per questo sono dati cosi pochi «risultati»; per questo essa deve comin­
ciare sempre da capo; per questo essa non può fare a meno del più piccolo filo che
tempi remoti hanno filato e che forse completerebbe proprio l'ordito che potrebbe
trasformare le cifre in un testo 30.
Si fatica a trattenere le metafore adorniane in quella specie di limbo
tra l'uso moderno della metafora e il semplice poetico traslare, limbo che
possiamo chiamare costellazione, o meglio: campo di forze della costella­
zione. Che la filosofia debba pretendere alla verità è, oggi, tutt'altro che
pacifico - anche se pure questo stato di guerra contro la pretesa alla verità
sarebbe passibile di interpretazione come enigma, e la sua materia andreb­
be cercata probabilmente nello sviluppo della scienza come forza produt­
tiva e nel parallelo evolversi della filosofia come ricerca e strumento di
consenso. Ma ancora più sorprendente è il richiamo a che non si rinunci
finanche al «più piccolo filo che tempi remoti hanno filato». Non è chiaro
se si tratti di filatura filosofica, sociale o storica tout court. Se rileggiamo
la frase ricomponendola in una costellazione diversa troviamo: la storia
della filosofia è la storia degli «strani intrecci dell'ente», per questo essa,
la storia della filosofia, deve possedere tutti i fili degli intrecci al fine di
trasformare l'ordito, e cioè la propria storia, in un testo, e tramite questo
le cifre del reale, esse stesse in un testo. Parrebbe che Adorno non riesca
a tener distinti il destino della filosofia da quello degli enigmi reali, o detto
altrimenti: da quello degli enigmi dell'effettuale privo di intenzione. La
cosa è ulteriormente complicata da quanto è scritto poco oltre, che impa­
rare a leggere possa consentirci di bandire le forze demoniache che risie­
dono negli enigmi. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che le forze demoniache
siano proprio ciò che costituisce il carattere di enigma dell'enigma, e che
in qualche modo esse e la filosofia abbiamo in comune più di quanto si
30 Ibidem.
INTRODUZIONE
17
sospetti, al punto che essa legga se stessa in loro, e la soppressione del­
l'enigma come risposta, ovvero un variare dispositivo che sciolga l'enigma,
sia al tempo stesso compito e morte della filosofia; qualcosa di dialettica­
mente simile a quanto annunciato in Dialettica negativa: «l'utopia della
conoscenza sarebbe di aprire con concetti l'a-concettuale senza renderlo
identico a essi» 31 .
L'IDEA DI STORIA NATURALE
«L'intenzione vera e propria di ciò che dirò è volta ad abolire l'anti­
tesi tradizionale di natura e storia», «... la frattura fra soggetto e oggetto
che esso [l'illuminismo] vieta di colmare, diventa index della falsità pro­
pria e della verità» 32 . Queste due frasi si trovano rispettivamente nel sag­
gio Die Idee der Naturgeschichte e nel libro Dialettica dell'illuminismo. Il
testo del saggio è costituito da un discorso tenuto da Adorno alla Kant
Gesellschaft nel 1932. Segue dunque di un anno Die Aktualitàt der Philosophie. Ed è un saggio assai particolare. Intanto è un quasi ininterrotto
lapsus stilistico di Adorno: in esso, unica volta, egli utilizza parole e con­
cetti tratti dalla tradizione fenomenologica e ontologica, senza farne paro­
dia. È vero che ciò avviene in altri scritti ma quel che rende sorprendente
questa acquiescenza di Adorno verso una terminologia che ha combattuto
per tutta la sua opera, è che questo saggio è stato scritto dopo aver già
acquisito tutta la conoscenza necessaria (e non prima, come accade per
esempio alla tesi di laurea o alla tesi su Kierkegaard) a dire le stesse cose
ma con termini diversi. Ma poiché non è mai possibile dire le stesse cose
con termini diversi, quel che è detto in questo saggio non doveva, al
tempo, essere esprimibile in nessun altro linguaggio. Questo comporta che
uno dei punti fermi del pensiero di Adorno, l'idea di storia naturale ap­
punto che ritornerà sia nella Dialettica negativa sia nella Teoria estetica,
abbia avuto bisogno di esser formulato in un linguaggio estraneo, se cosi
si può dire, al pensiero del suo autore. La cosa è rilevante. Vediamo ora
di segnare le costellazioni principali del saggio, tramite di esse sarà possi-
31 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 21.
32 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 345; e M. Horkheimer &
Th.W. Adorno, Dialektik der Aufkldrung. Philosophische Fragmente, S. Fischer Verlag,
Frankfurt a. M. 1969, in italiano Dialettica dell'illuminismo, trad. R. Solmi, Einaudi,
Torino 1982, p. 47.
18
CRITICA DEL NON VERPO
bile avanzare un'ipotesi di spiegazione.
Il saggio comincia con la decifrazione del titolo, in particolare con
due definizioni - altra cosa che Adorno non farà mai più: iniziare con
delle definizioni! Anzi indicherà in più luoghi come l'esigenza di defini­
zioni iniziali sia il marchio di un pensiero filosofico reificato - una relativa
al termine 'natura' e l'altra al termine 'storia'. Il concetto di natura, segna­
tamente non la natura stessa, è «un concetto che volendolo tradurre nel
tradizionale linguaggio concettuale filosofico, si può rendere tout court
con il concetto di mitico. [...] Intendo con ciò quello che è insito da
sempre, quello che la storia umana porta come Essere ad essa congiunto
e supposto per destino, quello che in essa appare come a lei sostanziale» 33 .
'Storia' invece secondo l'autore: «significa quel modo di comportarsi degli
uomini [...] caratterizzato soprattutto dal fatto che in esso appare un ele­
mento qualitativamente nuovo, dal fatto che esso è un movimento che non
si svolge in pura identità [...] ma che fa emergere il nuovo e che acquista
il suo vero carattere nell'apparizione del nuovo» 34 .
Dopo queste definizioni di partenza, Adorno spiega le sue intenzioni,
vuole prendere le mosse criticando l'ontologia giacché
la questione sull'ontologia, come oggi viene posta, non è nient'altro che ciò che ho
inteso per natura 35- e più oltre? - è merito della questione ontologica aver elabo­
rato in maniera radicale l'inscindibilità degli elementi di natura e storia 36.
La proposta che vorrei avanzare, di fronte a queste «stranezze», è che
il tema della revisione della scissione tra natura e storia sia identico alla
tesi centrale della Dialettica dell'illuminismo, ovvero del rovesciamento
dell'illuminismo in mitologia e del mito in illuminismo. La trasposizione
della natura in mito ce la fornisce Adorno nello stesso saggio. Quella tra
storia e illuminismo può destare più dubbi. Tuttavia se ripercorriamo i
passaggi della dialettica dal mito all'illuminismo, troviamo che l'accezione
del tutto ampliata in cui questo secondo termine viene utilizzato da Ador­
no e Horkheimer, consente, ad esempio, di porre la religione e il sacrificio
33 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, p. 91; ho lasciato immutata la tradu­
zione di M. Tosti Croce: la scelta della maiuscola per la parola 'Sein' è, com'è evidente,
del tutto indecidibile traducendo dal tedesco, e tuttavia per il tono e il contenuto di
questo saggio, mi è sembrata del tutto appropriata.
34 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 92.
Ibidem, p. 99.
INTRODUZIONE
19
ad essa legato come primo illuminismo; qualcosa di simile a quanto soste­
nuto da Freud in Totem e Tabù. Anzi, il mito stesso è già una scissione
operata, che crea quel che poi dolendosi della scissione da forza al mito.
L'illuminismo è esattamente quel processo di scissione e allontanamento
che fa emergere ogni volta il nuovo. Col che ovviamente il vecchio viene
ricacciato nel mitico, e la paura di fronte all'ignoto viene sostituita dalla
paura di fronte all'obliato. Questo è per Adorno, e lo resterà anche nel­
l'ultima elaborazione della teoria estetica, il movimento del qualitativa­
mente nuovo per eccellenza: il movimento con cui sorge l'individuo, o
meglio detto la separazione tra oggetto e soggetto 37 .
Ma in questo saggio «manca» ancora, rispetto al capolavoro scritto
con Horkheimer, un'analisi della relazioni tra l'illuminismo e il mito all'in­
terno del concetto stesso - o della ragione, se si preferisce - che sia
autenticamente dialettica. Questo fa sì che per esprimere la natura come
storia - l'emergere dell'azione umana entro il mito, secondo le definizioni
appena riportate - si debba far riferimento ad un rapporto tra idee, e
quindi all'ontologia che ha il merito di «aver elaborato in maniera radicale
[...] natura e storia». Si potrebbe anzi azzardare che l'ontologia delle idee
di storia e natura lasci scoperto e accessibile un campo che, dopo le analisi
della Dialettica dell'illuminismo sul mito, risulterà chiuso per sempre con
la proibizione scritturale di farsi immagini, e cioè l'elemento utopico di
uscita dalla falsa alternativa tra mito e illuminismo. Questa ipotesi rende­
rebbe anche ragione della funzione che qui Adorno assegna alla benjaminiana allegoria (anch'essa simbolo della storia impietrita); funzione che in
seguito verrà svolta differentemente dall'interpretazione nella dialettica
negativa.
Ma vediamo come Adorno disegna l'idea di storia naturale. La sezio­
ne al riguardo inizia col riportare un testo di Lukàcs sulla «seconda natu­
ra», e passa poi a esaminare la categoria benjaminiana di allegoria. «Benjamin parte dal fatto che l'allegoria non è un rapporto di mere casualità
secondarie; l'allegorico non è un segno casuale per un contenuto in esso
sotteso; piuttosto tra l'allegoria e il pensato allegoricamente esiste un rap­
porto causale: "l'allegoria è espressione"» 38. Oltre a non essere segno di
5 ' È poi certamente vero che i passaggi di tale movimento sono molteplici. La
divisione del lavoro, il progresso scientifico, il mercantilismo, e via dicendo, sono altret­
tanti punti nodali indicati da Adorno in varie sue opere. Nessun dubbio tuttavia che
nella Dialettica dell'illuminismo questa prima scissione sia la fondamentale.
58 Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschtchte, p. 358. Adorno sta citando una
frase di Benjamin «Allegorie sei Ausdruck» che si trova nel // dramma barocco tedesco.
20
CRITICA DEL NON VERPO
una causalità, l'allegoria come espressione non è neppure simbolica d'una
essenza non concettualizzabile; piuttosto si dovrebbe dire che nell'mterpretazione filosofica essa si sostituisce alla funzione sintetico-appercettiva
del simbolo ma senza rassomigliargli. Scrive Adorno che
da tempo l'interpretazione si è separata da ogni domanda relativa al senso; detto
in altri termini, i simboli della filosofia sono andati in rovina. [...] La filosofia [...]
deve imparare a farcela senza la funzione simbolica, nella quale finora, almeno
nell'idealismo, il particolare pareva rappresentare l'universale 39 .
È così evidente che, a meno di postulare una contraddizione infecon­
da, allegoria e funzione simbolica sono profondamente diverse. Alla pre­
tesa simbolica, che l'altra metà della verità sia nascosta e solo pagando la
contromarca del simbolo essa sia immediatamente disponibile a introdurre
alla totalità, si contrappone l'allegoria, dove rapporto causale e espressione
sono identici e dunque non possono venir attraversati né percorsi con
dirczione univoca: «... la relazione tra ciò che appare allegoricamente e ciò
che è significato non è affatto una relazione di segno casuale; si verifica
piuttosto un fatto particolare, essa è 'espressione'» 40. Detto a nostra volta
in altri termini, si potrebbe dimostrare che la «soluzione del simbolo» è
la verità del simbolizzato, in presenza del quale il simbolo sarebbe inutile
e immobile; mentre la soluzione dell'allegoria non è la soppressione del­
l'allegorico, giacché se nel rapporto espressivo si toglie l'espressione nulla
più conduce all'espresso. Solo il segno sta per il segnato, nell'allegorico è
il rapporto espressivo che sta per l'allegorizzato, un rapporto che sta per
una sua parte: una sineddoche.
Con il che il paragone con l'enigma si ribalta: se l'oggetto dell'interpretazione fosse preso come simbolo allora in esso si troverebbe già pron­
ta la verità, l'altra metà dell'apparenza - ma nell'interpretare l'allegoria si
scioglie il carattere espressivo affinchè l'espresso giunga alla luce: ciò che
si svolge e si esprime nello spazio dell'allegoria «non è nient'altro che un
rapporto storico. Il tema dell'allegorico è semplicemente la storia» 41 . Di
fronte ad esso «si tratta non di concetti da spiegare traendoli l'uno dall'al­
tro, ma di fissare una costellazione di idee» 42 ; ecco ripetuta, quasi uguale,
'9 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.
40 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 102.
41 Ibidem. Corsivo mio.
42 Ibidem, p. 103. Corsivo mio.
INTRODUZIONE
21
la formula del gioco di combinazioni proposta da Adorno a proposito
della soluzione dell'enigma.
È possibile adesso pensare che, nonostante tutto questo, non si dia
nulla se non nella forma dell'allegorico enigma? Nulla, nel senso di: nulla
di originario? e che quindi l'uccisione dell'enigma significhi solo una per­
dita di senso? Se Adorno sostiene «come la risposta relativa all'enigma
non sia il "senso" dell'enigma [e che] la risposta sta [...] in stretta antitesi
all'enigma; essa ha bisogno della costruzione a partire dagli elementi del­
l'enigma ed essa distrugge l'enigma stesso» 43 , non sarebbe piuttosto da
dire che la risposta distrugga il carattere di enigma dell'enigma ma non il
suo materiale? Cosa vuoi dire altrimenti che la risposta deve essere costru­
ita a partire dagli elementi dell'enigma, e che anzi, la risposta stia in una
diversa configurazione, o costellazione, degli elementi materiali dell'enig­
ma?
La storia in tutto quanto ha - Adorno sta citando da Benjamin -, fin dall'inizio,
di inopportuno, di doloroso, di sbagliato si configura in un volto - anzi: nel teschio
di un morto [...] non soltanto la natura dell'esistenza umana tout court, ma anche
la storicità biografica di un singolo si esprime significativamente, in forma di enig­
ma, in questo suo aspetto, l'aspetto naturale supremamente degradato. E questo
il nucleo della concezione allegorica, dell'esposizione barocca, mondana della sto­
ria [...]; che è significante soltanto nelle stazioni del suo decadere. Tanto è il
significato e tanto è l'abbandono alla morte, perché è la morte che più profonda­
mente scava la merlettata linea di demarcazione tra la physis e il significato 44 .
Prima del passo qui riportato Benjamin distingueva il simbolo dall'al­
legoria in base al rapporto che istituiscono nella caducità: il simbolo tra­
sfigura la caducità facendo apparire il «volto trasfigurato della natura nella
luce della redenzione», mentre nell'allegoria «si propone agli occhi dell'os­
servatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio
primevo» 45 - Adorno commenta:
Che cosa significa parlare qui di caducità e che cosa vuoi dire storia originaria del
significare? [...] Si tratta non di concetti da spiegare traendoli l'uno dall'altro, ma
di fissare una costellazione di idee: cioè l'idea della caducità, del significare e l'idea
43 Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.
44 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, p. 103. Adorno sta citando da: W.
Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin 1928, p. 178. Traduzione italia­
na: // dramma barocco tedesco, a cura di E. Filippini, Eindaudi, Torino 1971.
45 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., pp. 102-03.
22
CRITICA DEL NON VERPO
della natura e l'idea della storia. A queste non si ricorre come invarianti. [...] In
Benjamin c'è innanzitutto la concezione - ed è questo il punto da superare - che
esistano alcuni fondamentali fenomeni storico-originarii che, presenti alle origini,
sono poi trapassati e, assunto significato solo nell'allegorico, ritornano in esso,
ritornano nel loro aspetto letterale. [...] Il termine "significato" ci dice che i
momenti 'natura' e 'storia' non si risolvono uno nell'altro, ma piuttosto erompono
contemporaneamente l'uno dall'altro e si intersecano in maniera tale che il natu­
rale si presenta come segno per la storia, e la storia, anche nel suo lato più schiet­
tamente storico, come segno per la natura. [...] In eguai modo il "significare"
stesso si trasforma da problema dell'ermeneutica storico - filosofica [...] in mo­
mento che transustanzia, per sua stessa costituzione, la storia in storia originaria 46 .
Si deve innanzitutto cercare di chiarire che cosa è in gioco in questo
confronto. Si tratta della questione della verità - detto nel modo più
chiaro tra quelli possibili: solo se esiste una soluzione all'enigma tale per
cui l'enigma scompaia si può opporsi al relativismo, o a uno storicismo
frainteso, ma se quel che ci si ritrova dopo la scomparsa dell'enigma è la
nuda e pura verità, allora si cade nelle braccia della verità extratemporale,
eterna, metafisica. Se il tema dell'allegorico è la storia, e se essa giunge in
questo ad espressione perché analoga è la struttura dell'uno e dell'altra,
allora l'allegoria è in grado di comprendere non solo l'apparenza della
successione temporale degli eventi ma in questa anche quel privo di inten­
zione che, vedremo, costituisce propriamente l'oggetto da interpretare,
ricollegando i suoi fili. Chiariamo con un esempio; il cristianesimo è paradigmatico della ricostruzione simbolica della storia, in esso il significato
è predisposto agli avvenimenti che si ordinano gerarchicamente rispetto
all'unico evento, il Cristo - e ogni deviazione è, per quanto significativa,
accidentale, anzi la sua significatività si costruisce proprio ex negativo
rispetto al corso della storia. Questo è il modello concettuale di storia
simbolica (si badi bene: il concetto di storia simbolica, non la storia sim­
bolica), dove il senso trascorre senza rischio dall'evento agli avvenimenti.
La costruzione allegorica, al contrario, non si affida alla rappresentazione
bensì all'wterpretazione, e il significato non è disponibile nel testo ma va
ottenuto tramite il testo nella disposizione dei suoi materiali. Così il testo
è cieco ma l'interpretazione non si sostituisce ad esso - non è, nella ter­
minologia di questi lavori adorniani, la spiegazione dell'enigma che lo
dissolve, come se sotto di esso si mostrassero, entrambe autentiche, do­
manda e risposta; bensì l'enigma è l'allegoria da interpretare. Non solo;
Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 360.
INTRODUZIONE
23
questo problema, centrale nella teoria estetica come rapporto tra l'opera
d'arte e il suo significato, ha anche la sua facies hippocratica appunto, cioè
quella che concerne l'interpretazione finita o infinita, e soprattutto la
possibilità che essa ottenga di uscire dall'orbita schiacciante del testo;
questione che ci riporta all'assunto critico iniziale, che cioè natura e storia
siano oggetti dell'interpretazione critica in quanto «idee» risultanti dal
processo dialettico stesso di natura e storia, e non identità ontologiche.
Adorno commentando la categoria di «seconda natura» di Lukàcs
spiega: la storia degli uomini si irrigidisce a natura, essi la trovano estra­
nea, priva di intenzione, meglio: come se fosse priva di intenzione - la
storia quando appare immutabile e mitico destino del genere umano as­
sume i tratti della natura 47 , ma la stessa dialettica coinvolge anche l'imma­
gine naturale. La natura irrigidita è storica, il privo di intenzione, quel che
davvero resta oggi come natura, è relativo all'intenzionale che pure oggi
appare come mitico e naturale. La costituzione della natura e della storia
è storica, non nel senso di uno storicismo, o relativismo, assoluto, ma nella
dirczione di un totale abbandono dell'idea stessa di immediato. L'idea di
storia naturale ha il suo telos in questo: la storicizzazione della natura
corrisponde alla sua secolarizzazione. E una mossa del pensiero illumini­
stico, una sua autocritica, perché riconosce l'istituzione del significato
come legata alla istituzione del soggetto. E questo è lo skandalon della
filosofia naturale di Adorno: «II termine "significato" ci dice che i momen­
ti 'natura' e 'storia' non si risolvano l'uno nell'altro, ma piuttosto erompo­
no contemporaneamente l'uno dall'altro» 48 . Se non c'è risoluzione possi­
bile questo significa, in una categorizzazione in un certo senso pre-dialettica, che come signoria e servitù ognuno abbisogna dell'altro come suo
altro per poter essere se stesso, e quindi «... il naturale si presenta come
segno per la storia, e la storia [...] come segno per la natura» 49 . È la
relazione dialettica che è da riconoscere nel carattere di «segno» che l'una
per l'altra assumono natura e storia: «In eguai modo il "significare" (bedeuten] stesso si trasforma da problema dell'ermeneutica storico-filosofica
(addirittura da problema nel senso trascendentale) in momento che transustanzia, per sua stessa costituzione, la storia in storia originaria» 50 . Ed
47
48
49
5(1
Ibidem.
Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 104.
Ibidem.
Th.W. Adorno, Die Idee der Naturgeschichte, cit., p. 360.
24
CRITICA DEL NON VERPO
è proprio per questo che in Benjamin «si parla di storia originaria del
significare» 51 ; non perché si possa allegoricamente riferirsi ad un lingua
adamitica, bensì perché la storia originaria del significare non è problema
ermeneutico (nel senso ristretto che Adorno dava a questa parola di 'filo­
logia interpretante') ma a pieno titolo dialettica dell'illuminismo, spiega­
zione della costituzione dell'uomo e in uno della natura come unità della
differenza e diversità nell'identità: «qualsiasi critica filosofica oggi è pos­
sibile come critica del linguaggio» 52 .
Poiché la filosofia non accetta nulla come dato primo, nemmeno il
significato e il suo contrario, il privo di significato, o il privo di intenzione,
sono da essa accettati come origine.
Il grido di terrore con cui è esperito l'insolito, diventa il suo nome. [...] Lo sdop­
piamento della natura in apparenza ed essenza [...] nasce dalla paura dell'uomo,
la cui espressione diventa una spiegazione... In cui è già implicita la separazione
di soggetto e oggetto. Se l'albero non è più considerato solo come albero, ma come
testimonianza di qualcos'altro, come sede del mana, la lingua esprime la contrad­
dizione, che una cosa, cioè, è se stessa e insieme è qualcos'altro da ciò che è,
identica e non identica. Tramite la divinità il linguaggio diventa, da tautologia,
linguaggio".
Ma allora, su quali basi comporre e interpretare l'allegorico?
LA ESATTA FANTASIA
II ricorso alla facoltà d'una esatta fantasia si trova in posizione cen­
trale per lo meno in tre testi di Adorno: la Teoria estetica, i Tre studi su
" Per questo tema cfr. W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M.
1955, in italiano: W. Benjamin, Angelus Novus, tr. R. Solmi, Einaudi, Torino 1962; in
particolare i saggi: II compito del traduttore, Sulla lingua in generale e sulla lingua
dell'uomo, Sulla facoltà mimetica.
È curioso che proprio W. Benjamin abbia commentato, per la radio berlinese, dal
1929 al 1932, tra le altre, la leggenda di Kaspar Hauser, che tratta proprio della «na­
scita» a quarantenni di un uomo che fino ad allora era rimasto chiuso in una torre.
L'esperienza fondamentale è proprio di tipo linguistico-concettuale. Cfr. W. Benjamin,
Aufklàrung fùr Kinder. Rundfunkvortràge. Hrsg. von R. Tiedemann, Surhkamp Verlag,
Frankfurt a. M. 1985.
52 Th.W. Adorno, Thesen iiber die Sprache des Philosophen, cit., p. 369.
55 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 22-23.
INTRODUZIONE
25
Hegel e i Minima moralia™. Nel discorso Die Aktualitdt der Philosophie,
essa compare per la prima volta in campo filosofico. Eravamo giunti,
prima di addentrarci nella questione allegorica, alla delucidazione sul fatto
che il metodo di variare il materiale per ottenere tramite nuova disposizio­
ne il dileguare dell'enigma avesse suo nome proprio: dialettica, in partico­
lare la dialettica di Marx. Commentando questo passo si era richiamata
l'attenzione sul fatto che solo tramite il riferimento a Marx si comprende
perché Adorno chiami la lettura atto fondamentale e soprattutto prassi
teoretica. In seguito Adorno riprende e integra la critica sia al relativismo
storicista che alle invarianze psicologiche, compare il nome di Klages e
inizia a chiarirsi il rapporto tra l'arte di disposizione del materiale e l'al­
legoria. Infine leggiamo:
Nella trattazione del materiale concettuale da parte della filosofia non parlo a caso
[...] di costruzione e di costellazione. Infatti le immagini storicbe [...] non sono
semplice autodatità. Esse [...] debbono venire prodotte dagli uomini e legittimarsi in
definitiva solo attraverso il fatto che la realtà si condensa intorno a loro in maniera
stringente. [...] Esse sono i modelli con i quali la ratio si avvicina [...] a una realtà
che sfugge alla legge. [...] Si può vedere qui un tentativo di riprendere quella
vecchia concezione della filosofia che Bacone formulò e sulla quale Leibniz di
affaticò una vita: una concezione che l'idealismo derise come stravagante: quella
della ars inveniendi. "
Reso chiaro intanto quanto sopra affermato, e cioè il carattere storico
e non psicologico del privo di intenzione e del suo carattere enigmatico,
Adorno chiama in soccorso un nome da tempo caduto in proscrizione.
Non è solo la provocazione a dettar legge. Ci ritroviamo bensì di fronte
allo stesso problema che più tardi molti critici Vl indicheranno sotto la
54 Th.W. Adorno, Astetische Theorie, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1970. In Italiano: Teoria estetica, tr. E. De Angelis,
Einaudi, Torino 1975; Th.W. Adorno, Drei Studien ^u Hegel, op. cit., ; Th.W. Adorno,
Minima moralia. Reflexionen aus dem bcscbadigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt
a. M. 1951. In italiano Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. R. Solmi.
Einaudi, Torino 1954. In questo testo il tema della «esatta fantasia» viene elaborato
all'interno di una teoria dell'esperienza, esso prende pertanto nomi diversi. Si guardi
per esempio l'ultimo aforisma.
" Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 10. Corsivo mio.
56 Cfr. i saggi: G. Pasqualotto, Teoria come utopia, studi sulla scuola di Francoforte, Bertani, Verona 1974; M. Pretti, Homo teoreticus, Franco Angeli, Milano 1978;
ancora M. Pretti, Teoria come prassi e «politico» m Th. W. Adorno, in «Rassegna italiana
di sociologia» XX, 1980, n. 2, pp. 265-90. Inoltre i volumi collcttane!: a) Die Neue
26
CRITICA DEL NON VERPO
celebre frase dei Minima moralia: «Non si da vita vera nella falsa» 57 . Se
tutto è falso, nel senso che nulla è sottratto alla mediazione falsificante
della forma mercé, a partire da che cosa è possibile la critica? qual è il
punto archimedeo? Adorno lo esprime con la metafora del Barone di
Mùnchhausen che si solleva da sé afferrandosi per il codino 58. In realtà
una categoria estremamente affilata di «esperienza» si proporrà di risolve­
re negli scritti degli anni Sessanta questo problema. Tuttavia quel che qui
interessa è la proposta dell'^ry inveniendi, il fatto che tanto presto compaia
l'idea della fantasia come struttura interpretativa della storia, meglio: delle
immagini storiche, è estremamente importante. In un saggio del 1950,
Adorno cita dal manoscritto benjaminiano dei Passagen, a proposito delle
«immagini dialettiche»:
queste immagini sono proiezioni del desiderio, e la collettività cerca in esse sia di
eliminare che di trasfigurare l'imperfezione del prodotto sociale. [...] Nel sogno in
cui, ad ogni epoca, si presenta in immagini la seguente, questa appare sposata ad
elementi della preistoria, cioè di una società senza classi. Le esperienze della quale,
depositate nell'inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuo­
vo, l'utopia, che ha lasciato le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle
costruzioni durevoli alle mode effimere.
E così commenta:
tali immagini erano tuttavia per Benjamin qualcosa di più che archetipi dell'incon­
scio collettivo come in Jung: per esse egli intendeva delle cristallizzazioni obiettive
del movimento storico e le denominò col nome di immagini dialettiche 59 .
Linke nach Adorno, hrsg. von W.F. Schòller, Mùnchen 1969; b) Hamburger Symphosion, hrsg. von M. Lòbig und G. Schweppenhàuser, Dietrich zu Klampen Verlag,
Lùneburg 1984; e) Die frankfurter Schule im Licht des Marxismus, materiali dello Istituì
fùr marxistische Studien und Forschungen, raccolti in occasione di due giornate di
studi in occasione del centenario della nascita di Lenin, Frankfurt a. M. 1970.
57 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 35.
58 È questa una delle metafore più spesso usate da Adorno. La si ritrova, ad
esempio, sia nei Minima moralia, che nella Terminologia filolofica e nella Dialettica
negativa. Indica il pensiero senza fondamenti, cioè per Adorno, quello che non si
preoccupa di partire dalla doxa e procedere in forma raposodica. Cfr. Th.W. Adorno,
Philosophische Terminologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1973; ed. it. Termino­
logia filosofica, a cura di Anna Solmi, Einaudi, Torino 1975. Il testo raccoglie lezioni
tenute da Adorno a Francoforte nel 1962-63. La cura dell'edizione tedesca è di R.Z,
Lippe.
59 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.
INTRODUZIONE
27
Com'è facile vedere in questa citazione compaiono molti dei termini
che costituiscono il problema anche del saggio del 1931 del quale ci stia­
mo occupando. Aggiungiamo un'ultima citazione da Die Aktualitdt der
Philosophie prima di passare al commento; è la parte immediatamente
seguente a quella suil'<m inveniendi:
Organo di questa ars inveniendi è la fantasia. Una fantasia esatta, una fantasia che
si trattiene con fermezza sul materiale. [...] Se l'idea di interpretazione filosofica
[...] sussiste a buon diritto, allora essa si lascia esprimere come esigenza di dare
risposta alle domande di una realtà che si trova davanti, mediante una fantasia che
raggnippa assieme gli elementi della domanda, senza andare al di là del perimetro
degli elementi stessi, e la cui esattezza diviene controllabile al dileguarsi della
domanda 60.
Se si potesse dire che «cifrato nel privo di intenzioni» sia il rapporto
tra soggetto e oggetto - nota dolente della filosofia tutta - allora il richia­
mo alla fantasia come arte dislocatrice si chiarirebbe; perché dislocare non
significa solo rimescolare le carte a casaccio nell'attesa che esca la combi­
nazione vincente. Del materiale enigmatico - nell'ipotesi sia il rapporto tra
soggetto e oggetto, nelle varie forme che questi assumono - è parte inte­
grante il soggetto. Ovvero: dislocare è impiegare un atteggiamento dialet­
tico che riguarda anzitutto il soggetto. In questo senso la fantasia è la
facoltà adatta a questo operare nella misura in cui è libera dalle costrizioni
dell'empirico immediato, tanto quanto dalle illusioni di interezza del sog­
getto. Che essa abbia poi il modello nella pratica del materialismo dialet­
tico richiama alla mente in modo quasi letterale Marx: il rapporto tra
soggetti e oggetti non è teoretico ma pratico, è un rapporto che si deter­
mina e si concretizza in particolari modi di produzione. Il commento a
Benjamin conferma questa proposta interpretativa. Alla dialettica spettava
il nome della decifrazione degli enigma perché essa da il «modello delle
soluzioni delle quali solo la prassi materialistica dispone» 61 , ovvero quello
secondo il quale la risposta non deve lasciare intatta la domanda. La
nozione di modello ritorna anche a proposito dell'esatta fantasia, -citata
poco più sopra, in esso la 'transustanziazione' di Adorno e la 'trasfigura­
zione' del passo di Benjamin trovano comunanza. Si tratta di un doppio
legame: da un lato non esistono immagini che non siano già una trasfigu-
Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 10.
Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.
28
CRITICA DEL NON VERPO
razione, come si esprime Benjamin, dall'altro esse giungono al presente
sotto forma fratta e l'opera della filosofia consiste nel porre il loro mate­
riale in modo che il carattere enigmatico si transustanzi e dilegui. È, detto
metaforicamente, la messa in dialettica del celebre «intuizioni cieche e
concetti vuoti», con in più la consapevolezza che anche questa, come tutte
le immagini dialettiche, possiede la sua storia; la prima interpretazione è
compiuta dal soggetto sotto pressioni irrimediabili: essa consiste nel­
l'espulsione di «parti del testo» affinchè in esso non sia leggibile la sua
origine. Compito della filosofia è secondo Adorno quello di disporre le
parti presenti, senza credere loro ma senza tuttavia aggiungere nulla dal di
fuori, affinchè esse da cifra e frammento assumano l'aspetto di un testo.
Testo è cioè: qualcosa di umano e sociale che parla di altro da sé. La esatta
fantasia fa appello negativo critico: si contrappone al metodo della legge
scientifica, per la quale il vincolo al pensiero razionale (nel senso della
Dialettica dell'illuminismo) è insuperabile.
Ma qual è il movimento nel quale si compie la fantasia? e che signi­
fica l'aggettivo «esatta»? Nel saggio Thesen ùber die Sprache des Philosophen scrive Adorno che «la differenza tra forma e contenuto nel linguag­
gio filosofico non è una disgiunzione eterna e senza storia. Essa si richiama
esplicitamente al pensiero idealistico: corrisponde all'idealistica differenza
di forma e contenuto della conoscenza» 62 . Differenza che, si chiarisce
subito, è falsa e tuttavia non revocabile d'un gesto, che anzi forse proprio
la sua revocabilità costituisce il principale problema della filosofia, nonché
suo compito. A tale differenza si associa il bolso pretendere che «si parli
chiaro», pretesa che, prima di ogni altra, suppone che lingua e cose stiano
in buono rapporto tra di loro, un rapporto appunto per il quale cosa e
parola entrino serenamente in contatto senza bisogno di alcuna tensione
da parte del linguaggio 63 . Non solo, ma tale pretesa è per lo più avanzata
da coloro ai quali il ruolo sociale nella oscurità del parlar filosofico non
dovrebbe essere del tutto incomprensibile, come sostiene Adorno:
«L'astratta idealistica pretesa che siano adeguati linguaggio, oggetti e so­
cietà, è l'esatto contrario della effettività del linguaggio reale (wirklicher
Sprachrealitàt]» M . Il potere del linguaggio, insomma, tanto quanto i suoi
limiti non sono sovrastorici ma dipendono dalla configurazione nella quale
Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 366.
Ibidem, pp. 366-67.
Ibidem, p. 367.
INTRODUZIONE
29
è sorto e dal rapporto di questa con l'attuale - perché il linguaggio è
fenomeno sociale: «senza società conchiusa non si da alcuna obiettività, e
con ciò nessun linguaggio vero e comprensibile» 65 . Anche se in effetti la
connessione tra linguaggio e società non è in questo saggio esplicitata con
chiarezza, è sufficiente, per ora, riassumere l'idea che il linguaggio cifri la
realtà del privo di intenzione in una immagine enigmatica, la risposta alla
quale consiste nel far sparire il carattere di enigma, tramite disposizioni
diverse del medesimo materiale, affinchè ne salti fuori il carattere storico
come segno della natura e quello naturale come cifra della storia - un'al­
legoria interpretativa che veda nel morto le cifre del sogno del futuro, e
che abbia un nesso causale espressivo con la storia: questo è il linguaggio,
nella cui forma è sedimentato il contenuto. Nessuno dei fili di tale sedi­
mentazione è non indispensabile: attraverso di essi la filosofia può, forse,
ricostruire il testo e se stessa. «Ogni critica filosofica è oggi possibile come
critica del linguaggio» e aggiunge Adorno, tale critica significa domandare
la propria verità alle parole e alle cose, citare in giudizio il linguaggio, ma
altrettanto le cose.
Un'altra maniera per indagare la questione è di rivolgere attenzione
alla facoltà del nominare le cose, cioè all'aspetto intensivo del concetto. La
posizione di Adorno nella querelle tra nominalismo e realismo è sempre
stata estremamente dialettica 66: per un verso il realismo mente quando
pone come originaria l'essenza della cosa e da essa fa discendere, a secon­
da delle correnti, o la non esistenza della cosa (individuo significa: sogget­
to assoluto, se nessun uomo è soggetto assoluto allora nessun uomo è un
individuo) o la reale esistenza dell'essenza (l'uomo è essere per essenza
libero, ergo in ultima istanza, qualunque uomo è già ora e adesso libero
semplicemente per il fatto di essere uomo), ma per altro verso esso ha
perfettamente ragione contro il nominalismo sulla pretesa di poter chia­
mare il giudizio la realtà quanto non corrisponde al suo proprio concetto.
Per il semplice fatto che gli uomini, secondo le parole scritturali, pur non
essendo la loro testa il mondo, hanno tutto il mondo nella loro testa.
Questa posizione, è facile vedere, resta fedele all'idea che la differenza tra
forma e contenuto sia da criticare e insieme innegabile. Ma come è pos­
sibile far funzionare i nomi realisticamente senza dar loro spessore onto65 Ibidem.
66 Per un'analisi di questo tema ci si potrebbe servire delle pagine della Termino­
logia filolofica, cit., pp. 16-28, 39-40, nonché l'interessantissima «difesa» adorniana
della prova ontologica alle pp. 92, 95 e 100 e sgg.
30
CRITICA DEL NON VERPO
logico e metafisico? «[...] nuove parole dei filosofi si configurano oggi
solamente come modificazione (Verànderung) della configurazione delle
parole, che stanno nella storia, e non nella creazione di una nuova lin­
gua» 67 , risponde Adorno, quasi che la possibilità di avere parola sia iden­
tica all'operazione che si compie per sciogliere gli enigmi: variare la costel­
lazione materiale, fino a quando il carattere mitico e enigmatico non scom­
paia. Meglio: non si muti in altro, all'interno della prassi filosofica, per far
scomparire il demoniaco stesso, forse. Adorno è singolarmente vicino alla
concezione della inutilità di cercare nelle singole parole verità o falsità, ma
bensì nella loro configurazione. Tranne per il fatto che nelle parole è
sedimentata la storia:
... [la] critica del linguaggio non deve solamente investire la mera «adeguazione»
di parola e cosa, bensì altrettanto la situazione delle parole in se stesse; si deve
chiedere alle parole fin dove siano idonee a portare a conclusione (tragen) la loro
pretesa intenzione, fin dove la loro forza storica si sia consumata, fin dove esse
possano affermare qualcosa configurativamente... 68 .
Le parole hanno quindi un lato realistico poiché in esse è compresa
una intenzione, e questa è al contempo il loro lato sociale. Ma esse sono
anche dei puri nomi ai quali nulla vale, se nulla corrisponde, contrapporre
come desiderio. Ciò in forza di cui è possibile scavare con le e nelle parole
è il loro «carattere di linguaggio figurativo». Ma «figurativo» e «esatta
fantasia» hanno già troppo in comune, meglio affrettarsi a precisare che
qui Adorno non ha affatto in mente un linguaggio carico di pathos, o con
variazioni melodiche, o retoriche etimologiche; proprio Heidegger è citato
come esempio negativo del tentativo di restituire alle parole la loro dignità
qualche riga prima. Il carattere figurativo si riferisce qui alla «configura­
zione», mutando la quale è possibile creare un linguaggio che possa essere
portatore di vero, e comprensibile.
Configurazione; è già stato incontrato questo termine negli altri due
saggi, come documentato da Pierre V. Zima in Adorno et la crise du
langage... 69 esso non è altro che una variazione terminologica, che verrà
poi definitivamente abbandonata, della costellazione. Questo vuoi dire
67 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 368.
68 Ibidem, pp. 369-70.
69 P.N. Zima, La crise du langage, cit., ma cfr. anche: a) M. Jay, Th.W. Adorno,
II Mulino, Bologna 1987; b) M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.
INTRODUZIONE
31
che solo un linguaggio in forma di costellazione può esprimersi senza
tradire. Un linguaggio in costellazione dove «la struttura reale di un'imma­
gine filosofica può già stare in una tensione figurativa con la sua propria
struttura linguistica» 70 . Differenza tra struttura della cosa e struttura del
linguaggio che diventa produttiva: la domanda è: su quale delle due si
debba calare l'esatta fantasia della quale andiamo cercando ragione?
Il tema dell'allegorico è «semplicemente» la storia, «un rapporto
storico tra ciò che appare, la natura apparente, e ciò che è significato, vale
a dire la caducità» 71 . Solo quel che è stato, in quanto non è più, o meglio
è come forma cifrata, è in grado di esprimere significativamente la natura
dell'esistenza umana. Il significato come il significare sono originari, nel
commento di Adorno, perché dell'istitutiva distanza tra soggetto e oggetto
fanno tema di esposizione: «Si deve partire dal fatto che la storia, così
come ci si presenta, si configura come completa discontinuità in quanto
contiene non solo fatti e avvenimenti disparati, ma anche disparità di tipo
strutturale» 72 . Tale discontinuità è la stessa categoria di caducità che
Benjamin e Lukàcs hanno rappresentato nel testo di Adorno. Ora quando
Adorno critica la filosofia che ha bisogno per farcela della funzione sim­
bolica è perché «la funzione, che la domanda filosofica tradizionale si
aspettava da idee sovrastoriche e simbolicamente significative, viene inve­
ce svolta da idee a-simboliche intrastoricamente costruite» 73 . Insomma: la
categoria di simbolo viene rifiutata perché, ad avviso di Adorno, in essa
non è possibile immettere appieno la dimensione storica, proprio perché
il simbolo è funzione di superamento della storia anche quando simboleg­
gia per eccellenza l'inizio della storia - la croce cristiana. O più propria­
mente si tratta di una differenza tra due tipi di storia; la prima intenzio­
nale, sensata e progressiva, le seconda discontinua, continuamente costret­
ta a cifrarsi in allegorie, e dispiegare le proprie differenze temporalmente,
nella caducità che fa sì che ogni morto passato rappresenti la cifra del
presente, come il teschio di Benjamin,
«... secondo la mia concezione, la storia non sarebbe più il luogo a partire dal
quale le idee si elevano, si pongono in risalto da sole e scompaiono di nuovo, ma
le immagini storiche sarebbero esse stesse idee e sarebbe la loro connessione ad
'" Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 370.
71 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 102.
72 Th.W. Adorno, L'idea di storia naturale, cit., p. 105.
'' Th.W. Adorno, L'attualità della filosofia, cit., p. 8.
32
CRITICA DEL NON VERPO
accertare la verità priva di intenzione, invece che la verità a venire nella storia
come intenzione» 74 .
Le immagini storiche, nelle quali è cifrata la natura come storia e la
storia come natura, sono esse stesse idee di una verità non intenzionale, e
la loro connessione, parente stretta della costellazione degli elementi
materiali dell'enigma, come della disposizione strutturale nuova delle pa­
role, è anzi l'unico criterio per accertare la verità. Cosa sia una connessio­
ne di immagini di una realtà che è radicalmente discontinua è difficile da
immaginarsi. E tuttavia è da ricordare il passo nel quale Adorno sostiene
che la filosofia sia in grado di leggere nella propria discontinuità se stessa
e tramite di ciò anche attaccare il demonico che l'ha costretta a «nascondersi» in enigmi. Secondo questa suggestione, così, la discontinuità storica
sarebbe la porta di ingresso dell'interpretazione, che non prende nulla per
proprio dato, ma anzi lo sfrutta affinchè tramite nuove composizioni degli
elementi scompaia il carattere di enigma:
la filosofìa [...] si tratterrà là dove la realtà irriducibile fa irruzione. [...] L'irruzione
dell'irriducibile si compie in maniera concretamente storica e perciò la storia or­
dina l'alt al movimento del pensiero verso i presupposti. La produttività del pen­
siero può dialetticamente dar buona prova di sé soltanto nella concrezione storica.
Entrambe vengono in comunicazione attraverso i modelli 75 .
Anche le immagini originarie sono descritte come «modelli», così
come anche la fantasia esatta, organo della ars inveniendi, «si trattiene con
fermezza sul materiale», allo stesso modo della filosofia nei confronti della
concrezione storica, - l'incontro finale avviene nei modelli, dunque nelle
immagini storiche, che sono «idee» la cui connessione, costellazione creata
dalla ars inveniendi, accerta la verità del privo di intenzioni. L'organo della
ars inveniendi, la fantasia esatta, è organo nel senso letterale: organo di
senso, non metodo o mezzo tecnico. Non si tratta di fantasticare tutte le
soluzioni possibili, sperando che ne cavi fuori il coniglio giusto, ma di
utilizzare l'organo della fantasia, cioè quello della immaginazione, che crea
immagini storiche radicalmente per rappresentarsi la storia la cui verità
non è l'avvento intenzionale, ma al contrario il residuo, il non intenziona­
le, anzi meglio: la verità è cifrata nel non intenzionale, che è quasi un testo,
74 Ibidem.
75 Ibidem, p. 10.
INTRODUZIONE
33
in attesa che da tutti i fili tessuti in tutti i tempi la filosofia riesca a
ricostruire la storia naturale, la storia del privo di intenzioni.
Se paragoniamo l'irruzione dello storico di Adorno, con l'irruzione
della storia nell'inconscio di Freud, abbiamo un confronto suggestivo,
ancorché probabilmente filologicamente inconsistente (per ora). Con la
differenza che è il privo di intenzione a irrompere e far rimettere in moto
l'intenzionale che appare in moto ma è fermo. È una questione temporale.
Qualcosa accade nella storia, originaria e naturale ma poi ordinaria e
umana, che crea degli strappi nel tessuto delle immagini che pure parreb­
be non doversi interrompere mai; l'idea, la cosa stessa, diventa «strano
intreccio» e «enigma». Di qual sorta sia questa rottura sarà mostrato più
avanti, per ora quel che conta, in conclusione, è dimostrare una forma di
questa frattura: quella del linguaggio. Quale modello ha in mente Adorno?
Uno dove, perlomeno,
il linguaggio configurativo diviene [...] l'esplicita procedura che presuppone l'inin­
terrotta dignità delle parole senza doverla aggirare, [...] si determina il linguaggio
configurativo [...] come unità dialettica incrociata, e insolubile, di concetto e cosa 76
ma nelle parole è sedimentata la storia, e esse ne prendono possesso solo
all'interno della modificazione del campo di forze entro cui sono messe a
operare. La forma e lo stile sono dunque - come è sostenuto nella Teoria
estetica - un contenuto sedimentato e sottratto alla coscienza e
all'intenzione. Le parole sono quindi in grado di decifrare solo se ricono­
scono tale sedimento e lo mettono in moto contro la sensibilità attuale:
«La struttura reale di un'immagine filosofica [immagine storica e dialetti­
ca] può già stare in una tensione figurativa [cioè stilistica e formale, dun­
que contenutistica] con la sua propria struttura linguistica [formale e sti­
listica, dunque contenutistica]» 77 . Sono due forme, cioè due contenuti,
che entrano in tensione figurativa, poiché sono diacronici in misura diver­
sa, appartengono a due gradi differenti del processo di trasformazione in
immagine 78 . L'organo di senso di tale appercezione non può che essere la
fantasia, che le immagini produce, a partire dalla memoria. Questa produ­
zione è fantastica in quanto le immagini non devono rispecchiare bensì
mio.
' 6 Th.W. Adorno, Thesen ùber die Sprache des Philosophen, cit., p. 369. Corsivo
77 Ibidem, p. 370.
78 Cfr. la «trasmutazione» della forma di enigma, nel saggio Die Aktualitàt der
Philosophie, op. cit.
34
CRITICA DEL NON VERPO
decifrare il reale e il linguaggio; ma è anche in funzione della memoria
perché il contenuto dei nomi è espressione della loro storia, anche se
tramite una «trasmutazione in forma» (Verwandlung ins Gebilde) che la
rende non intenzionale.
Certamente le immagini non sono immediatamente identificabili con
la forma, né il figurativo. Ma per risolvere questo problema abbiamo bi­
sogno di procurarci e esplorare altre categorie adorniane. Per adesso
possiamo concludere dicendo che il processo interpretativo della filosofia
è un compito di decifrare, nel senso stretto di far scomparire la cifratura,
e esso è eseguito dalla facoltà di creare immagini a partire da quel che è
stato dimenticato.
CAPITOLO II
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
Al pensatore odierno non si chiede niente di meno che questo:
essere nello stesso momento nelle cose e al di fuori delle cose; e il
gesto del barone di Mùnchhausen, che si solleva dallo stagno affer­
randosi per il codino, diventa lo schema di ogni conoscenza che
vuoi essere qualcosa di più che constatazione o progetto.
Th.W. Adorno 1 .
TROPPA FIDUCIA NELLA COSCIENZA ATTUALE
La Dialettica dell'illuminismo, dedicata a E. Pollock, esprime chiara­
mente il proprio intento: «comprendere perché l'umanità, invece di entra­
re in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di bar­
barie» 2 . Sono evidenti gli accenti etici di questo progetto, ma, proseguono
i due autori, l'opera non ha potuto essere eseguita fino a fondo, «avevamo
ancora troppa fiducia nella coscienza attuale» 3 . Il punto di vista che sareb­
be necessario per una protostoria (Urgeschichte] del capitalismo è sottratto
dalla storia del capitalismo. Poiché l'identità attraverso la quale sia possi­
bile individuare le determinazioni proprie della totalità (sociale) e ricono­
scere le svolte decisive attraverso le quali si è instaurata e ha prodotto
l'individualità (sociale), non è a disposizione, diventa un controsenso an­
dar in cerca dell'uomo-in-sé, come se esso esistesse prima della storia e
indipendentemente da essa. Come scrisse Freud, le forze che contrappon­
gono l'individuo alla società e quelle che lo costituiscono come tale sono
le stesse; toglietele e non avrete l'Io puro ma un puro bel niente. Ma c'è
anche un'altra ragione per la quale va criticato il mito di una spiegazione
della storia a partire dalla sua origine: il fatto che «l'illuminismo è totali­
tario», e cioè scrive la propria storia all'indietro, mentre nello stesso
momento cancella la trama dell'ordine storico. Ne risulta una scrittura
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 79.
M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 3.
Ibidem.
36
CRITICA DEL NON VERO
inversa sovrapposta a quella originaria, per dir così «dritta», che non è più
leggibile immediatamente. Però questo non significa che la protostoria del
capitalismo sia una bizzarria: essa corrisponde intanto all'idea che il me­
todo di ricerca debba muoversi da ciò che è più prossimo verso quel che
è più lontano 4 , e in secondo luogo esegue l'istanza prima della critica:
interpretare il particolare alla luce della totalità, tanto più accanitamente
quanto più questa connessione sembri scomparire in una totalità struttu­
rale assente.
Qualcosa di simile è stato tentato, in un saggio di commento all'opera
di Adorno, da C. Tùrke. Cercando gli snodi di una storia della secolariz­
zazione del lavoro umano e del suo concetto - se sia una maledizione o
una nota caratteristica dell'essenza umana a immagine di Dio - afferma il
Tùrke che in entrambi i casi o la maledizione è stata scagliata da Dio per
vendetta («ti guadagnerai il pane col sudore della fronte») o a Dio è
sfuggito che chi nella società non ha lavoro è «abbandonato da Dio e dagli
uomini [e] si trova privo della sua essenza» 5 . Per fare il verso a Kierkegaard, che faceva il verso ad Hegel, «che tu lavori o non lavori, sarai
comunque dannato» 6. Simile è l'inizio della Dialettica dell'illuminismo:
La condanna naturale degli uomini è oggi inseparabile dal progresso sociale. [...]
Il singolo, di fronte alle potenze economiche, è ridotto a zero. Queste, nello stesso
tempo, portano a un livello finora mai raggiunto il dominio della società sulla
natura. Mentre il singolo sparisce davanti all'apparato che serve, è rifornito da esso
meglio di quanto non sia mai stato. Nello stato ingiusto l'impotenza e la dirigibilità
della massa cresce con la quantità di beni che le viene assegnata 7 .
Qualunque destino pare migliore dell'impotenza e del terrore di fron­
te alla strapotenza della natura, ma la natura insegna che c'è un destino
peggiore. Cosi il lavoro da lotta contro la natura - lotta mediante la quale
il singolo si realizza - è divenuto controllo sulla natura del singolo, il
4 Cfr. Barzaghi, cit., e G.B. Vaccaro, Attualità di Adorno?, in «Critica marxista»,
1989, n. 5, pp. 133-48.
5 Cfr. C. Tùrcke, Gottesgeschenk Arbcit. Theologisches zu einem profanen Begriff,
in AA.VV., Hamburger Adorno-Symphosion, cit., pp. 87-98.
Dello stesso autore si può vedere anche in traduzione italiana Gewalt und Tabu.
Philosophische Grenzgànge, Dietrich zu Klampen Verlag, Mùnchen 1987, Violenza e
Tabù, tr. U. Colla, Garzanti 1991.
6 Cfr. S. Kierkegaard, Enten-Eller, trad. it. A. Cortese, Adelphi, Milano 1978, pp.
98-100. •
7 M, Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 6-7.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
37
quale, se si è liberato dalla schiavitù della miseria, ha tuttavia perduto la
sua relazione con il senso di quella liberazione. I beni materiali che può
procurarsi li paga dando loro la sua propria identità, che potrà poi riavere
in forma allucinatoria solo surrogando la sua storia con l'immobile palude
delle sempre uguali merci.
L'ipotesi del libro è nota: il mito è già illuminismo e l'illuminismo si
rovescia in mitologia; non in ultimo, poiché l'infrazione del mito è, al
contempo, l'effrazione della ragione attraverso l'autocritica: «solo il pen­
siero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro da infrangere il mito» 8
- e questa violenza necessaria si determina non astrattamente bensì, come
una sorta di risarcimento, soffermandosi presso quel che è stato sacrifi­
cato: «lungo l'itinerario verso la nuova scienza gli uomini rinunciano al
significato. Essi sostituiscono il concetto con la formula, la causa con la
regola e la probabilità» 9. Violenza e sacrificio sono paradigmi mitici non
meno che razionali, anzi: la razionalità stessa con la quantità di rinuncia
che comporta, con i suoi «sacrifici», si instaura né più né meno che come
forma mitica, ovvero come violenza diretta verso l'interno a difesa da
quella «naturale» che possiede una medesima quantità di violenza, ma con
il peggioramento di una gratuità inarrestabile. Scriveva, nella stessa pro­
spettiva, Benjamin in un saggio intitolato Per una crìtica della violenza
(Gewalt) 10, che
la violenza, per cominciare, può essere cercata solo nel regno dei mezzi e non in
quello dei fini - però - essa non è mezzo, ma manifestazione. E questa violenza
conosce manifestazioni affatto oggettive, in cui può essere sottoposta alla critica.
Esse si trovano - in modo altamente significativo - anzitutto nel mito. La violenza
mitica nella sua forma esemplare è semplice manifestazione degli dèi. Non mezzo
ai loro scopi, appena manifestazione della loro volontà, essa è soprattutto manife­
stazione del loro essere 11 .
Quel che Benjamin esprime nel doppio carattere della violenza indipendentemente dall'ambito giuridico nel quale egli situa il suo saggio
- come mezzo e come espressione dell'essere, viene forse districata da
Adorno e Horkheimer nell'inevitabile aspetto di violenza interna e ester­
na, dominio sulla natura come tecnica e dominio sull'interno come repres-
8 Ibidem, p. 12.
9 Ibidem, p. 13.
10 W. Benjamin, Angelus Novus, cit., Per una critica della violenza, pp. 5-38.
11 Ibidem, p. 6 e p. 23.
38
CRITICA DEL NON VERO
sione. La violenza attraverso la quale si effettua la rinuncia al significato
è quella attraverso la quale il significato regredisce, così
le molteplici affinità fra ciò che è vengono scacciate dall'unico rapporto fra il
soggetto datore e l'oggetto privo di senso, fra il significato razionale e il portatore
accidentale di esso. Nella fase magica sogno ed immagine non erano considerati
solo come un segno della cosa, ma erano uniti a essa dalla somiglianzà o dal nome.
Non è un rapporto di intenzionalità ma di affinità 12 .
Il movente è chiaro: il mezzo attraverso il quale si opera la violenza
è «l'astrazione, lo strumento dell'illuminismo», essa «opera coi suoi ogget­
ti come il destino di cui elimina il concetto: come liquidazione» 13 liquidazione che è il contrario dell'esecuzione, che Adorno indica nella
Teoria estetica come medium sia dell'interpretazione, sia della creazione.
Esecuzione dunque cantra paura: «il grido di terrore con cui è esperito
l'insolito, diventa il suo nome [...] l'illuminismo è angoscia mitica radicalizzata» 14 , dando nome e astraendo esso prende le distanze, espelle quel
che vorrà dominare, prepara una pelle abbastanza spessa da ricevere lo
shock senza ferirsi.
L'illuminismo è l'angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica,
che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha
da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina
dell'angoscia. [...] La proposizione spinoziana «Conatus sese conservandi primum
et unicum virtutis est fundamentum», è la vera massima di ogni civiltà occidentale 15 .
Quanto si è appreso come modello di autoconservazione rimane
come struttura per tutte le future operazioni, anche quando queste non
siano più direttamente volte alla autoconservazione, e per quanto com­
plessa possa diventare la rete di bisogni che costituiscono la conservazio­
ne. Anzi, il processo si svolge a tal punto che il mezzo, tramite la violenza
del quale ci si è una volta salvati, acquista magica autonomia e promuove
da solo il comportamento del suo creatore. Davvero ha ragione Tùrcke, la
società offre una secolarizzazione della religione che è una parodia della
palinodia 16.
12
13
14
15
M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 18.
Ibidem, p. 21.
ìbidem, pp. 22-23.
ìbidem, pp. 23 e 36-37.
16 Cfr. C. Tùrke, Gottesgeschenk..., op. cit.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
39
II linguaggio è il mezzo dell'illuminismo nel mito che rivela la sua
identità con l'impulso illuministico 17 ; così «i miti che cadono sotto i colpi
dell'illuminismo erano già il prodotto dell'illuminismo stesso» 18 , e il lin­
guaggio del mito è il linguaggio dell'illuminismo. Quale che sia il linguag­
gio dell'interpretazione, esso non ha niente a che spartire con la regressio­
ne, la quale, del resto, non conduce all'origine ma all'originaria rimozione.
È necessario che l'interpretazione sia non l'espressione dell'origine ma la
comprensione dell'originato, non la chiarificazione del mito, ma il dispie­
gamento allegorico è lo scopo della critica. Il mito:
voleva raccontare, nominare, dire l'origine.. [...] Questa tendenza si è rafforzata
con la stesura e la raccolta dei miti. [...] Le divinità olimpiche non sono più
direttamente identiche agli elementi, ma li significano [...] sono già ai limiti del­
l'allegoria. [...] L'essere si scinde d'ora in poi nel logos [...] e nella massa di tutte
le cose e creature esterne. Una sola differenza [...] assorbe tutte le altre 19.
Significato e allegoria vanno di pari passo nella separazione dell'espe­
rienza da ciò di cui è esperienza. In un senso diverso - visto che mito e
illuminismo parlano la stessa lingua - diventa allora cruciale l'origine del
mito, ovvero in quanto esso sviluppa già pienamente la logica del controllo
razionale.
Lo sdoppiamento della natura in apparenza ed essenza [...] nasce dalla paura
dell'uomo, la cui espressione diventa una spiegazione. Non è che l'anima venga
«trasferita» nella natura [...]; mana, lo spirito che muove, non è una proiezione, ma
l'eco della strapotenza reale della natura nelle deboli anime dei selvaggi. [...] Se
l'albero non è più considerato solo come albero, ma come testimonianza di qualcos'altre, come sede del mana, la lingua esprime la contraddizione che una cosa,
cioè, è se stessa e insieme qualcos'altro da ciò che è, identica e non identica 20 .
Ma c'è ancora un passo da compiere prima che l'espressione lingui­
stica, o meglio simbolica, diventi linguaggio:
tramite la divinità il linguaggio diventa, da tautologia, linguaggio. Il concetto [...]
è stato [...] fin dall'inizio, un prodotto del pensiero dialettico, dove ogni cosa è ciò
17 P.C. Lang ha mostrato quale funzione svolga il linguaggio nella creazione del
pensiero astratto senza il quale non c'è identità, Cfr. P. Lang, Hermeneutik, Ideologiekrìtik, Asthetik - \Jber Gadamer und Adorno sowie Fragcn eìner aktuallen Asthetik,
Forum Academicum, inder Verlagsgruppe, Kònigstein 1981, pp. 71 e sgg.
18 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 16.
19 Ibidem.
20 Ibidem, pp. 23, 26 et passim.
40
CRITICA DEL NON VERO
che è solo in quanto diventa ciò che non è. [...] Ma questa dialettica rimane
impotente nella misura in cui si sviluppa dal grido di terrore, che è la duplicazione,
la tautologia del terrore stesso 21 .
Secondo Adorno, insomma, la paura è davvero elemento primo del
linguaggio; tramite di essa si appronta una sede all'identico a sé nella
natura; in tale sede è poi possibile sacrificare la parte che recalcitra di
fronte alla rinuncia che impone l'autoconservazione, e il mondo si scinde
nell'allegorico e nel simbolico; l'uno scienza dell'accaduto, l'altro equiva­
lenza dell'accadibile. Solo se il linguaggio conserva l'allegorico in sé, è
possibile ali'interprelazione sfuggire l'equivalenza imposta dal sacrificio
del significato a favore della manipolabilità. È per questo allora che «l'il­
luminismo prova un orrore mitico per il mito», perché esso avverte la
presenza del mito «non solo in concetti e termini confusi, come crede la
critica semantica, ma in ogni espressione umana, in quanto non abbia un
posto nel quadro teleologico dell'autoconservazione» 22 . Il terrore è quindi
suscitato, per dir cosi, da tutto ciò che accade senza intenzione; qualun­
que cosa è meglio di essa, finanche immaginarsi di venir puniti da dèi
irosi e nascosti - l'imprevisto al rischiaramento illuminista è proprio il
«privo di intenzione» che trovammo nei primi scritti filosofici di Adorno.
In quel caso ci premette sottolineare la portata antipsicologistica e anti­
soggettivistica, in questa posizione si precisa, come anticipammo allora, la
causa della scissione che imporrà, d'allora in poi, la questione della di­
stanza e del rapporto tra soggetto e oggetto. Il «realismo ingenuo» si è
fatto adulto 23 .
L'orrore che la «critica semantica» prova di fronte all'inutile è diretto
contro l'illusione positiva dell'eliminazione della comprensione con la
previsione, senza dubbio. E tuttavia qualcosa di tale orrore resta in qualsiasi teoria tratti semplicemente la struttura linguistica sotto il modello
inespresso delle scienze fisiche matematizzate. La fungibilità, la scambia­
bilità, sono il tratto distintivo della logica del linguaggio che emerge attra21 Ibidem.
23 Sia R. Solmi che L. Ceppa notano, nelle rispettive introduzione e prefazione ai
Minima moralia, come questo sia il libro più nietzscheano di Adorno, il quale non
nasconde a sua volta l'opinione, in Dialettica dell'illuminismo, che Nietzsche sia stato
il più radicale degli anti-nominalisti.
Per la questione si vedano, per esempio: F. Nietzsche, Genealogia della morale, a
cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1979, e i suggerimenti e le critiche
di S. Natoli, Ermeneutica e Genealogia, Feltrinelli, Milano 1981.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
41
verso il sacrificio mitico fino alla terminologia scientifica dell'illuminismo.
Il livello di astrazione che si richiede è già tutto contenuto, appunto, nel
sacrificio, ma il «sacrificio» linguistico non comporta necessariamente
l'abolizione della semantica.
Nella magia la sostituibilità è specifica. Ciò che accade alla lancia del nemico, ai
suoi capelli, al suo nome, è fatto anche alla persona; la vittima sacrificale viene
massacrata al posto del dio. La sostituzione nel sacrificio è un progresso verso la
logica discorsiva. [...] A ciò mette fine la scienza. Non c'è, in essa, sostituibilità
specifica: vittime sì, ma nessun dio. La sostituibilità si rovescia in fungibilità uni­
versale 24 .
La struttura di significante e significato, in qual che sia versione la si
voglia moltiplicare, se ci si limita al suo aspetto trascendentale, è assai più
affine alla fungibilità della scienza - dove ogni termine deve servire a
costruire, o costituire, l'insieme delle operazione possibili - piuttosto che
alla magia simbolica, dove il nome può ancora essere vero o falso; e
Adorno non crede che la cosa possa piacere a tutti.
Nella fase magica sogno e immagine non erano considerati solo come segno della
cosa, ma erano uniti ad essa dalla somiglianzà o dal nome. Non è un rapporto di
intenzionalità, ma di affinità. La magia è, come la scienza, rivolta a scopi, ma li
persegue mediante la mimesi, non in un crescente distacco dall'oggetto. Essa non
riposa affatto sull'«onnipotenza dei pensieri», che il primitivo si attribuirebbe
come il nevrotico [...]. La «fiducia incrollabile nella possibilità di dominare il
mondo» che Freud attribuisce anacronisticamente alla magia, corrisponde solo al
dominio del mondo secondo il principio di realtà ad opera della scienza posata e
matura 21 .
Il dominio insomma passa per la separazione - istitutiva - mentre
non così la paura. La prima opera di trasposizione, quindi di interpretazione, viene rivolta contro la paura: l'ignoto trapassa in rimosso. Il resto
di tale calcolo dorme nelle parole, nel linguaggio. La sua necessaria astra­
zione rimanda al non astratto, e poiché l'astrazione è fondata sull'identità,
l'identità del linguaggio rimanda al non identico. La interpretazione
originaria fu una identificazione cui si pervenne tramite una soppressione
di quel che identificabile non era - la forma inidentificabile torna al pen24 M.
25 M.
Adorno sta
sgg, Ed. it.
Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, op. cit., p. 18.
Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 18-19.
citando Freud da Totem e Tabù, in Gesammelte Werken, X Band, pp. 106
S. Freud, Opere 1912-14, Boringhieri, Torino, p. 91.
42
CRITICA DEL NON VERO
siero come rimosso; «orrore mitico» scrive Adorno, che è tutt'altro che
metaforico:
il distacco del soggetto dall'oggetto, premessa dell'astrazione, è fondato nel distac­
co dalla cosa, a cui il padrone pervenne mediante il servitore. [...] L'universalità
delle idee, sviluppata dalla logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, si
eleva sulla base del dominio reale. [...] Il Sé, che ha appreso l'ordine e la subor­
dinazione alla scuola della sottomissione del mondo esterno, ha presto identificato
la verità in generale col pensiero disponente, senza le salde distinzioni del quale
essa non potrebbe sussistere. Esso ha bandito, con la magia mitica, la conoscenza
che coglie effettivamente l'oggetto. Tutto il suo odio è rivolto all'immagine della
preistoria superata e alla sua immaginaria felicità 26.
Vedremo come tale immaginaria felicità sia il punteruolo col quale
scardinare la gabbia del mitico illuminismo. Per ora constatiamo come
l'oggetto del quale si occupa l'interpretazione, in Adorno, abbia di fronte
qualcosa di cui teme l'essenziale come la minaccia peggiore alla sua stabi­
lità, forse anzi a se stesso intero. E se vogliamo chiarire i termini che
abbiamo visti impiegati negli anni '30 a illustrare la filosofia come interpretazione, diciamo che sciogliere la forma dell'enigma vorrebbe dire,
davvero, sciogliere la forma del soggetto per come esso è oggi costituito,
anche se lo scioglimento del soggetto non è la liquidazione dell'individuo;
perché la liquidazione è il gesto tipico dell'illuminismo regredente a mito­
logia - liquidazione come contrapposta alla ragione della cosa, liquidazio­
ne cantra dialettica. Essa non esegue sul serio il movimento dell'interpretazione, si limita a distaccare l'enigma dall'ente, lasciando gli individui soli
col carattere di enigma, che poi appare ad essi come natura mitica, indo­
mabile, e che risospinge la immagine di libertà sempre più indietro: la
libertà si colloca là dove certo non può esistere: prima che ci fosse il
soggetto della libertà. Per questo Adorno potè scrivere nella Attualità
della filosofìa che il materialismo storico esegue sul serio il movimento di
critica del linguaggio che l'interpretazione svolge «solo» nel pensiero.
Nella destituzione dell'individuo la scienza moderna nasconde quella del
soggetto, già avvenuta, e invola la colpa in un a-storico presente che pure
presenta sé come pura natura, e nel linguaggio inchioda l'inafferrabile
bugia, la cui verità non è compatibile con l'impostazione della domanda.
Anche le domande possono, a buon diritto essere false, e non l'ultimo
compito dell'interpretazione sarebbe l'awedersene. Così come la coazione
26 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 21-22.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
43
antica si ridispone nell'obbligo di fornire una risposta anche quando que­
sta esigerebbe di ribaltare l'essenza, che appare, in quella che sarebbe
dovuta apparire: «Vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto» ma
«l'urgenza di una questione non può costringere a dare una risposta, se
non si riesce a ottenerne una vera» perché
la volontà di non farsi saziare, di apprendere qualcosa di essenziale [...] viene
deformata da risposte tagliate sul bisogno, ambigue tra l'obbligo legittimo di of­
frire pane, non pietre, e la convinzione illegittima, che debba essere pane, perché
così deve essere 27 .
PERCHÉ ULISSE NON ASCOLTÒ IL CANTO DELLE SIRENE
Nel tredicesimo canto de\Y Odissea, Ulisse sfugge all'incanto con
mezzi astuti. Nella sua versione dell'accaduto Kafka, che guarda da molto
più lontano, spiega benissimo il meccanismo attraverso il quale si può
sfuggire alla seduzione delle sirene: si tratta della riflessione 28. Nella pro­
gressione del racconto kafkiano - Ulisse non sente, finge di non sentire,
le sirene non cantano fingono solamente, Ulisse non sente che le sirene
non cantano, Ulisse finge di non sentire che le sirene non cantino - c'è
tutta la vertigine dialettica dei giochi dei bambini che scoprono l'infinito
della riflessione e ci si perdono nel ritornello del "io so che tu sai che io
so che tu sai...". Anche Brecht, per molti versi all'opposto della scuola di
Francoforte, registra l'esperienza secondo la quale la seduzione alla paura
debba essere il fondamento della civiltà moderna. Questo nesso è illustra­
to da Adorno e Horkheimer nell'excursus su Odissea, o mito e illuminismo
all'interno della Dialettica dell'illuminismo. La paura esige il sacrificio per
placare gli dèi, ma gli dèi sono, fuor di metafora, quel naturale che minac­
cia la natura, così che il nesso di sacrificio e scissione - ovvero creazione
- è indissolubile.
Il Sé strappa se stesso al dissolvimento in cieca natura, della quale il sacrificio
torna sempre a far valere i suoi diritti. [...] Il Sé permanente identico, che sorge
dall'aver superato il sacrificio, è direttamente a sua volta un rituale sacrificale
2/ Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 83, 189, 63.
28 F. Kafka, Das Schweigen der Sirenen, del f9f7, tr. it. in F. Kafka, SchizziParabole-Aforismi, tr. A. Lavagetto, Mursia, Milano 1983.
44
CRITICA DEL NON VERO
rigido, e implacabilmente osservato, che l'uomo celebra a se stesso opponendo la
propria coscienza al contesto naturale 29.
L'incanto al quale Ulisse s'impone di resistere con la duplicazione e
scissione propria della riflessione è proprio la regressione all'indistinto.
Senza questa operazione, che è il potere della astrazione e, in ultima analisi
del linguaggio, non si da vita umana, ma
dal momento in cui l'uomo si recide la coscienza di se stesso come natura, tutti i
fini per cui si conserva in vita [...] e fin la coscienza stessa, perdono ogni valore,
e l'insediamento del mezzo a scopo, che assume, nel tardo capitalismo, i tratti della
follia aperta, si può già scorgere nella preistoria della soggettività 30.
Da qui - dalla Urgeschichte del soggetto - inizia la storia della civiltà,
e Horkheimer e Adorno ne danno un resoconto fulminante assumendo a
prototipo dell'individuo moderno Ulisse che sfugge all'incanto delle sire­
ne.
Odissee non tenta di seguire un'altra via da quella che passa davanti all'isola delle
Sirene. E non tenta neppure di fare assegnamento al suo sapere superiore e di
porgere libero ascolto alle maliarde, nell'illusione che gli basti come scudo la sua
libertà. [...] Proprio in quanto - tecnicamente illuminato - si fa legare, Odissee
riconosce la strapotenza arcaica del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo
sventa, così, come la morte. L'ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nes­
sun altro. Solo ha disposto le cose in modo che, pur caduto, egli non cada in loro
potere. [...] Le Sirene hanno quel che loro spetta, ma già ridotto e neutralizzato
- nella preistoria borghese - al rimpianto di chi prosegue. [...] Nasce così la
coscienza del significato. [...] Odissee scopre, nelle parole, ciò che nella società
borghese sviluppata si dirà formalismo: la loro validità permanente è pagata col
distacco dal contenuto che di volta in volta le riempie, onde possano riferirsi - in
questo distacco - ad ogni contenuto possibile, a nessuno o allo stesso Odissee. Dal
formalismo dei nomi e dei decreti mitici, che vogliono comandare, indifferenti
come la natura, sugli uomini e sulla storia, emerge il nominalismo, il prototipo del
pensiero borghese 31 .
Concludendo che:
la storia della civiltà è la storia dell'introversione del sacrificio. In altre parole la
storia della rinuncia. [...] Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe
M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialektik der Aufklàrung, cit., p. 21.
M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 62.
Ibidem, pp. 66-68.
LA TRISTE SCIENZA DELL ESPERIENZA
45
inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani, un metodo catartico che
non trovasse il proprio criterio nell'adattamento [...] dovrebbe condurre gli uomi­
ni alla coscienza dell'infelicità 32 .
In un illuminante tardo saggio di Freud 33 la stessa sostituzione degli
scopi con i mezzi della quale parla Adorno è attribuita all'inconscio
processo di difesa, il quale abbandonerebbe la paura della minaccia contro
la quale eresse le difese in favore del terrore di perdere le difese stesse.
Ancora Adorno scrive che
ognuna delle figure mitiche è tenuta a fare sempre la stessa cosa. Ognuna consiste
nella ripetizione: il cui fallimento segnerebbe la sua fine. [...] Sono immagini della
coazione: le atrocità che commettono sono la maledizione che pesa su di esse.
L'ineluttabilità mitica è definita dall'equivalenza fra quella maledizione, il delitto
che la paga e la colpa che ne deriva e che riproduce la maledizione.
E un attimo prima ancora,
l'umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si
consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo, e qualcosa di tutto
ciò si ripete in ogni infanzia. [...] Il pensiero di Odissee [...] conosce due sole
possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa loro le
orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuoi durare e
sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile. [...] L'altra pos­
sibilità è quella che sceglie Odissee, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per
sé. Egli ode, ma impotente, legato, all'albero della nave, e più la tentazione diventa
forte, e più strettamente si fa legare, cosi come, più tardi, anche i borghesi si
negheranno più tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza l'avranno a portata di mano 34.
L'orrore che il mito prova di fronte alla natura è lo stesso che l'illu­
minismo prova di fronte al mito e alla natura di sé: «Si realizza, l'angoscia
più antica, quella di perdere il proprio nome» 35 .
Il nesso non è esplicito, ancora in questi anni, nel pensiero di Ador­
no. Lo ritroveremo con molta forza nella Dialettica negativa. Tuttavia già
nella protostoria del soggetto la colpa della sostituzione delle difese con
32 Ibidem e Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 63-63.
33 S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere voi. XI, pp. 499-538, in
particolare p. 521.
34 M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., pp. 65 e 41.
35 Ibidem, p. 38.
46
CRITICA DEL NON VERO
l'amore delle difese - il che altro non significa che la rimozione di esse e
della loro origine - è sullo stesso piano della scissione che da origine ai
nomi, e poi ai concetti, anch'essa una sostituzione, anzi la prima sostitui­
bilità: «misero un agnello al posto di un uomo - dunque anche questo era
possibile?» 36 . Così come un sacrificio enorme dovette costare la separazio­
ne della natura dal Sé, allo stesso modo allontanarsi dal proprio nome prima con rituali mimetici, poi con segni universali - realizza proprio ciò
contro cui avrebbe dovuto preservare: nessuno più verrà ucciso per pla­
care le divinità, ma ognuno è trasmutabile con un agnello. Il nome sta per
le cose a patto che le cose se ne stiano fuori di se stesse a sufficienza da
essere scambiabili, segnicamente, l'una con l'altra 37 . La colpa alla quale
non si può sfuggire con un balzo è quella della astrazione: senza di essa
c'è solo caos, ma l'ordine che essa porta con sé ha le sue vittime, e la sua
polizia: il linguaggio. Il linguaggio perde la sostituibilità specifica a favore
di una generica allorquando si instaura come linguaggio comune, o detto
altrimenti, come struttura linguistica, dove il rimando appare interno e la
memoria è rimossa: «l'astrazione [...] opera coi suoi oggetti come il desti­
no di cui elimina il concetto: come liquidazione» 38 , operata a partire dal
«grido di terrore con cui è esperito l'insolito» che diventa il nome dell'in­
solito e d'ora innanzi potrà stare al posto di esso, e tutto sarà fatto purché
tale sostituzione non riemerga alla coscienza: «l'illuminismo è angoscia
mitica radicalizzata. [...] Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la sem­
plice idea di un fuori è la fonte genuina dell'angoscia» 39. Ed ecco che
«prima i feticci sottostavano alla legge dell'uguaglianza. Ora l'uguaglianza
diventa essa stessa un feticcio - che apre la possibilità di mettere qualcun
altro al proprio posto di fronte al pericolo, e come segno, la parola passa alla scienza, come parola vera e propria, viene ripartita
tra le varie arti. [...] Come segno, il linguaggio deve limitarsi a essere calcolo; per
conoscere la natura, deve abdicare alla pretesa di somigliarle. Come immagine,
36 C. Wolf, Kassandm, Luchterhand Verlag, Darmstadt 1983, tr. it. A. Raja, Cas­
sandra, E/O edizioni, Roma 1987. Il geniale romanzo epico-tragico della Wolf è
tutto registrato sulla sostituibilità determinata e indeterminata e sul principio del terzo
escluso.
37 Vorrei, a questo proposito, rimandare anche se solo con breve cenno, a F.
Rossi Landi, Metodica filoso/tea e scienza dei segni, Bompiani, Milano 1985, dove è
trattato l'aspetto della relazione tra l'instaurazione del segno linguistico e la prima
attuazione della divisione sociale del lavoro.
38 M. Horkeimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 21.
39 Ibidem, p. 23.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
47
deve limitarsi a essere copia: per essere interamente natura, abdicare alla pretesa
di conoscerla 40.
Per cominciare a mettere ordine, nel nostro discorso, dovremmo dire
che un'interpretazione che voglia fedeltà al proprio oggetto dovrebbe te­
nere fermo il carattere apparentemente irresolubile di questa alternativa,
e trattare il linguaggio come se fosse una cosa in sé scissa di apparenza e
essenza, sul modello dell'albero di cui abbiamo parlato più sopra;
la separazione di segno e immagine è inevitabile. Ma se è ipostatizzata con ingenuo
compiacimento, ognuno dei due principi isolati tende alla distruzione della verità.
L'abisso che si è aperto in questa separazione, è stato individuato e trattato dalla
filosofia nel rapporto di intuizione e concetto, e a più riprese, ma invano, essa ha
cercato di colmarlo 41 .
Di fronte alla stessa alternativa si trova l'interpretazione: dopo che la
realtà è stata interpretata per difendersi da essa, la scissione non è recupe­
rabile. Allora, che fare? Si comprende ora meglio cosa fosse la «dignità
della parole» di cui parlava Adorno nei saggi esaminati nel capitolo pre­
cedente. Ma esiste l'altra faccia della medaglia.
Fin da quando il linguaggio entra nella storia, i suoi padroni sono sacerdoti e
maghi [...] il mondo è già diviso in una sfera di potere e in una sfera profana. [...]
Il linguaggio stesso conferiva ai rapporti di dominio, l'universalità che aveva assun­
to come mezzo di comunicazione e [all'interno di questa situazione] i simboli
prendono l'aspetto di feticci. Il loro contenuto, la ripetizione della natura, si rivela
poi sempre, in seguito, come la permanenza [...] della costrizione sociale [così che]
il dominio si oppone al singolo come l'universale, come la ragione nella realtà. [...]
Nell'imparzialità del linguaggio scientifico l'impotente ha perso del tutto la forza
di esprimersi, e solo l'esistente trova il suo segno neutrale [ma] questa neutralità
è più metafisica della metafisica. Infine l'illuminismo ha consumato non solo i
simboli, ma anche i loro successori, i concetti universali, e non ha lasciato altro,
della metafisica, che la paura del collettivo dalla quale essa è nata 42 .
Il linguaggio - all'interno del quale giostra l'interpretazione - assume
l'aspetto di natura; i nomi scivolano e da concetti si fanno meri sintomi del
terrore che rimosso e sforzo della rimozione facciano irruzione di nuovo.
Non dunque la parola, il nome, regge il complesso di colpa, ma il movi40 Ibidem, pp. 24-25.
41 Ibidem, p. 26.
42 Ibidem, pp. 29-30.
48
CRITICA DEL NON VERO
mento della sua autonomia, che anziché consegnare le chiavi della città
impone che essa stessa resa gabbia sia scambiata per natura; l'illuminismo,
sostiene Adorno, non può che essere nominalistico. Nello stesso senso
l'illuminismo che «liquida» il mito è totalitario: «Quali che siano i miti a
cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto,
argomenti, rendono omaggio al principio della razionalità analitica che
essi rimproverano all'illuminismo. L'illuminismo è totalitario» 43 .
L'aver consumato i simboli è analogo all'imperativo prescritto al pen­
siero in Attualità della filosofia: dover rinunciare alla funzione simbolica,
farcela senza di essa, e infine, nella ricostruzione e memoria anche di ogni
più piccolo filo, prospettare la soluzione dell'intreccio strano - mitico dell'ente. Infatti l'illuminismo, come nominalistico, «si arresta davanti al
nomen, al concetto inesteso, puntuale, al nome proprio» 44 . Nella religione
ebraica, prosegue Adorno, il legame tra nome e cosa è ancora riconosciuto
nel divieto di pronunciare il nome di Dio. Pegno della fede è rinunciare
alla sostituzione di questa con un'altra: «la conoscenza è la denuncia
dell'illusione» di poter aver accesso e possesso del nome di Dio 45 . Ma
questa negazione non è astratta:
questa esecuzione, «negazione determinata», non è garantita a priori. [...] La ne­
gazione determinata respinge le rappresentazioni imperfette dell'assoluto, gli idoli,
non, come il rigorismo, opponendo loro l'idea alla cui stregua non reggono. La
dialettica rivela piuttosto ogni immagine come scrittura, e insegna a leggere nei
suoi caratteri l'ammissione della sua falsità, che la priva del suo potere e lo appro­
pria alla verità 46 .
Il potere dell'eguaglianza e della difesa, della paura e della sostituibi­
lità, dell'astrazione e del calcolo, dell'agnello al posto di un uomo, della
divisione del potere fondata sul potere del nome di dividere l'ente stesso
in apparenza e essenza, è la sede del mana magico e di se stesso. La
dialettica come interpretazione deve spogliare l'apparenza di natura di
questo processo, quindi l'apparenza di natura di ogni linguaggio. E, nel
suo stesso carattere, leggere l'ammissione che neppure esso, come le cose,
è più se stesso, ma cela altro. Solo così «il linguaggio diventa più di un
semplice sistema di segni» 47 .
43 Ibidem, p. 14.
44 Ibidem, p. 31.
45 Ibidem.
46 Ibidem, pp. 31-32.
47 Ibidem, p. 32.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
49
II nesso di particolare e universale così descritto, si presenta anche,
come ricerca della «dialettica deU'illuminismo« nascosta in ogni oggetto
d'esperienza, nei Minima moralia, i quali sono, in quanto «scienza del­
l'esperienza [odierna]», l'ideale proseguimento del volume scritto con
Horkheimer. Però qui la riflessione da per compiuta la protostoria del
soggetto e si attacca direttamente ai risultati, all'esperienza come è, al suo
carattere di impenetrabilità che va sciolto:
[il pensiero] deve passare attraverso l'impenetrabile, attraverso la durezza del
particolare, per essere in grado di raggiungere l'universale, la cui sostanza è custo­
dita nell'impenetrabilità stessa. [...] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa
dipende dalla durata, dalla pazienza e dalla tenacia con cui si sosta o si indugia
presso il singolo oggetto 48 .
Questa dialettica dell'interpretazione è svolta nell'oggetto, e non è un
esercizio che compia il filologo; né l'oggetto né l'universale che lo indica
sono semplici segni, rimandi ciechi che basti seguire; piuttosto si tratta di
«intrecci» da decifrare 49 . Non si da una realtà nuda e cruda dalla quale
partire. Se Adorno, in Terminologia filosofica, prende partito per la prova
ontologia di Anselmo 50, questo avviene perché il linguaggio delle cose è
un problematico realismo degli universali che si tratta di raggiungere. Ma
l'universale come connessione che determina le possibilità linguistiche e
espressive del particolare, è impenetrabile allo sguardo del connesso: la
partecipazione non consente la distanza. Il nominalismo dell'illuminismo
opera una reductio ad unum e il potere dell'universalità si stempera nell'in­
dividuale che è reso cieco dell'origine della sua relazione con l'universale.
Basti ricordare qui quanto scritto, e commentato, nel saggio L'idea di
storia naturale, nel capitolo precedente. Qualunque lettura, o interpretazione, che si attui prima della disconnessione di quell'accecamento, legge,
per dir così, i comunicati stampa dell'universale senza neppure sospettarlo
- un universale che è, come tutto, posto. Anche se al posto dell'origine
fosse un abisso, VAbgrund. Ma non solo, gli attribuisce anche un soggetto
che da gran tempo non esiste, un soggetto umano che nella sua autonomia
regge solamente grazie all'illusione della sostanzialità dell'individuo, il
particolare che perde il nome di fronte all'astrazione scambiabile del con­
cetto. Ma mentre l'individuo è solo empiricamente sostanziale, il nominaTh.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 81.
Cfr. il primo capitolo.
Cfr. Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, cit., p. 93 e sgg.
50
CRITICA DEL NON VERO
lismo gli affida, al contrario, la responsabilità della cosa, come se le cose
fossero oggetti prima e indipendentemente dalla relazione che le ha sepa­
rate dal soggetto, dando origine a entrambi.
Se nella differenza tra universale e particolare è nascosta in piccolo
tutta l'ideologia del nominalismo, l'interpretazione che si voglia liberare
dal suo modello deve iniziare dal riconoscimento del «carattere di falsità»
di «ogni immagine come scrittura», nel carattere ideologico della loro
identificazione e nella falsità della loro scissione. Vediamo dunque come
si presenta questo materiale ad una «fenomenologia» della quotidiana
«vita offesa».
DESIDERIO, ETICA E INTERPRETAZIONE
Scriveva F. Schlegel che: «per capire una persona bisogna anzitutto
essere più intelligenti di lei, in secondo luogo intelligenti quanto lei e
anche stupidi allo stesso modo» 51 , e gli fa eco Adorno:
ciò che vale per la vita istintiva, vale anche per quella spirituale: il pittore o il
compositore che si vieta questa o quella combinazione di colori o serie di accordi
perché la giudica dozzinale e di cattivo gusto, lo scrittore a cui determinate forme
linguistiche danno sui nervi perché gli sembrano pedantesche e banali, reagisce
cosi vivacemente contro di esse perché anche in lui ci sono, per così dire, degli
strati che sono attirati in quella dirczione 52 .
L'idea che l'organo di sensibilità dello spirituale poggi sulla mimesi,
e la sua finezza, in ultima istanza, sulla repressione degli istinti contro i
quali si protesta, non è, come visto, esclusiva di Adorno, senza tuttavia che
questo comporti un ritorno all'indietro nell'ordine della produzione. An­
corché doversi liberare dalla repressione: «i tabù che costituiscono, nel
loro insieme, il rango intellettuale di una persona [...] sono sempre diretti
contro impulsi e tendenze che sono presenti anche in essa» 53 . Come dire
che non si supera mai l'isola delle sirene, ci si limita a girarci intorno a
cerchi più o meno ampi - e questo è l'essenziale. E oltre è scritto: «Non
solo, come Nietzsche ben sapeva, tutte le cose buone sono state un tempo
cose cattive: anche le cose più delicate, abbandonate alla loro forza di
51 F. Schlegel, Schriften und Fragmente, Behler Verlag, p. 158.
52 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 21.
53 Ibidem.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
51
gravita, tendono a sfociare nella brutalità senza limiti» 54 . La capacità di
reagire ali'indurimento è legata non alla purezza - all'immediatezza - ma
al contrario all'esperienza non rimossa ma contrastata. E tutto ciò funzio­
na, per così dire, fin nelle fibre dell'Io come ben si vede anche nella
descrizione che Adorno offre della propria sorte: «Ogni intellettuale nel­
l'emigrazione è - senza eccezione - minorato. [...] Espropriata è la sua
lingua, e livellata la dimensione storica da cui la sua conoscenza attingeva
ogni energia» 55 ; indifferentemente, si suppone, al livello di controllo o di
rapporti presenti nello stato soggettivo dell'intellettuale emigrante.
Ma c'è di più, il testo in se stesso subisce la tensione della lotta fra
la necessità di opporre resistenza e la necessità di avvicinarsi al burrone a
sufficienza da poterlo riconoscere; nell'aforisma numero 50, «Lacune»,
leggiamo che
si richiede [...] allo scrittore di riprodurre esplicitamente tutti i passi che lo hanno
condotto alla sua affermazione. [...] Questa richiesta [...] è falsa, anche come
criterio dell'esposizione. Poiché il valore di un pensiero si misura alla sua distanza
dalla continuità del noto [...]; quanto più si avvicina allo standard prestabilito, e
tanto più sparisce la sua funzione antitetica; e solo in questa sua funzione, nel
rapporto patente col suo opposto, e non nella sua esistenza isolata, è il fondamento
della verità'6 ;
così come il rango intellettuale di una persona, anche il rango di verità di
uno scritto sembra essere nella quantità di rimozioni che esso riesce a
mettere in gioco, in gioco non in atto. Infatti
la conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature, corre­
zioni, anticipi e esagerazioni, cioè nel contesto dell'esperienza, che, per quanto
fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto 57 .
Sembreremmo spinti in dirczione freudiano-dialettica, cioè in una
prospettiva di imposizione o retorica del significato, legata più all'espe­
rienza che non alla obiettività. Ma c'è una messa in guardia che non si può
trascurare:
in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell'impossibilità di una completa legit54 Ibidem, p. 84.
55 Ibidem, pp. 26-27.
56 Ibidem, pp. 85-65.
57 /£«/«», p. 86.
52
CRITICA DEL NON VERO
Umazione: come, in sogno, sappiamo di lezioni di matematica perdute per una
beata mattina in letto, e che non sono più recuperabili. Il pensiero attende che un
giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria 58 .
Adorno rivendica una parte non concettuale, diciamo meglio: non
chiara e distinta, alla vera conoscenza. E questo concorda con l'insieme
del suo pensiero. Ma quel che è strano è, se sciolto dal carattere enigma­
tico, l'esempio che egli produce. Il pensiero non ozioso, che è impossibile
legittimare fino in fondo, è quello della lezione di matematica perduta o
della mattina beata nel letto? Non sono forse, oggi, entrambi irrecupera­
bili? Dir che la verità stia nella lezione perduta significherebbe affermare
che si debba commettere un atto proibito per poi avere la verità della
proibizione, senz'altro vero ma piuttosto contorto. Ma del resto, se l'illegittimabile è l'aver preferito il sonno alla lezione, cos'è di un pensiero che
aspetta la pigrizia per essere ridestato? La cosa non funziona. Un aiuto ci
viene da poche pagine dopo: «La tecnica letteraria impone di rinunciare
anche a pensieri fecondi, se la costruzione lo richiede. I pensieri soppressi
contribuiscono alla sua forza e alla sua ricchezza» 59 . La forza qui evocata
resta come le lacune del testo, inespressa. È qualcosa di simile al rimosso,
ma solo in apparenza. Esso non prenderà partito per il vero cosi com'è,
ma solo quando «il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti e lo
trasformi in teoria».
Altre «lacune» le abbiamo già trovate; esse erano l'aspetto lacunoso,
quasi demoniaco, che l'interpretazione doveva sciogliere, nel saggio L'at­
tualità della filosofia®1. Cos'ha dunque infine questa mattina trovata e le­
zione perduta, e che cosa sono le lacune che essa evoca e che daranno la
forza al pensiero nel suo ricordo, liberandolo dal demoniaco? Essa è ricor­
do di una felicità passata che non è incatenata all'apologià del dato cosi
com'è, giacché essa è felicità solo nel ricordo; ora sappiamo che quella era
felicità: «il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è
ciò che costituisce la sua dignità incomparabile» e che «... non c'è felicità
senza feticismo» 61 . Che cosa abbia la felicità di tanto importante di fronte
all'interpretazione è chiaro: senza desiderio, non c'è conoscenza, neppure
quella interpretativa:
Ibidem, p. 87.
Ibidem, p. 91.
Cfr. il primo capitolo.
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 127 e p. 139.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
53
poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli
impulsi (Triebe], il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso.
[...] Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero [...] non si
realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è
colpito dalla nemesi della stupidità. [...] Espulsa la fantasia, è esorcizzato anche il
giudizio, il vero atto conoscitivo 62 .
Non è semplice comprendere perché desiderio, fantasia e conoscenza
siano cosi strettamente legati. Ancora la «esatta fantasia» del testo del
1931 era rimasta in debito di una spiegazione. È certamente questione di
«precomprensione» come si esprimerebbe Gadamer, ma in senso del tutto
particolare.
Il desiderio partorisce il pensiero come desiderio di sottrarsi allo
strapotere delle forze, interne e esterne della natura. Nel far questo la
natura, la sua esperienza, gli si trasforma tra le mani: essa diviene sempre
più simile a quel che dovrebbe essere per non impaurire: un regno di
dominio. Per far questo anche la natura interna ha dovuto essere violata
e frenata, e sotto la cenere cova l'incendio passato. Entrambe sono ora
insieme quel che erano e quel che sono divenute - l'esperienza, che non
è atto esclusivo dell'io del principio di realtà, registra inevitabilmente, e
per lo più inconsciamente, anche il passaggio dall'una all'altra. Tale regi­
strazione subisce, ad opera del linguaggio la chirurgica resezione della
parte viva, per renderla inoffensiva. Ora non c'è strada all'indietro, ma
solo la chance di riportare a ricordo la memoria rimossa. Essa è il terreno
infatti sul quale nasce il desiderio.
La psicoanalisi si vanta di restituire agli uomini la loro capacità di godere, turbata
dalle nevrosi. [...] La felicità prescritta è appunto di questo tipo; per poterla
condividere, il nevrotico beneficato deve bandire anche l'ultimo resto di ragione
che rimozione e regressione gli avevano lasciato, e, per amor dello psicanalista,
prender gusto ai film di quart'ordine, ai pranzi cari ma cattivi [...], ai compunti
drinks e ad un sex sapientemente dosato. [...] Come gli individui hanno troppo
poche, e non troppe inibizioni, senza essere per questo di un briciolo più sani, un
metodo catartico che non trovasse il proprio criterio nell'adattamento e nel suc­
cesso economico, dovrebbe condurre gli uomini alla coscienza dell'infelicità, del­
l'infelicità generale e della propria, indissolubilmente connessa alla prima, e toglier
loro le soddisfazioni apparenti. [...] Appartiene al meccanismo dell'oppressione
vietare la conoscenza del dolore che produce, e una via diretta conduce dal van­
gelo della gioia alla costruzione dei campi di sterminio. [...] Questo è lo schema
Ibidem, pp. 141-42.
54
CRITICA DEL NON VERO
dell'intatta capacità di godere. Chi lo denuncia avrà, dallo psicanalista, la conferma
di essere afflitto da un complesso edipico 63 .
La fantasia e il desiderio, legati alla eliminazione del dolore, sono,
non affatto per scherzo, il terreno prodotto dall'Edipo: essi denunciano la
realtà e ne producono un'altra - ma questo è lo schema di ogni
interpretazione, far di un testo un testo leggibile; anche l'ermeneutica è
così affetta dal complesso edipico. Quel che importa non è, come nella
psicoanalisi, ammesso che lì lo sia, la storia individuale e le sue lacune
rimosse, ma il fatto che tali lacune, senza mai poterlo confessare, sono
state create dal pensiero/ricordo della felicità e a essa segretamente com­
misurano ogni reale, senza scegliere nella «umiliante alternativa di fronte
alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: di­
ventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino» 64 . Poiché non
si tratta di restare bambini, non si può far finta che il testo sia immedia­
tamente il significato, ma neppure l'apparenza reale lo è. Solo la fantasia,
ovvero il desiderio che ritorni quello stato del quale ci si ricorda, ma che
probabilmente non è mai esistito, dove s'è stati felici, decide dell'interpretazione; è facile darne un esempio nei testi di Adorno. Con la famiglia,
scrive ad esempio il nostro,
è scomparso non solo l'organo più efficiente della borghesia, ma la resistenza che,
se opprimeva l'individuo, d'altro canto lo rafforzava, o addirittura lo produceva.
La fine della famiglia paralizza le controforze. L'ordine collettivistico nascente è
una tragica parodia di quello senza classi: e col borghese liquida l'utopia che si
nutriva dell'amore per la madre 65 .
Ma se l'unica possibilità fosse legata al ritorno dell'utopie© saremmo
nei guai; non è attraverso la contrapposizione di immagini ideali alla triste
condizione reale che il pensiero diviene in grado di penetrarla. Anzi, le
immagini utopiche, quasi come un soddisfacimento allucinatorio - una
metonimia della critica - sono contrarie alla dialettica interpretativa, e
come tali proibite.
La famosa proibizione di farsi immagini adorniana, la si ritrova in
uno dei luoghi meno aspettati, la Estetica di Hegel, ovvero le lezioni rac­
colte sotto questo titolo da H.G. Hotho e pubblicate nel 1836-38. Dove
65 Ibidem, pp. 63-64.
64 Ibidem, p. 155.
65 Ibidem, p. 13.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
55
si dice che la riproduzione della natura rimane spesso indietro rispetto a
se stessa, Hegel racconta: «James Bruce, nel suo viaggio in Abissinia,
avendo mostrato ad un turco un quadro raffigurante pesci, dapprima lo
sbalordì, ma subito dopo ne ebbe questa replica: "Se questo pesce si
leverà contro di te il giorno del giudizio e ti dirà: tu mi hai dato sì un
corpo, ma non un'anima viva, come ti giustificherai allora di fronte a
questa accusa?"» 66 . Adorno diffida delle immagini per lo stesso motivo: il
loro carattere espressivo è troppo forte per dir che siano solo un gioco, ma
la loro possibilità è troppo debole perché siano un risarcimento. Per con­
tinuare con la metafora, nel giorno del giudizio il pesce avrà sì avuto
l'anima, al contrario di quanto narra Hegel, ma accuserà allora di averlo
lasciato senza terra. Allo stesso modo la proibizione di Adorno contro le
immagini felici non è rivolta a tutelare la sacralità o inarrivabilità dell'immaginato, ma bensì a evitare che si confonda l'immaginato con il reale.
L'esatta fantasia non è fantasia produttrice di immagini, la Produktive
Einbildungskraft di Kant, essa è una fantasia senza immagini, che utilizza
il materiale dell'enigma, sul quale si applica, come se fosse l'unico mate­
riale esistente - è, come scrisse Adorno, un'arte combinatoria, cioè di
composizione di forze. Forze della cosa, che il soggetto, non spezzato il
pensiero dal desiderio pone in forma. Ed è un soggetto tutt'altro che
onnipotente o perfettamente centrato, anzi
la ragione dialettica è l'irragioncvolezza di fronte alla ragione dominante. [...] La
dialettica non può arrestarsi davanti ai concetti di sano e di malato, e neppure
davanti a quelli, strettamente affini, di ragionevole e irragionevole. Una volta che
ha conosciuto per malato l'universale dominante [...] vede la sola cellula di gua­
rigione in ciò che, commisurato a quell'ordine, appare malato, eccentrico, paranoide o addirittura folle - e ancora prosegue - E essenziale al pensiero, un momento
di esagerazione, un trapassare oltre le cose, un liberarsi dalla gravita del puro fatto
- per concludere infine che - veri sono solo i pensieri che non comprendono se
stessi 67 .
L'esatta fantasia è tanto del soggetto quanto della cosa, è il loro
possibile incontro, dove l'uno presta la forma di avvenimenti, esperienze
e ricordi, all'altro affinchè questo abbia oltre che l'immagine anche l'anima.
La stessa cosa accade per i testi, e le interpretazioni. Vediamo di
comporre una possibile costellazione di ciò a partire da quanto Adorno
66 G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino, 1963, p. 53.
67 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 76, 147 e 231.
56
CRITICA DEL NON VERO
racconta sul proprio esilio. L'intellettuale è minorato, una volta che sia
avvenuta nell'emigrazione l'espropriazione della lingua. Essa non è qual­
cosa di morto, ma partorisce a seconda dell'inseminazione: la parole han­
no una storia 68, anzi per la maggior parte, esse sono la loro storia: quel che
indicano è il riassunto di quel che sono servite a indicare, in ogni tempo
e fin nel più piccolo filo tessuto 69. Quella dell'emigrato è condizione stori­
ca di chiunque non sia a casa propria, e per Adorno certo, nessuno è a
casa propria in questo mondo; ogni lingua è stata espropriata, anche in
questo caso vale la massima secondo la quale «la pagliuzza nel tuo occhio
è la migliore lente d'ingrandimento» 70. Se l'espropriazione è compiuta,
solo «la sensibilità per tutto ciò che è discosto e appartato, l'odio per la
banalità, la ricerca ci ciò che non è ancora consunto [...] è ancora l'ultima
chance del pensiero» 71 ; «la ragione si è rifugiata - interamente ed ermeti­
camente - nelle idiosincrasie personali» 72 , che così personali non sono poi,
ma anzi, come nella brutta letteratura le frasi che vengono messe in bocca
ai protagonisti e che dovrebbero essere le più a loro intime proprie e
individuali suonano invece generalissime secondo i più noti cliches, allo
stesso modo nelle idiosincrasie personali si scopre l'universale:
è vero che nessuna idea è esonerata da questa connessione, che nessuna di esse
può persistere ciecamente nella sua chiusura particolare. Ma tutto dipende dal
modo in cui si compie il trapasso. La iattura viene dal pensiero come violenza,
dall'abbreviazione indebita del percorso, che deve passare attraverso l'impenetrabi­
le, attraverso la durezza del particolare, per essere in grado di raggiungere l'univer­
sale, la cui sostanza è custodita nell'impenetrabilità stessa 1^.
Le idiosincrasie personali, come le lacune testuali, sono l'impe­
netrabile, nel quale si conserva la sostanza della cosa; perché «le cose non
sono quello che sono» come abbiamo già letto nella Dialettica dell'illumi­
nismo. Lo stesso viene ribadito, in termini più obicttivanti poco oltre: «In
un testo filosofico tutte le proposizioni devono essere ugualmente vicine
al centro»: nessuna principale significa anche: nessuna secondaria. Il con­
centrico, o l'a-centrico (Adorno si esprime esattamente al contrario nella
Dialettica negativa, tutte le proposizioni devono essere ugualmente lontane
6rt Cfr. Th.W. Adorno, Tbesen ùber die Sprache des Philosophen, op. cit.
69 Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualitàt der Philosophie, op. cit.
70 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 48.
71 Ibidem, p. 70.
72 Ibidem, p. 73.
73 ìbidem, p. 81. Corsivo mio.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
57
dal centro), hanno a che fare con l'«indugio» presso la cosa, entrambi
devono scoprire il particolare in modo da non farne un semplice passo sul
cammino dell'universale, cosa che sarebbe segretamente la radice di ogni
idealismo 74 ; «la conoscenza veramente allargante è quella che indugia
presso il singolo fenomeno finché, sotto l'insistenza, il suo isolamento si
spezza» - l'insistenza è ben inteso quella del desiderio - «ciò presuppone,
evidentemente, un rapporto con l'universale, ma non un rapporto di sus­
sunzione, anzi piuttosto il contrario. La mediazione dialettica non è il ricor­
so a qualcosa di più astratto, ma il processo di risoluzione del concetto in se
stesso» 7\ E Adorno prosegue citando il Nietzsche della Gaia scienza con­
tro la vis eclettica e conciliatrice delle storie del pensiero: «la morale del
pensiero è appunto qui: il suo procedere non deve essere né ottuso né
sovrano, né cieco né vuoto, né atomistico né consequenziario» - qualcosa
di contrario al circolo ermeneutico fa capolino: il particolare ancorché
concorrere alla costituzione del tutto, e viceversa, è un elemento che tende
alla sua rottura, e tuttavia tale forza di rottura è data solo dal circolo entro
il quale gli elementi sono spinti: non è il circolo da scoprire ma la forza
che ha spinto gli elementi dentro di esso. Per questo la richiesta di ripro­
durre tutti i passaggi che hanno portato al testo è giudicata inutile prima
ancora che impossibile.
Non si tratta di stabilire un percorso ma, al contrario, di rappresenta­
re un campo di forze, dove anche le lacune sono conservate come forza
del testo. Però le lacune conservano la loro forza solo entro un pensiero
che non rinunci all'obbligo di esprimersi per concetti. Dopo aver parlato
delle lacune, nello stesso aforisma 50, si legge:
II pensiero che rinuncia, in nome del rapporto al proprio oggetto, alla piena
trasparenza della sua genesi logica, resta pur sempre in difetto, in quanto rompe
la promessa che è implicita nella forma stessa del giudizio ' 6 ,
e quindi
quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano
trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre
torto, ma - nello stesso tempo - da convincere l'avversario della sua non-verità 77 .
74 Ibidem, p. 77.
1~' Ibidem, p. 78. Corsivo mio.
76 Ibidem, p. 87.
" Ibidem, pp. 73-74.
58
CRITICA DEL NON VERO
Non c'è modo di allungare direttamente le mani verso la cosa ma solo
la possibilità di farla risultar fuori dal testo, attraverso la forza che si
instaura tra rigore e non conciliazione formale. Se manca il rigore, la forza
si mescola, gli elementi si sciolgono, se abbonda la conciliazione nella
forma, le tensioni sono appianate in una struttura rigida e stabile. Obbligo
alla forma e fedeltà agli elementi che di per loro distruggerebbero la forma
come
il talento [che] non è forse altro che rabbia felicemente sublimata, la capacità di
tradurre quelle energie che, un tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo
di distruggere gli oggetti che opponevano resistenza [...] e di essere altrettanto
tenaci e implacabili nella ricerca del segreto degli oggetti 78,
giacché
il mondo [...] il suo principio unificatore è lo sdoppiamento, ed esso concilia solo
in quanto attua la perfetta inconciliabilità di universale e particolare. La sua essen­
za è l'inessenza: ma la sua apparenza, la menzogna mercé la quale sussiste, è
l'esponente della verità 79
- ogni negazione deve essere, insomma, determinata.
L'interpretazione è chiamata a rispettare l'essenza del testo anche se
questa è inessenziale, giacché tramite di essa può scorgere e far sorgere
l'esponente della verità. E una mimesi cosciente, ossimoro, alla quale
Adorno chiama l'interpretazione, una identificazione con l'aggressore
dove «non valga far paura». C'è un racconto, nei Minima moralia, com­
movente e triste, a proposito delle due lepri che si salvano dal cacciatore
fingendo d'essere morte,
Fin da quando cominciai a riflettere, mi rese sempre felice la canzone che comincia
con le parole «tra il monte e la profonda, profonda valle»: la storia delle due lepri
che, mentre si sollazzano sull'erba, sono abbattute dal cacciatore, e, quando si
rendono conto di essere ancora in vita scappano via. Ma solo più tardi ho com­
preso il monito contenuto in quella storia: la ragione può resistere solo nella
disperazione e nell'eccesso; occorre l'assurdo per non soccombere alla follia oggettiva;
e Adorno commenta che: "bisognerebbe fare come le due lepri [...] cadere
follemente come morti, raccogliersi, riprendere coscienza, e, se si è ancora
Ibidem, p. 123.
Ibidem, p. 129.
LA TRISTE SCIENZA DELL'ESPERIENZA
59
in grado di respirare, scappare a tutta forza 80. Forza che è la stessa della
contraddizione, delle lacune, e del padre del pensiero, il desiderio, infatti:
la forza dell'angoscia e della felicità sono la stessa cosa: la stessa apertura illimitata
[...] all'esperienza, in cui il soccombente si ritrova. [...] Solo l'eccentrico sarebbe
in grado di resistere e di imporre un alt all'assurdo. Egli solo potrebbe capacitarsi
dell'apparenza del male. [...] L'astuzia delle lepri impotenti riscatta - con le lepri
- anche il cacciatore, a cui invola la sua colpa 81 .
Contro il nominalismo: la verità è un indugio, una imitazione del
falso. Una imitazione che ami le sue lacune e soppressioni, la parte
ingiustificabile, la non autocomprensione, dove «le bugie abbiano le gam­
be lunghe» e si possa dire «precorrano i tempi» 82 . Ma tale estraneità,
unico rimedio, secondo le parole di Adorno, all'estraniazione, non è pos­
sibile procurarsela che attraverso un ricordo della memoria, la trasforma­
zione degli impulsi in impulsi intellettuali; non perché queste proprietà del
soggetto siano esse, psicologicamente, il vero, ma perché solo attraverso di
esse la fantasia può capacitarsi della storia del testo. Lo spirito non è che
istinto che ha avuto fortuna; «i tabù costituiscono, nel loro insieme, il
rango intellettuale di una persona», le soppressioni il rango di un testo, e
«ciò che vale per la vita istintiva, vale anche per quella spirituale» 83 . Ma
compiere tale esperienza è, nel mondo oggi, la cosa più difficile.
Questa impossibilità è forse il tema più noto nel pensiero di Adorno;
scrive «l'idiozia è oggettiva», neppure l'ironia è ancora in grado di resiste­
re alla follia.
Il medium dell'ironia, la differenza tra ideologia e realtà, è scomparso. L'ideo­
logia si rassegna a confermare la realtà attraverso la duplicazione pura e semplice
della stessa. L'ironia diceva di una cosa: questo è ciò che afferma di essere, ma
ecco com'è in realtà; ma oggi, anche nella menzogna radicale, il mondo si fa forte
del fatto che le cose stanno proprio cosi, e questa semplice constatazione coincide,
per lui, col bene 84.
La celebre chiusa dei Minima moralia che afferma essere la prospet­
tiva di interpretazione delle cose la più facile a ottenersi e insieme
80 Ibidem, p. 240.
81 Ibidem, p. 241.
82 Ibidem, p. 123.
83 Ibidem, p. 21.
84 Ibidem, p. 255.
60
CRITICA DEL NON VERO
l'assolutamente impossibile, per quel che essa richiederebbe all'interpre­
tante di non essere nel mondo in cui è necessario interpretare, indica
tuttavia una prospettiva: «considerare tutte le cose come si presenterebbe­
ro dal punto di vista della redenzione». Un punto di vista che non si
instaura senza il desiderio e l'esperienza dell'individuo, ma che solo trami­
te questa si fa falso in un attimo: «II pensiero che respinge più appassio­
natamente il proprio condizionamento per amore dell'incondizionato,
cade tanto più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balìa del
mondo» 85 .
Il condizionato non è chiuso, non è la totalità. Il tutto è falso, ma il
Falso non è il Tutto. Perché il tutto è storico, è storia naturale, cioè natura
sotto la cifra storica e storia sotto la cifra naturale. Fino al punto in cui sia
possibile riconoscere che: «l'individuo è talmente storico in tutte le sue
fibre da essere in grado di ribellarsi, con la trama sottile della sua costi­
tuzione tardoborghese, alla trama sottile della costituzione tardoborghese» 86. Questo è lo schema della parodia, la teoria interpretativa di Adorno.
La teoria si vede rinviata all'obliquo, all'opaco, all'indeterminato, che, come tale,
ha senza dubbio qualcosa di anacronistico, ma non si esaurisce nell'invecchiato,
perché ha giocato un tiro alla dinamica storica,
come Benjamin ha lasciato in eredità il compito di
non affidare esclusivamente questo tentativo [di mettere filosoficamente a frutto
ciò che non è ancora determinato dalle grandi intenzioni] ai rebus sconcertanti del
pensiero, ma di recuperare ciò che è privo di intenzione attraverso il concetto:
l'obbligo di pensare dialetticamente e non dialetticamente ad un tempo 87
così che per questo:
al pensatore odierno non si chiede niente di meno che questo: essere nello stesso
momento nelle cose e al di fuori delle cose; e il gesto del barone di Mùnchhausen,
che si solleva dallo stagno afferrandosi per il codino, diventa lo schema di ogni
conoscenza che vuoi essere qualcosa di più che constatazione o progetto 88.
85
86
87
88
Ibidem,
Ibidem,
Ibidem,
Ibidem,
p.
p.
p.
p.
304.
171.
179.
78.
CAPITOLO III
MODELLI INTERPRETATIVI
La dialettica è come il sole: se la guardi ti acceca, ma se aspetti che
passi diventa notte.
Franco Fortini
Tra due posizioni divergenti, spesso il vero non trova affatto posto
nel mezzo. Quasi tutti i commentatori hanno fatto riferimento all'estetica
come al luogo dove Adorno è costretto a lasciar vigere un concetto enfa­
tico di verità; con due posizioni che possono essere presentate l'una come
critica del dogmatismo/estetismo, l'altra come riconduzione della verità
della filosofia alla verità dell'arte. Peter Lang 1 può ben rappresentare la
prima posizione. Egli reperisce tanto in Gadamer quanto in Adorno un
riferimento dogmatico alla verità dell'arte, operato per togliersi d'impac­
cio dalla indecidibilità delle rispettive teorie ermeneutiche e di critica
dell'ideologia. All'altro estremo possiamo trovare soprattutto i lavori fran­
cesi 2 dove, sotto la doppia cifra dello strutturalismo e del surrealismo, la
teoria estetica destituita, almeno nelle intenzioni, dal regno soggettivo, si
1 P.C. Lang, Hermeneutik-Ideologiekritik-Asthetik. Uber Gadamer und Adorno
sowie Fragen einer aktuallen Asthetik, Forum Academicum, inder Verlagsgruppe
Athenàum-Hain-Scriptor-Hanstein, Kònigstein 1981, pp. 96-97.
2 Per una breve panoramica si possono vedere i due numeri monografici della
«Revue d'Esthétique», Présences d'Adorno, nel n. 1-2, del 1975, in particolare i saggi di
Baucar, Jimenez, Ladmiral; Adorno, nel n. 8, nuova serie, 1985, in particolare i lavori
di Ladmiral, Heyndels, Zima.
Assai indicativo è anche il libro di O. Revault d'Allones, tradotto in italiano,
Destrutturazioni. Contro l'imperialismo culturale, ed. Faenza, Imola 1976, sebbene lasci
perplessi la ostentata struttura surrealista. Ad esempio a p. 75 leggiamo che Adorno
non sarebbe stato in grado di «pensare fino in fondo il rifiuto della categoria borghese,
ottocentesca, di coscienza» e pertanto scrive l'autore, «mi prendo la libertà, ogni volta
che Adorno scrive il termine "coscienza" di leggere: «le forze sociali rivoluzionarie"»,
sostituzione indebita in Adorno e discutibile nella realtà. Certamente Adorno pensava
che la coscienza borghese, vista la sua liquidazione de facto avvenuta nella struttura
produttiva sociale, potesse esercitare il ruolo di richiamo e contestazione, esattamente
62
CRITICA DEL NON VERO
presenta quasi in uno schema schellinghiano come modello dell'azione
delle forze nel mondo. In Italia, un tentativo simile è stato condotto, per
esempio, da P. R. Felicioli, in Esperienza, estetica e soggettività in Th.W.
Adorno\ sempre sulla scia del possibile rapporto tra Adorno e Gadamer
- questa volta implicito 4 - nella ricerca di un modello di esperienza della
tradizione che abbia al suo interno la tematizzazione piena dell'individuale
e del suo rapporto affettivo con le cose.
In tutti questi casi, il rapporto tra Gadamer e Adorno - come più
tardi, morto Adorno, quello tra la Scuola di Costanza e la teoria critica è probabilmente spinto troppo oltre i termini comuni. È vero che entram­
bi si richiamano allo hegeliano "Philosophie ist ihre Zeit in Gedanken
erfafit"; è anche probabile che su questo, come sulla possibilità da parte
dell'esperienza artistica di possedere la chiave per dischiudere l'enigma di
come avvenga l'interpretazione, i due concordino. Tuttavia mi sembra che
il problema ermeneutico si ponga solo dopo questo punto. La nozione di
«orizzonte» e quella di «ideologia» definiscono entrambe la formazione di
una Bildung che non è padroneggiata dall'individuo. Ma la differenza
consiste in questo: mentre per Gadamer la comprensione dell'orizzonte, la
fusione, è la situazione ermeneutica nella quale, in ultima istanza, c'è da
apprendere soprattutto il proprio apprendere, l'essere come medio tra­
scendentale della costituzione dell'esperienza storica dei soggetti, per
Adorno, al contrario, il proprio tempo appreso è tanto poco compreso
quanto qualsiasi altra esperienza di irrazionalità eteronoma, e non apre
affatto alla possibilità d'esperienza di invarianti ontologiche. Anzi su di
esso di appunta proprio la critica dialettica, per portare fuor di se stessa
questa «apprensione». Quando Gadamer conclude alla ontologia del lin­
guaggio, è molto più vicino allo Hegel del manuale, quello della nozione
idealistica dello spirito come assoluta comprensione e espressione della
sostanza (e cioè come soggetto), che non Adorno, per il quale l'unico
come nella teoria marxista della letteratura la differenza tra strutture produttive e
coscienza di esse può portare a percepire le prime, finalmente, come non naturali. In
nessun caso, tuttavia, Adorno avrebbe potuto chiamare forza sociali rivoluzionaria una
forma in larga misura ideologica e per lo più in via di sparizione.
3 P.R. Felicioli, Esperienza estetica e soggettività in Th.W. Adorno, in «Itinerari»,
anno XXII, 1983, pp. 163-182. Probabilmente influenzato dai precedenti lavori di E.
Ruschi, il lavoro è di estremo interesse. È l'unico, ad esempio, che elabori il tema della
«monade» presente nella Teoria estetica di Adorno, in collegamento con G.B. Vico.
4 Cfr. le notazioni di G. Vattimo contenute nella presentazione dell'edizione ita­
liana del libro di Gadamer, Verità e metodo, ed. Bompiani, Milano 1983.
MODELLI INTERPRETATIVI
63
assoluto che esiste è quello falso presente nella coscienza, che presenta a
se stesso lo stato sociale di cose come naturale e immutabile.
Il rapporto tra ontologia ermeneutica e dialettica ermeneutica, se
passa l'ossimoro, è da vedere all'opera semmai, nelle differenti nozioni di
essere. Un paradigma di come questo tema sia stato affrontato - e a volte
anche distorto dal contesto ideologico - la da, per esempio, Fulvio Car­
magnola 5 . Nella esposizione della tesi adorniana sulla necessità che il
concetto - che «è in sé differenza» - trovi nella dialettica l'espressione del
non concettuale, Carmagnola, a proposito dell'obbligo di far questo tra­
mite concetti, usa «pretesa» al posto di «obbligo» 6. Ebbene, nel passaggio
tra «obbligo» e «pretesa» è racchiusa in piccolo la storia della ricezione
adorniana dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri. Scrive dunque
Carmagnola:
Se ci poniamo ad analizzare la torsione cui Adorno sottopone le strutture, in Hegel
sovrane e oggi vacillanti, del pensiero dialettico, un elemento traspare immediata­
mente: il potere che Adorno tuttora riconosce al concetto, quello di costituire un
ponte tra lo spirito e la realtà. [...] Guardare all'hegelismo radicale di Adorno [...]
attraverso la lente della genealogia nietscheana, può scoprire, in questa versione
ultima e cosi raffinata del pensare dialettico, la sua ultima hybris 1 .
Come dire che dopo la morte di Dio, gli obblighi della ragione sono
solo tracotanza, e quindi «pretesa» appunto, quella adorniana compresa:
che la filosofia riesca infine a parlare di altro da sé senza renderselo iden­
tico. La ragione deve condurre a fondo la critica a se stessa fino a inde­
bolirsi. A favore di che? - si domanderebbe Adorno. «Separare verità e
menzogna è il fine del metodo materialistico, non il suo punto di partenza.
In altre parole il suo punto di partenza è l'oggetto permeato di errore, di
5 F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi. Sulla nozione di apparenza in Hegel,
Nietzsche, Adorno, Unicopli, Milano 1986, p. 117 e sgg.
In proposito, sempre in italiano, anche i lavori di R. Racinaro e T. Perlini, trattano
questo tema. Racinaro, in Hegel nella prospettiva di Bloch e Adorno, in «Critica marxi­
sta», 1974, n. 1, pp. 127-53, illustra perfettamente il rapporto tra reale/astratto/falso e
irreale/concreto/vero, riconducendolo sia al tema dell'identità del concetto sia, paral­
lelamente e quasi in una sorta di nuova Fenomenologia dello spirito, alla società come
totalità e alla lettura adorniana dei Grundrisse marxiani. Perlini in Dialettica e utopia,
in «Aut Aut», 1970, n. 119-120, pp. 135-56, parla di una «doppia categoria di totalità»
in Adorno, una del «già», quella sociale, e l'altra aperta, del «non ancora».
6 F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., pp. 117-21.
7 Ibidem, p. 117.
64
CRITICA DEL NON VERO
doxa» 8 - «concetto enfatico di verità» 9. All'ontologia, come regno della
necessità, si contrappone la deontologia come regno della possibilità questo è il principio di tutte le interpretazioni adorniane.
Sarebbe nullo il pensiero senza bisogno, [...] vero sarebbe il pensiero che desidera
il giusto - sebbene - [...] il pensiero a partire dal bisogno si confonde se il bisogno
viene concepito in modo meramente soggettivo. I bisogni sono un conglomerato
del vero e del falso: vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto 10
- è il bisogno, la doxa, dalla quale sempre prende l'avvio la filosofia. Non
certo per scelta, ma perché il pensiero non può attingere alla fonte del
vero, bello e buono. Radicale è per Adorno, come per Marx del resto, non
la riflessione sull'origine in quanto tale, ma la penetrazione e comprensio­
ne delle «conseguenze»; semmai la «foce» del razionale, non la fonte. In
questo senso, porre desiderio a fondamento della interpretazione significa
affidarla a un organo fragile e fallibile, a quel ricordo che, abbiamo visto,
produce il materiale del desiderio. È allora che la questione di una reden­
zione complessiva - di un Dio che interpreti le cose e con questo ci salvi
- diviene nel suo risultato «pressoché indifferente» 11 . Il problema sta
piuttosto nel mettersi nella prospettiva di Dio, di fronte al quale «poiché
egli le ha fatte egli le comprende» 12, le cose della natura, s'intende - e
anche l'uomo, che deve porsi nella distanza dalla quale ogni cosa sembri
revocabile. Nell'ontologia nulla è revocabile. In Heidegger nulla è revoca­
bile. La differenza tra interpretazione corretta e scorretta diviene, nono­
stante ogni contraria polemica, di nuovo affidata alla capacità del singolo
uomo empirico - purché sia nella situazione di ascolto corretta. In Ador­
no, per contro, la possibilità di comprensione viene affidata alla possibilità
di desiderare il giusto: «[...] pensiero e pensato sono reciprocamente
mediati. Propriamente si può comprendere filosoficamente solo ciò che è
vero. Realizzare il giudizio, in cui si comprende, coincide con la decisione
sul vero e sul falso» 13 . E «vero» per Adorno è solo la negazione determis M. Jay, Th.W. Adorno, Fontana Paperbacks, London 1984; ed. it. trad. S. Pompucci Rosso, II Mulino, Bologna 1987. M. Jay sta citando da Th.W. Adorno, Charles
Baudelaire. Einer Lyriker in Zeitalter des Hochkapitalismus, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt a. M. 1969.
9 Th.W. Adorno, Wozu noch Philosophie?, op. cit.
10
11
12
15
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 87.
Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.
II riferimento è, ovviamente, a Vico.
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 55-56.
MODELLI INTERPRETATIVI
65
nata del falso che ora regna. Comprensibile è quindi solo la negazione del
falso - ma perché non l'affermazione del vero?
Scrive Bodei 14 che la forma-identità della riproduzione sociale ha
fatto da modello a ogni sviluppo individuale, introiettata con terrore, e
conclude:
la logica dell'identità ha il suo supporto economico nel progressivo affermarsi di
ciò che appare come scambio di equivalenti. [...] Si genera così, in questa catena di
mediazioni dell'identico, la scomparsa e l'ottundimento dell'esperienza. L'impres­
sione del déjà vu colpisce i sensi non meno del pensiero 15 ;
e Adorno commenta se stesso dicendo che se proprio di ontologia si
dovesse parlare «di fronte alla possibilità concreta dell'utopia, la dialettica
è l'ontologia dello stato falso» 16 . Ma si tratta di una ontologia negativa e non «nera» come scrive Carmagnola, forse troppo suggestionato dalla
presenza di Nietzsche 17 -, in quanto concepisce il vero solo come negazio­
ne del falso e non accetta nulla di ontologico propriamente detto, ma anzi
riconosce nell'ontologia una produzione della coscienza di fronte alla tra­
dizione e alla società. In questo stato, prosegue Bodei,
la lotta di classe non è scomparsa, è diventata solo «virtualmente invisibile» e
strumentalizzata alla logica dell'equilibrio. Non potendosi manifestare come lotta
aperta, si manifesta in sede privata. [...] In tutte le società che colpiscono il dis­
senso, la speranza di un mondo nuovo giace nella resistenza e nel rifiuto di piccole
minoranze. [...] Adorno prefigura una lunga guerra di posizione. [...] Al concetto
di lotta di classe si sostituisce quello di resistenza al dominio
e in questo, che sembra individualismo borghese, non però è assente la
coscienza della sua insufficienza, proprio là dove meno ce la si attende:
«[l'arte] è il "luogotenente" del soggetto collettivo assente [...] essa costi­
tuisce l'agnizione e la revoca del rimosso sociale» 18, o come si esprime
14 R. Bodei, Adorno e la dialettica, in «Rivista critica di storia della filosofìa», anno
XXX, ottobre-dicembre 1975, fase. IV, pp. 432-57.
15 Ibidem, p. 435.
16 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 10.
'' F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., p. 121 : «... utopia nera che è
consapevole di doversi esaurire nell'infinito analizzare e disporre quei pochi e frusti
concetti della tradizione» - posizione inaccettabile da parte di Adorno. Tra l'altro
Carmagnola cita I. Fetscher, Ein Kampfer ohne lllusion, che parla di «Hòffnungslos
Liebe» che è certo qualcosa di molto diverso da una utopia nera...
18 R. Bodei, Adorno e la dialettica, cit., pp. 438-40.
66
CRITICA DEL NON VERO
Adorno nella teoria estetica, essa è «storiografia inconscia». Alla filosofia
come interpretazione spetta di mostrare come l'arte menta sul mondo per
poter dire il vero, si procuri cioè un'estraneità necessaria, che la filosofia
non può possedere - pena la regressione, tanto forti sono in essa le ten­
denze ad assimilarsi al dominio - ma che solo essa può giustificare. Allo
stesso modo di fronte alla realtà, si potrebbe dire, l'arte senza filosofia è
cieca e la filosofia senza arte è vuota.
Arte e filosofia hanno un elemento in comune non nella forma o nel procedimento
formativo, bensì in un atteggiamento che rifiuta la pseudomorfosi. Entrambe resta­
no fedeli al loro contenuto al di là della loro opposizione; l'arte indurendosi contro
i propri significati; la filosofia rifiutando di accettare qualsiasi immediato 19.
E Bodei, parlando dei tre saggi giovanili dei quali anche noi ci siamo
occupati, scrive che:
come nella psicoanalisi freudiana (che qui costituisce uno dei modelli accanto ad
altre forme di ermeneutica), compito della filosofia è decifrare testi lacunosi, ve­
dere significativi i vuoti quanto i pieni, puntare l'attenzione su quei «resti del
mondo fenomenico» - quali sono, ad esempio, i lapsus in Freud - che apparen­
temente non hanno senso, mentre sono invece il filo conduttore verso il rimosso
sociale 20,
concludendo che
difficilmente tale dialettica [...] priva del momento risolutivo della positività me­
diata, può ottenere una fondazione legittima, poiché la sua vera fondazione è sul
non ancora, su ciò che attende di realizzarsi e la cui assenza brilla nel mondo come
contraddizione 21 .
L'unione di «non ancora» e ermeneutica psicoanalitica è del resto
professata esplicitamente da Adorno, secondo il quale: «la speranza non
è il ricordo tenuto fermo bensì il ritorno dell'obliato» 22 : una società senza
classi. Ed è quindi vera l'interpretazione di Bodei, che la fondazione della
19 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 14. Traduzione in parte da me
modificata, corsivi compresi.
20 R. Bodei, Adorno e la dialettica, cit., p. 446.
21 Ibidem, p. 456.
22 Th.W. Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp Verlag, 4 Banden, Frankfurt
a. M. 1958, 1961, 1965, 1974, ed. it. Note per la letteratura, 2 volumi, Einaudi, Torino,
1979, tr. E. De Angelis, G. Manzoni, A. Frioli, voi. II, p. 131.
MODELLI INTERPRETATIVI
67
dialettica, ovvero di quel tipo di interpretazione che si comprende come
prassi in quanto modifica e distrugge il carattere di enigma della cosa,
poggia sulla speranza come ritorno dell'obliato; speranza che è, in termini
ancora da chiarire, esperienza di una sorpresa.
Proprio Freud nello scritto sulla negazione 2 ' aveva affermato che la
risposta: «l'avevo sempre saputo ma non me lo ero mai ricordato» sia per
essenza la risposta che si ottiene quando si è avanzata una ricostruzione e
interpretazione corretta all'analizzando. Allo stesso modo Adorno è alla
ricerca di una unità morale ricostruita dall'interpretazione opposta all'im­
pressione di frammentarietà e estraniazione, che «il compito della filosofia
sarebbe piuttosto quello di cercare - nell'opposizione di sentimento e
intelletto - la loro unità: che è appunto l'unità morale» 2*.
Si tratta, in entrambi i casi, di una anamnesi di tipo del tutto parti­
colare, perché al contrario dell'ontologia platonica, quel che viene
«ricordato» a rigore non esiste prima del ricordo: meglio detto, esiste nella
forma della sua assenza, che come le lacune del testo, di cui abbiamo letto
nei Minima moralia, contribuiscono alla forza del testo non meno delle
presenze. Scrive Adorno nella Teoria estetica che:
il linguaggio delle opere d'arte è costituito [...] da una corrente sotterranea collet­
tiva [...]; la loro sostanza collettiva parla del loro stesso carattere di immagini - e
quindi - ... il contenuto di verità delle opere d'arte è storiografia inconscia, solidale
con quel che fino ad oggi è sempre di nuovo soccombente 25 .
Ed è chiaro che tale «solidarietà», che si costituisce attraverso il
momento magico &e\Y «apparition» cui è sempre connesso il fascino del
bello, ha strette relazioni con la memoria: «Senza una memoria storica non
ci sarebbe alcuna bellezza» 26 , «quell'esperienza è memore di una situazio­
ne senza dominio, che probabilmente non c'è mai stata» 21 . Questa interpre­
tazione fondata sul «non ancora», come scrive Bodei un «non ancora» che
è memoria di una situazione che probabilmente non c'è mai stata, è lo
scandalo ermeneutico della teoria critica, il suo passaggio dalla verità-checosa alla verità-per-che, o detto chiaramente: il passaggio dalla verità non
21 Cfr. S. Freud, La negazione e altri scritti teorici, a cura di C. Musatti, tr. Baruffi,
Colorni, Fachinelli, Einaudi, Torino 1981.
24 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 237. Corsivo mio.
25 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 146 e 232.
26 Ibidem, p. 110.
2/ Ibidem, p. 131. Corsivo mio.
ÒO
CRITICA DEL NON VERO
dialettica, in ultima istanza sempre trascendentale, a quella dialettica, che
è la differenza tra esperienza e sapere,
... scrittura sorgente in un lampo e scomparente che tuttavia non si lascia leggere
per ciò che significa 28 - in particolare nell'opera d'arte dove - ciò che è sfuggente
viene obbiettivato e chiamato a durare; per questo essa è concetto, solo che non
è il concetto della logica discorsiva 29 .
Lo stesso concetto non discorsivo era, in Die Aktualitàt der Philosophie, l'unica possibilità della filosofia di liberarsi dal gioco dell'esattezza
cartesiana e mordere il pane che ricostruisce un testo facendo scomparire
il carattere di accecamento nel mentre che fornisce una risposta. Sempre
nella Teoria estetica si dice che:
l'autorità delle opere d'arte risiede in questo: esse costringono a riflettere su quale
base mai esse, figure dell'esistente e incapaci di chiamare all'esistenza ciò che non
esiste, potrebbero divenirne l'immagine travolgente, se il non esistente non esistes­
se di per se stesso 30,
questa è l'esistenza del «non ancora» di cui parlava Bodei, la medesima
ancora intrecciata al ricordo individuale che si scontra con una memoria
di una situazione che forse non c'è mai stata. A tal punto è obiettivo,
questo «non ancora», una volta che ci si sia liberati dal modello scienti­
stico di oggettività, che esso funge anche da index veri, infatti:
il criterio di oggettività non è la verifica della tesi enunciata tramite un esame
iterativo, ma è la esperienza individuale compresa tra speranza e delusione. Nel
ricordo essa da rilievo alle proprie osservazioni, confermandole o confutandole 31 .
Sia la verità della filosofia che quella inconscia delle opere d'arte che sono «storiografia del desiderio di memoria» - hanno la loro chiave
d'accesso nell'interpretazione. Scrive in proposito P. Biirger, per molti
versi critico di Adorno, che l'arte è storiografia inconscia perché «il ma­
teriale artistico di un'epoca è il risultato di un processo storico, in esso è
28
29
30
31
miei.
Ibidem, p. 137.
Ibidem, p. 124.
Ibidem, p. 141.
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 11. Corsivo e spaziatura
MODELLI INTERPRETATIVI
69
congelata un'esperienza storica» 32 - e Adorno spiega che se la forma va
comunque sentita come un contenuto è perché essa: «altro non è che un
contenuto sedimentato» 53 . Insomma, il contenuto delle opere d'arte, che
fa sì che esse registrino inconsciamente un'esperienza che soccombe, è la
loro forma, la quale a sua volta è stata la registrazione di un contenuto
d'esperienza; è tra questi due estremi che si cifra la verità, tanto che «l'arte
ha tante prospettive quante ne ha la forma e non di più» 34 , o, detto
altrimenti:
la forma che tocca a un contenuto è essa stessa un contenuto sedimentato. [...]
Quanto più profondamente il contenuto materiale (esperito fino a che diviene
irriconoscibile) si converte in categorie formali, tanto meno commensurabili al
contenuto già elaborato delle opere d'arte divengono i materiali non sublimati.
Tutto ciò che si manifesta nell'opera d'arte è effettualmente e con lo stesso diritto
sia forma che con tenuto J \
La forma è il medium dell'arte - così come ugualmente lo è della
filosofia 36 - , la mediazione della forma - il cui carattere principale è in
arte il rinunciare e il tagliare 37 - la mediazione di contraddizioni che è in
32 Peter Bùrger, Vermittlung-Rezeption-Funktion. Asthetische Theorie una Methodologie der Literaturwissenschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1979.
33 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 237-246.
34 Ibidem, p. 239.
35 Ibidem, pp. 244-45.
36 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, p. 51.
Per una ricognizione sul tema si possono consultare: per l'aforisma come stile J.R.
Ladmiral, Dialectique negative de l'écriture aphoristique, in AA.VV., Adorno, in «Revue
d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8, e il suo corrispettivo critico P. Reichel, Verabsolutierte Negation, op. cit., il quale rimprovera l'inconclusività politica dell'aforisma e
la sua facilità e non stringenza al povero Adorno; per un paragone tra lo stile di Adorno
e le scelte formali di Derrida, P. Zima, Adorno et la crise du langage: pour une critique
de la parataxis, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8; R. Tiedemann che
parla di «linguaggio interpretante» a proposito delle scelte lessicali di Adorno, in Begriff-Bild-Name. Uber Adornos Utopie von Erkenntnis, in Hamburger Adorno-Symposton, op. cit.; per una ricerca degli effetti stilistici nella ricerca sociologica contrapposta
all'empirismo matematico delle scienze sociali negli Stati Uniti, cfr. G. Rose, The
Melancoly science: an introduction to thè thought of Th.W. Adorno, Free Press, New
York 1978, forse la migliore studiosa delle questioni stilistiche in Adorno. Per una
visuale diversa, infine, per il rapporto di Adorno con il materialismo cfr. N. Tertullian,
Materialismo e morale nella Dialettica negativa di Adorno, in «Critica marxista», 1985,
n. 4, pp. 149-72.
37 Per l'idea che formare significhi tagliare, rimuovere e diminuire, piuttosto che
aumentare, cfr. Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 240 e sgg.
70
CRITICA DEL NON VERO
sé contenuta nell'empiria: «diventa il per sé della coscienza solo attraverso
l'atto del ritirarsi, compiuto dall'arte. In ciò tale atto è un atto di cono­
scenza» 38.
Nella Terminologia filosofica, scrive Adorno che «ciò che è più
importante per l'uso della terminologia filosofica, vale a dire la qualità
strutturale delle parole» 39, significa che «la terminologia [...] deve essere
usata in connessioni, in costellazioni nuove, dove possa acquistare un
nuovo valore di posizione» 40.
Se la filosofìa è davvero filosofia [...] le è essenziale il linguaggio, e cioè la forma
in cui i concetti sono esposti. [...] La differenza fra il significato puramente con­
cettuale delle parole e ciò che il linguaggio esprime con esse è in verità il medium
in cui soltanto si sviluppa il pensiero filosofico,
tale modo di procedere
è possibile soltanto in un medium che non è propriamente concettuale, ma lingui­
stico: lo stile o la forma espositiva. In questo senso nella filosofia il linguaggio o
lo stile non è anteriore alla cosa stessa, ma appartiene costitutivamente alla cosa 41 .
La spiegazione di tale accento è duplice: per un verso solo così la
filosofia è in grado di sciogliere il carattere irrigidito dei suoi concetti, la
rigida loro universalità che si impone come forma di coscienza al di sopra
e contro l'esperienza delle cose, per l'altro, giacché non siamo uomini
primitivi, e allo stesso modo, si può scrivere che:
i termini filosofici sono, propriamente, dei punti nodali della storia del pensiero
che si sono conservati e intorno ai quali poi ruota [...] la storia della filosofia [...]:
ogni termine filosofico è la cicatrice di un problema irrisolto 42 .
38 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 244.
39 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 30.
Tra l'altro W. BonIS sostiene essere l'interpretazione adorniana chiaramente strut­
turale, a differenza di quella hegeliana che sarebbe procedurale, pur restando stretta­
mente dialettica, in W. BonB, Empirie und Dechiffrierung von Wirklichkeit, in AA.VV.,
Adorno-Konfernz 1983, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1983.
40 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 50.
41 Ibidem, p. 51.
42 Ibidem, p. 213. Corsivo mio. Sul contenuto storico e sociale che i concetti
conservano, nell'impiego filosofico che ne fa Adorno, Cfr. A. Schmidt, Begriff des
Materialìsmus bei Adorno, in AA.VV., Adorno-Konferenz 1983, cit., pp. 14-20.
MODELLI INTERPRETATIVI
71
Pensare è identificare tramite astrazione, su questo Adorno non ha
alcun dubbio. Tuttavia tale pensiero produce, dialetticamente, delle ferite
fin nel fondo della propria terminologia. Finanche l'arte è impegnata nel
riconoscimento e nella rimarginazione di quei colpi, ma senza la possibilità
di riferirsi ad un immediato, anche «le opere d'arte - come la filosofia possono guarire le ferite [...] solo mediante un aumento di astrazione che
impedisca la contaminazione dei fermenti concettuali con la realtà empi­
rica: il concetto diventa parametro» 45 . Ma che il concetto filosofico rag­
giunga una tale insperata nobiltà, è una questione che si decide a seconda
del modo in cui, sia in arte che in filosofia, il contenuto è conservato nella
forma, che è collettiva, inconscia e, finalmente, tradizione. Il rapporto
costitutivo della tradizione con la forma mediante la rimozione sociale,
punto archimedeo della filosofia, Adorno le deriva proprio da Freud.
«Una tradizione - scrive Freud [...] - deve aver subito la rimozione, lo stato di
permanenza nell'inconscio, prima di poter produrre al suo ritorno effetti cosi
imponenti, di poter costringere le masse al suo incantesimo». Ma non solo la
tradizione religiosa, anche quella estetica è ricordo di un fattore inconscio, addi­
rittura rimosso. Quando essa sprigiona di fatto «effetti grandiosi», questi non
nascono dalla coscienza rettilinea e di superficie della continuazione, ma semmai
dal luogo in cui il ricordo inconscio spezza la continuità. La tradizione è presente
nelle opere accusate di sperimentalismo, e non in quelle intenzionalmente
tradizionalistiche 44 .
4Ì Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 168. Spaziatura mia.
Per uno studio della doppia astrazione operata dall'arte, e il suo parallelo con la
intentio obliqua della intentio obliqua, di cui parla Adorno in Metacntica della gnoseo­
logia e in Parole chiave, cfr. G. Carchia, Sulla teoria estetica di Adorno, in «Verri», 1976,
n. 4, pp. 66-73, dove si prospetta un parallelo tra la metacritica della gnoseologia che
scopre attraverso il primato dell'oggetto la mediazione soggettiva, e la «mimesi secon­
da» delle opere d'arte che imiterebbero se stesse per poter rappresentare l'altro.
44 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 153.
Per il rapporto tra tradizione e inconscio nel pensiero di Adorno, cfr. T. Perlini,
Dialettica e Utopia, in «Aut Aut», 1970, n. 119-120, pp. 135-56; un interessante detour
su Adorno e Lacan è stato tentato da A. Rescio, Oggetto e critica del soggetto in Adorno,
in AA.VV., Psicoanalisi e semiotica, Milano 1975; sulla permanenza di caratteri «natu­
rali» nella ragion formale e sulla impossibilità di una regressione a «prima della sepa­
razione e intreccio» tra ragione e natura, cfr. F. Porcarelli, // concetto di natura in
Nietzsche e nella scuola di Francoforte, in «II Cannocchiale», 1977, pp. 61-83; il rappor­
to tra rimosso sociale e rimozione individuale in Adorno, è stato affrontato da M.G.
Meriggi, Nota su Adorno e Freud, in «Utopia», I, 1971, n. 5-6; una ricognozione sul­
l'evoluzione dei concetti adorniani nel romanticismo tedesco è stata fatta, con successo,
da H.R. Jauss, Das literarische Prozeft des Modernismus von Rousseau bis Adorno, in
Adorno-Konferenz 1983, op. cit., rinvenendo soprattutto ih Schiller e Schlegel possibili
72
CRITICA DEL NON VERO
Abbiamo già visto che «inconscio» e «collettivo» sono termini che
spettano al contenuto presente delle opere d'arte quando esse sono poste
in forma, ovvero in quella particolare tensione che mostra le contraddizio­
ni senza appianarle, giacché il tutto sopravvive solo grazie alle parti. Nella
Teoria estetica è scritto: «... in forza dell'opera di configurazione artistica
il suo [del soggetto] proprio contenuto oggettivo - latente - viene alla
luce» 45 . L'altro, cui l'arte si procura di procurare diritto di replica, è il
medesimo che abbiamo già incontrato con Bodei: il ricordo. Ad esso si
contrappone il mitico, lo strapotere naturale che imprime paura, che viene
rimosso e diventa con ciò una forma - proprio come la ratto illuministica
diviene la forma della rimozione della propria formazione. La dialettica
dell'illuminismo è il contrario dialettico della verità delle opere d'arte:
quella ricade nel mito che era già illuminazione, queste creano dei miti per
poter ricalcare la differenza tra quel che vuole presentarsi insieme e iden­
ticamente come ragione e come natura, affinchè la ragione stessa, non
l'arte (le opere d'arte non parlano a se stesse, sebbene parlino solo tra di
loro, precisa Adorno), si accorga di essere un mito, un «grido di terrore
cristallizzato».
Se «ogni progresso della ragionevolezza è accompagnato dalla paura
che possa scomparire ciò che l'ha messo in moto e che da essa minaccia
di essere inghiottito: la verità» 46, la memoria del «non ancora» è struttu­
ralmente simile alla memoria collettiva latente che è contenuto delle opere
d'arte. «I contenuti delle opere d'arte sono fatti collettivi» 47 , ma nei fatti
collettivi - nella divisione sociale - il segno si separa dall'immagine e con
questo la conoscenza si scinde in due parti, ognuna delle quali, come
l'uomo platonico, è da se stessa impotente. Così anche nelle esperienze
estetiche (o filosofiche) «la fallacia della scissione non viene affatto retti­
ficata [...] l'immagine ne è colpita non meno del concetto» 48 . Data questa
precedenti della teoria negativa di Adorno; infine Schmidt, nel già più volte citato
lavoro, ha messo in rilievo l'importanza della nozione di Trieb dall'opera di Marx a
quella di Adorno, nozione senza la quale, a detta di Schmidt, la dialettica si troverebbe
immobile. Per l'impostazione della ricezione freudiana in Adorno, cfr. W. Bon$,
Psychoanalyse als Wissenschaft una Kritik. Zur Freudrezeption der Frankfurter Schule, e
J. Benjamin, Die Antinomien des patriarchaliscehn Denkens. Kritisce Theone und
Psychoanalyse, entrmabi in AA.VV., Sozialforschung als Kritik, hrsg. von W. Bonft und
A. Honneth, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1982.
45 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 597.
46 Ibidem, p. 136.
47 Ibidem, p. 145.
48 Ibidem.
MODELLI INTERPRETATIVI
73
situazione, la ragione deve oggettivamente, al di là di qualsiasi pathos
utopico, affidarsi a forme almeno apparentemente opposte a se stessa;
come il saggio che:
sfiora la logica della musica, rigorosa arte di passaggi e tuttavia priva di concetti,
per restituire al linguaggio parlato ciò che la tirannide della logica discorsiva gli
aveva tolto [...] esso svolge i pensieri secondo procedimenti differenti da quelli
della logica discorsiva 49.
Mentre tuttavia le opere d'arte, cui la forma saggio si rifa, «diventano
immagini perché i processi stessi che in loro si sono coagulati a obbiettività, parlano»,
i processi latenti nelle opere d'arte ed erompenti nell'attimo, la loro storicità in­
terna [che altro non è se non, ancora, la forma come contenuto sedimentato e non
più cosciente], sono la storia esterna sedimentata. Il carattere vincolante della
obiettivazione delle opere cosi come le esperienze di cui esse vivono sono fatti
collettivi. Il linguaggio delle opere d'arte è costituito [...] da una corrente sotter­
ranea collettiva. [...] L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono imma­
gini di qualcosa 50 .
Possiamo allora dire - per stabilire un parziale punto fermo - che la
memoria del «non ancora» è una memoria formale? Di una forma in senso
stresso? E cioè di un contenuto che è stato strappato all'immediato per
divenire obiettivamente forma vincolante? E che tuttavia è una forma
diversa da quella della ratto illuministica?
L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono immagini di qualcosa e
proprio esse sono di essenza collettiva [...] in forza di tale contenuto d'esperienza
- che è esperienza sui generis poiché - le opere d'arte [...] sono empiria tramite
deformazione empirica. Questa è la loro affinità col sogno 51 .
Non è forse, infatti, il sogno il materiale con il quale sono fatti i
desideri, indifferentemente parrebbe, alla volontà del sogno? Anzi: prima
della volontà del sogno, visto che il sogno non vuole, a rigore, nulla? La
risposta di Adorno è semplice: no. Poiché «non va a buon fine nessuna
sublimazione che non conservi in sé ciò che sublima» 52 , la tradizione è
49
50
51
52
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 28.
Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 145-46.
Ibidem, p. 146.
Ibidem, p. 160.
74
CRITICA DEL NON VERO
tanto forte quanto più il motivo della sua assunzione è stato rimosso, o
meglio sublimato nella tradizione stessa, per questo:
la tradizione è in contraddizione con la razionalità, sebbene questa si formi all'in­
terno di quella. Il suo mezzo non è la coscienza, ma il carattere vincolante dato,
irriflesso, di determinate forme sociali, la presenza del passato, è tale carattere che
si trasferisce immediatamente nella sfera spirituale 53 ,
ma allora qual è la differenza tra la memoria di un passato diverso, che
forse non è mai esistito, e la memoria/sublimazione della tradizione? se
«chi ama il passato e, per non impoverire, non intende rinunciare a tale
amore, da subito adito all'equivoco perfidamente entusiasta che il suo
pensiero non vada interpretato in tal senso e che egli sia aperto a un
discorso sul presente»? 54
Così come, nei Minima moralia, l'«intatto schema della capacità di
godere» viene diagnosticato come complesso edipico perché sfrutta la
memoria di un passato felice per protestare sul presente anche se come
'dato di fatto' tale passato non fu affatto felice, anzi a rigore non fu pro­
prio, ma è solo alla luce del suo seguente, allo stesso modo quel che
colpisce, spezzandola, la possibilità di una tradizione razionale è il verdetto
della società, è essa a rendere impossibile un rapporto trasparente con la
tradizione, e a bollare come «edipica» la capacità individuale di godimen­
to. Eppure tra la memoria e il ricordo, tra la situazione per come essa fu,
e la situazione per quel che significa oggi, esiste un rapporto di reciproca
determinazione.
L'oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata. [...] Per que­
sto la tradizione si trova oggi davanti a una contraddizione insolubile: nessuna è
attuale né da resuscitare, ma quando ogni tradizione è spenta, la marcia verso la
disumanità è iniziata 55 .
Si tratta di due tradizioni diverse - quella che rimossa si impone
come forma e quella che ricordata da materiale alla felicità - o sono la
medesima? «La natura affermativa della tradizione crolla; è la tradizione
stessa, nient'altro che con la sua esistenza, ad affermare che il significato
53 Th.W. Adorno, Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, Suhrkamp Verlag, Frankfurt
a. M. 1967, ed. it. Parva Aesthetica, trad. E. Franchetti, Feltrinelli, Milano 1979, p. 27.
^ Ibidem, p. 30.
55 Ibidem, p. 33.
MODELLI INTERPRETATIVI
75
si conserva, si trasmette attraverso la successione temporale» 5h. Tradizione
che è la medesima della quale si dice si trovi di fronte ad una contraddi­
zione insolubile qui, e che, nel saggio Die Aktualitàt der Philosophie, si
diceva conservasse tutti i fili, anche il minimo, che servono alla filosofia
critica per interpretare la realtà affinchè ne risulti un testo, la cui forza sarà
poi dipendente dalla capacità di far risaltare quel che nel testo è stato
soppresso, le «lacune». Allora la forma che il testo prende, ovvero il rap­
porto tra la tendenza centrifuga degli elementi e la necessità della unità
per manifestare tale forza centripeta, è composta da
contenuti precipitati, in cui sopravvive ciò che sarebbe altrimenti dimenticato e
che non è più in grado di parlarci direttamente. Ciò che una volta cercava rifugio
nella forma, sussiste senza nome nella durata di questa. Le forme dell'arte registra­
no la storia dell'umanità più esattamente dei documenti: e non c'è indurimento
della forma che non si possa interpretare come negazione della durezza della
vita".
È certo che anche la «durezza della vita» e la «durata» della forma
sono forme, appunto, della coscienza. Non avrebbe nessun senso dire che
la vita è in sé dura, così come il durare della forma morta nell'arte, è
immanente alla coscienza collettiva. Tuttavia se nell'arte «ciò che è sfug­
gente viene obbiettivato e chiamato a durare: per questo essa è concet­
to» 58, le opere d'arte sono sottratte alla legge dell'oblio e del mito proprio
grazie al loro sottomettersi alla legge della forma 59 . La tradizione, insom­
ma, non è cosa che si possa rifiutare o accettare a seconda del giudizio che
si esprime sulla sua funzione sociale; essa c'è e fonda l'essenza stessa del
pensiero (in questo caso artistico) rispetto alla tradizione. Un'arte senza
tradizione è tanto poco pensabile quanto una filosofia senza oggetto, an­
che se questo non significa che esse debbano essere solidali con la tradi­
zione e l'oggetto. Piuttosto questi sono le «cicatrici» della storia alle quali
vanno tolte le bende. L'elemento concettuale, di cui tanto l'arte quanto la
filosofia si servono per questa operazione, è sì «inalienabile così alla lingua
come a qualsiasi arte» ma vi «diventa qualcosa di qualitativamente diverso
56 Ibidem, p. 37. Spaziatura mia.
97 Th.W. Adorno, Philosophie der Neue Musik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.
1948; in italiano, Filosofia della musica moderna, tr. L. Rognoni, Einaudi, Torino 1975,
p. 49.
58 Th.W. Adorno, 'Teoria estetica, cit., p. 124.
''' Ibidem, p. 147 e sgg.
76
CRITICA DEL NON VERO
rispetto ai concetti intesi quali unità di segno degli oggetti empirici» 60;
proprio come le parole, che conservano e mutano qualitativamente il loro
contenuto, perché esse stesse sono un contenuto. L'attività dell'interpre­
tare che si attua tramite la loro disposizione in sempre nuove costellazioni,
è - come leggemmo - una sorta di ars inveniendi tramite fantasia esatta;
come nell'opera d'arte, per terminare il raffronto, è «la razionale attività
dispositoria esercitata dalle opere su tutto ciò che è a loro eterogeneo» a
conseguire la verità 61 .
Arte e filosofia sono identiche nella non identità. Nell'opera d'arte
grazie alla legge della forma, la tradizione, nella costrizione che esercita sui
materiali, si disvela ancora una volta come un contenuto sociale rimosso;
la filosofia identifica tramite concetti, ma nella disposizione nella quale li
organizza cerca, nel contempo, un'espressione al non-identico 62 . La loro
unità è reale solo come protesta contro la separazione di intuizione e
concetto, sebbene essendo effettuale questa non è affatto un'identità reale
limitata. Nelle costellazioni che entrambe mettono in scena, si tratta di
smontare il carattere naturale e storico per scoprire il carattere naturale
(dello storico) e storico (della natura). Non sono questi problemi che
possano essere risolti con una risposta. Come leggemmo nei saggi degli
anni '30, la critica è prassi in quanto modifica il testo enigmatico del
concetto di natura e dell'aspetto storico, scioglie, per così dire, la questio­
ne dal suo carattere inintelligibile. Arte e filosofia danno voce al «privo di
intenzione» che è il soggetto dell'enigma, in modo differente eppure, in
una certa misura, solidale. Non nel senso che il carattere di enigma sia
immediatamente il rimosso sociale - come invece accadrebbe, per esem­
pio, se si volesse riscrivere la storia dal punto di vista degli sconfitti -, ma
perché mostrano che il non-intenzionale è traccia per negativo di ciò a cui
si potrebbe rivolgere intenzionalmente. Insomma, riconoscere l'irraziona­
lità della ragione non comporta assumere l'irrazionale come Soggetto,
bensì il riferimento per negativo alla razionalità del razionale - ad una
razionalità che sia anche giusta, non solo potente - e di conseguenza
all'esperienza dell'oggetto per come vi comparirebbe.
Arte e filosofia, intese come interpretazioni, sono memento mori di
quel che non è accaduto. La differenza tra le due consiste in questo: che
la filosofia si applica alla doxa, l'arte se ne distanzia. Come in ogni autenIbidem, p. 164.
Ibidem, p. 163 e sgg.
Cfr. Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 73-74.
MODELLI INTERPRETATIVI
77
tico pensiero dialettico, il divenuto è nel suo divenire il vero (mentre non
lo è il risultato), allo stesso modo il contenuto di verità dell'interprelazione
filosofica e estetica sta, per Adorno, nel divenire del rapporto di distanza
dell'arte mediato dalla vicinanza della filosofia. Non è sublime, per quanto
possa ricordare certi autori del primo romanticismo, quella unità prospet­
tata, perché se è vero che
l'autoconsapevolezza nei confronti del sublime naturale anticipa qualcosa della
conciliazione con la natura. La natura non più oppressa dallo spirito, si libera dalla
scellerata connessione di primordialità e sovranità soggettiva. Tale emancipazione
sarebbe il ritorno della natura e questa, immagine contraria della pura esistenza,
è il sublime. [...] La conciliazione [...] non è il risultato del conflitto ma unica­
mente il fatto che il conflitto trova un linguaggio.
Tuttavia
con ciò il sublime diventa latente. [...] In corrispondenza la categorie del gioco
decadono. [...] Ciò che si presenta come sublime suona vuoto, ciò che gioca
indefessamente regredisce al puerile da cui deriva 65 ,
giacché il sublime, che conserva il rimosso dandogli linguaggio, non parla
più della conciliazione ma della regressione. Al contrario, tutto il proble­
ma dell'interpretazione è racchiuso nella differenza tra regressione e
conciliazione, dialettica micidiale perché
una dialettica, che non resti più «incollata» all'identità, provoca se non l'accusa di
non aver terreno sotto i piedi [...] quella di far venire le vertigini. [...] Invece per
essere feconda la conoscenza si getta a fona perdu negli oggetti. La vertigine che
ne deriva è un index veri M .
IL PASSAGGIO DIALETTICO
Se non c'è dunque una via d'accesso immediata ad una visuale senza
punto di vista, e se l'interpretazione non può rinunciare a prender le
mosse dall'esperienza empirica ma neanche affidarlesi ingenuamente, il
problema diviene, per noi, capire come la dialettica sbrogli questo intrico.
Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 330-31.
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 29-30.
78
CRITICA DEL NON VERO
Un modello lo abbiamo nel processo di spiritualizzazione che è pro­
prio dell'opera d'arte, dove interviene il passaggio dall'interpretazione
simbolica a quella letterale del materiale:
proprio l'arte radicale, mentre si rifiuta ai «desiderata» del realismo, è in rapporto
di tensione col simbolo. Si potrebbe dimostrare che i simboli [...] nella nuova arte
si rendono tendenzialmente autonomi rispetto alla loro funzione di simboli. [...]
L'arte assorbe i simboli grazie al fatto che essi non simboleggiano più niente; [...]
ciò che prima era simbolico diviene letterale. [...] Il fatto che nessuna opera sia
simbolo rende conto del fatto che in nessuna opera l'assoluto si manifesti imme­
diatamente; altrimenti l'arte non sarebbe né apparenza né gioco ma realtà 6'.
Anche l'interpretazione filosofica, che «deve fare a meno del simbo­
lico», non ha accesso diretto all'assoluto. Tuttavia essa cifra nel particolare
la immagine dell'assoluto, ovvero del sociale. È questo il così detto «me­
todo micrologico» 66 . Quella che Althusser chiamò la pretesa espressiva,
«taglio d'essenza», della dialettica è in effetti presente, anche se a titolo del
tutto particolare 67 ; infatti il valore e il significato delle parole e dei concetti
è dovuto alla storia. Poiché le parole si riferiscono al reale, la mutazione
del loro significato non dipende solo dal contesto linguistico e concettuale
ma altrettanto dal rapporto del pensiero con la realtà, perciò «bisogna
confrontare ciò che le parole storicamente evocano con il proprio livello
di coscienza, e chiedersi se quel che si tratta allora di esprimere possa
ancora essere considerato come qualcosa di sostanziale dal punto di vista
della cosa» 68. Ordine di non facile esecuzione, che di nuovo trova sulla
stessa linea arte e filosofia.
Processo l'opera d'arte lo è essenzialmente nel rapporto di tutto e parti. [...]
Questo rapporto è a sua volta un divenire. [...] Il tutto resta qualcosa che si
produce solo in virtù della tendenze che in essa agiscono. D'altro canto le parti
non sono ciò per cui quasi inevitabilmente l'analisi le scambia, cioè non sono
65 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 162-62.
66 Segnalo l'esistenza di un lavoro su Foucault e Adorno, purtroppo incentrato
sul tema, un poco troppo generico, della critica alla cultura, si tratta di A. Honneth,
Foucault e Adorno: due forme per una critica del moderno, in «Fenomenologia e socie­
tà», 1989, n. 1, pp. 39-56.
67 Cfr. L. Althusser, Lire le Capital, cit., p. 17 sgg. et passim; e Pour Marx, Fran­
cois Maspero, Paris 1965, italiano, Per Marx, tr. F. Madonia, Editori Riuniti, Roma
1967, pp. 82-87, 165-66, 175-76.
68 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 64. Traduzione parzialmente da
me modificata.
MODELLI INTERPRETATIVI
79
datila: piuttosto sono centri di forza che spingono al tutto e, naturalmente, di
necessità sono da quello anche preformate. Il vortice di questa dialettica inghiotte
in definitiva il concetto stesso di significato 69 .
La dialettica, questa come ogni altra, ha bisogno della categoria di
tempo per funzionare. Se davvero esistesse un pensiero senza tempo, se
l'inconscio, per esempio, pensasse, ad esso sarebbe preclusa la dialettica.
La tensione tra parte e tutto sarebbe risolta nella possibilità di influenza
da parte di quel che viene dopo su quel che viene prima. Ancora Althusser
nella categoria di «causalità strutturale» presentava come scandalo la re­
troazione dell'effetto sulla causa 70 , ma come osservò Deleuze, in tutt'altro
contesto 71 , il fatto che un effetto retroagisca sulla causa non è una confu­
tazione della dialettica se la retroazione avviene sulla causa dopo che l'ef­
fetto ne è sorto fuori. Qualcosa del genere avviene per le opere d'arte, e
per l'interpretazione, che nella durata - permanenza e insieme mutamento
- ha il suo tempo. Il vortice che inghiotte il concetto stesso di significato
è originato dall'impossibilità di fissare in alcun elemento il significato
appunto. Cosa che nemmeno è fattibile riferendosi alla totalità, che non è
meno relativa delle sue parti. Non è per sommatoria né per depurazione
che il pensiero trova fondamento; la prescrizione che ogni singola parte sia
ugualmente lontana dal centro significa anche questo. Solo la costel­
lazione, riconoscendo ogni centro di forza come falsa espressione, riesce
a far smentire ogni gravita da un'altra, e in questo far emergere il vero. È
quasi una interpretazione che si opera da sé:
[...] i concetti non costituiscono il continuum delle operazioni, il pensiero non
procede tutto chiuso in se stesso, ma i vari aspetti si intrecciano l'uno con l'altro
come in un tappeto ['tappeto' che ricorda l'intreccio e la trama del reale in Die
Aktualitàt der Philosophie]. Dalla fittezza di questo intreccio dipende la fecondità
dei pensieri
che dunque sono tanto fecondi quanto riesce loro l'interpretazione che:
a voler essere precisi, il pensante non pensa affatto, ma si fa teatro dell'esperienza
intellettuale, senza dipanarla. E mentre da essa scaturiscono gli impulsi anche per
il pensiero tradizionale, questo, per la sua forma, ne elimina il ricordo 72 .
69 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 299.
/0 Cfr. L. Althusser, Leggere il Capitale, op. cit. et passim, e Per Marx, et passim.
71 G. Deleuze, Différence et répétition, Presse Universitaires de France, Paris
1968, ed. it. Differenza e ripetizione, trad. G. Guglielmi, II Mulino, Bologna 1971.
72 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 17.
80
CRITICA DEL NON VERO
Questa esperienza intellettuale è non meno concreta della esperienza
tout court; e di nuovo troviamo che il «pensiero tradizionale» rimuove il
ricordo di tale esperienza. La conclusione che Adorno ne trae è come si
debba scrivere un saggio: i suoi concetti
vanno esposti in maniera che si sorreggano a vicenda e che ciascuno riceva la
propria precisa articolazione soltanto dalle figurazioni che forma nel rapporto con
altri. In esso elementi discreti e tra loro differenziati si raccolgono in un unico
contesto leggibile; il saggio non crea costruzioni né strutture. Tuttavia attraverso
il loro movimento gli elementi si cristallizzano in configurazione. Questa è un
campo di forze così come nella visuale del saggio, ogni produzione spirituale deve
tradursi in un campo di forze 73 .
Il modus procedendi del saggio è uguale a quello che trovammo nell'interpretazione come dissoluzione dell'enigma: richiamare gli elementi
materiali, disporli in una costellazione di forze, affinchè il testo strappato
degli «strani intrecci dell'ente» risulti finalmente come testo leggibile. Il
saggio - a metà secondo Adorno tra arte e filosofia - è dunque così affine
all'interpretazione? È addirittura la forma interpretativa di Adorno? E se
davvero è situato a metà tra arte e filosofia, come costituisce le sue imma­
gini «astrali»?
Il bello naturale è mito trapassato nell'immaginazione e in tal modo forse liquida­
to. [...] Le immagini estetiche non sono invarianti arcaiche [piuttosto] le opere
d'arte diventano immagini perché i processi che in loro si sono coagulati a obiet­
tività parlano. [...] I processi latenti sono fatti collettivi - e di essi - non esiste
imago senza immaginario. L'esperienza soggettiva arreca immagini che non sono
immagini di qualcosa e proprio esse sono di essenza collettiva 74 .
L'emancipazione delle immagini estetiche da quelle mitiche si attua
tramite il sottomettersi delle opere d'arte alla loro propria irrealtà, che non
è l'irrealtà del delirio né quella irrazionale dell'empirico, bensì la legge
della forma: «questa è la loro methexi alla ragionevolezza» per cui «illu-
73 Ibidem, p. 18.
Gli scritti sul rapporto tra Lukàcs e Adorno, sia in generale, sia in particolare sulla
forma saggio, sono molti. Si possono consultare, tra gli altri: T. Perlini, Sul concetto di
totalità nella riflessione estetica di Adorno, in «Nuova Corrente», 1970, n. 52; M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.; S. Buck-Morss, The origin of thè
negative dialectics, op. cit.; AA.VV., Die Neue Link nach Adorno, hrsg. von F. Schòller,
Munchen 1969.
74 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 113 e 145-46.
MODELLI INTERPRETATIVI
81
minate sono quelle opere d'arte che in inflessibile distanza dall'empiria
rendono testimonianza di una giusta coscienza» 75 . Il mito come la tradi­
zione appartiene a processi tendenzialmente inconsci e collettivi, mentre
l'immaginazione è davvero sul confine tra individuale e collettivo; inoltre
essa è più simile al desiderio che non alla paura, e come tale essa è nemica
del mitico. La natura fu mito finché dovette essere dominata e suscitava
terrore; oggi è bello naturale. Ma poiché il dominio su essa è totale, forma
stessa della razionalità, e poiché questa totalità è diventata nel frattempo
seconda natura, cioè immagine naturale di un non naturale, allora l'intrec­
cio di mito e immaginazione è tuttora all'opera. E stato scacciato dal ciclo,
ma per essere spedito in un iperuranio ancora più lontano. Giacché l'ope­
ra che crea immagini espone questo intreccio, essa rassomiglia, per un
verso, ed è questa la sua forza, alla realtà.
Opera d'arte e realtà sono identiche e non identiche. Se non avessero
nulla a che fare l'una con l'altra, allora non avrebbero alcun senso le opere
d'arte, ma se fossero identiche, allora le opere sarebbero mera duplicazio­
ne, come volle credere l'«artista» Fiatone, o sogno a occhi chiusi. Per
questo, al contrario della tradizione psicologica dell'ermeneutica, Adorno
può scrivere che «l'analisi ripercorre soggettivamente la via che aggettiva­
mente l'opera d'arte descrive in sé», indifferentemente all'autore, alle sue
condizioni. La storia cifrata nell'opera è ugualmente cifrata nel soggetto,
ma questi non la possiede. L'unica esperienza che ne fa, è quando essa è
all'opera come mediazione della costituentesi soggettività dell'opera d'ar­
te. Ma anche questa è un'esperienza nel mezzo della contraddizione. In­
fatti perché si colga il peso della tradizione è necessario che qualcosa
nell'individuo faccia resistenza, seppure d'un poco, alla sua coazione. Così
la particolarità dell'individuo si oppone all'universale storico della tradi­
zione, cioè al potere delle sue forme, ma se l'individuo non fosse anche
particolare, allora non ci sarebbe alcuna resistenza alla forza delle connes­
sioni sociali, e l'arte non potrebbe prendere le distanze dall'empirico,
condizione invece della sua verità 76 .
75 Ibidem, p. 147.
' 6 Su questi problemi si possono consultare i seguenti lavori: W. Boni?, Empirie
und Dechiffrierung von Wirklichkeit, op. cit., che ricostruisce un breve ma interessante
collegamento in proposito alla funzione dell'esperienza come centro della costellazione
teoretica tra Adorno, Benjamin, Feyerabend e Dilthey; M. Barzaghi, Dialettica e mate­
rialismo in Adorno, op. cit., che affronta il tema del rapporto con Benjamin in una luce
originale, ovvero dal punto di vista dello sviluppo del marxismo critico senza lasciare
troppo spazio alla polemica; F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, op. cit., che vede
82
CRITICA DEL NON VERO
Lo stesso meccanismo dialettico si svolge nel rapporto tra individuo
e pensiero. Mentre si deve riconoscere che il soggetto «non pensa affatto»,
è sbagliato credere di poter eliminare il residuo empirico che si cela sotto
ogni funzione senza soggetto 77 . Non perché la riflessione debba prender
partito per il dominio del soggetto, che anzi questo è semmai il suo pec­
cato originale, ma al contrario perché il riconoscimento della base empi­
rica di ogni operazione di pensiero è il primo passo di un'autocritica
dell'illuminismo. Non perché l'empirico sia immediato, ma al contrario,
solo perché l'empirico si presenta come realtà immediata e non lo è, la
critica del soggetto è altro dalla liquidazione dell'individuo. Tale liquida­
zione, per altro, è empirica e difende non l'individuo ma la struttura di
produzione dell'individuale, senza nominarla. Probabilmente è questo
l'intreccio che l'esperienza dipana, proprio come teoria dell'interpretazione, indipendentemente dalla intenzione del soggetto: l'interpretazione è
atto tanto falsificante quanto critico. E la distinzione spetta, in ultima
istanza, alla felicità 78.
Il tema del ricordo e quello della produzione di immagini appaiono
determinanti per l'interpretazione, forse addirittura coincidenti. Nel senso
che il termine di giudizio dell'interpretazione, anche se si riferisce in ul­
tima istanza alla felicità, non è dato ma va prodotto. In che senso, si
chiarisce leggendo un passo di Prismi, nel saggio Profilo di Walter Benjamin, dove Adorno cita, dal manoscritto dei Passagen.
Alla forma del nuovo mezzo di produzione [...] corrispondono, nella coscienza
collettiva, immagini nelle quali il nuovo si compenetra col vecchio. Queste imma-
nel ruolo utopico negativo dell'indentila dell'individuo un tratto di collegamento tra il
pensiero di Adorno e quello di G. Deleuze; A. Rescio, Oggetto e critica del soggetto in
Adorno, op. cit.; e infine G. Carchia, Sulla teoria estetica di Adorno, op. cit., dove
l'autore parla di una specificità della Ratto aisthesis.
77 Cfr. Th.W. Adorno, Metacntica della gnoseologia, op. cit., et passim.
78 Sul tema identità, individuo e soggetto, cfr. i seguenti lavori: A. Schmidt, Begriff des Matenalismus bei Adorno, op. cit., per la distinzione tra «soggetto datore di
forma» e il «soggetto come centro di esperienza»; per un'analisi del Unwescn nella
dialettica adorniana, cfr. R. Racinaro, Hegel nella prospettiva di Bloch e Adorno, in
«Critica marxista», 1974, n. 1, pp. 127-53, tra l'altro uno dei pochi lavori su Adorno
e Bloch, oltre al già citato saggio di R. Tiedemann; per la differenza tra la posizione
nietzschana e quella adorniana sul destino del soggetto, e sulla contrapposizione tra
volontà di potenza e ricordo, cfr. F. Carmagnola, La conoscenza degli estremi, op. cit.;
infine per il tema specifico della differenza tra liquidazione dell'individuo e critica del
soggetto, i termini della questione sono perfettamente illustrati da T. Pedini, Autocritica
detta ragione illuministica, in «Ideologie», 1969, n. 9-10.
MODELLI INTERPRETATIVI
83
gini sono proiezioni del desiderio. [...] Queste tendenze rimandano alla fantasia
configurativa, che dal nuovo ha tratto il suo impulso, all'antichissimo. Nel sogno
in cui, ad ogni epoca, si presenta la seguente, questa apparirà sposata ad elementi
della preistoria, cioè di una società senza classi. Le esperienza della quale, depositate
nell'inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuovo, l'utopia, che
ha lasciato le sue tracce in mille configurazioni della vita 1''.
In questa citazione troviamo molti dei termini che Adorno usa per
descrivere, e prescrivere, l'interpretazione. Ed egli commenta che per tali
immagini Benjamin «intendeva delle cristallizzazioni obiettive del movi­
mento storico e le denominò col nome di immagini dialettiche» 80. Le
immagini dialettiche, in questo la differenza tra Benjamin e Adorno 81 ,
hanno il loro modello nelle opere d'arte e non nella storia. «Oggi che non
si può immaginare alcuna configurazione dello spirito» scrive Adorno «le
opere d'arte sono il prototipo della sua configurazione. [...] In quanto
tensione tra gli elementi dell'opera d'arte lo spirito [...] è processo e con
ciò è l'opera d'arte stessa» 82 . Ma la tensione a cui si fa riferimento è per
Adorno, abbiamo visto sopra, quella tra la forma, processo opposto e
necessario all'esperienza individuale, e il contenuto, inteso come esperien/9 W. Benjamin, citato da Adorno in Prismi, cit., p. 243. Corsivo mio.
80 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 243.
81 P. Bùrger ha scritto un interessante saggio sulla differenza tra Benjamin e
Adorno che vorrei qui indicare. Secondo Bùrger Benjamin farebbe riferimento, come
modello, soprattutto all'avanguardia surrealista, mentre Adorno alla modernità estetica.
E lo scontro tra i due sarebbe riconducibile alla modalità espressiva propria del surre­
alismo in antitesi a quella critica riflessiva dell'espressionismo. E tra l'altro l'anteceden­
te dell'arte d'avanguardia andrebbe ricercato nel romanticismo, mentre quello del
moderno nel processo di autonomizzazione dell'arte, p. 86 e sgg. Così mentre l'avan­
guardismo negherebbe la divisione del lavoro e radicalizzerebbe lo shock dell'esperien­
za, Adorno sarebbe esponente dell'opposizione all'avanguardismo, in nome della resi­
stenza alla regressione. Cfr. P. Bùrger, Das Altern der Moderne, in Adorno-Konferenz
1983, cit., pp. 177-201; P. Bùrger, L'anti-avantguardisme dans l'esthétique d'Adorno, in
«Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8.
H.R. Jauss, nello stesso volume, Adorno-Konferenz 1983, nel saggio Der literarische Prozejl des Modcrnismus von Rousseau bis Adorno, op. cit., propone un bivio a
partire dalla revisione della categoria della modernità operata da Dialettica dell'illumi­
nismo, da una parte, come esponenti esemplari, P. Bùrger e Lyotard (e il primo forse
non sarebbe contento di trovarsi in compagnia del secondo...) dall'altra la critica radi­
cale di Adorno. Ancora da citare la tesi di M. Jay, Th.W. Adorno, II Mulino, Bologna
1987, secondo la quale dalla coppia dell'elaborazione surrealista e benjaminiana si
potrebbero derivare due strade, divaricantesi, una Adorno e l'altra Derrida, aventi in
comune solo il radicalismo della lettura nietzscheana della «morte di Dio».
82 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 150. Traduzione d'a me parzialmente
modificata.
84
CRITICA DEL NON VERO
za storica non individuale. Il soggetto sente come legge una forma, perché
è stato rimosso il ricordo contenuto nella sua forma. Contro di essa si
richiamano le armate dell'esperienza, che costruisce la tensione. Ricono­
scere e interpretare significa allora impadronirsi di quel processo, riper­
correre soggettivamente un processo oggettivo, infatti:
10 spirito delle opere d'arte non è concetto, ma tramite esso le opere divengono
commensurabili con concetto. [...] Perciò la critica è necessaria alle opere. Nello
spirito delle opere essa riconosce il loro carattere di verità oppure ve lo separa. In
questo atto soltanto [...] l'arte e la filosofia convergono 83 ,
convergono in questo: che l'arte consta dell'espressione del vero, o in
termini benjaminiani del suo sogno, ma tuttavia non possiede di per sé la
capacità di dividerlo dal falso. Questa capacità spetta alla critica, all'interpretazione, che sente ovunque la forma come contenuto, e la storia cifrata
nella forma immanente dell'opera.
Si potrebbe quasi scriver che l'arte e il concetto compiano lo stesso
lavoro: la prima fornendo la costellazione della soluzione all'impossibile,
11 secondo rendendo ragione ad essa. Scrive Adorno che «ciò che prima
era simbolico diviene letterale» 84 , e solo grazie a questo l'arte, che è tendenzialmente ostile al mito come spiegazione della natura, può assorbire
i simboli: essi non simboleggiano più niente. Ancora nella tarda antichità
greca, ad esempio, alcuni modi di modulazione minore venivano avvertiti
come imitazione simbolica. Oggi, al tempo di Adorno, il tema dell'alle­
gretto della prima sinfonia di Mahler, Fra Martino volto sulla triade mino­
re anziché su quella maggiore, non è in alcun modo un simbolo, ma
piuttosto una funzione formale immanente allo sviluppo dell'idea secondo
la quale il tragico e il comico insieme, la marcia funebre e il canto di
bambini, sono gli unici eredi del sublime naturale 85 . Nella intuitività col­
legata al simbolico, che mercé la spiegazione perde il suo carattere simbo­
lico, è nascosta, tuttavia «una mediazione non concettuale» 86 .
Il «desideratum» della intuitività vorrebbe conservare [...] il momento mimetico,
ed è cieco nei confronti del fatto che quel momento seguita a vivere solo attraverso
85 Ibidem.
84 Ibidem, p. 163.
85 Per l'eredità del sublime kantiano, cfr. Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p.
133 et passim.
86 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 161.
MODELLI INTERPRETATIVI
85
la sua antitesi cioè attraverso la razionale attività dispositoria esercitata dalle opere
su tutto ciò che è a loro eterogeneo 8 '.
L'impulso mimetico, quello che nella dialettica dell'illuminismo fu il
vero avversario della mitologia illuminista, e nel quale sopravvive il deside­
rio ma non la realtà della conciliazione, è la fonte del pensiero. Per questo
Adorno, lo abbiamo visto, richiama la importanza di un pensiero che non
«uccida suo padre, il desiderio», e al contempo la necessità di non con­
fondere la spinta e il materiale mimetico con la forma mimetica o col
pensiero stesso. Tale impulso:
investe anche la mediazione, il concetto, il non presente. [...] L'arte è tanto poco
concetto quanto intuizione, e proprio così protesta contro la separazione dei due.
[...] Essa è intuizione di un non intuibile ed è paraconcettuale ma senza concetto.
È però grazie ai concetti che l'arte pone in libertà il suo strato mimetico, non
concettuale 88.
A questo punto, davvero il concetto diviene metro di comprensione,
non modello, dell'opera d'arte. «Il concetto diventa "parametro"» e «la
loro propria obiettivazione [delle opere d'arte] le rende "res" di secondo
grado» 89 .
Come la natura oggi è natura mediata, e in questo viene confusa alla
natura seconda, che è società, allo stesso modo l'arte rende i suoi prodotti
delle cose che cose non sono affatto, ma rapporti. In essi, come nei rap­
porti extra-artistici, è nascosta l'essenza, ovvero la storia, di quei rapporti.
La loro espressione dipende dalla possibilità di obicttivarli senza fissarli,
ma la verità richiede anche che l'interpretazione raccolga attorno al mo­
mento della cristallizzazione tutta la storia - «Qui non intellegit res, non
potest ex verbis sensum elicere» 90 .
In un saggio di Wolfgang Fritz Haug, Zur Kritik dcr Warenàsthetik^,
troviamo un esempio di modificazione del principio di realtà, per il tema
che qui ci interessa. La dialettica signoria/servitù, spiega Haug, viene
duplicata nell'esistenza di pubblicità, desiderio e produzione. All'interno
della produzione, l'apparenza estetica passa da funzione simbolica a una
87 Ibidem, p. 163.
88
89
90
91
140-58.
Ibidem, p. 164.
Ibidem, pp. 168-69.
Martin Luterò, citato da Gadamer in Verità e metodo.
W.F. Haug, Zur Kritik der Warenàstbetik, in «Kursbuch», 20, 1970, pp.
86
CRITICA DEL NON VERO
schiettamente di realizzazione del capitale. Si manipolano le confezioni
delle merci perché il valore d'uso ha ritrovato una funzione simbolicosociale, la medesima che era stata espulsa dal passaggio dalla manifattura
all'industria. Tuttavia questo richiede che la coscienza degli acquirenti
venga preparata a spostare il proprio desiderio dal valore d'uso «puro» a
un valore d'uso simbolico, d'identità sociale. Affinchè i desideri possano
essere soddisfatti nella forma della mercé attuale, il desiderio deve essere
determinato da obbligo a forme di valore irrazionali. Ma dopo si è costret­
ti a seguire ciecamente e in ogni modo la legge che tali desideri dettano.
E non solo nel senso leggero per il quale si produce ciò di cui si è convinti
gli uomini di aver bisogno - ma anche nella micidiale inversione per la
quale poiché si è sempre mediati dall'altro, cioè dal desiderio dell'altro, se
si modifica il desiderio se ne viene mediati di conseguenza. Possiamo
leggere questa dialettica allargandola al di fuori della sfera, per altro nient'affatto ristretta della circolazione e produzione delle merci, anche alla
produzione e circolazione di quei valori sui generis che sono la coscienza
e le idee. Nella prefazione al Capitale Marx ha dato un'allegoria minaccio­
sa. È il celebre «de te fabula narratur» con il quale egli rivolge il proprio
libro contro i suoi lettori inglesi e tedeschi. È importante sottolineare che
egli concepì il proprio lavoro come valore che avrebbe trovato la propria
corrispondenza solo a patto che fosse pensato come riflessione della dia­
lettica di tutti gli individui coinvolti in quel modo di produzione. Detto in
modo semplice: quel che retoricamente apre il Capitale alla dialettica costi­
tutiva della società è un'allegoria. Si può leggere il Capitale come una
favola che parla di noi, a patto che non lo si legga come una favola. Le
favole, cioè, raccontano in allegoria, di solito, il momento del processo di
formazione del senso della vita. Hanno a loro oggetto la coscienza, a volte,
l'ideologia. Parlano del brutto, del crudele o dell'amore e della solitudine,
o ancora della morte e della lotta, del padre e della madre. Sono questi
temi della così detta sovrastruttura. Essi non possono essere scritti inge­
nuamente e direttamente nella parole della società, perché così facendo li
si presenterebbe come uguali ad essa; perdendo con questo il loro carat­
tere relativo all'assoluto, per come esso è dato e pensato nella nostra
attuale società. Così il linguaggio delle merci è, fino a un certo punto, il
linguaggio della produzione delle merci, mentre gli argomenti che si sareb­
bero detti spirituali usano di questo linguaggio come un'allegoria, per non
rimanergli appiattiti sopra. È una strana inversione: non si racconta lo
spirito santo sotto la forma della luce e del pane - così come allora - ma
è lo spirito ad aver bisogno della luce e del pane. Il piano dell'allegoria
MODELLI INTERPRETATIVI
87
teologica è ribaltato 92 : lì il vero si esprime nell'ombra di una figurazione
- qui è il falso che si smaschera nel corpo della produzione, poiché esso
è la falsa immagine creata e nascosta proprio da quella produzione che
dovrebbe esprimere. Fare la critica significa allora, forse, usare il linguag­
gio dei rapporti di produzione come se fosse una favola dei rapporti so­
ciali umani, ovvero non stabilire, perché non c'è, un primum tra desiderio
e bisogno, valore materiale e spirituale?
«Lo spirito - scrive Adorno - è indifferente alla distinzione tra sen­
sualità e idealismo» 95 . Le opere d'arte corrodono l'idea di spirituale fino
a quanto questo non assomigli a loro stesse, e con ciò demoliscono lo
spirituale. Ma «nella negazione determinata dello spirito esse restano tut­
tavia legate a lui [...] esse non lo simulano ma la forza che rivolgono
contro di lui è la sua stessa presenza» 94 . Se interpretare significa portare
a coscienza soggettiva un processo oggettivamente avvenuto, e se la media­
zione avviene tramite il desiderio, allora uno dei suoi passi è la traduzione
del desiderio. Se la dialettica dell'interpretazione non potrebbe funzionare
senza il tempo, la cui assenza scioglierebbe la contraddizione tra esperien­
za e sapere - senza desiderio, senza un'allegoria capitale del desiderio, di
un passato diverso e migliore, la dialettica dell'interpretazione sarebbe
altrettanto impotente e immobile, sia che falsifichi sia che critichi.
LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE
La mediazione che dobbiamo dunque ora indagare è quella, davvero
costitutiva, tra desiderio e linguaggio o, detto altrimenti e in termini di
filogenesi, quella del rapporto tra desiderio e principio di realtà; senza
scordare tuttavia che il principio di realtà del quale stiamo parlando è
interamente sociale, non certo psicologico-neutro. Naturale conseguenza è
che quello strumento sociale della divisione del lavoro che è il linguaggio
deve poterci condurre alla comprensione del modo con il quale fantasia,
desiderio e ricordo, entrino a far parte del processo interpretativo. Vedia­
mo dunque di analizzare la sua forma principale e più semplice: la critica
immanente. Scrive Adorno che:
92 Un esempio è la già citata analisi, e interpretazione in secolarizzazione, fatta da
C. Tùrcke in Gewalt und Tabù, op. cit.
93 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 160.
94 Ibidem, p. 150.
50
CRITICA DEL NON VERO
il procedimento immanente [...] prende sul serio il principio secondo cui non
l'ideologia in se stessa è non vera, bensì la sua pretesa di corrispondere alla realtà.
Fare la critica immanente delle configurazioni spirituali significa cogliere nell'ana­
lisi della loro forma e del loro senso la contraddizione tra la loro idea obiettiva e
quella pretesa 95 .
È questa una tra le più semplici delle molte definizioni che Adorno
offre del metodo immanente. Esso è veramente dialettico; si potrebbe dire
che aspetta, guardando la cosa, che essa esprima i suoi parametri per
confrontarla poi, successivamente, con questi. L'analisi immanente è oggettiva e costituisce l'altra faccia del richiamo alla fantasia esatta, al desi­
derio, alle lacune, e via dicendo. Scrive il Nostro, ad esempio, che quando
la coscienza della critica immanente si avvicina all'oggetto e ne «rinviene
un'insufficienza, non la ascrive frettolosamente all'individuo e alla sua
psicologia [...] cerca invece di desumerla dall'inconciliabilità dei momenti
costituenti l'oggetto» 96. In questa determinazione il concetto non va con­
fuso con il concetto definitorio tradizionale, esso è concetto forte, del
quale si può predicare falsità o verità, secondo quanto spiegato da Adorno
a proposito del concetto di società 97 , e deve essere costruito come costella­
zione, con tutte le sue parti, ed è in tale costruzione che si possono com­
mettere errori.
Se questa è la categoria di critica immanente, tuttavia neanch'essa è
esente da perplessità, giacché:
per quanto fedelmente si possa seguire il principio della critica immanente, esso
non può essere applicato in forma acritica là dove si erige a solo e unico criterio
la stessa immanenza logica, prescindendo da qualsiasi contenuto particolare. [...]
La critica immanente ha il proprio limite nel principio feticizzato della logica
immanente: anche questo deve essere chiamato per nome 98;
e in tutt'altro campo, nel paragrafo sull'opera d'arte come monade e l'ana­
lisi immanente, si legge:
95 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 19.
96 Ibidem, pp. 19-20.
97 Th.W. Adorno, Soziologische Schnften I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.
1972, ed. it. Scritti sociologici, trad. A.M. Solmi, Einaudi; Torino 1976, p. 5.
98 Th.W. Adorno, Die Positivismusstreit in der deutscken Soziologic, hrsg. von H.
Maus und F. Fùrstenberg, Einleitung, H. Luchterhand Verlag, Nuewied und Berlin
1969, ed. it. Dialettica e positivismo in sociologia, Introduzione, trad. A. M. Solmi,
Einaudi, Torino 1972, p. 10.
MODELLI INTERPRETATIVI
89
nondimeno all'analisi immanente è associato l'autoinganno. [...] Il concetto deve
essere portato alla monade dall'esterno per aprirla dall'interno e di nuovo sgreto­
larla; se esso pretendesse di essere attinto solo alla sostanza obbiettiva dell'opera
prenderebbe un bell'abbaglio. La costituzione [...] delle opere d'arte qua talis da
indicazioni che rimandano al di là di essa stessa. Se viene assolutizzata, l'analisi
immanente cade preda dell'ideologia. [...] Con una regolarità che indica un fatto
strutturale, le analisi immanenti, se il loro contatto con ciò che ha ricevuto una
forma è sufficientemente stretto, conducono a definizioni universali mentre speci­
ficano all'estremo. [...] L'interazione di universale e particolare, che nelle opere
d'arte avviene inconsciamente e che l'estetica deve innalzare alla coscienza, è ciò
che veramente costringe ad una concezione dialettica dell'arte".
Il limite della critica immanente non è dunque stabilito solo dal feti­
cismo dell'immanenza logica, ma ha anche a che fare con il particolare
modo di penetrazione dell'universale nel particolare. Alla critica imma­
nente spetta una parte fenomenologica la quale, tuttavia, facilmente si
lascia trasportare alla fenomenologia dell'immediato come se esso fosse
reale e non un posto del pensiero. Una tale ipostasi costituirebbe il suo
limite di validità. La critica immanente è portata, per la sua natura, a fare
il pelo alla pretesa dell'ideologia di essere vera.
Funzionare all'infinito può anche il terrore, ma il funzionare come fine a se stesso,
separato da ciò per cui funziona, è una contraddizione non meno di una qualsiasi
contraddizione logica. [...] Critica non significa solo decidere se le ipotesi proposte
possono essere dimostrate come esatte o come false: la critica penetra fino all'og­
getto. Se i teoremi sono contraddittori, non è detto che di questo debbano essere
sempre e necessariamente responsabili i teoremi lon.
Il limite della critica immanente sta allora nel fatto che non solo i
concetti, ma anche le cose possano essere false.
È questo davvero un punto nevralgico delle interpretazioni adorniane. La critica deve essere capace di porsi tanto di fronte al testo quando
di fronte al reale, anzi, non manca il suo scopo solo quando compie con­
temporaneamente entrambe le operazioni. Non si può fingere tuttavia che
il «reale» sia categoria o realtà priva di questioni. E la principale è questa:
se la dialettica critica non ammette alcun originario, nemmeno tra idea e
realtà, a partire da che cosa parla? A partire, risponde Adorno, dalla sua
forma, la forma-saggio, dove
Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 302, 302-04.
' Th.W. Adorno, Dialettica e positivismo in sociologia, cit., Introduzione, p. 37.
90
CRITICA DEL NON VERO
gioia e gioco sono per il saggio essenziali. Esso non prende le mosse da Adamo e
Èva, ma da ciò che vuoi trattare; dice quanto gli viene in mente e finisce quando
si sente esso stesso esaurito e non quando è esaurito l'oggetto: e così si colloca tra
le quisquilie 101 .
Il saggio non prende per suo l'interesse della cosa, ma ha termine
«quando si sente esso stesso esaurito e non quando è esaurito l'oggetto».
La forma saggio non è ben collocata né ben fondata. Il saggio, scrive
Adorno, è una forma di interpretazione che rifiuta il problema della com­
prensione di «che cosa l'autore abbia voluto dire», che passa di importan­
za di fronte alla obiettivazione di ciò che l'autore ha effettivamente detto;
se «non c'è risultato interpretativo che al tempo stesso non sia proiezione
all'interno dell'opera», il criterio della riuscita è «la possibilità di concilia­
re l'interpretazione con il testo e con se stessa, e la sua capacità di far
parlare tutti quanti i fattori che costituiscono l'oggetto» 102 .
Ma cosa significa «conciliare l'interpretazione con se stessa», e con la
necessità di esaurire tutti i fattori dell'oggetto? Il saggio, puntualizza
Adorno, non è una forma d'arte, esso deve «rispettare l'obbligo a espri­
mersi per concetti, contratto non appena abbia usato concetti in una frase
o in un giudizio» 103 ; e non può, neppure il saggio, fidare ciecamente nel
linguaggio, nelle sue torsioni e tensioni, che altrimenti: «l'ambiziosa tra­
scendenza del linguaggio sul significato finisce in una vacuità di signifi­
cato» 104 . La trascendenza del linguaggio svela la trascendentalità sociale di
esso rispetto agli uomini, ma non rispetto alla società. Anziché cercare il
primato in questa o in quello si dovrebbe, a detta di Adorno, riconoscerne
l'intreccio, la dialettica insomma. E in essa il fatto che il linguaggio appaia
trascendente alla coscienza dovrebbe esso stesso essere un motivo e un
oggetto di riflessione. Cosi come l'illuminismo deve criticarsi se vuole
sospendere almeno la ricaduta nel mito, allo stesso modo per il linguaggio
«il tentativo di emancipare l'esposizione dalla ragion riflettente», il tenta­
tivo cioè di eliminare il carattere mitico e immaginifico del nominare dalla
«vertigine dialettica»:
è il tentativo sempre già disperato fatto dalla lingua, spingendo all'estremo la sua
intenzione determinatrice, di guarire dal negativo della sua intenzionalità, dalla
101 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 6.
102 Ibidem, p. 7.
103 Ibidem, p. 10.
104 Ibidem.
MODELLI INTERPRETATIVI
91
manipolazione concettuale degli oggetti, e di far venire avanti il reale in maniera
pura, non disturbato dalla violenza degli ordinamenti delle parole. [...] Nessuna
narrazione ha mai avuto parte alla verità senza aver guardato nell'abisso in cui
precipita il linguaggio che vorrebbe separarsi in nome e immagine 105 .
Adorno sta qui parlando della «ingenuità epica», cioè della speranza
che nella narrazione oggettiva, prelirica, degli avvenimenti si faccia avanti
il senso delle cose stesse. Solo la pretesa scientifica che il linguaggio debba
misurarsi su di una struttura strettamente scientifica, fatta cioè di defini­
zioni e stati di cose, allontana di tanto il nesso tra parola e cosa da farlo
scomparire nella interminabile catena interna dei rimandi. Adorno cerca
di tenere «memoria di ciò che propriamente già non si lascia proprio più
ricordare» 106 , ovvero del fatto che anche il linguaggio intrattenne stretti
rapporti con la costituzione e dell'individuo e della società; e che se en­
trambi sono mediati dal linguaggio, e dunque a loro volta lo mediano
come sarebbe semplice mostrare, tuttavia non possono essere identificati
con esso. «La fuga di pensieri in cui si configura il sacrificio del discorso,
è la fuga della lingua dalla sua prigione» e se nella poesia omerica si ha
l'autonomizzazione della metafora rispetto al significato:
l'immagine linguistica elaborata dimentica in parte il proprio significato per incor­
porare nell'immagine la lingua stessa invece di rendere trasparente l'immagine.
[...] Non che i poemi epici fossero dettati da intenzione allegorica. Ma la potenza
della tendenza storica in lingua e contenuto è in essi così grande che nel corso del
processo fra soggettività e mitologia gli uomini e le cose [...] si trasformano in
semplici luoghi. [...] È l'obbiettivo capovolgimento della pura esposizione non
significante in allegoria della storia a diventar visibile 107 .
Il linguaggio parla di se stesso, si fa ricorsivo, nel tentativo di elimi­
nare la propria mediazione. Ma «l'esigenza della parola verginale, è in se
stessa sociale» 108, nella poesia lirica «si promette una seconda immedia­
tezza» perduta la speranza nella prima, «una [...] immediatezza: l'umano,
il linguaggio stesso, appare come se fosse ancora una volta la creazione,
mentre tutto ciò che è esterno si smorza nell'eco dell'anima» 109 così come
in quell'eco si irrigidì un tempo il primo moto, di terrore per l'esterno,
105 Ibidem, p. 34.
106 Ibidem.
107 Ibidem, p. 36.
108 Ibidem, p. 49.
109 Ibidem, p. 51.
92
CRITICA DEL NON VERO
dell'anima. Ma tale tentativo sfrutta per riuscire la radice della propria
smentita: il carattere della lingua, infatti:
la lingua è essa stessa qualcosa di doppio. Con le sue configurazioni essa si impone
totalmente ai moti soggettivi; anzi manca poco dal poter pensare che è essa in
generale a portarli a maturazione. D'altra parte essa rimane il medium dei concetti,
ciò che produce l'ineluttabile rapporto con l'universale e con la società. Le pro­
duzioni liriche supreme sono perciò quelle nelle quali il soggetto risuona nella
lingua [...] finché il linguaggio stesso si lascia udire [...] in tal modo il linguaggio
media intimamente lirica e società 110. [...] D'altra parte però il linguaggio non va
assolutizzato. [...] L'attimo dell'autocancellazione, nel quale il soggetto si cala e
annulla nella lingua, non è un suo sacrificarsi all'essere 111 ;
anzi giacché il soggetto è storico e dovrebbe poter essere cosciente della
propria azione nella storia, il fatto che esso come soggettività individuale
debba per un istante scomparire nella storia è semmai:
un attimo di conciliazione: la lingua parla direttamente soltanto se non parla come
qualcosa di esterno al soggetto bensì come voce [che dovrebbe essere] propria di
quest'ultimo, ovvero nella poesia lirica, mediante l'identificazione col linguaggio,
il soggetto nega tanto la sua semplice contraddizione monadologica nei confronti
della società quanto il suo semplice funzionare all'interno della società 112 .
Anche nella Teorìa estetica si trova l'affermazione che l'esperienza del
soggetto sia l'immagine collettiva che si aggiunge alla legge formale del­
l'opera d'arte. Si può ora comprendere come il carattere collettivo, quello
110 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 53.
111 per quanto questi temi inducano a farlo, non si esaminerà qui la querelle tra
Adorno e Heidegger. Per un tentativo - invero forse un poco troppo conciliante e
psicologico - di dare ragione del contrapporsi violento del primo al secondo, cfr. H.
Mòrchen, Macht una Herrschaft im Denken von Heidegger und Adorno, Klett-Cotta,
Stuttgart 1980, Adorno und Heidegger, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 1981. L'autore si
impegna in un certosino lavoro di ricerca filologica di tutte le citazioni, implicite e
esplicite, di Heidegger nell'opera di Adorno, per concludere che: a) Adorno citava
Heidegger in maniera capziosa; b) l'accanirsi di Adorno verso Heidegger risulterebbe
«sospetto»; e) entrambi sarebbero «pensatori della tecnica»; d) la scuola heideggeriana
dovrebbe tuttavia prendere sul serio le critiche adorniane, sostanzialmente di apologe­
tica indiretta. Mòrchen inoltre si prende la briga di ricostruire i rapporti, periodizzando
cinque fasi, l'ultima della quali (1967-69) vedrebbe un tendenziale affievolirsi dei motivi
polemici di Adorno. Il segreto impulso della critica di Adorno starebbe in una altret­
tanto segreta affinità, rimossa dal francofortese, perché sia la dialettica critica sia la
domanda sull'essere deriverebbero da una radice hegeliana. L'unione tra i due si do­
vrebbe poter scorgere nella «sfiducia nella ragione» e nel loro «antiumanesimo».
112 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 54.
MODELLI INTERPRETATIVI
93
linguistico e quello di enigma, siano determinazioni che non posano ferme
e indifferenti, ma ognuna è la soluzione delle tensioni dell'altra o, per
esprimerci come Adorno, ognuna risolve il carattere di enigma dell'altra
per diventare essa stessa, in nuova configurazione, enigma del vero. «Tutte
le opere d'arte [...] sono enigmi, [esse] ripropongono il carattere di enig­
ma sotto l'aspetto della lingua» 113 ; e Adorno spiega:
del carattere enigmatico dell'arte può accertarsi in modo elementare il così detto
mancante di orecchio che non capisce il «linguaggio della musica», percepisce solo
guazzabugli e si chiede meravigliato che cosa mai questi rumori debbano signifi­
care; la differenza tra quel che ode lui e ciò che ode il musicista, identifica la zona
del carattere di enigma 114 .
La differenza tra chi non capisce il linguaggio e chi lo capisce, ovvero
per lo meno sa che è un linguaggio, definisce la possibilità di porre una
frase del linguaggio come problema ermeneutico. Infatti «di fronte al
carattere enigmatico lo stesso capire è una categoria problematica» 115 . Se
in Die Aktualitdt der Phtlosophie avevamo trovata espressa la convinzione
che comprendere volesse dire togliere di mezzo il carattere di enigma, di
modo che l'enigma e la soluzione non potessero stare tranquillamente uno
accanto all'altra, qui Adorno scrive ugualmente che «l'enigma non è riso­
lubile, solo la sua conformazione è decifrabile e proprio questo tocca alla
filosofia. [...] Tuttavia il carattere di enigma non è estinto dal capire. [...]
[Nelle opere d'arte] sciogliere l'enigma equivale a dare la ragione della sua
insolubilità» 116. E ancora: «come negli enigmi [anche nelle opere d'arte]
la risposta viene taciuta e estorta con la struttura. A ciò serve la logica
immanente» 117 - quella della legge formale a cui le opere si sottopongono
per poter essere più di imitazione e meno di realtà. Citando l'opera di
Klee, conclude l'autore che:
tutte le opere d'arte sono scritture (écriture] [...], geroglifizzanti, per le quali il
codice andò perduto ed a costituire il contenuto delle quali contribuisce non da
ultimo quella mancanza. Solo in quanto scrittura le opere d'arte sono linguistiche.
[...] Ma la risposta taciuta e determinata delle opere d'arte non si manifesta ali'in terpretazione d'un colpo, come nuova immediatézza, bensì solo passando attraver-
Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 204.
Ibidem, traduzione da me parzialmente mutata.
Ibidem, p. 206.
Ibidem, p. 207.
Ibidem, p. 211.
94
CRITICA DEL NON VERO
so tutte le mediazioni. [...] Il carattere di enigma sopravvive all'interpretazione che
ottiene la risposta 118 .
La differenza rispetto alla metafora dell'enigma degli anni '30 consi­
ste dunque in questo: il carattere di realtà-che-domanda non viene dissolto
dalla risposta data dall'interpretazione; poiché il codice andò perduto,
rimane la forma linguistica, la struttura entro la quale si forma la doman­
da, e che solo l'interpretazione filosofica, quella che non prende nulla per
immediato e tutto sul serio, riesce a portare alla luce. È una differenza
portata da un aumento, per dir cosi, della consapevolezza linguistica; è,
insomma, la mediazione tra struttura linguistica e oggetti, insieme alla
sicurezza che la forma non esaurisca la sostanza della cosa, che richiede
l'interpretazione, e non più solo l'ontologia del rapporto tra storia e na­
tura. Mentre il carattere di domanda appartiene alla mediazione tra singo­
larità e universalità, la loro costellazione non è a portata di mano, né un
possesso che possa essere esibito, moneta sonante. La sua esistenza, la
legge della forma alla quale si vorrebbe ridurre la cosa, è perduta nel senso
che è divenuta una costrizione formale perché introiettata nella ratto, sia
in generale, sia in quella affatto particolare dell'opera d'arte. L'«ambiguo
intreccio» dell'ente incontrato all'inizio della parabola filosofica di Ador­
no, ritorna in questo che è l'ultimo scritto del filosofo, a chiarire che cosa
sia mai l'enigma: «enigmatico è infatti che un ambiguo intreccio possa non
di meno essere univoco e come tale venir capito» 119.
Il paradigma di colui che si pone l'ente, la cosa, l'opera o il pensiero,
come problema, il modello della filosofia, è per Adorno quello dell'esecu­
tore:
la facoltà mimetica si manifesta nella prassi della rappresentazione artistica quale
imitazione della curva di movimento del rappresentato; tale imitazione è la quin­
tessenza della comprensione al di qua del carattere di enigma 120 .
Non è luogo questo per intervenire sull'esecuzione come comprensio­
ne mimetica, secondo il suggerimento della Rose 121 . Tuttavia ritorna la
118 Ibidem, traduzione da me in parte alterata e spaziature mie.
119 Ibidem, p. 212. Spaziatura mia.
120 Ibidem.
121 Cfr. Gillian Rose, The melancholy science. An introduction to thè tought of
Theodor W. Adorno, The MacMillan Press, London 1978. Il testo è estremamente
insolito, tanto quanto interessante. Nella prefazione Rose chiarisce il suo intento: «Io
MODELLI INTERPRETATIVI
95
praxis, che nel saggio sull'attualità della filosofia era la soluzione del carat­
tere di enigma. Anche adesso si tratta di «eseguire sul serio», in qualche
modo di riassumere e conservare tutti i caratteri evolutivi, i «mille intrec­
ci» del testo, perché solo nel movimento di questo e della sua storia, il
problema è un problema. Ma il guaio viene proprio dal fatto che il lin­
guaggio, modello di struttura di forze come l'opera d'arte, è un medium
due volte mediato, dal mediato e dall'altro. Nulla è più, semmai lo sia
stato, mosso in una dialettica diadica. Questa sarebbe, per esprimerci
poeticamente, possibile solo nel paradiso terrestre, dove nessun terrore
costrinse alcunché a esprimersi nella forma della rimozione a forma. Ma
ragiono che i testi di Adorno debbano essere letti da un punto di vista metodologico
con una particolare attenzione agli strumenti stilistici» (p. 10). Il tutto sembra corri­
spondere benissimo a quanto lo stesso Adorno afferma essere il compito dell'arte, da
cui non si sentì mai fratto, cioè quello di assumere tutte le questioni di contenuto come
se fossero questioni di stile. La Rose prosegue: «i suoi testi potrebbero senz'altro essere
descritti come anti-testi, come di fatto egli descrisse quelli hegeliani» (p. 21), e passa
ad analizzare alcune figure tipiche dello stile adorniano, ricollegandole volta per volta
a specifici contenuti e intenti, fra queste: la costruzione passiva (p. 12), il chiasme (p.
13). Segue l'analisi degli intenti che soggiacciono a tali figure formali: la differenza tra
espressione e comunicazione (p. 15), i rimandi mitici (p. 15), l'ironia (p. 16), l'inversio­
ne (p. 17). Per la tradizione dell'ironia Adorno viene accostato a Nietzsche, al punto
che la Rose sostiene essere quella di Adorno una lettura nietzscheana di Hegel, con in
più la discoperta del carattere metafisico delle stesse conclusioni di Nietzsche. Quindi
(p. 23) un'interessante terminologia - «necessary illusion» - descrive il passaggio dal
nichilismo al marxismo, dove il termine «illusion» è usato dalla Rose per rendere l'idea
che si tratti di superare la gabbia del solipsismo empirista. Saltiamo alcune dense parti
di ricostruzione storica e teoretica del lavoro di Adorno, per approdare al rapporto con
Lukàcs; cosi si esprime la Rose al termine del capitolo: «il criterio lukacsiano per la
distruzione della ragione è per Adorno paradigma della possibilità stessa d'esistenza
della cultura», intendendo con questo il valore formale ineliminabile che Adorno repe­
risce come istinto critico della cultura. A pag. 124 si trova una delle rarissime citazioni
del tema della parodia in Adorno; questione davvero centrale per una teoria dell'interpetazione dialettica. Purtroppo la Rose si sofferma su di essa solo per contrappore la
preferenza lukàcsiana per il realismo contro quella adorniana per la parodia formale.
Ancora più oltre (pp. 139 e sgg.) la Rose riconosce come nel pensiero di Adorno: «il
significato delle categorie concettuali è una proprietà della struttura sociale. [...] La
produzione di senso è quindi opposta alla sua comunicazione (illusione); in questo
caso, significato e illusione sono contrapposti. Ad ogni modo, più generalmente, il
significato è identificato con il modo illusorio nel quale la struttura sociale appare
essere intelligibile o meno». Dato questo, la Rose sostiene essere le forme il terminus
ad quem della ricerca adorniana, in quanto in esse è oscurato il significato nel contesto
sociale del tardo capitalismo; e per tanto tale ricerca va effettuata, data l'espulsione
delle forme significanti nella produzione, tra le maglie dei resti non produttivi. Da qui
la «micrologia» adorniana. Essa tenderebbe a ricostruire quello shock d'esperienza che
solo rende accettabile la struttura paratatticca della critica della dialettica negativa.
96
CRITICA DEL NON VERO
l'illuminismo ha davvero scacciato Dio dal paradiso. L'uomo al suo posto
non può farsi garante. Cartesio aveva perfettamente ragione, nonostante i
rimproveri di poca astuzia filosofica, a sostenere che solo Dio può garan­
tire il passaggio dal pensiero alla cosa. Eliminato l'ontologico, l'assoluto
vero immutato, resta solo la vertigine, che è quella nietzscheana ina anche
quella che Adorno afferma essere il carattere distintivo, e quasi stretta di
riconoscimento, tra dialettica e coscienza. Nessuna delle due può arrestar­
si a se stessa. Così il carattere linguistico, inconscio e collettivo delle opere
d'arte lo rincontriamo adesso per riconoscerei il volto dell'utopia del lin­
guaggio: «il carattere linguistico dell'arte porta a riflettere su che cosa parli
dell'arte; ciò che parla è propriamente il suo soggetto mentre non lo sono
né chi la produce né chi la recepisce», e segue l'esempio:
l'Io grammaticale della poesia è posto solo da quello che parla latentemente attra­
verso la creazione artistica. [...] l'Io è obbiettivamente immanente alla sostanza
dell'opera, si costituisce nella creazione artistica, attraverso l'atto del linguaggio di
questa. [...] La forza di tale alienazione dell'io privato alla sostanza dell'opera è
data dall'essenza collettiva in esso accumulata; essenza che costituisce il carattere
linguistico delle opere. [In esse] parla un noi e non un io. [...] Questo noi fa
entrare il proprio aspetto letterale, si cambia in impulso immanente e tuttavia
conserva il carattere parlante. Le poesie [...] hanno riferimento ad un noi; per
amore della propria linguisticità devono darsi da fare per liberarsi della linguisticità a loro esterna;
secondo il processo di interiorizzazione della forma a contenuto proprio,
e questo processo è proprio anche delle altre arti, come quella figurativa:
il suo noi è senz'altro il «sensorium» al suo livello storico, fino a che esso rompe,
in virtù della compiuta formazione del suo linguaggio formale, la relazione con una
mutata oggettività 122 .
Questa possibilità di rottura, vedremo, coincide con le possibilità
dell'interpretazione. Essa andrebbe condotta dal punto di vista di un sog­
getto che non esiste ancora, e perciò non può essere isolata da una parte
di impulso e desiderio e elaborazione dell'esperienza, ma anzi «è tenuta ad
anticipare tutta quanta una società non esistente ed il suo non esistente
soggetto» 123 . Il carattere di enigma viene eliminato, come sostenuto nel
122 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 281-83.
123 Ibidem, p. 283.
MODELLI INTERPRETATIVI
97
millenovecento e trentuno, poiché viene, dalla risposta, eliminata la par­
venza del soggetto e l'ideologia della sua naturalità e il corollario della
trascendentalità delle strutture entro le quali si trova a vivere, o ancora
meglio: il piglio filosofico che rende immortale e immutabile, nuovo Dio
senza volto, ogni trascendentale. Ma al contempo il carattere di enigma si
conserva perché il soggetto a nome del quale si parla non esiste affatto, e
il suo desiderio non può far le veci. Una società accecata non può soste­
nere la forma del soggetto, né può volerla.
FREUD E KAFKA
Perché Freud e Kafka? Intanto perché la dialettica negativa, peculiar­
mente, essendo negazione oltre che della sociale anche della propria tota­
lità, trova espressione teoretica solo per modelli. Ma in secondo luogo per
vedere all'opera, in una interpretazione effettiva, due soluzioni del rappor­
to tra soggetto e oggetto che Adorno considerò paradigmatiche. Queste
soluzioni costituiranno, per noi non solo un momentaneo punto fermo
sulla questione, ma anche una guida per affrontare, nel seguente capitolo
quarto, gli snodi centrali della mediazione soggetto/oggetto per la formu­
lazione che in essa ricevono le questione di una interpretazione filosofica.
Adorno sarebbe probabilmente il più radicale degli ermeneuti, se
dovessimo prendere a metro di giudizio il riconoscimento della determi­
nazione del contesto sul testo: «non c'è pensiero che sia immune dalla sua
comunicazione, e basta formularlo nella falsa sede e in un senso equivocabile per minare la sua verità»124 . Forse questa è la spiegazione dello
strano rapporto di Adorno con Freud, che tra l'altro rassomiglia, curiosa­
mente, a quello con Marx. A entrambi Adorno non ha dedicato che pa­
gine occasionali, notazioni e aforismi, eppure non c'è alcun dubbio che
essi siano due colonne portanti del pensiero dell'autore francofortense.
Aveva scritto Adorno che «nella psicoanalisi non c'è nient'altro di
vero che le sue esagerazioni» 125 , e questa frase gli era stata più volte rim­
proverata. Né altrove il rapporto con Freud è più sereno.
L'illuminismo non illuminato di Freud porta acqua al mulino dello scetticismo
borghese. Tardo nemico dell'ipocrisia, egli sta a metà strada tra la volontà di
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 17.
Ibidem, p. 47.
98
CRITICA DEL NON VERO
un'aperta emancipazione degli oppressi, e l'apologià dell'aperta oppressione. La
ragione è per lui una semplice sovrastruttura, e non tanto [...] per via del suo
psicologismo [...] quanto piuttosto perché rigetta lo scopo, senza significato e
senza ragione, solo in funzione e in vista del quale la ragione potrebbe dimostrarsi
razionale: il piacere. Se quest'ultimo è svalutato e incluso tra gli espedienti della
conservazione della specie, e risolto così, in qualche modo, in ragione astuta [...]
la ratio scade di colpo a razionalizzazione. La verità è affidata alla relatività e gli
uomini al potere. Solo chi riuscisse a definire l'utopia nel cieco piacere fisico, che
non ha intenzione e anzi la placa, sarebbe in possesso di un'idea stabile e certa
della verità. Ma nell'opera di Freud si riproduce, contro la volontà dell'autore, la
duplice ostilità contro il piacere e contro lo spirito, di cui la psicoanalisi ha sco­
perto la comune radice. [...] ... quel non so che di vacuo e di meccanico che si
osserva in molti di coloro che sono stati sottoposti con successo all'analisi, non va
attribuito solo alla malattia, ma anche alla guarigione, che spezza ciò che libera 126 .
È questa probabilmente una delle più semplici e cattive prese di
posizione verso Freud. Eppure i Minima moralia sono senz'altro, nel senso
letterale del termine, un testo (anche) di psicoanalisi freudiana. Moltissime
delle categorie che Adorno impiega per descrivere l'alienazione e la sua
storia, introiezione, identificazione, rimozione, sublimazione, dialettica
dell'istinto, etc., sono nella loro forza costitutiva freudiane. Ancora, i passi
che abbiamo già utilizzato, sulla funzione di forza che le lacune, del testo
e dei pensieri, esercitano sul testo e sui pensieri, sono suggestioni psico­
analitiche. L'impianto stesso dell'attacco a Freud, è decisamente freudia­
no. E allora?
Adorno pare voler separare la potenza critica e categoriale della psi­
coanalisi dalla metodologia terapeutica, accusando questa seconda di aver
sottobanco introdotto delle finalità, bloccate, o meglio apologetiche, con­
trarie o per lo meno estranee alla psicoanalisi.
Il celebre transfert, indispensabile alla terapia, e la cui risoluzione costituisce - non
per nulla - il punto cruciale dell'analisi, la situazione artificiale in cui il soggetto
opererà - infaustamente e volontariamente - quell'annullamento di se stesso che
un tempo era prodotto, con felice spontaneità, dalla devozione e dall'affetto, è già
lo schema della condotta riflessa che, in forma di marcia agli ordini del capo,
liquida, insieme allo spirito, anche gli analisti che lo hanno tradito 12 '.
126 Ovviamente non si potrà qui fare disamina della correttezza della ricezione
adorniana di Freud. Per quanto possa essere interessante capire quanto Adorno lo
conoscesse davvero, qui ci riguarda solo quanto egli crede di pensare in riferimento al
fondatore della psicoanalisi...
127 Ibidem, pp. 62-63.
MODELLI INTERPRETATIVI
99
Se il rigore, per Adorno, risiede nella autoriflessività, ovvero nell'applicare a se stessi le proprie categorie, allora si tratta di far psicoanalisi
anche alla psicoanalisi, giacché essa è, come tutti i pensieri, fondata sul
desiderio. I fatti incontrovertibili - crinale tra capacità euristica e dogma­
tismo - sono, se utilÌ2zati come dati di fatto immediati, anch'essi una
proiezione e una paura. La psicoanalisi, come tutto il sapere, è allora,
secondo Adorno formato da Freud, una formazione di compensazione,
spostamento e rimozione del terrore. La natura che essa scopre è dipen­
dente dalla natura delle categorie che impiega - altro semplice principio
ermeneutico - e quindi essa non scopre affatto la natura, perché non
affatto naturali sono le sue categorie; una certa mimesi con il modo col
quale le scienze fisiche e matematiche concepiscono se stesse anziché raf­
forzare la psicoanalisi, le precluderebbe al contrario la possibilità di pene­
trare in quella concezione, e non potendovi penetrare - seguendo le regole
che essa stessa ha scoperto - le introietta: «poiché anche le più remote
oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero,
distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso» 128 . Ma c'è anche
dell'altro. Secondo Adorno, il pensiero psicoanalitico prende per buone
non solo categorie ma anche giudizi borghesi, che significa di quella bor­
ghesia europea del primo ventennio del Novecento 12q . Un esempio di ciò
lo troviamo, per restare ai Minima moralia, nell'aforisma: «Invito alla
danza». Lo schema della felicità è, a detta di Adorno, elaborato sul com­
plesso edipico. Lo psicoanalista affermerà: è un complesso edipico irrisol­
to. Adorno si domanda, e allora? Il fatto che il progetto illuministico di
giungere finalmente a una società dove le contraddizioni non siano sempre
le medesime, sia costruito dal fragile Io, utilizzando un ricordo che
probabilmente acquista molta della sua forza da un fantasma di felicità che
non è mai esistita, non sminuisce affatto il valore del desiderio.
Come per molti altri pensatori borghesi, anche di Freud, Adorno
sostiene che fosse un radicale, giunto al limite possibile. Il problema ulti­
mo è quello della identificazione: Freud si sarebbe arrestato prima di
riconoscere l'influsso di entrambe le nature, non solo quella interna e
esterna, ma anche e soprattutto quella sociale. Adorno accetta e fa sua
128 Ibidem, p. 141.
129 Questa storicità è per Adorno legata a quella dell'individuo e non semplice­
mente a un problema di prospettiva; in modo non dissimile la pensava Marcuse, cfr.
H. Marcuse, Dae Veralten der Psychoanalyse. Versione tedesca di A. Schmidt della
conferenza Obsolescence of Psuchoanamysis, tenuta a New York nel 1963, ora in H.
Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, pp. 223-242.
100
CRITICA DEL NON VERO
l'idea secondo la quale la forma razionale che si apprende per sopravvive­
re, resti poi a determinare il visibile e l'invisibile del mondo. Ma integra
la natura e l'eredità ben oltre l'inconscio individuale. L'individuo moder­
no è ancora più sociale: comprende la storia della razionalità, la sua genesi
difensiva - e tuttavia l'origine non è il senso, né lo scopo, né tanto meno
stabilisce il rango di una cosa. La manifestazione non è identica alla causa,
non è semplice effetto di essa:
l'espressione nega la realtà, mettendole davanti ciò che non le somiglia, ma non la
rinnega; e guarda in faccia il conflitto, che «risulta» ciecamente nel sintomo. Ciò
che l'espressione ha in comune con la rimozione, è che in essa l'impulso è bloccato
dalla realtà. A quell'impulso, e a tutto il complesso di esperienza a cui appartiene,
resta vietata la comunicazione immediata con l'oggetto. Come espressione, esso
perviene alla manifestazione non deformata di se stesso, e per ciò anche della
resistenza, in una sorta di mimesi sensibile 130.
La «mimesi sensibile» è, era nella Teoria estetica, il modello originario
dell'interpretazione e comprensione. Si deve quindi, a questo punto, pro­
porre la mimesi e il ricordo come funzioni dell'interpretazione, e rimprove­
rare a Freud, o ai suoi seguaci, di aver un'ennesima volta confuso l'origine
con la verità, l'inconscio con la verità? Di aver confuso la secondarietà del
pensiero razionale con un buon motivo per sostenere il rafforzamento delle
difese erette dal principio di realtà? L'aporia, scrive Adorno:
rimanda alla psicoanalisi in quanto tale. Da un lato essa considera la libido come
la vera realtà psichica, la soddisfazione come positiva e il rifiuto come negativo,
perché porta alla malattia. Ma d'altro lato essa accetta la civiltà, che determina
coattivamente il rifiuto, con un atteggiamento che se non è addirittura acritico è
tuttavia rassegnato. In nome del principio di realtà essa giustifica i sacrifici psichici
dell'individuo, senza sottoporre lo stesso principio della realtà a un esame razio­
nale 131 .
Se in questo Freud è in immenso vantaggio rispetto ai suoi avversar!
revisionisti:
la grandezza di Freud, come di tutti i pensatori borghesi radicali, consiste nel fatto
che egli lascia queste contraddizioni irrisolte, e disdegna di pretendere un'armonia
sistematica dove la cosa stessa è internamente lacerata 132
Ibidem, p. 258.
Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 32.
Ibidem, pp. pp. 32-33.
MODELLI INTERPRETATIVI
101
tuttavia il rimprovero a Freud rimane; egli non avrebbe considerato come
la società possa, senza essere ridotta a dimensione antropologica, entrare
a far parte violentemente del patrimonio gestito dalla mente. Le introiezio­
ni, insomma, sono tanto contenutistiche quanto formali, nel senso che
quel che viene introiettato come forma è semplicemente un contenuto che
le generazioni precedenti hanno internalizzato e rimosso come tale, e si
sono protette assumendo la forma di elaborazione del dato più consona.
Ma dato che questa consonanza si scontra da un lato con i bisogni originari dell'uomo e dall'altro con le esigenze, altrettanto rigorose, di soprav­
vivenza in questa società, in molti casi è stato necessario nascondere quel
che si era imparato.
L'Io assume consapevolmente al proprio servizio, come propria attrezzatura, l'uo­
mo intero. Nel corso di questa ristrutturazione radicale l'Io come direttore della
produzione cede tanto di sé all'io come strumento della produzione, da ridursi a
un astratto punto di riferimento: l'autoconservazione perde il suo sé. Le qualità
[...] non fanno più parte del soggetto, ma il soggetto si rivolge ad esse come al
proprio oggetto interno. Nella loro sconfinata docilità all'io, si sono estraniate da
esso; totalmente passive, cessano di alimentarlo. Questa è la patogenesi sociale
della schizofrenia. La separazione delle qualità dal fondo istintivo come dal sé che
le comanda, dove prima le teneva semplicemente insieme, fa che l'uomo paghi la
sua crescente organizzazione interna con una crescente disintegrazione 153 .
Dunque nelle funzioni dell'Io, la contraddizione della ratio assorbita
insieme alla morale viene pagata con la scissione dell'elemento che fu
unificante. Ancora nello scritto a difesa di Freud contro la Horney, Ador­
no dichiara di credere in una «duplicazione», per dir così, della vecchia
triade freudiana tra Io, Es, e Superlo. L'Io, originariamente al servizio del
principio di realtà, deve ora accettare di far le veci della realtà sociale. Ma
questa, come insieme di norme e proibizioni, è oggettivamente guardata e
rappresentata dalle istanze del Superlo. L'Io è così costretto a cedere una
parte del suo territorio a un giudice severo e punitivo, che confonde
principi morali e principio di realtà. Disubbidire ai giudici sociali è sentito
come un male, e esige una punizione. L'analisi o rinuncia all'adattamento,
oppure si trova nella sgradevole situazione di instaurare una nuova allean­
za, non più con l'Io, ma col rappresentante del principio sociale di realtà:
il Superlo. Il bene e il vero, in una parodia della filosofia platonica, tor­
nano ad essere la stessa cosa, ma in una realtà che è l'indice del falso, per
" 3 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 280-81.
102
CRITICA DEL NON VERO
voler restare in termini rigorosamente freudiani, una realtà che è il risul­
tato di una rimozione di cui è da lungo morto il soggetto ma rimasto il
motivo. Così:
il Superlo, l'istanza della coscienza, non mette solo davanti agli occhi del singolo
ciò che è socialmente vietato come se fosse il male in sé, ma fonde irrazionalmente
l'antica paura della distruzione fisica con quella molto più recente di non appar­
tenere più alla comunità sociale che circonda gli uomini al posto della natura 134 .
La funzione dell'Io diventa produzione di fantasmi da quanto la re­
altà è sottratta alla sua mediazione. I desideri, che venivano prodotti
mediando e trasfigurando le pulsioni, sono ricacciati nell'immaginario, e
viene buttata la mappa della loro posizione. L'Io diviene quasi una funzio­
ne inconscia. Ma giacché è necessario mantenere l'illusione della singola­
rità - a questo stadio dello sviluppo del soggetto essa è irrinunciabile socialmente si insiste sempre più sulla psicologia dell'Io, e sempre più gli
si addossano responsabilità. La motilità, come nel sogno, è bloccata. E il
desiderio si fa allucinazione. Non c'è più nessuna possibilità di lavorare
per modificare il reale a favore dell'impulso dell'Es. L'individuo è portato
a pensare di coincidere con i propri impulsi - come se il vero fosse l'in­
conscio - non vedendo come l'Es sia il deposito dei desideri bloccati, che
per l'uomo sociale sono impulsi socialmente bloccati. Il deposito così,
dove dovrebbe «voltolarsi la calda bestiola dell'anima» 135 , è in effetti
l'espressione della manipolazione sociale. Quel che sembra più a portata
di mano, l'intimo individuale, se espresso in questi termini, è in realtà il
più comune e stereotipo prodotto della industria culturale. E ciò è il
risultato della situazione per la quale tanto più il soggetto si sente debole
tanto maggiore è il suo desiderio di identificarsi con qualcosa di stabile e
grande. Così l'Io rinuncia a pensarsi come Io, l'istanza critica viene inibita,
e si instaura una preoccupante alleanza, che sempre è stata sottintesa, fra
le pressioni sociali del Superlo e quelle dell'Es. Questi a sua volta deve
reinghiottire il desiderio di poter modificare il reale affinchè corrisponda
al suo piacere, e farsi piacere i prodotti apprestati alla sua soddisfazione.
Deve contenere sia la sedimentazione delle vecchie funzioni dell'Io in
un'area non più accessibile, sia quel che era il suo originario territorio. In
questo contesto scrive Adorno: «il fatto che nessuna realtà sociale possa
134 Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p.40.
155 S. Esenin, Pugacev. I versi citati si trovano cosi tradotti nell'edizione Einaudi,
Torino 1971.
MODELLI INTERPRETATIVI
103
essere pensata senza fare riferimento alla totalità [...] ma non traducibile
in alcuna immediatezza evidente e tangibile [...] conferisce ali 'interpretazione l'importanza che essa possiede in sociologia» 136; tale interpretazione
è «fisionomica», essa esercita il criterio del dubbio su tutto quel che le si
presenta, comprese le proprie proiezioni. Indica la guida di questo sguar­
do fisionomico il poietico:
questo elemento non letterale, ludico (secondo l'espressione di Nietzsche) defini­
sce il concetto dell'interpretazione, che interpreta un essente rapportandolo a un
non essente. La mancanza di una completa letteralità testimonia la tesa non iden­
tità di essenza e fenomeno 137
La logica di questa interpretazione è simile a quella del linguaggio
musicale, dove la presenza avviene per tramite del tutto, ma il tutto non
è la verità della presenza; mentre il luddismo ci riporta alla mente Vars
invenìendi che, così la definì Adorno, è l'organo di senso della esatta
fantasia, a sua volta medium dell'interpretazione. Però, nonostante l'unio­
ne di gioco e fantasia,
non per questo l'interpretazione è arbitraria. La mediazione tra il fenomeno e il
suo contenuto bisognoso di interpretazione avviene attraverso la storia: ciò che
dell'essenziale appare nel fenomeno è ciò attraverso cui esso è diventato quello che
è, ciò che in esso è stato represso e ciò che, nel dolore del proprio indurimento, genera
quello che si sta appena formando. Su questo [...] si dirige lo sguardo della fisio-
Quel che appare appartenere all'ambito soggettivo, la fantasia, la
critica, il desiderio e via dicendo, rispetto a una realtà falsa, rivendica
invece la verità obiettiva per la quale il mondo non avrebbe dovuto essere
così. Mentre, al contrario, l'elemento oggettivo, l'essere così e basta, è un
prodotto del soggetto, nel quale esso non ha più la possibilità di riconoscersi. Se la precedente citazione è tratta dagli scritti di sociologia, il
modello è ancora una volta quello artistico, nel saggio Bach difeso contro
i suoi ammiratori^ si legge che «finché la musica ha bisogno di essere
interpretata, la sua legge formale consiste nella tensione tra l'essenza com-
Th.W. Adorno, Dialettica e positivismo in sociologia, cit., p. 44.
Ibidem, p. 47.
Ibidem, pp. 48-49. Corsivo mio.
Cfr. Th.W. Adorno, Prismi, cit., pp. 129-43.
104
CRITICA DEL NON VERO
positiva e l'apparenza sensibile. Ogni opera è in realtà un campo di for­
za» 14t). Come il saggio, essa deve rinunciare a mettere in scena il soggetto,
perché esso si è ritirato e sopravvive solo nell'eccentrico. «Il saggio è [...]
la forma critica per eccellenza» 141 - non si difende quel che sta scompa­
rendo imitando la sua presenza, ma rintracciando le tracce della sua verità
- «la sua libertà nello scegliersi gli oggetti, la sua sovranità di fronte a tutte
le priorities di fattualità o teoria, derivano dal fatto che tutti gli oggetti
sono per esso alla stessa distanza dal centro» 142 che non c'è più. La forma
saggio è storicamente affine alla retorica perché si fortifica nei testi, e,
scrive Adorno, Benjamin l'ha praticata fino in fondo. «Tutte le sue asser­
zioni sono ugualmente vicine al centro. [...] Egli ottemperò alla massima
deirEmbahnstrafie secondo la quale tutti i colpi decisivi oggi sono portati
con la mano sinistra, senza per questo recedere in nulla dalla verità» 143 . La
retorica benjaminiana, che si affida al testo, ne è, insomma, il modello
insuperato: «il suo saggismo consiste nel trattare testi profani come se
fossero sacri. [...] La chiave di quelle figure enigmatiche è perduta; deb­
bono [...] "parlar esse stesse"» 144 . E allora:
interpretazione, traduzione, critica sono gli schemi del suo pensiero [...] alcune
volte parlò del suo metodo come di una parodia del metodo filologico. Anche qui
non è disconoscibile un modello teologico [...] Tra le operazioni per secolarizzare
la teologia al fine di salvarla non l'ultima è quella di considerare i testi profani
come se fossero sacri l45 .
La teologia è sì il discorso che Dio fa agli uomini, ma è soprattutto
il rintracciare degli uomini, nel libro della natura e nel libro dello spirito,
secondo l'idea di Agostino, nei segni la traccia della speranza, nel minimo
passaggio la porta attraverso la quale ad ogni istante può entrare il Messiah. È una logica del sintomo-del-ricordo 146 . Anche Adorno concorda, e
però meno fiducioso corregge:
140 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 167.
141 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 24.
142 Ibidem, p. 25.
145 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 237.
144 Ibidem, p. 240.
145 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. II, p. 249.
146 Per la questione del rapporto tra sintomo, memoria e desiderio, si può con­
sultare: R. Heyndels, Discontinuité et question du sens: quelques remarques sur Adorno
et Pascal, in AA.VV., Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8; oltre
al già più volte citato lavoro di Carchia, Sulla teorìa estetica di Adorno, per il rapporto
tra mimesi e memoria, dove la seconda fonderebbe la possibilità della prima.
MODELLI INTERPRETATIVI
105
il saggio si garantisce un terreno, seppur incerto, sul quale poggiare, così come un
tempo faceva l'esegesi teologica delle scritture. Ma la sua tendenza è opposta, è
una tendenza critica: mettere i testi a confronto con il loro concetto enfatico, con
la verità che ognuno di essi, anche involontariamente, esprime. [...] Allo sguardo
del saggio la seconda natura acquista consapevolezza di sé come prima natura 147 .
La dialettica che Adorno trovava arrestata in Freud, bloccata dalla
paura delle proprie conseguenze, viene rimessa in moto: da un lato ogni
testo è sacro, indica cioè oltre se stesso, dall'altro la fedeltà a esso consiste
nel costringerlo a confessare quel che vorrebbe ma non può: il proprio
impulso critico. Il medium di tale interrogatorio sono:
i passaggi scandalosi della retorica, dove l'associazione, la polivalenza dei termini,
l'omissione della sintesi logica rendevano facile il compito dell'ascoltatore - e - nel
saggio la suasività della comunicazione [...] è alienata dal suo fine originario, per
divenire pura determinazione dell'esposizione in sé;
per questo il saggio lavora, per:
far capire insomma che ogni qual volta un termine connota alcunché di diverso,
il diverso non è più del tutto tale, per far capire che l'unità del termine indica una
unità, comunque nascosta, della cosa stessa. [...] Anche qui il saggio sfiora la logica
della musica, rigorosa arte di passaggi e tuttavia priva di concetti, per restituire al
linguaggio ciò che la tirannide della logica discorsiva gli aveva tolto 148 .
Di nuovo il senso risiede nella storia, nel movimento dell'intera strut­
tura sui propri cardini, senza che si possa a piacere sceglierne uno fisso.
Il mutamento di verità e di contenuto dei termini, è vero e falso, index veri
e del falso. Secondo una logica, che la logica odierna sociale relega all'arte,
alla religione, e all'inconscio affettivo. Ma anche nell'affetto «la filosofia si
ispessisce a esperienza affinchè le si dischiuda la speranza» 149 , e così si
proteggono le verità filosofiche.
Ogni volta che si stava insieme con lui [con Benjamin] si ricostruiva una cosa
altrimenti morta senza la possibilità di recupero, la festa. Standogli vicini si aveva
la sensazione che ha il bambino nell'attimo in cui si apre uno spiraglio della stanza
147 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 26.
148 Ibidem, pp. 27-28.
149 Cfr. Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 247.
106
CRITICA DEL NON VERO
natalizia e un flusso di luce costringe l'occhio alle lagrime, più commovente e più
certo di quanto non sia tutto il chiarore che lo saluta quando il bimbo è invitato
a entrare nella stanza. In Benjamin tutta la forza del pensiero si riuniva per pre­
parare tali attimi e in essi soltanto è trapassato quel che una volta veniva promesso
dagli insegnamenti della teologia 150.
Il richiamo non è semplicemente un ricordo biografico. Qualcosa
della filosofia abbisogna dell'esperienza, senza la quale nessuna promessa
è mantenuta. Nei Minima moralia avevano trovato l'oblio dell'obbligo, la
«mattina perduta nel letto», come metafora del vero che sorge dal ricordo
- ma gli esempi potrebbero continuare per pagine. Il fatto è che se la
logica del discorso non racchiude più la possibilità di opporsi all'apparen­
za reale, solo l'eccedenza dell'individuo - né soggetto né signore del reale
- può scardinare le costellazioni irrigidite nella forma. E l'esperienza del­
l'individuo è un minimo, un passaggio minimo, qualcosa di espulso, ri­
mosso. Un residuo, e dunque:
l'interprelazione non sequestra ciò che trova considerandolo verità valida e tutta­
via sa che non ci sarebbe verità senza la luce di cui segue le tracce nei testi. A ciò
essa da il colore del lutto, del quale l'asserzione del senso non sospetta nulla e che
viene spasmodicamente negato da chi insiste su ciò che ritiene faccia al caso 151 .
E questo «colore del lutto» - memoria dell'assenza - che deve essere
unito allo shock, all'attimo di stupore e di erotismo che, ad esempio, le
parole straniere, vecchie o in nuove costellazioni, possono procurare. Esse:
potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del linguaggio, di un linguaggio
senza terra, non legato alla signoria di ciò che storicamente esiste, che vive incon­
sapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come teschi, le parole straniere
aspettano di venir destate in un ordine migliore 152 .
Ma tutte le parole che non siano parole d'ordine dell'ordine sociale
presente, sono «parole straniere» 153 . E del resto perché mai le parole
sarebbero indifferenti alla costruzione entro la quale vengono pronuncia­
te? A proposito de Spùren di Ernst Bloch, scrive Adorno:
150
151
152
153
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. II, p. 257.
Ibidem, voi. I, p. 123.
Ibidem, voi. II, p. 211.
Ibidem, p. 219.
MODELLI INTERPRETATIVI
107
Le tracce discendono dall'indicibile dell'infanzia, che una volta diceva tutto. [...]
Ma l'adulto che ricorda tutto ciò porterà alla vittoria le pedine che a suo tempo
ha perso al gioco, senza tuttavia tradirne l'immagine alla ragione troppo adulta;
quasi ogni ermeneutica accoglie in sé la spiegazione razionalistica e poi la strapazza
per bene. Le esperienze sono tanto poco esoteriche quanto ciò che una volta
commuoveva nelle campane di Natale e che non si lascia mai completamente
cancellare: quel che è ora e qui non può essere tutto 154 .
La spiegazione razionalistica viene strapazzata perché l'interpretazione che non conservi le tracce del futuro attraverso le pedine del passato,
si appiattisce sul qui e ora come se qui e ora fosse il concreto. Così «le
opere d'arte non le si capisce come una lingua straniera [ma nemmeno
una lingua straniera si comprende come una lingua straniera, abbiamo
appena visto] o come concetti, giudizi e deduzioni della propria lingua
[...] piuttosto come una specie di rifacimento, come il ricompimento delle
tensioni sedimentate nell'opera» 155 . A quest'idea di una «mimesi» come
interpretazione adeguata, quella che ricostruisce soggettivamente il pro­
cesso oggettivo e immanente dell'oggetto, è tempo di dar nome: esecuzio­
ne 156, nel senso in cui: «eseguire correttamente un dramma o un brano
musicale significa formularlo correttamente come problema» 157 .
Nel libro Dissonanze 178, che cosa sia l'esecuzione viene spiegato più
a fondo: eseguire significa ripetere, in sé, l'opera di composizione delle
tensioni della costellazione, la loro parte che si è sedimentata in forma,
cioè in tradizione-contenuto, e la parte che sopravvive come contenuto
sociale latente, il carattere linguistico, cifrato, mosso dal «non ancora», dal
materiale espulso sia dall'Io che dalla rappresentanza dell'inconscio. Ese­
guire, identicamente al tradurre benjaminiano, significa interpretare, e
viceversa: l'interpretazione deve essere un'esecuzione. L'opera, la cosa,
non sono, come la verità, un possesso, un risultato che possa essere acqui-
154 Ibidem, pp. 220-21.
155 Ibidem, p. 113.
156 L'idea che il modello dell'interpretazione filosofica possa essere venuto a
Benjamin dal suo lavoro di traduttore e a Adorno dalla sua esperienza di esecutore
musicale, durante i loro colloqui invernali a Kònigsberg, è di Susan Buck-Morss, The
origin of negative dialectics, op. cit. Se ne può trovare conferma nel testo di J. Ladmiral,
Dialectìque negative de l'écriture aphoristique, op. cit.
157 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 312.
158 Th.W. Adorno, Dissonanzen, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1958, ed.
it. Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano 1981, p. 191 e sgg.
108
CRITICA DEL NON VERO
stato una volta per tutte, una somma; ma un'esperienza da ripetere e da
confrontare con il proprio livello di coscienza, così come Adorno scrisse
vanno confrontate nell'interpretazione le parole. Il sedimento esprime il
movimento solo come traccia, come indice. Si deve seguire l'indice ma
non confondere la traccia con la cosa, perché la cosa non è una cosa ma
un rapporto.
Ci soccorre qui, paradigmaticamente, quanto scrive Adorno.
«Interpretando il Finale di Partita non si può [...] inseguire la chimera di
mediarne il senso per via filosofica: comprenderlo vuoi dire né più né
meno comprenderne l'impossibilità» 159; detto altrimenti: è necessario fare
l'esperienza della incomprensibilità, attraverso la mutazione della forma in questo caso il pensiero - in contenuto;
il pensiero si trasforma [...] in una sorta di materia di secondo grado. [...] Beckett
[...] usa pensieri sans phrase come frasi, materiali parziali del monologue intétieur
nei quali lo spirito stesso si è trasformato 160.
Il «disgustoso» dell'opera di Beckett non può essere costretto in
filosofemi perché esso «è la parodia della filosofia vomitata fuori dai suoi
dialoghi, e del pari la parodia delle forme» 161 . E la parodia non la si può
interpretare: «ogni tentativo di interpretazione rimane inevitabilmente in
arretrato rispetto a Beckett [...] La possibilità che un'interpretazione sia o
meno all'altezza di tutto questo potrebbe quasi diventare il criterio di una
filosofia futura» 162 : la parodia non si lascia interpretare dalla filosofia,
perché essa è il medium dell'interpretazione filosofica, e come tale può
solo essere espressa tramite rappresentazione, «teatro del pensare» 163 .
Il linguaggio comunicativo postula [...] la tesi della ragion sufficiente. Ma questa
esigenza praticamente non viene più soddisfatta: gli uomini, nel parlarsi, in parte
sono guidati dalla loro psicologia, in parte mirano a scopi che, in quanto intesi alla
pura e semplice autoconservazione, si allontanano dalFoggettività che la forma
logica fa balenare. [...] Per Freud [...] la ratto della comunicazione verbale è
sempre anche razionalizzazione. Ma la ratto stessa è nata dall'interesse all'autocon-
Th.W. Adorno, Noie per la letteratura, cit., voi. I, p. 269.
Cfr. in proposito: R. Tiedemann, Begriff, Bild, Name, etc. cit., pp. 71-72.
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 270.
Ibidem, pp. 270-71.
Cfr. Ibidem.
MODELLI INTERPRETATIVI
109
servazione, e per questo ogni razionalizzazione coartata sta a dimostrare la sua
irrazionalità 164 .
Proprio come accade nell'analisi, la semplice enunciazione di una
interpretazione non costituisce la risoluzione della rimozione, e sempre di
più l'analista si deve semmai preoccupare di rafforzare l'oblio piuttosto
che scatenare il ritorno del ricordo, pena una sofferenza ben maggiore da
quella prodotta dalla difesa. L'interpretazione operando là ricostruzione
del problema, purché venga sentito in una semi-mimesi come problema,
percorre lo stesso percorso della analisi, ma fa del suo stesso percorso
oggetto.
Nel saggio su Kafka questa connessione è espressa nel modo più
chiaro: «ogni proposizione dice: interpretami, ma nessuna tollera l'interpretazione. Ciascuna, insieme con la reazione "È così", impone la doman­
da: "Com'è che lo so già?"» - che è la tipica risposta, secondo Freud, della
interpretazione riuscita - e
attraverso la violenza con cui Kafka esige l'interpretazione [...] i suoi testi impli­
cano che tra essi e la loro vittima non sussista una distanza stabile, e che essi
investano la dimensione affettiva del lettore a un punto tale che questi tema che
il raccontato si avventi su di lui 169 .
Ma non si tratta di una esperienza del lettore 166: «questa aggressiva
vicinanza fisica mette fuori gioco l'abitudine del lettore a identificarsi coi
personaggi dei romanzi. [...] Fintante che non si trova la parola, il lettore
rimane colpevole» 167 ; così Adorno fornisce quella che gli pare essere la
regola per una interpretazione comprendente l'esperienza, che pure in
]M La differenza tra espressione e comunicazione è fondamentale. La prima im­
plica ovviamente la dimensione sociale, ma solo implicitamente, come «latenza forma­
le» scriverebbe Adorno, il quale per la seconda invece intende l'espressione rivolta
all'altro, l'espressione che deve rendersi commensurabile e comprensibile all'esperienza
dell'altro.
Cfr. Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, pp. 293-94.
165 Cfr. Th.W. Adorno, Note per la letteratura, cit., voi. I, p. 251.
166 Quale, per esempio, quella teorizzata dalla così detta Scuola di Costanza; Cfr.
H.R. Jauss, // testo poetico nel mutamento d'orizzonte della lettura, e W. Iser, La situa­
zione attuale della teoria della letteratura. I concetti chiave e l'immaginario, entrambi in
AA.VV., Teoria della ricezione, a cura di R.C. Holub, Einaudi, Torino 1989. Cfr. anche
H.R. Jauss, Kleine Apologie der Àstbetischen Erfahrung, UniversitàtsVerlag, Konstanz
1972, tr. it. di C. Gentili, Apologià dell'esperienza estetica, Einaudi, Torino 1985.
167 Ibidem.
110
CRITICA DEL NON VERO
Kafka peggio che in Beckett pare essere proibita. Ciò che appare proibi­
tivo è, invece, probabilmente solo confusamente avvertito come vicinissimo.
Una prima regola per evitare un trapasso immediato al significato troppo ovvio,
già inteso dall'opera, potrebbe essere questa: prendere tutto alla lettera. [...] Sol­
tanto la fedeltà alla lettera, e non la comprensione di fini già prefissati, potrà prima
o poi aiutare. In un'opera letteraria che costantemente si oscura e si smentisce,
ogni enunciato determinato fa da contrappeso alla clausola generale
dell'indeterminatezza. Kafka ha cercato di sabotare questa regola... Ma il principio
della puntualità letterale, certo un ricordo dell'esegesi del Pentateuco nella tradi­
zione ebraica, trova i suoi punti di appoggio in vari passi kafkiani - senza il suo
criterio - [...] il polisignificante si dissolverebbe fatalmente in indifferente,
ma questo indifferente non è il carattere dell'inconscio, nel quale anzi al
contrario tutto è essenziale e differentissimo;
Kafka prende i sogni alla lettera ed è questo uno degli elementi più efficaci che
provocano lo shock. Viene eliminato tutto ciò che potrebbe scostarsi dal sogno e
dalla sua logica prelogica e proprio per questo risulta eliminato il sogno stesso.
Non è lo spaventoso a provocare lo shock, bensì la sua owietà. [...] Ma il lettore
deve comportarsi con Kafka come Kafka con i sogni. Deve cioè insistere sui par­
ticolari incommensurabili, e impenetrabili, sui punti ciechi. [...] Spesso i gesti
costituiscono un contrappunto alle parole: il prelinguistico, il preterintenzionale
da lo sgambetto alla polisignificanza, la quale come malattia ha corroso in Kafka
ogni significazione. [...] Simili comportamenti sono le tracce delle esperienze co­
perte dal significare. Lo stato ultimo di un linguaggio che sgorga dalla bocca di
coloro che lo parlano. [...] Alle esperienze che si sono depositate nei gesti a un
certo punto seguirà l'interpretazione, sarà possibile riconoscere nella loro mimesi
un universale represso dal senso comune 168 .
Siamo davvero qui di fronte - né sorprende trattandosi di Adorno
che commenta Kafka - a molti temi dell'ermeneutica biblica. Anche qui
la fedeltà alla lettera è l'unica possibilità di far saltar fuori lo spirito; ma
di nuovo anche noi in questo caso dobbiamo sottrarci alla malia della
comunicazione. E procedere adagio. La fedeltà alla lettera non è opposta
alla mimesi dell'esperienza, anzi è la condizione di essa, contro alla interpretazione totale - qualcosa come l'immediata ricognizione del significato
168 Questa, e le precedenti citazioni sono tutte tratte da: Th.W. Adorno, Prismi,
cit., pp. 252-55.
MODELLI INTERPRETATIVI
111
anagogico o metaforico - che mette fuori gioco l'esperienza per trapassare
immediatamente in teoria. Anche Kafka vuoi esser preso come testo sacro,
ma nel senso primo dei testi sacri: esperienza da ripetere. La letteralità è
anche questo, che solo prendendo ogni cosa all'estremo questa mostrerà
la necessità di venir mediata dall'altro. La via di mezzo uccide il rapporto,
non lo conserva. Mentre l'unità di shock e mimesi alla lettera porta alle
soglie del sogno. I materiali devono essere compressi nella differenza tra
parole e gesto, dacché la pura differenzialità delle parole viene al termine
corrosa da se stessa. L'immanenza, come un sortilegio, va spezzata dal di
dentro, altrimenti in una parodia dell'inveramento, si trasforma in trascendentalità. Ma per questo non si può rintracciare il fondo ultimo nel sogno.
Dove tutto fosse ridotto alla «logica prelogica del sogno», come nei testi
di Kafka, ogni cosa sarebbe infine indifferente contro la propria intenzio­
ne; senza principio di realtà non per questo il sogno diventa la realtà. Esso
continua a essere «padre del pensiero» solo finché esiste il figlio suo. Di
fronte ad esso si tratta di comportarsi come Kafka, appellarsi al minimo,
ai punti ciechi. Essi sono le tracce materiali che la fantasia utilizzerà per
costruire l'interpretazione dell'altro dal sogno. I gesti nei quali è deposi­
tata la memoria di quel che il senso comune - parola fin troppo gentile qui
- ha represso. Ma di cui, come nell'inconscio dove nulla viene distrutto
una volta per tutte, si conserva ricordo. Se «è ovvia l'obiezione secondo
cui [...] quelle esperienze non sarebbero altro che proiezioni casuali pri­
vate e psicologiche» 169, risponde Adorno che Kafka:
strappa la psicoanalisi alla psicologia. La stessa psicoanalisi, in quanto fa derivare
l'individuo da istinti amorfi e confusi, l'Io dall'Ex, è già in certo modo contraria
allo specificamente psicologico. La persona si trasforma da sostanza a un mero
principio di organizzazione di impulsi somatici. In Freud come in Kafka ciò che
viene dall'anima non conta più [...] [Kafka] si distingue da Freud [...] non per una
più delicata spiritualità, bensì per uno scetticismo ancora più profondo, se possi­
bile, nei confronti dell'io. La letteralità kafkiana è atta a questo scopo 170.
La ulteriorità di Kafka consiste nel suo trasportare le leggi interpre­
tative della psicoanalisi fuori dalla mente e dentro la realtà stessa.
Quella di Kafka è una potente capacità demolitrice. Egli lacera e abbatte la fac­
ciata che cela l'enormità del dolore, facciata a cui sempre più si adegua il controllo
169 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 255.
17(1 Ibidem, p. 257.
112
CRITICA DEL NON VERO
razionale. Nella demolizione [...] egli non si attiene, come la psicologia, al sogget­
to, bensì penetra fino alla dimensione materiale, sino al meramente esistente, il
quale nel crollo più completo della coscienza che cede, che rinuncia sempre più
ad ogni autoaffermazione, si esibisce nel fondo soggettivo. [...] A questo rilassa­
mento teso sino alla lacerazione quel che era metafora, significato, spirito, cade in
grembo immediatamente e inintenzionalmente come «corpo spirituale». È come se
la teoria filosofica dell'intuizione categoriale [...] venisse riconosciuta valida all'in­
ferno. La monade senza finestre si rivela lanterna magica, madre di tutte le imma­
gini 171 .
In questo Kafka, prosegue Adorno, da l'interpretazione letterale della
società borghese. Il metaforico ha riconosciuto se stesso, ancora, e si è
perso. La espressione della soggettività cade nell'illibertà di ogni pura
soggettività. Così come è pura soggettività l'apparenza di realtà. Adorno
non si perita di affermare che Kafka rappresenta l'allegoria della rivoluzio­
ne. Il primato della libertà del soggetto non può essere eseguito che
modificando le condizioni degli intrecci della materia, sui quali Kafka
applica la logica del minimo e dello scarto. L'altro di cui si va alla scoperta
non è all'origine, semmai nella speranza alla fine. E così come essa anche
l'interpretazione adorniana di Kafka si pone dal punto di vista della fine.
Questo saggio su Kafka fu scritto durante la seconda guerra mondia­
le, lo sterminio nazista e l'emigrazione di Adorno, alla sua comprensione
e essenza quest'esperienza non è estranea. Ma nemmeno l'esperienza a cui
si appella, il gesto prelinguistico, la mimesi, è razionalmente disponibile,
così come quella della filosofia dopo Auschwitz. Anzi, essa deve essere
faticosamente strappata alla doppia illusione di un Io intero e presente, e
a quella disperazione che accetta l'interpretazione come una presa d'atto.
Contro entrambe si propone l'interpretazione come richiesta di modifica­
re la condizione che il testo rappresenta, nella legge formale, e materiale,
che mette in scena. Adorno può comprendere Kafka attraverso un para­
gone con Freud perché - può sembrare strano dirlo - entrambi hanno a
oggetto il medesimo.
Ibidem, pp. 257-58.
CAPITOLO IV
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
Così tanto naturale è all'uomo la logica, [...] essa è la sua propria,
peculiare, natura stessa. [...] Così si dovrebbe dire che il Logico sia
piuttosto il Soprannaturale, che in ogni comportamento naturale
dell'uomo, nel suo sentimento, intuizione, brama, bisogno e istinto,
penetra, facendone in generale qualcosa di umano.
G.W.F. Hegel '
Nella Teoria estetica sono frequenti le metafore scritturali. Così le
spiega A. Baricco:
La prima peculiarità della scrittura appare [...] quella di darsi come segno privo
di significato. [...] Linguaggio non soggettivo e non significante, espressione obiet­
tiva: l'ideale della scrittura sembra raccogliere l'aspirazione a rievocare il linguag­
gio primitivo delle cose. [...] E tuttavia nulla mancherebbe tanto la comprensione
del tratto mimetico della scrittura quanto il ridurla ad un'immediata adesione al
pre-razionale della natura. La scrittura è mimesi, ma mimesi necessariamente
mediata. [...] Essa è non-significante, ma non lo è sic et simplìdter. lo è in quanto
prodotto di un processo che accanto al momento della decadenza del significato
comprende quello della sua costruzione; il suo essere muta riporta, più che alla
natura, alle antiche scritture di cui s'è persa la chiave, [...] il loro silenzio è tanto
poco immediato quanto furono innumerevoli i secoli che ci vollero a inventarne il
segreto e a dimenticarlo. [...] La scrittura sembrerebbe proporsi in suprema istan­
za come un ritorno ad un'esperienza della verità originaria delle cose,
e dopo aver richiamato la teorizzazione benjaminiana conclude: «ma tutto
ciò la scrittura non realizza in vista di un'epifania dell'autenticità: essa non
rievoca la verità delle cose, rievoca piuttosto l'enigma di quelle, sottraendolo all'oblio» 2 .
Dunque, il problema del rapporto tra mimesi, simbolo e segno, non
si pone all'interno di una prospettiva genealogica: secondo l'illusione per
1 G.W.F. Hegel, Wtssenschaft der Logik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1969,
p. 20.
2 Cfr. A. Baricco, Scrittura, memoria, interpretazione. Appunti sulla teoria estetica
di Th.W. Adorno, in «Rivista di Estetica», XXI, n. 9, 1981, pp. 96-109.
11^
CRITICA DEL NON VERO
la quale ciò che è più antico sia perciò stesso più vero; non c'è un Inizio
nel quale sia iscritto il Senso, il cominciamento non è epifania del vero né
vertigine del nulla. La critica di Adorno, abbiamo visto, considera simili
tensioni filosofiche all'assoluto come rovesciamento non mediato, e quindi
identico, del nominalismo della società borghese. Esso infatti mostra il suo
lato peggiore proprio nelle scienze sociali, dove l'assunzione della realtà a
giudice unico, e del linguaggio a sistema di segni convenzionali e arbitrari
rischia di compromettere non solo la comprensione di quel che, in termini
ermeneutici, si chiamerebbe il contesto di precomprensione, ma anche il
senso dell'intero atto chiarificatore. Secondo Adorno il pensiero è in sé e
per sé dialetticamente legato al suo Gegenstand in un intreccio di dominio
e liberazione dalla coazione del pensiero stesso.
Pensare - scrive - è, già in sé, prima di ogni contenuto specifico, negare, resistenza
contro ciò che viene imposto; il pensiero l'ha ereditata dal rapporto del lavoro con
il suo materiale:, che ne è l'archetipo. [...] Violentando ciò su cui esercita la sue
sintesi, il pensiero segue anche un potenziale [...] e ubbidisce senza coscienza
all'idea di risarcire i frammenti per ciò che esso stesso ha compiuto; la filosofia
diventa cosciente di questo fatto inconsapevole. La speranza della conciliazione
accompagna il pensiero inconciliabile, poiché la resistenza del pensiero contro il
meramente essente, l'imperiosa libertà del soggetto, intende ottenere dall'oggetto
anche ciò che esso ha perduto a causa della sua trasformazione in oggetto 3 .
Questo è quanto Baricco chiamava l'oblio che il linguaggio è in grado
di revocare: la negazione dell'essente anche attraverso la memoria della
storia della sua riduzione a essente, l'opposizione all'oggetto anche in
forza della dialettica tra concettuale e a-concettuale. Ma questo è il pas­
saggio - in termini adorniani - dalla funzione mimetico-simbolica a quella
segnica, che decide delle possibilità e del compito del linguaggio oggi.
Abbiamo visto, nella Dialettica dell'illuminismo le tappe della trasfor­
mazione della funzione espressiva: dalla mimesi alla rievocazione sacerdo­
tale di essa attraverso il simbolo - che già instaura la scissione tra mani­
polazione della natura e sua significazione - fino alla vera e propria pos­
sibilità di conservazione e tradizione del sapere. Questa possibilità di
conservazione e tramandare è l'effetto di una certa quantità di rimozione
e oblio la cui forza è la forza stessa della forma in cui avvengono conser­
vazione e tramandare. La dialettica che si instaura tra la rimozione di un
contenuto - che per questo diviene costrizione formale e quindi traman3 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 18.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
115
dabile e tradizione - e la necessità, più volte richiamata da Adorno di
«sentire ovunque lo stile come contenuto», è la negazione determinata di
quel percorso. Sentire la forma come contenuto non equivale quindi a
ricondurla alla sua origine, ma piuttosto a revocare l'oblio della sua for­
mazione, a riportare alla coscienza che cosa è una forma, e nel riconosci­
mento della sua genesi sciogliere il carattere misterioso.
La rinuncia filosofica alla funzione simbolica, che incontrammo nel
saggio Die Aktualitàt der Pbilosopkie, indica che tale possibilità interpre­
tativa non si raggiunge immediatamente tramite la mimesi, ma piuttosto
che questa deve, come quella artistica, essere una mimesi seconda. Se nel
simbolo è conservato il simboleggiato, il segno, attraverso la distanza,
raggiunge la meta del significato solo come risultato di una riflessione qualcosa di radicalmente opposto alla regressione. E regressione e rimo­
zione sono, come sappiamo inscindibili. Per contro nel sistema di segni,
nella struttura del campo di forza delle parole e dei concetti 4 la interpretazione rassomiglia di più a un risarcimento che alla costruzione di senso;
in accordo con l'impressione che il primo moto interpretativo sia la falsi­
ficazione, collettiva e inconscia, dei rapporti, o come si esprime, poetica­
mente, Bloch in accordo col fatto che:
la terra continua ad essere inabitabile per l'uomo, nonostante alcuni simboli del­
l'approdo, che tuttavia non sono in grado di illuminare, se non per mezzo di sogni,
la porta vivente della semi-esistenza o la porta fatale della possibile non-esistenza.
Non si sono ancora incarnati né hanno conosciuto una prassi terrestre-sovraterrestre: in ogni caso, la terra inabitabile, insieme ad alcuni simboli di felicità, è un
buon apprendistato per sogni realisti dietro la porta 5 .
La relazione tra interpretazione e senso, nella prassi filosofica di
Adorno si interseca con quella della coppia mimesi-differenza. In un passo
della Dialettica negativa si legge che: «abbandonarsi all'oggetto [nel ten­
tativo di comprenderlo] equivale a rendere giustizia ai suoi momenti qua­
litativi»; contro all'ideologia che, forte della convinzione che gli oggetti e
i soggetti siano due enti indipendenti, vorrebbe sottrarre il soggetto il più
possibile dalla ricerca scientifica, Adorno ricorda che i momenti qualitativi
dell'oggetto sono mediati dal soggetto: «esigono il soggetto intiero, non il
4 La distinzione adorniana tra Kraftfeld e Kostellation è ampiamente trattata dal
già citato libro di M. Jay, Th.W. Adorno.
5 E. Bloch, Spùren, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1959. Edizione italiana a
cura di L. Boella, Tracce, Coliseum, Milano 1989, p. 164.
11(2
CRITICA DEL NON VERO
suo residuo trascendentale. Quanto più vengono vietate sue reazioni in
quanto presunte soggettive, tanto più determinazioni qualitative della cosa
sfuggono alla conoscenza» 6 . E questo per un duplice motivo: innanzitutto
le reazioni soggettive, in quanto socialmente condizionate, non sono affat­
to assolutamente individuali, ma anzi in esse si esprime proprio quel con­
dizionamento. Ma in secondo luogo, e tanto più quanto maggiore è il
grado di eteronomia soggettiva, costitutivamente esse partecipano della
formazione dell'oggetto non meno che del soggetto stesso. «In deciso
contrasto con il normale ideale di scienza, l'oggettività della conoscenza
dialettica ha bisogno di più, non di meno soggetto, altrimenti l'esperienza
filosofica si immiserisce» 7 ; e tale oggettività è quella, prima ricordata, per
cui il pensiero è per sua essenza negazione della realtà. Tale negazione è
affidata, pur fragilissima, al soggetto. Si potrebbe quasi dire: è affidata al
soggetto perché esso è l'unico ente irreale, e quindi il solo che possa, in
nome del possibile, opporsi al certo.
Questo momento di differenziazione è soggettivo, non nel senso di
arbitrario, ma proprio perché è del soggetto. «L'ideale della differenzia­
zione e qualificazione [...] non si riferisce solo ad una capacità individuale,
non indispensabile per l'oggetto. Esso riceve il suo impulso dalla cosa. È
differenziato chi in essa e nel suo concetto riesce a distinguere ancora il
minimo»^. Il suo postulato è quello della «capacità di esperienza dell'og­
getto» 9 che è la capacità stessa di costituzione del soggetto. In essa: «trova
riparo il momento mimetico della conoscenza» U). All'interno del passaggio
dalla funzione simbolica, e quindi di prassi ravvicinata, alla funzione segnica, dove la capacità di successo è misura del potere, la conoscenza si
esprime come unione di mimesi e concetto, e «questo processo si riassume
come differenziazione. Essa contiene in sé tanto la capacità di reazione
mimetica quanto l'organo logico» 11 .
La necessità dell'interpretazione dipende, in qualche modo, dalla
necessità del pensiero. Il rapporto tra le due somiglia, in misura, a quello
tra concetto e il «suo» contenuto particolare. Se il pensiero si comporta
con i propri oggetti in modo tale da essere più che accumulazione di
previsioni, esso è ancora quel che veniva indicato da Hegel: una verità che
6 Th.W. Adorno, dialettica negativa, cit., p. 39.
7 Ibidem, p. 37.
8 Ibidem, pp. 39-40. Corsivo mio.
9 Ibidem, p. 40.
10 Ibidem.
11 Ibidem,
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALIT
]_\~]
è conservazione di esperienza. Ma questo ideale non può essere consegui­
to che a guisa di concetti. Senza di essi non c'è la natura immediatamente
a disposizione, né chance di intersoggettività; o meglio: proprio perché
l'intersoggettività è alla base della percezione della natura - della sua
costituzione - questa si trova nascosta dietro quella. Ma non è un nascon­
dimento che possa essere levato, nonostante le frequenti metafore di que­
sto genere, come un velo. Togliere quel velo significherebbe abolizione del
soggetto, dietro del quale non sta in attesa l'origine delle cose, ma la
violenza della funzione. Essa non può essere tolta con un atto di pensiero,
ma solo con una rivoluzione sociale 12 . La speranza del pensiero è certo
proprio la revoca della violenza della funzione sui funzionanti - gli uomini
-, ma la realizzazione di questa speranza richiede il superamento della
filosofia: in questo Adorno è pienamente e ortodossamente marxista. Mai
vien confusa l'interpretazione del mondo con il suo cambiamento. Per
questo la «critica penetrante del relativismo, è il paradigma della negazio­
ne determinata» 13 , perché dietro di esso fa capolino l'indifferenza che il
relativismo ostenta per la totalità come se l'indifferenza proteggesse dalla
totalità. Se una massima esiste in Adorno è quella per la quale anche ciò
che non si conosce né riconosce agisce sulla vita degli uomini, anzi forse
esso più di tutto; di fronte alla totalità, che i sistemi idealisti ricercavano
come suggello del vero, si dovrebbe comportarsi esattamente come essi
sembravano esigere: mostrando come quel di cui si va in cerca sia il più
prossimo e certo.
Alla coscienza dell'apparenza inerente alla totalità concettuale non resta altro che
spezzare l'apparente identità totale in modo immanente. [...] Poiché però quella
totalità si costruisce secondo la logica, il cui nucleo è il principio del terzo escluso,
tutto ciò che non vi si piega, tutto il qualitativamente diverso, assume il marchio
della contraddizione. La contraddizione è il non-identico sotto l'aspetto dell'iden­
tità. [...] La dialettica è la coscienza conseguente della non-identità 14 .
La impotenza del pensiero di fronte alla realtà è vera, poiché il pen­
siero è impotente. La totalità che esso si trova ad affrontare è totalità del
pensiero, nel duplice senso per cui tutto è racchiuso in esso, e i suoi
concetti pretendono di racchiudere tutto il proprio contenuto; di fronte a
12
teorica
15
14
II tentativo filosofico di rimuovere l'alienazione per mezzo di una prospettiva
è proprio quel che Adorno rimproverava all'esistenzialismo...
ìbidem, p. 34.
ìbidem, p. 5.
CRITICA DEL NON VERO
questo il pensiero non può che cercare di spezzare, in forza propria, quel
che gli appare, ma solo appare, essere la sua forza. Ma l'impotenza del
pensiero è anche falsa. Il suo motivo ha avuto convenienza e origine nella
sfera di separazione del pensiero dal lavoro, dove la negatività è come
rimasta tutta attaccata al fare e, per nemesi, il pensiero ne è rimasto spo­
gliato. Quanto più esso si è messo al servizio della divisione sociale del
lavoro, tanto più il movente - sottilissimo confine tra desiderio e paura gli si è scomparso. E rimane ora solo, appunto, come desiderio che non
si sa giustificare. È per questo che Adorno insiste tanto sulla parte di
esagerazione, di gioco, di preconcetto e fantasia che inerisce al pensiero
per come esse dovrebbe poter essere. Ed è vero che questa è ancora una
posizione illuminista che esige l'interpretazione della realtà nella coscienza
che essa, da sé, non sia tutta la realtà. Come a dire che il pensiero se non
è portavoce solo del proprio dominio è necessariamente pensiero della
mediazione, e dunque irrimediabilmente legato alla mediazione in sé, al­
l'autocritica se si vuole, insomma: alla dialettica. Ma se non c'è più il
momento della Aufhebung, il rapporto tra il processo e i suoi momenti, del
quale stiamo osservando l'aspetto interpretativo, quel che Adorno chiamò
dialettica negativa, deve spiegare com'è possibile fare a meno della cate­
goria della totalità, o meglio: quale dialettica si muove all'interno di una
totalità reale ma falsa.
VERITÀ, PROCESSO E IMMAGINAZIONE. LA LETTURA DI HEGEL
La lettura adorniana di Hegel è il luogo dove si può vedere lo svilup­
po della filosofia critica dal ceppo della dialettica fenomenologica. Non ci
interessa tanto l'interpretazione di Hegel, ma gli spiragli che in questa si
aprono per un aggiornamento della dialettica. Con il vantaggio, non se­
condario, rispetto a Dialettica negativa, di una miglior comprensibilità, di
una semplicità maggiore. Vediamo.
«Mediazione [...] non significa mai, in Hegel, [...] qualcosa di mezzo
fra gli estremi, perché la mediazione si raggiunge attraverso il passaggio fra
gli estremi stessi come tali; questo è l'aspetto radicale in Hegel, incompa­
tibile con ogni moderatismo» 15 . Questo commento introduttivo vale an­
che come guida per l'interpretazione stessa che Adorno conduce. Do-
15 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 37.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALIT
H9
vremmo qui fare come suggerisce Althusser a proposito della 'dialettica'
marxiana: trascurare la sostanza storica di quel che Hegel abbia o non
abbia effettivamente scritto e pensato, per concentrarci sulla effettiva pras­
si di Adorno interprete. Egli riconosce che non solo non esiste «fonda­
mento» al pensiero ma anche che:
non c'è neppure costituente, non ci sono condizioni produttive dello spirito, fuori
dall'astrazione compiuta da effettivi soggetti; e quindi compiuta da un non mera­
mente soggettivo, da un «mondo» - nel senso che - un Io che non fosse più, in
nessun senso, Io e quindi facesse a meno di ogni riferimento alla coscienza indi­
viduata e con ciò, necessariamente, alla persona spazio-temporale, sarebbe un non
senso; non solo sospeso nel vuoto e così indeterminabile come Hegel ebbe a
rinfacciare al suo controconcetto, all'essere; ma anche come Io, come per l'appun­
to mediato alla coscienza, non sarebbe più neppure afferrabile. L'analisi dell'asso­
luto soggetto deve riconoscere la irriducibilità di un momento empirico, di non­
identità 16 .
Questo non significa affatto sostenere che il soggetto sieda sereno
presso di sé, signore del territorio e controllore del pensiero. Al contrario:
la difficoltà a riconoscere che un semplice portatore 1 ' è sempre qualcosa
di più di un semplice portatore, sta proprio in questo: nel fatto che l'esi­
stenza individuale appare quasi come un residuo empirico, del tutto su­
perfluo alla costruzione. Ma pure senza questo riconoscimento, si ottiene
l'effetto per cui la verità, che pure riguarda il singolo esistente, è da lui
indifferente, separata: è in qualche misura verità assoluta - ab saluta - e
pura. È vero che per l'interpretazione è necessaria dapprima una certa
quantità di distanza 18, ma quel che vale qui serve in generale a ogni interpretazione, compresa quella che cerca di rimettere il soggetto al suo giusto
posto. Tra le molte possibile, forse la più stringata esposizione del proble­
ma, si trova nel saggio Su soggetto e oggetto.
Soggetto può riferirsi tanto al singolo individuo quanto a determinazioni univer­
sali. [...] L'equivocità in questione non è eliminabile sic et simpliciter mediante una
mera chiarificazione terminologica. Questo per il fatto che i due significati hanno
reciprocamente bisogno uno dell'altro 19.
16 Ibidem, pp. 38 e 47.
17 Tràger, in tedesco sono gli individui-supporto delle funzione sociali della pro­
duzione.
18 Cfr. Th.W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, cit., p. 167.
19 Th.W. Adorno, Soggetto e oggetto, in Paorle chiave, cit., pp. 211-31. La citazio­
ne è a p. 211.
120
CRITICA DEL NON VERO
E Adorno prosegue spiegando:
in un certo senso cioè i concetti di soggetto e oggetto, anzi ciò a cui sono riferiti,
hanno la priorità su ogni definizione. [...] Di qui la resistenza che soggetto e
oggetto oppongono alla definizione. [...] La riflessione che nella terminologia filosofica va sotto il nome di intentio obliqua, è il controriferimento da parte di
quell'ambiguo concetto di oggetto a un non meno ambiguo concetto di soggetto.
La seconda riflessione riflette la prima... La scissione tra soggetto e oggetto è nel
contempo reale ed apparente. È vera, perché nell'ambito della conoscenza dell'ef­
fettiva scissione, della dissociazione della condizione umana, da espressione a un
che di necessariamente divenuto; falsa, perché la scissione, risultato di un processo
in divenire, non dev'essere ipostatizzata 20.
Fino a qui «tutto semplice»; più che questione di ricercare il rapporto
tra concetti si tratta di riconoscere come i nomi indichino posizioni di
funzione che mutano e che tuttavia si ripresentano a ogni conoscenza.
L'indicazione a non ipostatizzare la scissione viene immediatamente circo­
scritta:
la scissione diventa ideologia, addirittura la sua forma normale, non appena sia
fissata senza mediazione. [...] L'immagine di una condizione temporalmente o
extratemporalmente originaria di felice identità di soggetto e oggetto è [...] roman­
tica; in certi momenti è stata la proiezione del desiderio, oggi è soltanto una
menzogna. L'inseparabilità, prima che il soggetto si costituisse, era il terrore del
contesto naturale cieco, era il mito 21 .
E del resto Adorno avverte: l'inseparabilità non è unità. Insomma, la
scissione è una scissione che è essa stessa avvenuta nell'ambito del sogget­
to. Come ogni altra revoca, anche questa non può avere il suo pertugio
nella regressione. La funzione dell'Io deve essere conservata ma separan­
dola il più possibile dalla miseria cui la riduce l'aggressione sociale. Si
intende cosi che cosa Adorno voglia evitare specificando il valore del
primato dell'oggetto:
«priorità dell'oggetto» significa [...] che il soggetto [...] è dal canto suo oggetto,
come l'oggetto, dal momento che di fatto viene conosciuto non altrimenti che
mediante la coscienza, è anche soggetto. [...] La mediazione si riferisce al mediato.
Ma il soggetto, il concetto portante della mediazione, è il come, e mai, in quanto
contrapposto all'oggetto, il quid che viene postulato da ogni rappresentazione
211 Ibidem, p. 213.
2Ì Ibidem.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALIT
121
concepibile derivante dal concetto di soggetto. Il soggetto potenzialmente [...] può
essere pensato indipendentemente dall'oggettività; ma non si può fare altrettanto
per la soggettività rispetto all'oggetto. [...] La priorità dell'oggetto è Vìntentio
obliqua dell'intendo obliqua 22 .
È questione di qualcosa di simile ad una 'semiotica sociologica' 23 :
problema del superamento - per una volta nella classica accezione hege­
liana - del realismo ingenuo. Si deve render ragione sia dell'esistenza degli
oggetti solo come «oggetti a noi» (il che vale anche ovviamente per i
soggetti, soggetto compreso), sia dell'esperienza inevitabile nella quale gli
oggetti mostrano tutta la loro indipendenza da noi.
Perché l'oggetto diventa qualcosa unicamente in quanto è determinato. Nelle
determinazioni che apparentemente gli conferisce solo il soggetto, s'impone la sua
propria oggettività. [...] Viceversa il presunto oggetto puro, esente dall'ingrediente
del pensiero e dell'intuizione, è proprio il riflesso dell'astratta soggettività: solo
essa eguaglia a sé l'altro mediante l'astrazione. L'oggetto di un'esperienza integra,
a differenza del sostrato privo di intenzioni [...], è più obiettivo di quel sostrato.
[...] La sua eredità è però toccata in sorte ad una critica dell'esperienza che ne
raggiunge la condizionatezza storica, e in definitiva sociale. Perché la società è
immanente all'esperienza non allo gbénos. Solo l'autocoscienza sociale della cono­
scenza la fa pervenire alla sua oggettività. [...] La critica della società è critica della
conoscenza, e viceversa 24 .
L'esperienza dell'oggetto, ma anche del testo come oggetto, richiede
un primato del testo che tuttavia è possibile solo come critica della società,
ovvero, principiamente e individualmente, come critica che consenta
l'esperienza della società. Se una certa quantità di astrazione è in esso, e
nulla può il soggetto (il ricettore o l'autore) per aumentarla o diminuirla,
è perché essa corrisponde alle determinazioni sociali espresse in quel testo
e, in generale, determinanti la forma e la formazione dei testi. Il principio
dialettico fondamentale dell'estetica di Adorno - che i rapporti sociali si
traducano in arte come contenuto formale - vale anche in sede di gnose­
ologia o, detto ancor più chiaro, vale anche come principio dialettico della
critica dell'ideologico. All'interno dell'esperienza individuale delle forme,
si richiama l'esperienza non individuale, proprio perché quella è sociale
22 Ibidem, p. 218.
21 Cfr. P. Zima, Adorno et la crine du langagc: pour une critìque de la parataxis, in
<Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8.
24 Th.W. Adorno, Soggetto e oggetto, in Pelarle chiave, cit., pp. 218-19.
J22
CRITICA DEL NON VERO
come questa. Eppure al suo interno, come critica, è presente il momento
soggettivo. Proprio come in Hegel, il negativo è individuale; ma'la positi­
vità lungi dall'essere quel che deve instaurarsi alla fine del processo, è, in
ogni singolo momento astratto, tutta in atto. Ma questa totalità, che regna,
come si esprime Adorno, mercé la menzogna, non è tutto. Quel che sfugge
ad essa non è attuale, sebbene abbia partecipato dell'attualità: se il prin­
cipio di realtà è di «realtà sociale» 25 , l'oggettività che si raggiunge con la
sua acccttazione non può essere altro che quella del prodotto sociale, della
produzione socialmente organizzata, il cui primato si manifesta nella stra­
na parodia per la quale si deve passare per un massimo di soggettività per
arrivare all'oggetto. È questa l'identità di critica della conoscenza e critica
della società. Ma il processo di interpretazione del suo movimento, è il
modello (scriveva Adorno nel citato saggio Die Aktualitdt der Philosophie)
della conoscenza tout court, perché anche in essa si tratterebbe di raggiun­
gere l'oggettività. Anche in essa l'eliminazione del soggetto non contribu­
isce alla obiettività ma piuttosto alla liberazione dal negativo resistente.
Non perché il soggetto, nel «mito religioso della lettura» 26, disponga dell'interpretazione - ma al contrario: perché esso è una disposizione dell'interpretazione. Dell'ideologia che appronta, per tutti, la realtà sociale entro
la quale viene percepito, si fa esperienza tanto del sociale quanto del
naturale. Anche per l'interpretazione la critica della società è critica dell'interpretazione, e viceversa.
Che cosa comporta questo nella lettura filosofica delle opere? ed in
particolare in Hegel? forse sostituire ad ogni parola un corrispettivo socio­
logico? Certamente no, ma allora: qual è la chiave del significato dei testi
hegeliani? Scrive Adorno:
nella cerchia dei grandi filosofi Hegel è certo l'unico nel cui caso non si sa, alla
lettera, e neppure si può convenientemente decidere di che cosa mai si stia discor­
rendo; e nel cui caso anche la possibilità eli una tale decisione non ha documentabilità. [...] Solo la fantasia esatta [...] arriverà, senza ricorrere a forzature, a
illuminare 2 '.
È il momento individuale la chiave tramite le quale si può aprire il
senso del testo hegeliano; ma questo accade in dirczione contraria al sog25 Cfr. F. Jameson, Late marxism. Adorno and thè Persistence of thè Dialectic,
Verso, London 1990. In particolare le pp. 23-82 e 97-140.
26 Cfr. L. Althusser, Leggere il Capitale, op. cit.
27 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 135-36.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
123
gettivismo - anche al soggettivismo senza soggetto dello strutturalismo
psicoanalitico -, accade poiché l'oscurità di Hegel è Verwandlung ins
Gebilde: trasmutazione in forma di una oscurità della forma sociale che
non è intelligibile a se stessa. L'individuale è allora da interpretare nella
misura in cui riflette in sé i rapporti sociali; ovvero sia quando ne è espres­
sione, e si tratterà allora di critica all'ideologia, sia quando la riflessione è
essa stessa critica, e deve compiere l'atto dialettico di rivolgersi anche
contro se stessa, di comprendere se stessa come fenomeno della totalità.
È questo un processo interpretativo, ma del tutto particolare, perché rivol­
to a un oggetto del quale non è garantita da nessun Dio, in anticipo, la
chance teorica di una esatta decisione. Esatta fantasia e esatta decisione sul
senso sono, come già accennammo, cose distinte. Questo ha certamente
un suo motivo nel fatto che, nella dialettica, non solo verità e interpretazione non sono separabili 28 , ma soprattutto l'interpretazione e il «risulta­
to» sono dei processi: l'atto ermeneutico avviene comunque a priori del­
l'esperienza per il soggetto empirico, che solo nel rifletterlo - e quindi
nella critica dialettica - può portarlo a trasparenza. È perché l'esperienza
è sempre mediata che la mediazione diviene non una tra le scelte possibili
ma l'unica conoscenza. Essa non rincorre cose in sé ma il processo delle
cose; e non si contenta di svelare che non esiste nulla di immediato tra
ciclo e terra, ma vuole afferrare il processo, cioè la cosa per come è insie­
me alla negatività che riposa in essa. Per usare una metafora si potrebbe
dire che il processo è un mostro dormiente da destare. Ma l'afferrabilità
di un processo, al contrario di quanto accade nelle scienze empiriche della
natura, è secondo Adorno, strettamente dipendente dall'esperienza effet­
tiva del processo. Non ci sono esperimenti possibili, la partecipazione del
soggetto è parte dell'oggetto, cioè del processo-oggetto come di quello
soggetto, e della loro relazione. Cosi anche nella lettura non ci sono scor­
ciatoie; l'esperienza del pensiero va ripetuta, e il circolo ermeneutico da
legge gnoseologica si intreccia alla critica della società. Così quando Ador­
no argomenta che:
non si deve procedere, sorvolando sui passaggi nei quali rimane in sospeso di che
cosa essi trattino; ma la loro struttura di senso si dovrebbe derivare dal contenuto
della filosofia hegeliana. Il carattere dell'essere sospeso le è intrinseco, in accordo
con la dottrina che il vero non lo si afferra in nessuna tesi particolare, in nessun
enunciato definitivamente positivo. In Hegel la forma è commisurata a questa sua
Ibidem, pp. Ile sgg.
CRITICA DEL NON VERO
12^
intenzione. Niente si lascia comprendere isolatamente, tutto è solo nell'intero; con
la penosa difficoltà che l'intero ha di nuovo la sua vita unicamente in quella dei
suoi singoli momenti 29 ;
intende dire che il rapporto tra le parti ed il tutto comprende non solo le
parti ed il tutto del testo ma soprattutto le parti ed il tutto sociali delle
quali il testo è una parte; la dialettica insomma è così attenta al testo - la
penetrazione del quale si protrae fino alle sue strutture formali - che
l'esperienza che fa di esso e il suo concetto - come nella più classica
dialettica della Fenomenologia dello spirito - le fanno sorgere all'interno
del testo stesso le determinazioni non testuali.
Una dialettica non bloccata è allora incompatibile con il testualismo.
L'interpretazione dialettica riconosce l'importanza del formalismo ma
come eclettica della forma, non affatto come esaurimento del senso. La
dialettica dei minimi passaggi è più realista del re, è tanto minima da
riuscire a passare attraverso le maglie strette che vorrebbero trattenere
sempre e solo all'interno dell'universo testuale. Il processo del testo, i suoi
passaggi, sono stretti tra il carattere discontinuo dell'esposizione linguisti­
ca e quello processuale continuo del vero che si tratterebbe di afferrare.
Alcune frasi allora dovranno essere lette non per il loro contenuto mani­
festo, ma come specie di retoriche funzionali, qualcosa a metà strada tra
il «passaggio minimo» strutturale e la funzione concettuale. E non sono
affatto rari i tentativi adorniani di spiegare questa metonimicità della fe­
nomenologia dialettica, facendo riferimento proprio alla musica; esperien­
za, del resto, non rara né esoterica. Per comprendere la tesi kantiana del
noumeno, ad esempio, è probabilmente irrinunciabile capire prima il suo
valore di posizione all'interno della costruzione gnoseologica della critica
della ragione, e non solo il contenuto che sotto quel concetto dovrebbe
cadere. E questo modo di intendere è piuttosto vicino, per un verso,
proprio alla struttura del linguaggio, dove il valore delle parole ha due
facce: una, per dir così, di etichetta, e un'altra di valore posizionale 30. Ma
29 Ibidem, p. 137.
50 Interessante sarebbe, su questo punto, una riflessione sulle tesi esposte da
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Proprio nell'esempio del «gioco linguistico» in
atto nella costruzione di una casa, si vede chiaramente come esso rimandi a elementi
non linguistici in senso stretto. La funzione denominatrice del linguaggio, insieme con
quella antropologko-trascendentale, sono in relazione al costruire; come nel celebre
esempio marxiano, anche qui, persino il peggior architetto è migliore dell'ape, perché
almeno uno dei due giocatori deve avere in mente altro oltre al gioco affinchè il «gioco»
riesca.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
125
Adorno ha in mente qualche cosa di più: non è solo la strettoia espressiva
di un linguaggio che appare discontinuo di fronte al suo proprio contenu­
to che discontinuo non è, o è ma di una discontinuità affatto differente,
a rendere processuale la verità, e inafferrabile in contenuto di certe pro­
posizioni. L'espressione della verità non può rinunciare del tutto al mo­
mento mimetico, non solo perché questo è costitutivo della sua esperienza,
ma anche perché l'esposizione, la rappresentazione del vero, è in parte
mimesi del carattere di questo 31 . Lo è, cioè, come trasformazione. Dire
che il vero è processo non significa, insomma, solo identificare essenza e
divenire (Wesen ist was gewesen ist, scrive Hegel), ma anche rivendicare
il carattere processuale dell'espressione del vero. Così come nella realtà
non c'è un punto che sia il perno e l'origine di tutto, anche nel pensiero,
o nello scrivere, non ci si deve affidare al singolo giudizio, ma comporre
la costellazione del vero.
Questa necessità rende finalmente chiaro il continuo richiedere la
partecipazione dell'esperienza individuale al processo interpretativo, al
fine di renderlo fruttuoso per la comprensione. Scrive per esempio Ador­
no che:
nel caso di questo concetto [la produktive Einbildungskraft kantiana] dovete sem­
plicemente cercare di rappresentarvi realmente qualcosa, di dargli un contenuto
concreto. [...] In genere la regola fondamentale per capire la filosofia è di non
accontentarsi solo di comprendere il valore di posizione dei concetti all'interno di
un pensiero i2 .
Allora si deve dunque seguire il significato dato dal valore di posizio­
ne della categoria, come scritto negli studi su Hegel, e, al contempo, stare
in guardia dal farsi trascinare nella moda di sostituire ovunque al conte­
nuto il valore di posizione, come se la filosofia fosse un gioco di simula­
zione? Né l'uno né l'altro.
Di fronte a qualsiasi concetto filosofìco - dove penso ai difficili testi hegeliani della
Fenomenologia e della grande Logica - dovete [...] cercare di rappresentarvi con­
cretamente ogni discussione concettuale, per quanto astratta e difficile possa ap­
parire. Interpretare la filosofìa significa sempre non limitarsi solo a chiarire il
valore di posizione nel contesto deduttivo o induttivo, ma cercare anche di rap51 Per la «partecipazione del mimetico al vero» cfr. il saggio Aspetti della filosofia
hegeliana, contenuto nel già citato Tre studi su Hegel, dove si tratta del rapporto tra
imitazione, ideologia e mimesi, tra filosofia e costituzione sociale.
52 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, cit., voi. I, p. 261.
CRITICA DEL NON VERO
presentarsi in modo veramente evidente lo stato di fatto che è oggetto della discus­
sione.
E dopo aver citato Husserl, conclude chiarendo ancora:
se leggete La riproduzione dell'immaginazione o se sentite parlare di «noi», del
«nostro pensiero» o della «nostra coscienza», dovete cercare di dare un contenuto
concreto a questi termini, di rappresentarvi qualcosa".
Attesa, memoria, desiderio e rappresentazione del contenuto, sono le
condizioni dell'interpretazione. Ma che rapporto tra la necessità di affer­
rare il valore di posizione e quella di rappresentarsi ovunque, per ogni
concetto, qualcosa di concreto? Detto chiaro: che rapporto tra valore di
posizione ed esperienza? Vediamo un esempio; nella critica musicale
Adorno parla di verità o falsità di una certa forma e successione. Bene,
non si può sostenere che i rivolti che aprono il secondo movimento della
sonata per pianoforte 111 di Beethoven, ad esempio, siano in sé veri o falsi
- dire che un accordo di do maggiore con un sol basso sia falso è un vero
non senso. Eppure esiste la possibilità, per contro, di dimostrare come
quella precisa soluzione formale beethoveniana sia la risoluzione giusta del
problema costituito dal consumarsi dell'uso degli accordi rivoltati nel­
l'opera sinfonica, della quale la sonata 111 è insieme punto di massima
differenziazione e rassomiglianza. Ora, non è tanto questione di fornire
quella dimostrazione, sulla cui correttezza si potrebbe discutere a lungo;
il fatto è che di fronte a un problema esiste qualcosa che può essere giusto
o sbagliato, mentre l'espressione e la comunicazione non possono dirsi
tali, se non a patto di concepirsi anch'esse riferite a un problema, un
enigma. Ma, ed è qui che la cosa si complica, nell'ambito delle interpretazioni filosofiche, cioè critiche, l'atto della comprensione e quello della
critica, l'afferramento dell'espressione e il giudizio critico, sono insepara­
bili; infatti:
è in genere falsa la concezione [...] che la critica debba istituirsi in secondo grado
sulla base di ciò che si è inteso. La filosofia ha il suo adempimento nella perma­
nente disgiunzione del vero e del falso. L'atto del capire si compie nel medesimo
momento e con ciò stesso è virtualmente anche critica di ciò che è da intendersi }4 .
33 Ibidem, pp. 261-62.
34 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 197.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
127
E dunque se non sono separabili come si «disgiunge» il vero dal
falso? L'inseparabilità di comprensione e giudizio, richiama quella tra
comprensione del valore di posizione e rappresentazione del contenuto
d'esperienza. «Ad ogni istante sono da tenere in considerazione - scrive
Adorno - due massime apparentemente irriducibili: quella di un minuzio­
so calarsi nella cosa e quella di un libero distanziarsene» 51 , mentre chi
leggendo Hegel sostituisce la «trasparenza del singolo momento con la
determinazione del valore di posizione del dettaglio nel sistema, rinuncia
già a capire con rigore» 36. «Una fedeltà che si tenga immanente alla inten­
zione di Hegel richiede [...] che per capirlo si completi o si sorpassi ad­
dirittura il testo», ovvero:
non serve a nulla meditare su singole formulazioni criptiche. [...] È meglio [...]
ricostruire i contesti di situazioni che continuamente stanno dinanzi a Hegel,
anche quando la sua formulazione se ne distacca. Più importante di ciò che egli
aveva in mente è ciò di cui parla; dal programma si deve ricostruire la situazione
di fatto e impostare il problema per procedere a pensarvi in modo indipendente.
[...] - il segreto del metodo filosofico è presumibile che sia tutto qui; che intendere
e risolvere un problema siano lo stesso - allora anche l'intenzione di Hegel si
chiarisce, sia che ciò che egli pensava cripticamente ora si disveli da sé, sia che le
sue considerazioni si articolino attraverso le loro stesse omissioni ".
Il problema d'esperienza e il valore di posizione, servono, devono
servire, quindi da indicatori di quale sia la domanda a cui l'autore da
risposta, e che, per forza di cosa, nella risposta è dileguata; a seconda di
come si dispongono i termini concettuali di un problema si ottiene la
risposta. Proprio come nei saggi degli anni Trenta 3X ritorna adesso la
relazione tra problema e risposta. Da un lato l'impostazione è la compren­
sione, ma attraverso di questa si compie una nuova riflessione, una intentio obliqua dell'intentio obliqua, perché la comprensione coincide con l'at­
to del giudizio. Quel che resta è «la cicatrice» del problema, con la sua
parte morta e insieme alla viva, cioè quel che non è stato sciolto ma solo
rimosso e nascosto. Ed è precisamente la parte viva a cui ci si riferisce
chiedendo che l'oggettività venga conservata nella soggettività e non no­
nostante essa. Quanto scrisse Heidegger nell'analitica esistenziale dell'Esserci, vale anche per la filosofia di Adorno: senza soggettività concreta,
"
56
57
58
Ibidem, p. 141.
Ibidem, p. 142.
Ibidem, pp. 181-82.
In particolare Cfr. Th.W. Adorno, Die Aktualitdt der Philosophie, op. cit.
128
CRITICA DEL NON VERO
ontica e esistentiva, non c'è prospettiva di accesso neppure al problema
ontologico, giacché questo, per paradossale che paia, è creato da quella:
ciò che viene per secondo determina l'importanza e il valore di ciò che è
per primo.
L'interprelazione deve rendere ragione di questa inversione. Ed essa
è nascosta come pura inversione linguistica. La necessità di stare tra la
totalità della funzione concettuale, la sua forma, e la particolarità del­
l'esperienza, del contenuto che bisogna assegnare ad ogni proposizione,
completandola e andando oltre di essa, tale doppio dovere, è, per Adorno,
reso possibile dalla paradossale struttura del linguaggio: «... ogni linguag­
gio filosofico è un antilinguaggio, contrassegnato dal marchio della pro­
pria impossibilità» 39 . Riferendosi al linguaggio come comunicazione e
espressione, dunque, la filosofia ha come possibilità solo quella antilingui­
stica. Anche qui si chiarisce il problema per differenza.
La sentenza di Wittgenstein: «Si deve tacere di ciò di cui non si può parlare» è
schiettamente antifilosofica. [...] La filosofìa potrebbe definirsi, sempre che sia
definibile, come sforzo di dire ciò di cui non si può parlare 40 ;
e tale sforzo è una lotta contro il linguaggio, in qualche modo, e attraverso
di esso. La chiarezza, e la distinzione, non sono peculiarità del linguaggio,
piuttosto oscura coscienza, cioè ideologia nel senso in cui Adorno scrisse
che l'ideologia contiene il vero, dei limiti linguistici contro i quali deve
procedere la riflessione sul linguaggio per eccellenza - secondo il Nostro
in filosofia:
la richiesta di chiarezza s'impiglia nel linguaggio, poiché il linguaggio delle parole
non consente propriamente chiarezza [...], linguisticamente la chiarezza è ugual­
mente in dipendenza dalla posizione del pensiero rispetto all'oggettività; in
quanto si lascia dire come chiaro, senza residui, solo ciò che è vero 41 - e quin­
di - propriamente si può comprendere filosoficamente solo ciò che è vero. Rea­
lizzare il giudizio in cui si comprende, coincide con la decisione sul vero e sul
falso 42 ;
59 Ibidem, p. 147.
40 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 148.
La citazione di Wittgenstein è tratta dal Tractatus Logico-philosophicus, cit., p.
285.
41 Ibidem, p. 151.
42 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 56.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
129
e infine ancora: «il linguaggio stesso, che è un indice del vero, è indice del
falso» 43 , come nella Dialettica negativa:
per essere feconda la filosofia si getta a fona perdu negli oggetti. La vertigine che
ne deriva è un index veri, lo shock dell'aperto, la negatività, quale essa appare
necessariamente nel previsto e nel costante, non verità solo per il non vero 44 .
Accostando citazioni, tratte alternativamente da Dialettica negativa e
dai Tre studi su Hegel, non solo si verifica che quanto scritto nei secondi
non sia relativo alla questione linguistica solo per come essa si presenta nei
testi di Hegel, ma anche e soprattutto si evidenzia meglio l'elemento non
linguistico. Esso è, per Adorno, inscindibile dal linguaggio ma non iden­
tico. Il paradosso rimane intatto: la verità è mediata dal linguaggio - non
solo epistemologicamente o gnoseologicamente - poiché la realtà stessa è
mediata dal linguaggio. Ma Adorno si rifiuta al riconoscimento di qualsiasi
primato al medium sul mediato. Il linguaggio è indice del vero e del falso
perché è solo attraverso di esso che la dialettica, come arte del «tener
fermo il concetto», può esercitarsi. Ovvero è l'unico medium della nega­
tività nei confronti del reale. Ma non è esso stesso né l'una né l'altro.
Scrive Adorno 45 che la dialettica tien fermo il concetto rispetto al variare
di quanto è sotto di esso contenuto, per poter alfine comprendere, cioè
decidere, se l'errore stia, volta per volta, dalla parte dell'immobile o del
variato. Lo stesso invita a fare per la comprensione della filosofia: andare
alla ricerca delle invarianti terminologiche per scoprire quale movimento
di pensiero stia sotto di esse, giacché il loro ritornare non è mai l'eterno
ritorno dell'identico. I due movimenti qui prospettati, quello della critica
e quello della comprensione, sono simmetrici e speculari. In essi il linguag­
gio ha la sua parte poiché conserva sia il fisso che il mobile; il fisso grazie
alla reificazione che il concetto di identità conferisce alle parole, il mobile
a causa del variare del valore di posizione e del significato, a seconda del
contesto e della costellazione nei quali si incontrano i termini.
Tuttavia la forma del problema non ha solo queste tre dimensioni. Il
linguaggio è scisso, per Adorno, anche nella sua funzione espressiva e
comunicativa, cosi che:
Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 151.
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 30.
Cfr. Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit. pp. Ile sgg. e 199 e sgg.
130
CRITICA DEL NON VERO
meglio di ogni altro si toglierebbe dall'imbarazzo un linguaggio filosofico che
mirasse all'intendersi senza scambiarlo con la chiarezza. Il linguaggio come espres­
sione della cosa non finisce nella comunicazione - esso però - non è [...] indipen­
dente dalla comunicazione. [...] Il linguaggio come espressione della cosa e il
linguaggio come partecipazione sono inscindibilmente intrecciati. [...] Anche il
comportamento linguistico più integro non può eliminare l'antagonismo di in sé
e per altro. [...] Il momento della universalità, senza il quale nessun linguaggio
sarebbe tale, vulnera inevitabilmente la piena determinatezza del particolare che
esso vuole appunto determinare nella sua costituzione di fatto. Il correttivo è lo
sforzo, per quanto sempre irriconoscibile, a intendersi. Questo rimane come polo
opposto alla pura oggettività linguistica. Solo nella tensione dei due poli si rag­
giunge la piena verità dell'espressione 46 .
Comunicazione e espressione sono i due poli anche dell'atto interpre­
tativo. In uno l'autore congela il linguaggio attraverso la propria esperien­
za a un grado massimo di espressione, ma la riconversione alla comunica­
zione, che l'ermeneutica dovrebbe garantire, deve sciogliere e nel contem­
po conservare non l'intenzione ma la sostanza dell'espressione. E la so­
stanza dell'espressione deve essere, di nuovo, la cosa. Ma essa è costituita
anche dal «vissuto», per prendere a prestito da un ambito diverso questa
espressione, del soggetto. Per questo, non per intendere l'ermeneutica
come ricostruzione psicologica o storico-ideologica della soggettività,
Adorno chiede che l'interezza dell'oggetto sia salvaguardata attraverso un
di più, e non un di meno di soggettività. La cosa è sociale, e sociale
significa: mediata dal soggetto, che è a sua volta determinato dall'ambito
sociale, fin nella propria esperienza, nella forma e nelle strutture della
propria esperienza. Un modello interpretativo che togliesse la soggettività,
non avrebbe in mano la cosa stessa, ma solo il residuo sociale ineliminabile
dal fatto che pensare significa sempre comunque pensare qualcosa 4 '. Non
si deve cercare di comprendere che cosa avesse in mente Hegel, scrive
Adorno, ma che cosa è scritto nei suoi testi: giacché quel che fu in mente
a Hegel è ben di più di quel che Hegel aveva in mente. Di esso parteci-
46 Ibidem, pp. 152-53.
47 Cfr. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 31.
La quesione trova, tuttavia, la sua trattazione in Th.W. Adorno, Metacritica alla
gnoseologia, op. cit. Si possono consultare in proposito i seguenti studi critici: F. Dallmayr, Phenomenology and Criticai Theory: Adorno, in «Cultural Hermeneutics», voi.
Ili, 1976; U. Galeazzi, Kant e Husserl nei primi lavori filosofici di Adorno, in «Rivista
di filosofia neoscolastica», 1983, pp. 263-87; C. Pettazzi, La fase trascendentale del
pensiero di Th.W. Adorno: Cornelius, in «Rivista critica di storia della filosofìa», 1977,
pp. 436-49.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
13 \
pano motivi sociali - forme e nascondimenti, in misura preponderante
oscuri all'autore. La «misura preponderante» esige che si vada oltre il
testo e lo si completi, mentre l'«oscurità» si può leggere solo attraverso i
vuoti del testo.
È qui da tener presente che i vuoti del testo, che abbiamo già cercato
di evidenziare come elementi oscuri d'esperienza leggendo i Minima moralia, e come residui mimetici nella Dialettica dell'illuminismo, sono diver­
si dai vuoti del linguaggio stesso. I primi vengono conservati, sono possi­
bili, grazie ai secondi, ma né sono l'unica conseguenza, né costituiscono il
punto di approdo. I vuoti del concetto sono i momenti qualitativi indivi­
duali che il concetto, per essere identificazione, deve sopprimere. Al con­
trario quelli del testo indicano la peculiare cristallizzazione della funzione
concettuale in un dato momento storico, col suo intreccio sociale specifico
e determinato. Ad esempio, nel testo Materialismo e morale^*, Horkheimer
ricostruisce la genesi del senso critico morale a partire dall'evoluzione
della funzione della tradizione nel Medioevo. Non ci interessa qui la cor­
rettezza di tale analisi, quanto piuttosto rilevare che esiste differenza tra la
differenza di quel che Kant pensava sotto il concetto di interesse e di
volere morale e quel che effettivamente giaceva in tale scissione (secondo
Horkheimer il problema dell'armonia prestabilita di egoismi, proprio del
capitalismo coevo a Kant), e il fatto che la parola sola «interesse» riunisce
sotto di sé momenti qualitativi diversi, che possono emergere solo in co­
stellazioni variate, fino al limite di una per ogni individuo. Non solo ma,
secondo Adorno, di fronte a tali costellazioni abbiamo raggiunto solo il
valore espressivo della cosa. Per arrivare fino al suo proprio contenuto è
necessario - obbligo simmetrico e opposto - fare la «verifica dei nomi» 49 ,
dare, si direbbe in linguaggio ingenuo, ad ogni cosa il suo giusto nome,
ovvero affrontare l'operazione dialettica di una esperienza non immiserita
ma ancora collegata al desiderio. E questa l'operazione interpretativa cri­
tica, la identità di comprensione e giudizio.
Senza la funzione universale del concetto non sarebbe possibile cri­
ticare il reale, ma tale funzione è già, in una qualche misura, una soppres­
sione di caratteristiche individuali del reale. E ancora: senza desiderio non
4* M. Horkheimer, Kritische Theorie. Eine Dokumentation, voi. I, Fischer Verlag,
Frankfurt a. M. 1968; ed. it. Teoria critica, trad. G. Backhaus, Einaudi, Torino 1974.
Il saggio in questione si trova alle pp. 71-109.
49 Operazione metaforicamente analoga a quella suggerita da F. Fortini, Verifica
dei poteri, Einaudi, Torino 1989, pp. 215-219.
132
CRITICA DEL NON VERO
sarebbe possibile la decisione di tener fermo il concetto e tentare di cam­
biare il reale, ma seguendo il solo desiderio si rischia di identificare pen­
siero e reale prima che essi siano giunti a una qualsiasi sorta di relazione.
Il desiderio è genesi del concetto. Avevamo già trovata questa affermazio­
ne (nei Minima moralid) là dove Adorno rivendicava la produttività delle
«lacune del testo», la forza che le soppressioni davano alla capacità di
esprimere della cosa l'essenziale. Vediamo adesso come tale intreccio si
dipani in esigenze precise nell'uso della funzione linguistica, dalla com­
prensione della quale dipende l'atto interpretativo. Scrive Adorno:
lo sforzo del sensorium linguistico, verso la pregnanza è molto più grande di quello
che si richiede a tener ferme le definizioni meccaniche. [...] Quel procedimento è
poi anche insufficiente. Le parole infatti, nelle lingue empiriche, non sono affatto
puri nomi, ma sempre anche thesei, prodotti di coscienza soggettiva. [...] Il lin­
guaggio filosofico non ha qui altro rimedio che adoperare quelle parole, le quali
se fossero usate alla lettera come nomi dovrebbero fallire, con una cautela tale da
ottenere che attraverso il loro valore di posizione si possa diminuire quella arbi­
trarietà;
concludendo che:
un corretto comportamento linguistico potrebbe paragonarsi al modo col quale un
emigrato impara una lingua straniera. Sotto la spinta della necessità e dell'impa­
zienza egli può, piuttosto che adoperare il dizionario, leggere tutto quanto gli sia
accessibile. Molti termini si esplicheranno già nel contesto, ma avvolti ancora a
lungo da una cortina di indeterminatezza tollereranno equivocazioni anche ridico­
le, fino a che per la ricchezza delle combinazioni nelle quali appaiono finiranno col
chiarire i loro equivoci; e meglio di quanto consentirebbe il dizionario, nel quale
già solo la scelta dei sinonimi è affetta da tutta la limitatezza e indifferenzialità
linguistica del lessicografo 50 .
Questa dichiarazione spiega bene che cosa Adorno intenda per il
significato delle parole. E anche in che modo le costellazioni rendano la
loro parte ad esso. Ci sarebbe da aggiungere tutta la parte extratestuale di
esse, ma quel che qui interessa notare è che Adorno, seppur sotto excusatio di una metafora, propone come modello del 'giusto' apprendimento
linguistico quello della lingua non madre. La cosa è davvero sorprendente,
e tanto più se si considera l'uso che della propria lingua fece Adorno 51 , e
Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 153-54.
Cfr. M. Jay, Th.W. Adorno, op. cit., et passim.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
133
la sua ritrosia a esprimersi in inglese. Nei Minima moralia con gli stessi
identici argomenti, si giungeva a sostenere che l'emigrato, quand'anche
utilizzi la sua lingua madre, è sempre minorato dal fatto di vivere in un
paese dove non si parla quella lingua. E allora?
Che cosa ha l'apprendimento di una lingua straniera che non è invece
posseduto dalla lingua madre? Adorno scrisse un saggio sull'unico scrit­
tore europeo moderno che decise di non esprimersi nella propria lingua
madre: Beckett^2 . In esso si sostiene che nessun linguaggio può sbarazzarsi
del tutto del suo elemento semantico per divenire puramente mimetico o
pura catena di significanti. I valori mimetici, scrive Adorno, una volta
separati a forza da quelli semantici cadono preda dell'arbitrio e poi, anco­
ra, di un nuovo tipo di convenzione, essa stessa a sua volta portatrice di
una semantica. La soluzione beckettiana è differente. Anziché cercare di
seguire il flusso di pensiero-linguaggio senza darsi pena di afferrarlo, nella
pura rappresentazione di esso, Beckett sceglie la «poesia di un linguaggio
che nega il linguaggio» 53 - ovvero la trasformazione dell'elemento seman­
tico nello «strumento della propria assurdità». Ma che cosa fa preferire la
lingua straniera appresa non tramite dizionario? Anche nella lingua madre
ci sono costellazioni, semantica, sintassi, valori di posizione, elementi
mimetici, e via dicendo. Anche le parole della lingua madre, anzi esse di
più forse, conservano tutta la memoria della lingua. In esse si notano
meglio le sfumature e la musicalità, anch'essa tanto cara e spesso portata
a modello da Adorno. Ma le due cose non sono in opposizione.
La filosofia si rappresenta il comportamento del bambino [...] con l'antropomor­
fismo dell'adulto. [...] Ciò che al bambino da da fare è piuttosto il suo rapporto
con le parole, che si appropria con uno sforzo quasi non più immaginabile in
un'età successiva. [...] Egli vuole rendersi conto del significato delle parole, e
l'occuparsi di esse [...] gli fa afferrare il rapporto tra parola e cosa. Potrà annoiare
la madre con il penoso problema, perché la panca si chiama panca. La sua inge­
nuità non è ingenua. [...] Il senso delle parole e il loro contenuto di verità, la loro
«posizione rispetto all'oggettività» non sono ancora nettamente distinti: sapere che
cosa significa la parola panca e cos'è realmente una panca [...] si equivale. [...]
Heidegger ha dalla sua parte il fatto che non c'è nessun in sé senza linguaggio, che
quindi la lingua è nella verità, non questa in quella come qualcosa di meramente
'2 In effetti non è proprio vero che Beckett sia l'unico - per citare solo un altro:
Canetti - ma certo è un esempio paradigmatico perché la scelta non ha relazioni con
necessità esteriori.
" Th.W. Adorno, Tentativo di capire il «Finale di partita», in Note per la lettera­
tura, voi. II, cit., p. 292.
134
CRITICA DEL NON VERO
denotato dalla lingua. Tuttavia il contributo costitutivo della lingua alla verità non
ne fonda l'identità. La forza della lingua si verifica in quanto nella riflessione
espressione e cosa si diversificano. La lingua diventa istanza di verità solo con la
coscienza della non identità dell'espressione con il denotato. Heidegger si nega a
tale riflessione, si ferma dopo il primo passo della dialettica della filosofia del
linguaggio. Il suo pensiero è restaurazione anche nel senso che tramite un rituale
del nominare vorrebbe ristabilire il potere del nome. Ma [...] con la secolarizza­
zione i soggetti hanno sottratto alle lingue secolarizzate i nomi, e l'oggettività del
linguaggio richiede la loro intransigenza, non una confidenza filosofica in Dio. Il
linguaggio è più che segno soltanto grazie alla sua forza significativa, quando
possiede ciò che intende nel modo più preciso e serrato 54 .
La «secolarizzazione» di cui parla Adorno, ha svolto qui sul serio
quel che viene prospettato come vantaggio della lingua straniera: ha di­
sgiunto natura e linguaggio. L'irruzione della distanza è proprio ciò che si
rimprovera a Heidegger di non aver voluto vedere. Il potere (Gewalt] del
nominare era generato dall'unione naturale di nome e cosa, naturale e
cioè: divino. Tutto è linguaggio, ammette Adorno, ma il linguaggio non è
tutto. Questo è ben più di un chiasme ironico. E il segreto del realismo
di Adorno, che lo rende, nonostante ogni sforzo, non assimilabile alle
filosofie ermeneutiche di origine heideggeriana. La lingua straniera appre­
sa senza dizionario ha il merito di un esperimento mentale, come li chia­
mava Piaget, unico e quasi irripetibile. Possedendo una lingua è possibile
registrare l'esperienza dell'apprendimento di una lingua. Possedendo il
linguaggio è possibile avere coscienza dell'esperienza dell'apprendimento
del linguaggio. Cosa che non fu possibile la prima volta perché la prima
volta non c'era soggettività che potesse registrare l'esperienza che ha isti­
tuito la soggettività. Ma questo non significa che il linguaggio sia la sog­
gettività. Né viceversa. L'esperimento/esperienza rompe l'incantesimo del
soggetto e del linguaggio. Al primo ricorda che la sua stessa coscienza non
gli appartiene a-dialetticamente, ma al secondo riporta la sua posizione di
thesei. Non solo ogni lingua è storica, ma lo è, abbiamo intravisto anche
nella Dialettica dell'illuminismo, il linguaggio stesso. Certo oltre di esso si
cade probabilmente nella preistoria. Ma la preistoria non è un nulla. E del
resto Freud, e dopo di lui altri e altre, hanno mostrato come neppure la
preistoria dell'individuo sia nulla. Adorno richiede che il comportamento
linguistico abbia verso se stesso un atteggiamento di distanza e insieme si
54 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, eh., pp. 99-100. È significativo il fatto che
questo paragrafo abbia come titolo «Das kindliche Frage». Purtroppo nell'edizione
italiana i titoli dei paragrafi sono misteriosamente scomparsi.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
135
getti del tutto entro la cosa. La prescrizione appare paradossale, ma vedia­
mo come si possa esplicare nell'atto della lettura, ritornando agli studi su
Hegel.
All'inizio del terzo saggio Adorno scrive che Hegel sarebbe l'autore
nei cui testi non è possibile decidere, nemmeno in linea di principio, quale
sia il senso di certe frasi, né a priori se esse ne abbiamo uno. Sono prosegue Adorno -, la Grande logica e la Fenomenologia, dei «quasi testi»,
anzi la Grande logica non lo è più. Per essi vale come paradigma universale
del pensiero quel che quasi letteralmente in altro luogo è l'essenza della
comprensione musicale, qui e lì:
il tempo è articolabile solo attraverso le distinzioni del noto e non ancora noto di
ciò che è stato e del nuovo; il procedere ha a condizione una coscienza che scorre
all'indietro. Si deve conoscere per intero una frase, certificarsi in ogni istante
retrospettivamente di quanto è preceduto. I singoli passaggi sono da ritenersi
conseguenza di questo; occorre realizzare il senso della rammemorazione declinan­
te, sentire ciò che riappare non come corrispondenza architettonica bensì come un
divenuto che si impone per forza propria".
Ed ecco allora come «si deve leggere» Hegel:
L'esperienza soggettiva è solo il guscio di quella filosofica, la quale matura al di
sotto e poi lo getta via. [...] Hegel lo si deve leggere di contrasto, anche di maniera
che ogni operazione logica, per quanto si presenti come puramente formale, venga
addotta al suo nucleo di esperienza. L'equivalente di tale esperienza è nel lettore
l'immaginazione. Se questi volesse meramente constatare che cosa significhi un
passo, o addirittura inseguire la chimera di indovinare che cosa mai l'autore abbia
voluto dire, gli si volatizzerebbe il contenuto della cui certezza filosofica egli va
perdutamente in cerca. Nessuno può estrarre da Hegel più di quanto vi immetta. Il
processo di intendere è la progressiva autocorrezione di simili proiezioni attraverso
il confronto con ciò che sta scritto. La cosa stessa contiene, come legge della sua
forma, l'aspettativa di una fantasia produttiva nel lettore. Proprio nella frattura fra
esperienza e concetto deve inserirsi il comprendere. Dove i concetti si costituiscono
ad apparato indipendente [...] è qui che bisogna riportarli ali'esperienza spirituale che
li ha motivati: occorre rivitalizzarli quanto essi vorrebbero e invece non possono.
[...] Si può leggere Hegel solo associativamente. Ciò di cui si deve fare il tentativo
è di lasciare che ad ogni passo del testo entrino nel giro tante possibilità dell'inten­
zionato, tante relazioni ad altro, quante sono quelle che si affollano e premono. La
prestazione della fantasia produttiva consiste, non da ultimo, in questo 56 .
" Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 188.
56 Ibidem, pp. 190-93. Corsivi miei.
CRITICA DEL NON VERO
Con questo abbiamo di nuovo toccato il paradosso nevralgico della
lettura: all'universale si accede solo tramite l'esperienza individuale. La
fantasia produttiva - che già trovammo come medium, ars inveniendi per
la soluzione del carattere di enigma, nel testo del 1931 - ritorna qui: si
ritrova in Hegel solo ciò che vi si immette. Il comprendere deve inserirsi
nella frattura fra esperienza e concetto, ma per poter far ciò è necessario
che il concetto possa restare per un attimo come qualcosa di fermo, e
questo accade nel linguaggio. E al contempo l'esperienza deve essere
imitata; non nel senso ingenuo di «far finta che», ma più profondamente.
Le invarianti del testo di Hegel, «compito paradossale» chiama Adorno il
loro rinvenimento, sono l'appiglio entro il quale è possibile leggere la
forma dell'esperienza che si va compiendo. Il confronto è tra la dialettica
concetto/esperienza del testo e l'esperienza della lettura di quel testo. Ma
essa stessa non è separabile dalla memoria, non solo del testo, ma dell'in­
tero soggetto - intero: anima, corpo e demone - che è di fronte al testo.
Non c'è bisogno di eliminare il soggetto per detronizzare il soggetto asso­
luto. Tale critica ha già pensato la realtà a compierla. La chance dell'inter­
pretazione deve raccoglierla per ricostruire anche il 'testo' di essa, e non
per darsene un principio. Perché nella differenza tra l'esperienza della
lettura - triade di concetto esperienza e riflessione - e l'esperienza del
lettore - cosciente e incosciente - «nulla che sia non-vero si lascia capire.
Così ciò che non si capisce fa saltare il sistema» 57 . Ecco la funzione delle
«lacune»: aprire ali' a- concettuale tramite concetti senza renderselo identi­
co. Ma questo può essere fatto solo nella doppia lettura del testo. Doppia
lettura che è dialettica in quanto assegna alla fantasia dell'interpretazione
di far emergere tutte le differenze tra cosa e testo grazie alla, seppur
relativa, fissità che il linguaggio garantisce al testo. È pur vero che tale
dialettica si instaura anche tra testo e testo, per dir così, da soli. Ma solo
alla presenza del negativo, cioè del desiderio dell'individuo.
LA MEMORIA DEL GIOCO E IL DOLORE DEL RICORDO
Abbiamo visto che la dialettica negativa può risolvere il problema
della totalità grazie a quel particolare genere di riassunto della totalità che
è l'individuo Tràger del capitalismo, e che tale risoluzione è in bilico tra
57 Ibidem, p. 199.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
137
la funzione negatrice del pensiero, manifestantesi nel linguaggio, e l'imma­
nenza del testo. Si dovrà adesso render ragione di questa facoltà dell'in­
dividuale mostrando come memoria e ricordo siano il terminus a quo del
pensiero critico.
La metafora del gioco, strettamente connessa a quella di costellazio­
ne, è in Adorno, come in due suoi celebri contemporanei, Gadamer e
Feyerabend 58 , presente in funzione polemica: «contro il dominio totale
del metodo la filosofia contiene, in funzione correttiva, il momento del
gioco, che la tradizione della sua scientifizzazione vorrebbe eliminare del
tutto» 19. C'è una componente antikantiana - ben analizzata, per esempio,
da Habermas 60 - in questa opposizione. Il metodo, se così si può ancora
chiamare, è determinato dalla verità dell'oggetto. Se questa si pone come
negazione della falsa apparenza della sua identità, il metodo sarà determi­
nato dalla negazione della falsa identità, sarà, in ultima istanza, una nega­
zione determinata. Questa categoria hegeliana viene accettata da Adorno
come l'eredità centrale del pensiero del filosofo della dialettica, mentre il
punto di distanza è dettato dal rifiuto a una soluzione gerarchica della
negazione. Quel che in Hegel si organizza a sapere assoluto deve rimanere,
secondo Adorno, a uno stadio precedente: semi-smontato nella forma
paratattica. Tale situazione, simile alla dialettica in stato di quiete proposta
da Benjamin, non solo evita di porre in gerarchla concetti e cose secondo
determinazioni che appartengano solo al soggetto, ma di per se stessa,
come semplice cifra stilistica, si oppone alla realtà nella quale mediante il
principio di scambio degli equivalenti, ogni ente viene gerarchizzato in
base alle leggi dello scambio.
Nel Saggio come forma, abbiamo visto come veniva presentato lo stile
paratattico; se la filosofia vuole sfuggire all'effetto di apologià non deve
soggiacere all'illusione che il reale sia rappresentabile sotto forma di siste­
ma. Poiché la forma è divenuta del contenuto, e quindi l'istanza ideologica
può celarsi anche interamente nei 'soli' aspetti formali, per questo il sag­
gio, facendo della forma fratta la sua forma, nei vuoti che lascia, nelle
incompletezze che non colma, indica come ciò di cui tratta sia esso stesso
58 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit.; e P. Feyerabend, Contro il
metodo, traci. L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1984. Per una coincidenza questi due testi
sono, curiosamente, pressoché contemporanei della Dialettica negativa, il testo «meto­
dologico» di Adorno.
'9 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 13.
611 Cfr. J. Habermas, Conoscenza e interesse, trad. G.E. Rusconi, Laterza, Bari
1973; in particolare le pp. 209 e sgg.
CRITICA DEL NON VERO
vuoto e manchevole. Questo vuoto e questa manchevolezza non sono
certo dichiarabili nei puri nomi. Tra l'altro essi tendono di per sé alla
identità, e quindi alla pienezza del coincidere. E del resto un nome non
può da solo essere vuoto, neppure quando si tenga a pieno regime la sua
funzione significante, che è, scrive Adorno, ciò in virtù di cui solo il nome
è di più che un semplice segno. Il fratto, la rinuncia alla sistematica, vanno
conquistati innanzitutto sotto l'aspetto formale in due punti nevralgici: nel
riconoscimento della fondamentale operazione di astrazione e identifica­
zione che il linguaggio ha compiuto nella storia della evoluzione dell'uo­
mo, e quindi anche nel riconoscimento dei debiti che questa evoluzione ha
contratto con il non universale e il non identico, e in secondo luogo nella
radicalità della critica, o meglio della autocritica, che i concetti debbono
compiere su tale astrazione. Davvero l'illuminismo - in ultima istanza
anche quello nietzscheano - è ineliminabile. La strada del ritorno è bloc­
cata. La radicalità della critica illuminista contro il mito - non in ultimo
quindi contro se stessa come spiegato da Horkheimer e Adorno - collega
il procedimento paratattico alla strada ermeneutica della critica immanen­
te; l'assenza di centro, il rifiuto della paratassi alla subordinazione gerarchizzata, sono anche un modo del cominciamento della critica come chia­
rificazione del non-vero 61 .
Il processo della critica immanente esige necessariamente l'elaborazio­
ne di una dialettica della domanda e della risposta; se la negazione deter­
minata trova il suo paradigma in una critica penetrante del relativismo,
come scrisse Adorno, è perché la dialettica non può fare a meno di qualcosa
di costante, ha si un cominciamento: «però non gli attribuisce più il pri­
mato» 62 . Ovvero: contro l'indifferenza dello scetticismo, che nasconde
sempre la propensione ad apologizzare il più forte, la negazione determi­
nata chiede, in prima istanza, che resti la differenza tra vero e falso. Se la
negazione di qualsiasi universale si capovolge in acccttazione supina del
falso universale che di fatto domina nella società, di contro a questo la
negazione determinata non propone affatto un differente universale ma
confuta la pretesa di identità tra la negazione teoretica dell'universale e la
61 Cfr. Th.W. Adorno, Paratassi in Note per la letteratura, voi. II, cit., pp. 127-69.
I commentatori che hanno riconosciuto il legame tra critica immanente e paratassi
in Adorno sono molti. Tra essi si possono vedere: M. Barzaghi, Dialettica e materialismo
in Adorno, op. cit., pp. 142-43; R Bodei, Adorno e la dialettica, op. cit., pp. 446-48; G.
Rose, The melancholy science, op. cit., pp. 12 e sgg.
62 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 34.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
139
non esistenza de facto di un universale. Ma è appunto tale atteggiamento
che esige a suo sostegno la critica immanente: essa prende sul serio le
dichiarazioni del testo, cerca le domande alle quali esso indica di voler
rispondere, e infine giudica se le risposte fornite siano corrette, ovvero
relative alla domanda posta, e giuste, ovvero se dissolvano il carattere della
domanda. La sua norma è ben definita da Adorno con parole scritturali.
La volontà di non farsi saziare, di apprendere qualcosa di essenziale dalla filosofia,
viene deformata da risposte tagliate sul bisogno, ambigue tra l'obbligo legittimo di
offrire pane, non pietre, e la convinzione illegittima che debba essere pane perché
così dev'essere, - poiché - l'urgenza di una questione non può costringere a dare
una risposta, se non si riesce a ottenerne una vera, - allora - sarebbe nullo il
pensiero senza bisogno, che non vuole nulla; ma il pensiero a partire dal bisogno
si confonde se il bisogno viene concepito in modo meramente soggettivo. I bisogni
sono un conglomerato del vero e del falso: vero sarebbe il pensiero che desidera
il giusto 65 .
Come avevamo già notato, alla fine, non c'è critica né negazione
senza bisogno e desiderio di soddisfazione, giacché essenza del pensiero modellata su quella del lavoro - è la negazione 64 .
Per chiarire questo punto torniamo per un attimo al «bisogno» di
sistema. Adorno riconosce in esso il tentativo di dare rappresentazione
razionale a ciò che razionale non è, neppure come sistema di sistematico
dominio, mentre scrivere senza idea sistematica sarebbe ancor più ideolo­
gico. Così si è costretti a pensare senz'altro entro l'idea sistematica ma
senza pretendere di soddisfarla, imitando la soddisfazione nevrotica che la
totalità sociale offre ai suoi membri. Se si abbandonasse del tutto l'idea
che la realtà debba essere rappresentabile entro un sistema razionale,
entro un «risarcire i frammenti» come si esprime Adorno, allora qualsiasi
ingiustizia e violenza del singolo sul singolo sarebbe, a fondo, non critica­
bile. Alla critica è necessario un punto fermo, ripete Adorno, ma senza che
se ne faccia un principio 65 . Così:
pensare è, già in sé, prima di ogni contenuto specifico, negare, resistenza contro
ciò che gli viene imposto... [...] Violentando ciò su cui si esercita le sue sintesi il
pensiero segue anche un potenziale che attende in ciò che gli sta di fronte, e
ubbidisce senza coscienza all'idea di risarcire i frammenti, per ciò che esso stesso
ìbidem, pp. 63, 189 e 83.
Cfr. ìbidem, p. 18.
Cfr. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 127 e sgg. e pp. 157 e sgg.
14Q
CRITICA DEL NON VERO
ha compiuto; la filosofia diventa cosciente di questo fatto inconsapevole. La spe­
ranza della conciliazione accompagna il pensiero inconciliabile, poiché la resisten­
za del pensiero contro il meramente essente, l'imperiosa libertà del soggetto, inten­
de ottenere dall'oggetto anche ciò che esso ha perduto a causa della sua trasfor­
mazione in oggetto. [...] Però il bisogno del sistema [...] era allora qualcosa di più
che pseudomorfosi dello spirito rispetto al metodo irresistibilmente affermantesi
delle scienze matematiche e naturali. [...] All'ombra dell'incompletezza della pro­
pria emancipazione la coscienza borghese deve temere di venir annullata da una
più avanzata [...] perciò dilata teoreticamente la propria autonomia a un sistema.
[...] La ratto borghese si propose di produrre dal suo interno l'ordine che aveva
negato all'esterno. Ma quello in quanto prodotto non è più un ordine, e quindi è
insaziabile. Un tale ordine prodotto in modo insensato-razionale fu appunto il
sistema: qualcosa di posto. [...] Esso doveva spostare la sua origine nel pensiero
formale scisso dal contenuto. [...] Il sistema filosofico fu fin dall'inizio antinomico.
In esso l'approccio si fondeva con la propria impossibilità: agli inizi dei sistemi
moderni essa ha appunto condannato l'uno alla distruzione ad opera del succes­
sivo. La ratio per affermarsi come sistema che estingueva virtualmente tutte le
determinazioni qualitative, cui si riferiva, fini in inconciliabile contrasto con l'oggettività, cui faceva violenza, pretendendo di afferrarla. Se ne allontanò tanto più
quanto più completamente essa l'assoggettò ai suoi assiomi. [...] La grande filoso­
fia fu accompagnata da uno zelo paranoico di non tollerare nient'altro che se
stessa. [...] La proliferazione dei sistemi [...] annuncia con la sua non-verità quella
dei sistemi stessi, ciò che hanno di folle. [...] Gli animali da preda sono affamati;
assalire la preda è difficile, spesso pericoloso. Affinchè l'animale lo tenti ha biso­
gno di impulsi supplementari. Essi si fondono con il senso sgradevole della fame,
formando un'ira rivolta alla preda la cui espressione a sua volta atterrisce e para­
lizza opportunamente quest'ultima. Progredendo nell'umanizzazione ciò viene
razionalizzato tramite proiezione. L'animai rationale, che brama l'avversario, deve
trovare un motivo, essendo già beato possessore di un Super-Io. Quanto più com­
pletamente ciò che egli fa segue la legge dell'autoconservazione, tanto meno egli
deve ammetterne il primato a sé e agli altri. [...] L'essere vivente da divorare deve
essere cattivo. Questo schema antropologico si è sublimato fino nella gnoseologia.
[...] Il sistema è il ventre divenuto spirito, l'ira è il segno di ogni idealismo 66.
È dunque dovere dell'interpretazione resistere alla medesima tenta­
zione a demonizzare il proprio oggetto. Anch'essa si salva da ciò solo se
rinuncia alla sistematicità. Questa rinuncia e la costellazione sono, nel
risultato, la medesima cosa.
66 Ibidem, pp. 18 e sgg. Sulla traduzione di questo brano si sono rese necessarie
delle piccole modificazioni rispetto alla versione offerta, con un certo dispregio della
sintassi italiana, da Donolo.
Da notare le rassomiglianze con la funzione che la Begierde svolge nella Fenome­
nologia di Hegel, nel passaggio dal solipsismo dell'autocoscienza al dialogo di due
autocoscienze, prima della dialettica tra signoria e servitù.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
141
Comprendere una cosa, non semplicemente inserirla, riportarla al sistema di coor­
dinate, non è altro che cogliere il momento singolo nella sua connessione imma­
nente con altri. Un tale antisoggettivismo si muove, sotto l'involucro scricchiolante
dell'idealismo assoluto, nella inclinazione a spiegare di volta in volta le cose da
trattare ricorrendo al modo in cui divennero 67 .
La constatazione è semplice: il sistema risponde si a un bisogno, ma
la domanda e la risposta che esso fornisce sono taciute. Mentre la cosa
chiede non di essere inquadrata in un ordine sistematico, ma che si sciol­
gano in costellazione gli elementi dei quali è intimamente composta; ma
questa è anche la regola ermeneutica della interpretazione tramite critica
immanente. La costellazione non è semplicemente il campo di forza dei
concetti. Essa conserva, a differenza dell'uso decostruzionista, il momento
unificante. Sono concetti, in dialettica con la loro esperienza (come abbia­
mo già visto) che richiedono la partecipazione di altri sia per loro stessi
che nella composizione individuale e sociale (quindi soggettivamente in­
conscia) della loro esperienza.
Il momento unificante [senza il quale il relativismo gioca dalla parte dei puri
rapporti di forza] sopravvive, senza negazione della negazione, ed anche senza
affidarsi all'astrazione come principio supremo, per il fatto che non si avanza dai
concetti gradualmente fino al concetto supremo, ma che essi si presentano in
costellazione. Questa illumina l'elemento specifico dell'oggetto, che per il proce­
dimento classificatorio è indifferente o un disturbo. Ne è un modello l'atteggiarsi
del linguaggio. Essa non offre un mero sistema di segni per funzioni conoscitive.
Quando si presenta essenzialmente come linguaggio, diventando rappresentazione,
essa non definisce i suoi concetti. Essa da oggettività ai concetti grazie al rapporto
in cui li pone, centrati su una cosa. [...] Soltanto le costellazioni rappresentano
dall'esterno quel che il concetto ha tolto via nell'interno, il di più che esso vuoi
essere, per quanto non possa esserlo 68 .
La concettualizzazione appare chiara. In primo luogo la costellazione
non è linguistica tout court; pertiene alla cosa ed è linguistica in quanto e
nella misura in cui l'esperienza della cosa è linguistica essa stessa. In se­
condo luogo, sempre tramite il linguaggio, comprendiamo meglio quanto
avevamo incontrato precedentemente, la paradigmaticità dell'apprendi­
mento di una lingua straniera senza dizionario: essa è un apprendimento
per costellazioni - è, in un certo senso, mimesi delle costellazioni reali.
Ibidem, pp. 22-23.
Ibidem, p. 145.
142
CRITICA DEL NON VERO
Un'altra citazione dallo stesso testo, indica il rapporto tra essenza e costel­
lazione: «quando una categoria si modifica [...] muta la costellazione di
tutte e quindi ciascuna» 69. La mutevolezza delle costellazioni indica una
relativa mutevolezza dell'essenza. Detto meglio: l'essenza è data dalla co­
stellazione, mutato un solo termine di questa, modificato il gioco delle
relazioni, anche l'essenza singola ne viene in parte modificata. Scrive
Adorno che «non si deve filosofare sul concreto, ma a partire da esso», e
che per questo: «la verità è oscillante, fragile a causa del suo contenuto
temporale» 70 . Da qui l'invito adorniano: se il concreto tende a occultarsi
dentro un carattere sincronico, solo la ricognizione sulla concretezza come
tale porta al nocciolo temporale della verità. Temporalità che significa non
solo che il tempo, il divenire, fanno essenzialmente parte del vero, dell'og­
getto vero, ma anche, e questa è una suggestione benjaminiana 7 ', nel senso
che la verità cambia a seconda delle condizioni materiali nelle quali viene
espressa. Per poter muoversi in tali mutazioni, essendo il punto di vista del
soggetto tendenzialmente statico, ci si deve servire di quel che Adorno
chiama, con riferimento al Kant della Critica della facoltà di giudizio,
immaginazione produttiva. E appunto la modificazione in senso dialettico
di questa categoria che porta Adorno a intrecciarla costantemente con la
metafora del «gioco». Una prima funzione di tale metafora è ancora rivol­
ta contro la prepotenza del modello matematico-scientifico naturale: «con­
tro il dominio totale del metodo la filosofia contiene, in funzione corret­
tiva, il momento del gioco, che la tradizione della sua scientifizzazione
vorrebbe eliminare del tutto» 72 . Ma quindi si prosegue:
il pensiero non ingenuo sa quanto poco esso penetri nel pensato, e deve pur
sempre parlare, come se lo possedesse interamente. Così assomiglia al gioco di
downs. Esso può tanto meno negare tali tratti, in quanto essi soli gli aprono uno
spiraglio di speranza su ciò che gli è negato. La filosofia è quanto di più serio ci
sia, ma cosi seria poi non lo è nemmeno.
69 Ibidem, p. 149.
Non sfuggirà a nessuno l'assonanza di questa affermazione adorniana con quelle
fatte da De Saussure prima, e poi da tutti gli strutturalismi che alla sua linguistica si
richiamano. Cfr. in proposito P. D'Alessandro, Darstellung e soggettività, La Nuova
Italia, Firenze 1980, e F. Jameson, La prigione del linguaggio, trad. G. Franci, Cappelli,
Bologna 1982.
70 Ibidem, p. 30 e p. 31.
71 Tra le molte delineazioni di questo tema, sembra particolarmente importante
quella operata da F. Muzzioli, Interpretazione e presa di posizione nella critica letteraria
di Walter Benjamin, in «Allegoria», II, 1990, n. 4.
72 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 13.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
143
E si precisa che il gioco garantisce la speranza solo:
quanto mira a quel che esso stesso a priori non è già e su cui non detiene alcun
potere garantito, appartiene secondo il suo concetto a una sfera del non domato,
che è stato reso tabù dall'essenza concettuale.
Ecco a che cosa apre il gioco: al non concettuale, nella traccia della
sua permanenza attraverso il ritorno dell'elemento mimetico, preconcet­
tuale. Non tramite regressione tuttavia bensì:
il concetto può sostenere la causa di ciò che ha rimosso, della mimesi, solo appro­
priandosi, nei modi di atteggiarsi, di qualcosa di essa, senza perdervisi. In questo
senso il momento estetico non è accidentale alla filosofia. [...] È però anche suo
compito toglierlo nel rigore delle sue conoscenze del reale. Queste e il gioco sono
i suoi poli. [...] Arte e filosofia hanno un elemento comune non nella forma o nel
procedimento formativo, bensì in un atteggiamento che rifiuta la pseudomorfosi.
Entrambe restano fedeli al loro contenuto 7 '.
Qualunque campo di definizione, costellazione, etc., pone in primo
luogo l'esclusione; ed in generale la posizione delle determinazioni pre­
suppone la possibilità del loro rinvenimento. All'interno della riflessione
filosofica sul linguaggio questo significa che la «discrezione» concettuale
- i rapporti all'interno della costellazione -, così come quella formale degli
elementi minimi fonetici o segnici, è il fondamento di ogni operazione
linguistica. Il linguaggio, secondo Adorno, è non nonostante ma proprio
grazie a tale paradosso: esso ha bisogno delle più minime differenzialità
per poter astrarre e comporre unità parzialmente indifferenziate. Questa
situazione non va sciolta a favore di nessuno dei due corni. Ed inoltre
questo problema ha la sua accentuazione nel salto, immotivabile in ultima
istanza nel solo pensiero ma proprio perché non riguarda il solo pensiero,
dal sistema al reale definito o, come scrive Adorno «dal pensare al pen­
sato», che pure il pensare sa di non afferrare mai. In questo passaggio
l'alterità dei segni, trapassa nella negazione.
È questa la radice, da un punto di vista linguistico, della dialettica
negativa. Essa contraddice alla operazione idealistica secondo la quale
quanto è differente dal campo definito non è portatore del nome, e poiché
questo «nome» diviene poi il centro di attrazione del discorso, la non
reggenza esclude non solo teoreticamente delle qualità, ma molto più:
73 Ibidem, p. 14.
144
CRITICA DEL NON VERO
esclude dell'aura di significanza. E poiché il carattere metaforico del lin­
guaggio accentua l'aurea etica del senso 74 , allora l'esclusione è sempre, in
una qualche misura, una rimozione a dei diritti. È questa l'altra faccia,
probabilmente la più importante, del «realismo» degli universali in Ador­
no. Contro a esso, a correttivo, vediamo adesso sorgere la limitazione del
diritto del concettuale: il nominalismo, per dirla in un'altra maniera, poi­
ché lascia del tutto indifferenti i rapporti reali tra le cose, si capovolge nel
suo contrario. Giacché non può sfuggire del tutto alla significanza, al
rimando oltre il piano linguistico, quando ciò avviene si trova sprovvisto
dell'organo di senso tramite il quale dar, finalmente, parola al reale.
Questa situazione è simile a quella descritta da Freud a proposito
della difficoltà a parlare dell'inconscio, nel duplice senso, soggettivo e
oggettivo, del complemento di specificazione. Che ci si possa servire di un
sistema di segni de-realizzato e moltiplicato, al punto da non incorrere
nella dialettica dell'esclusione, o da incorrere in una sola rimozione origi­
naria, è una possibilità che non si incontra nei testi adorniani. Ma del resto
non è essa a occuparci qui. Piuttosto dobbiamo mostrare come il «gioco»,
la fantasia esatta e produttiva, servano da correttivo al caposaldo vero e
proprio del metodo scientifico: la definizione. Perché è in realtà contro di
essa, secondo la più classica delle tradizione dialettiche, che Adorno uti­
lizza quella metafora. La definizione è sempre preceduta dalla presa di
partito per essa, e dalla indifferenza al definito. In questo è compreso un
momento di mascheramento ideologico fondato su di un artificio retorico.
Dapprima viene posto il contenuto della definizione e le sue determinazio­
ni. Queste vengono successivamente fatte passare al vaglio della critica. La
scoperta di erroneità porta alla predicazione, per negativo, del loro inver­
so. Questa sorta di dialettica teologica poggia sintomaticamente in realtà
non sulla prova della erroneità della definizione ma proprio sulla defini­
zione stessa - sul concetto identico, nel fatto e nel modo del suo essere
posto, cioè nella rimozione del 'posto' a favore dell'essere. Con una specie
di «risentimento»', la diversità tra costruzione concettuale e la sua critica
e decostruzione, appare tanto più marcata quanto meno, nell'intelligenza
del testo, si è tenuto conto proprio della sua costitutiva, e irrinunciabile
anche in via di principio, spezzata interezza. Così come per il bisogno di
74 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, voi. Vili, tomo II, delle Opere
di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1971. In
particolare alle pp. 129 e sgg.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
145
sistema, come abbiamo visto. Accade allora che il termine «altro» contro
il quale viene rivolta la critica, sia stato posto a bella posta dal soggetto,
che poi, nel pensiero critico, lo prende come reale ed effettuale - rimuo­
vendo la riflessione sui motivi, sulla ragione sufficiente, della definizione
come processo di ragione.
Immaginiamo, per esempio, che si potesse parlare con la volpe della
fiaba, quella che decide di rinunciare all'uva perché posta troppo in alto,
e giustificante la disdetta con la frase: «del resto è ancora acerba», e
chiederle perché mai tanta passione per quei frutti: essa resterebbe inter­
detta. Infatti è il fatto di dover essere una 'volpe' che rende problematico
alla volpe il rinunciare all'uva - dimostrarsi incapace di risolvere un pro­
blema è la negazione dell'identità della volpe, giacché Volpe' significa:
quell'essere che, nel proprio essere, possiede astuzia a sufficienza per
dominare ogni situazione problematica. Se la volpe vuole l'uva deve po­
terla avere: altrimenti non è una vera 'volpe' - è qui che l'animale si rende
conto di dover stare attento ai propri desideri giacché gli è fatto obbligo di
essere sempre in grado di soddisfarli. Allora interviene l'attività di masche­
ramento, rivolta nella fiaba all'oggetto, ma nella realtà, come ben sappia­
mo, liberissima di risolversi contro le volpi stesse. Cosi ogni definizione
dovrebbe, a costo di prendere partito per una causa persa, tenere presente
come questo destino da volpe sia il pericolo nascosto nel suo successo.
Il nominalismo si comporta, insomma, come il positivismo giuridico
che è a sua volta il diritto nato a difesa del capitalismo della borghesia: è
la legge che fa esistere il reato e non l'esistenza di reati che richiede una
legislazione; salvo poi l'aporia del fondamento costitutivo dell'intero ordi­
namento. L'interpretazione critica deve, secondo Adorno, comportarsi al
contrario; deve fantasticare intorno a possibili reati, per così dire, e inven­
tare per essi delle leggi e delle pene appropriate. Fuor di metafora la
critica non ha altro fondamento che la teoria, ma la teoria sì, ne ha un
altro. Nel testo del 1931 sull'attualità delle filosofia avevamo incontrato
come organo dell'interpretazione la strana ars inveniendi condotta dalla
esatta fantasia sul materiale messo a disposizione dall'enigma stesso. An­
cora, quindici anni più tardi, nei Minima moralia Adorno indicava nel
ricordo e nel desiderio i padri del pensiero, dove il parricidio più che
liberazione implica solo la castrazione. Dovrebbe ora essere chiaro qual sia
il fondamento della fantasia e delle metafore sul «gioco». Nella stessa
teoria estetica, in più luoghi, l'arte è rappresentata come «gioco», come
fuochi d'artificio. Ma un gioco dove libertà e costrizione convivono, di
nuovo proprio come nel bisogno di sistema; senza legge, nessuna libertà:
146
CRITICA DEL NON VERO
«Nullum criminem, nulla poena sine lege». Ma il ribaltamento della logica
del diritto, che abbiamo appena proposto come metafora dell'interpretazione, ha la sua dialettica all'interno della negatività motrice della critica;
il ricordo è il suo contrappeso 75 . Adorno stesso ha espresso l'alternativa
ultima dell'individuo nell'epoca del capitalismo maturo come quella tra
«diventare adulti o restare bambini». Domandare, come fa il bambino,
perché la panca si chiami 'panca' va oltre la sua propria ingenuità, per
toccare il punto estremo del carattere mimetico del pensiero che rifiuta la
pseudomorfosi; e la violenza del gioco infantile che nel ricordo dell'adulto
diviene di struggente felicità, si mostra come metafora paradigmatica del
pensiero in Adorno.
Come gli individui hanno troppo poche, e non troppe inibizioni, senza essere per
questo di un briciolo più sani... - allo stesso modo - il talento non è forse altro
che rabbia felicemente sublimata, la capacità di tradurre quelle energie che, un
tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo di distruggere gli oggetti che
opponevano resistenza, e di essere altrettanto tenaci e implacabili nella ricerca del
segreto degli oggetti come il bambino che, un tempo, non si dava pace finché non
aveva strappato al giocattolo tartassato la sua voce lamentosa.
E ancora:
poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli
impulsi [Trieben], il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stes­
so [...] il pensiero che uccide il suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della
stupidità [...] espulsa la fantasia, è esorcizzato anche il giudizio, il vero atto cono­
scitivo,
ed è per questo che: «veri sono solo i pensieri che non comprendono se
stessi», e che comunque agisca:
l'intellettuale sbaglia. Egli sperimenta radicalmente, come una questione di vita,
l'umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente
tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino
- perché - in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell'impossibilità di una
completa legittimazione: come, in un sogno, sappiamo di lezioni di matematica
75 Tra i molti critici che hanno trattato questo tema, quello che meno lo ha
costretto nella sola relazione tra la filosofia di Benjamin e quella di Adorno - e quindi
il più utile per noi qui - è quello di T. Perlini, Infanzia e felicità in Adorno, in «Comu­
nità», 1972, n. 161-62.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
147
perdute per una beata mattina in letto, e che non sono più recuperabili. Il pen­
siero attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo
trasformi in teoria 76 .
La materia del desiderio è il gioco, ovvero la trasformazione tramite
desiderio, degli elementi del ricordo. A questa trasformazione è del tutto
estranea la questione della verità, del rispecchiamento oggettivo, del ricor­
dato. Purché il ricordato si tinga del colore della felicità, la forza che il
ricordo di questa fornisce, permette la messa in moto della fantasia imma­
ginativa. Perché essa sia anche «esatta» si deve tuttavia misurare con le
comprensioni fornite dalla riflessione: questa dialettica è quella propria
dell'atto interpretativo — giacché: «il vero atto conoscitivo è il giudizio» e
«l'atto con cui si comprende e quello con cui si giudica sono il medesi­
mo».
Il desiderio non è libero per essenza, sappiamo bene anzi, e Adorno
ce lo ha insegnato probabilmente meglio di tutti, che anch'esso è oramai
a disposizione del capitalismo per le proprie funzioni di riproduzione.
Quando si fa riferimento ad esso come forza dell'intento critico, non si
vuole semplicemente saltare fuori dalla totalità - come se il desiderio
individuale fosse un metafisico punto inesteso dal quale procurarsi la
prospettiva perfetta per una conoscenza vera e un'interpretazione compiu­
ta. Solamente, ma di nuovo, non il contenuto del desiderio, bensì il suo
rapporto con il pensiero è il paradigma della relazione che la critica do­
vrebbe intrattenere con il reale; relazione obliqua per muoversi tra la
necessità di riconoscere quel che è senza pagare il prezzo di eternare il
tutto. Ed in fondo la questione è semplice: la mediazione sociale rende
reale la totalità ma al contempo riconosce in essa l'operare non di forze
celesti ma di terrestri uomini; desiderare significa dialettica tra concetto,
reale e non identico. Questa dialettica non è a disposizione dell'individuo
ma, come quella hegeliana della Fenomenologia, porta a compimento le
proprie contraddizioni in forza del negativo determinato che l'individuo
empirico è. Dobbiamo quindi ora tornare al rapporto, che l'interpretazione deve afferrare, tra non vero e concetto, alla teoresi della dialettica
negativa.
Th.W. Adorno, Minima moralia, op. cit., et passim.
}4g
CRITICA DEL NON VERO
IDEOLOGIA, UTOPIA E OBBLIGO AL CONCETTO
Per il Giudaismo, legge e morale sono inseparabili. Non so se vi esiste, non credo,
distinzione fra il sacro e il profano ma solo quel che è secondo la Legge e quello
che non lo è, fra giusto e ingiusto, puro e impuro. In questo senso il Giudaismo
è un momento capitale [...] dell'intelletto e del senso; e anche un desiderio o una
speranza 7 '.
Queste parole di Fortini valgono anche per la dialettica negativa di
Adorno; anch'egli si esprime in uno strano modo a proposito del rapporto
tra religione dell'individuo e legge del soggetto.
L'enfasi filosofica sulla forza costitutiva del soggetto tiene però anche sempre
lontani dalla verità. Così specie animali come il dinosauro triceratops o il rinoce­
ronte trascinano con sé le loro corazze che li proteggono come una prigione
concresciuta, e cercano invano - almeno così sembra antropomorfisticamente - di
togliersele di dosso. [...] (così) il momento soggettivo viene come avvolto dall'oggettivo, è esso stesso oggettivo, come un qualcosa di imposto al soggetto in modo
limitante 78 .
La coscienza assoluta - scrive dieci righe prima Adorno - è incoscien­
te. Se l'industria e la pubblicità culturale fornissero solo false rappresen­
tazioni, ad esse sarebbe in qualche modo semplice e agevole contrapporre
autentiche rappresentazioni. Dove il criterio di verità è il rispecchiamento,
il problema dell'ideologico è decisamente semplice (come si può vedere
nello sfortunato episodio epistemologico di Lenin). Ma la produzione
ideologica non è così superficiale. Andrebbe semmai immaginata come
una sorta di Edipo sociale 79: come processo di formazione dell'organo di
formazione, o come suggerisce Freud, organo difensivo. La ragione sorge
come ideologia; intanto soddisfa bisogni e volontà essenziali ai suoi pro­
duttori - e fa questo in quanto struttura l'ordine stesso della relazione tra
Io e natura, intcriore e esterna. Quel che essa consegna in eredità ad
ognuno, sono le immagini per rappresentarsi gioie e dolori, il linguaggio
di quella «impossibile traduzione» cui accennammo a proposito della
categoria di «gioco». Essa forma l'occhio e la lingua del pensiero, la sua
divisione dal lavoro, il modo di procedere stesso della riflessione, il crite77 F. Fortini, Extrema Ratto, Garzanti, Milano 1991, p. 60.
78 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 161.
7>) Cfr. in proposito F. Vanni e M. Sacchi, Gruppi e identità, Cortina, Milano
1992.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
149
rio su ciò che costituisce un problema e su quanto può rappresentare una
soluzione. È più corretto pensare all'ideologia come produzione del dato
- appunto perché esso, come Adorno non si stanca di ripetere, non è mai
«dato» - che non cercare di liberarsene come semplice duplicazione irre­
tita e capovolta del vero mondo. E la sua profondità consiste proprio
nell'apparenza di totale trasparenza, nel sembrare una sola e semplice
superficie.
La sua prima operazione consiste nello spostare l'attribuzione tra
natura e storia. Come vedemmo nel saggio Die Idee der Naturgeschichte,
e come ancora scrive Adorno nella Dialettica negativa a proposito della
resistenza contro la riflessione dialettica:
chi si piega alla disciplina dialettica deve certamente pagare un amaro tributo in
termini di molteplicità qualitativa all'esperienza. L'impoverimento dell'esperienza
ad opera della dialettica, di cui si scandalizzano le opinioni ragionevoli e sensate,
si rivela tuttavia nel mondo amministrato adeguato alla sua astratta monotonia. Ciò
che vi è di doloroso nella dialettica è il dolore su quel mondo, elevato a concetto 80 .
Per un verso quindi i caratteri dell'esperienza vengono astratti a ca­
ratteri extratemporali dell'essenza delle cose stesse. Mentre, d'altra parte,
l'opposizione del pensiero, il suo carattere irrimediabilmente negativo,
viene imputato al solo pensiero come suo vizio dell'origine. In questa
situazione la diretta opposizione non avrebbe come risultato che prepara­
re un mercato delle idee, una bancarella di Weltanschauungen, dove ognu­
no possa, indifferentemente, scegliere quella che più gli si adatta. È a
correzione di ciò che «la filosofia ha il suo vero interesse là dove Hegel,
d'accordo con la tradizione, dimostrava il suo disinteresse: nell'a-concettuale, individuale e particolare» 81 , solo li le maglie dell'universale falso
entrano in contraddizione con l'aspirazione immanente del particolare a
ricevere, entro la propria costellazione, l'universale vero. Però il partico­
lare, individuale e a-concettuale, è senza parola e senza lingua. Il suo
coglimento deve essere sempre, nella realtà falsa, uno sgambetto, uno
scherzo tirato alla legge di sopravvivenza; legge che è appresa una volta
per tutte non appena si cristallizza l'esperienza della dipendenza della
duplicazione sociale dai meccanismi di produzione. Non che tale legge
venga dichiarata ad ogni singolo uomo che viene sulla terra. Come dicem-
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 6.
ìbidem, p. 8.
15Q
CRITICA DEL NON VERO
mo a proposito della teoria estetica, ogni forma, o legge, è un contenuto,
in questo caso dei rapporti sociali, che si è sedimentato fino a divenire
inconscio. Se ci occupasse in questo lavoro la storia dei rapporti sociali
potremmo cercare di mostrare il processo di scissione tra immagine di sé
e immagine dell'altro che interviene nel processo di quella rimozione.
Essendo però un altro il nostro scopo, vediamo cosa scrive Adorno sul
penetrare l'individuale. «Ma quella parte di verità che può essere colta dai
concetti oltre il loro ambito astratto» - quella parte di verità che i concetti
devono risarcire all'universale e al particolare, e risarcire due volte: una
prima al particolare che è sempre in quanto sussunto anche estinto nel­
l'universale, e una seconda volta perché questa sussunzione nel nostro
mondo è prima di tutto una sussunzione reale, e solo dopo anche una
sussunzione teoretica, quella parte di verità - «non può avere altra scena
che ciò che il concetto opprime, disprezza e rigetta. L'utopia della cono­
scenza sarebbe di aprire con concetti l'aconcettuale senza renderglielo
simile» 82 .
Certo la Dialettica negativa conduce la critica all'ideologico, cioè l'au­
tocritica della ragion speculativa, per dir così sulla base del rapporto tra
pensiero e non pensiero, sulla base delle trame che di questo rapporto
sono le fondamenta, le condizioni di possibilità, per dir così «trascenden­
tali», del sorgere dell'ideologico. Mentre l'esame delle condizioni sociali e
politiche è in secondo piano 83 . Pur tuttavia, anche in questo caso Adorno
è convinto di mostrare in questo la logica stessa del pensiero nel capita­
lismo maturo. La contraddizione, dice Adorno, afferma dapprima che il
concetto non può esaurire il contenuto di ciò che è compreso sotto di esso
e che quindi, in termini molto hegeliani: «la contraddizione è il non­
identico sotto l'aspetto dell'identità» 84 .
Che il concetto sia concetto, anche quando tratta dell'essente, non cambia
niente al fatto che esso è intessuto a sua volta in un tutto non concettuale, da
cui si isola unicamente grazie alla propria reificazione, che pure lo fonda come
concetto. [...] Mutare questa dirczione della concettualità, riportarla al non-
82 Ibidem, p. 9.
85 È ancora M. Barzaghi ad analizzare il vantaggio che Adorno acquista rispetto
al marxismo ortodosso con questa posizione. Secondo lui l'importanza attribuita da
Pollock alla sfera della circolazione, mise gli autori della scuola di Francoforte, e Ador­
no in particolare, in condizione di riconoscere meglio il processo di sussunzione reale
in atto anche nella sfera della circolazione.
84 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 5.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
]_ 5 I
identico, è la cerniera della dialettica negativa. Di fronte alla consapevolezza del
carattere costitutivo del non-concettuale nel concetto dovrebbe sciogliersi la coa­
zione all'identità 8'.
Ma la cosa è complicata dal fatto che la società capitalista si comporta
nei confronti della dialettica dell'illuminismo come un parassita: l'ideolo­
gia che essa propone non potrebbe funzionare se non prendesse forza dai
meccanismi di quella stessa dialettica illuminista di cui concetto e non
concettuale, o identico e non identico, e anche soggetto e oggetto - per
voler qui non fare distinzioni per altro importanti - esprimono la radice.
Se il pensiero che è sempre identificazione non si ponesse già a disposi­
zione del falso, come ogni assoluta identificazione, in nessun modo po­
trebbero reggersi identificazioni palesemente false. L'ideologico è in qual­
che modo una intentio recta della intentio recta per parafrasare l'atto cri­
tico adorniano della intentio obliqua della intentio obliqua. Nell'interstizio
tra le due operazioni di identità il processo interpretativo dovrebbe sfor­
zare se stesso nella prima, e smontare l'illusione della seconda attraverso
la propria autocritica. Cosi che la filosofia: «dovrebbe avere il suo conte­
nuto nella molteplicità non inquadrata da alcun schema degli oggetti che
le si impongono o che cerca» 86 , dovrebbe, se fosse possibile un simile
punto di vista sottratto alla prospettiva. Ma se tale prospettiva non è
assumibile, la filosofia si ritrova alla imitazione, alla imitazione del carat­
tere mimetico, alla legge del «come... se ...». Essa, come abbiamo letto,
non può far a meno di assumere punti fermi, ma può rinunciare a tener
fermo ciascuno di essi. In questo alla filosofia:
il momento espressivo integrale, mimetico-aconcettuale, viene oggettivato solo
tramite l'esposizione - il linguaggio. La libertà della filosofia non è altro che la
capacità di articolarne Pillibertà [articolare l'illibertà del linguaggio, si intende] 87 .
Questa illibertà, sulla cui duplicità di livello non insisteremo ancora,
è smontabile solo attraverso una interpretazione megalomane, una interpretazione che esiga dall'interpretato tutte le connessioni della sua
costellazione, e principalmente quelle rimosse e che un vuoto hanno
lasciato.
85 Ibidem, p. 12.
86 Ibidem, p. 13.
87 Ibidem, p. 17.
152
CRITICA DEL NON VERO
Con la speranza non garantita che ogni singolo e particolare che essa decifra
rappresenti in sé, come la monade leibniziana, quel tutto che come tale le sfugge
continuamente, però in base a una disarmonia prestabilita piuttosto che a una
armonia 88.
Penetrazione del particolare, nell'aspettativa che si sveli la disarmonia
di universale e non identico, è per Adorno: «pensare filosoficamente per
modelli; la dialettica negativa è un insieme di analisi di modelli» 89. Se il
non vero ha le sue proprie connessioni, e se le connessioni sono storiche,
allora ogni enigma interpretativo deve ricevere la sua propria risposta.
Detto meglio, anche la critica ha bisogno di abbandonare l'astratto univer­
sale: la scoperta della dinamica edipica non consente, per esempio, nessun
intervento o miglioramento, fino a quando essa non penetra in quella
particolare connessione edipica. Così allo stesso modo, la critica dell'eco­
nomia di scambio del capitalismo maturo, è solo la cornice che dice tutto
e nulla, entro la quale ogni singolo fenomeno deve ricevere la ristruttura­
zione delle proprie connessioni; uno sguardo «fisionomico» che rintracci
l'universale nelle sue configurazioni concrete che sono sempre particolari.
Ed ecco quindi il passo successivo.
La teoria della seconda natura [...] è centrale in ogni dialettica negativa. Essa
assume l'immediatezza immediata, le formazioni che la società e il suo sviluppo
presentano al pensiero, tei quel, per rivelare con l'analisi le loro mediazioni, secon­
do il criterio della differenza immanente dei fenomeni rispetto a quanto di per sé
pretendono di essere 90 .
Dunque il corrispettivo interpretativo della costellazione altro non è
che il riconoscimento delle mediazioni, o ancora, il rifiuto cieiroriginarietà
in ogni sua forma. Ma paradossalmente il punto archimedeo della interpretazione è ciò che i fenomeni «di per sé pretendono di essere», senza di
che, senza la distonia tra pretese dei fenomeni e desideri, la critica non
potrebbe muovere passo - interpretazione significa critica del non vero. I
«desideri» non erano presenti nella citazione; a conferma di questa ag­
giunta si possono tuttavia riportare le parti salienti delle idee, già incon­
trate, sul ruolo della soggettività nel reperimento dei momenti qualitativi
dell'oggetto, gli stessi che entrano in contraddizione con quel che i feno-
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
]J3
meni pretendono di essere. Scrive Adorno che: «in deciso contrasto con
il normale ideale di scienza, l'oggettività della conoscenza dialettica ha
bisogno di più, non di meno soggetto», perché: «abbandonarsi all'oggetto
equivale a rendere giustizia ai suoi momenti qualitativi»; ma questi mo­
menti qualitativi dipendono dalla differenzialità del soggetto e: «è diffe­
renziato chi in essa [esperienza] e nel suo concetto riesce a distinguere
ancora il minimo, sfuggente al concetto; soltanto la differenziazione riesce
a raggiungere il minimo» 91 . E questo è al sottilissimo confine tra esperien­
za mimetica, quasi somatica, e riflessione razionale:
il momento mimetico sulla via della sua secolarizzazione si fonde con quello razio­
nale. Questo processo si riassume come differenziazione. Essa contiene in sé tanto
la capacità di reazione mimetica quanto l'organo logico per il rapporto tra genere,
specie e differenza specifica 92 .
In questa fusione troveremo - forma chiasme della parodia - la dia­
lettica tra ricordo e dolore, all'interno della diacronia delle loro forme. Ma
per adesso registriamo soltanto come l'elemento mimetico, quasi cieco,
ritorni, secolarizzato, all'interno delle forze che possono collaborare al
processo interpretativo. E in questo, anche dal punto di vista dei Tràger,
è ancora il momento individuale, pur con tutta la sua finitezza e fragilità,
attraverso il quale si deve passare.
La coscienza individuale riceve ogni contenuto dal suo portatore, per la sua auto­
conservazione, e si riproduce con essa. La coscienza individuale riesce a liberarse­
ne, ad ampliarsi tramite autoriflessione. A ciò la spinge il tormento per cui ogni
universalità ha la tendenza ad acquistare il predominio nell'esperienza indiviciuale.
[...] L'universale del soggetto non si fa cogliere altro che nel movimento della
coscienza individuale 95 .
Ea verità, nella interpretazione, si raggiunge attraverso un organo di
senso che appartiene all'individuo. Nella posizione di fronte al principio
di realtà che l'ideologico vorrebbe assegnare a se stesso, la filosofia e
l'individuo trovano una comunione.
La filosofia attinge ciò che ancora la legittima da un negativo, dal fatto che quel­
l'elemento insolubile davanti al quale capitolò [...] è a sua volta un feticcio nel suo
91 Ibidem, pp. 37 e sgg.
• 2 Ibidem, p. 40.
93 Ibidem, p. 41.
154
CRITICA DEL NON VERO
essere-così-e-non-altrimenti, il feticcio dell'irrevocabilità dell'essente. Esso si dis­
solve di fronte alla coscienza che esso [...] è divenuto in condizioni date;
ed è dunque la coscienza storica della mobilità della costellazione, la non
demoralizzazione del soggetto che può sciogliere il carattere reificato del­
l'apparire così e non altrimenti dei fenomeni, ma non basta:
questo divenire scompare e risiede nella cosa, placabile con il suo concetto tanto
poco quanto scindibile dal suo risultato e dimenticabile. Simile è l'esperienza
temporale. Nella lettura dell'essente come testo del suo divenire si toccano la
dialettica materialista e quella idealistica. [...] Ciò con cui la dialettica penetra i
suoi oggetti induriti è la possibilità, su cui la realtà ha ingannato e che pure traluce
da ogni oggetto. [...] Persino in Benjamin i concetti tendono in certo modo auto­
ritariamente a celare la loro concettualità. Ma solo il concetto può realizzare ciò
che i concetti impediscono. L'errore determinabile di ogni concetto obbliga ad
evocarne altri; così sorgono quelle costellazioni, alle quali soltanto è passato qual­
cosa della speranza del nome 94.
L'essente è il testo del suo divenire, che è stato occultato come testo.
In esso rimane come qualcosa di cui è necessario (provare il bisogno di)
ricostruire, attraverso i vuoti, la costellazione. E ricostruire la costellazione
significa in primo luogo sbugiardare la legge della naturalità, dell'esser
così e non altrimenti. Nella cosa, appunto, il testo del divenire prende
corpo e in uno scompare: è precisamente questa scomparsa che richiede
l'interpretazione. Interpretazione che non è placabile né con il concetto né
con il risultato di quel che l'oggetto è divenuto, ma solo con la speranza
che la possibilità di altro sia celata in quello scomparire, nel fatto che è
stato fatto scomparire, o che incessantemente da sé scompare. Il concetto,
con cui la riflessione si trova necessariamente ad operare, non cura la
ferita, al contrario, si potrebbe quasi dire che la rende evidente e più
chiara, se ne fa portatore, quasi come nell'evento cristiano, ma al contrario
di quello fa nascere la consapevolezza dell'errore, e per correggerlo, nell'interpretazione, ne fornisce altri, dai quali spera in ultimo di poter uscire,
facendo ritorno al potere del nome, nella mimesi sacra, di poter afferrare
il proprio oggetto. Che cosa significa questo per una filosofia che si inter­
preta come interpretazione critica del testo?
La metessi della filosofia alla tradizione sarebbe però soltanto la sua negazione
determinata. Essa viene fondata dai testi che critica. Il suo atteggiamento diventa
94 Th.W. Adorno, Negative Dialekttk, cit., pp. 62-63.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
\^
commensurabile alla tradizione nel rapporto coi testi, che la tradizione le offre e
che la incarnano. Questo giustifica il passaggio dalla filosofia all'interpretazione,
che non eleva né l'interpretato né il simbolo ad assoluto, bensì cerca ciò che è vero
dove il pensiero secolarizza l'immagine originaria irrecuperabile di testi sacri 95 .
Il rapporto con i testi diventa così paradigmatico del rapporto con il
textum, il dato che non è dato ma posto. In esso la filosofia deve passare
all'interpretazione se non vuole cadere a esercitazione, e quindi limitarsi
a rappresentare lo stato di fatto delle cose come l'unico possibile. Ancora
una volta si arriva all'unità di filosofia e problema linguistico, per trovare
questa volta spifferata, per dir così, la soluzione di Adorno, che adesso
dovrebbe suonare chiara.
Con il suo legame esplicito o latente coi testi la filosofia ammette la sua essenza
linguistica [...] [e] la retorica rappresenta nella filosofia tutto quanto non può
essere pensato altro che nel linguaggio. [...] Incessantemente la corrompe lo scopo
della persuasione, senza il quale pure d'altra parte la relazione del pensiero alla
prassi scomparirebbe dall'atto del pensiero. [...] Infatti l'eliminazione della lingua
dal pensiero non ne è la demitologizzazione. Accecata, la filosofia sacrifica con la
lingua ciò con cui essa si rapporta alla cosa in modo diverso dalla mera denota­
zione; solo come lingua il simile è in grado di riconoscere il simile. [...] La dialet­
tica, etimologicamente linguaggio come organo del pensiero, sarebbe il tentativo
di salvare criticamente il momento retorico, cioè di avvicinare fino all'indistinguibilità espressione e cosa. [...] Contro l'opinione volgare, nella dialettica il momento
retorico prende partito per il contenuto. [...] Essa inclina [...] al contenuto in
quanto elemento aperto, non predeterminato dall'impalcatura: appello contro il
mito. [...] La conoscenza che vuole il contenuto, vuole l'utopia. [...] È il possibile,
mai l'immediatamente reale, che preclude l'utopia; perciò in mezzo all'esistente
esso appare astratto. Il colore incancellabile viene dal non-essente. Per esso lavora
il pensiero, un frammento di esistenza, che penetra fino al non-essente, come
sempre negativamente. Soltanto l'estrema lontananza sarebbe davvero la vicinanza:
la filosofia è il prisma che ne imprigiona il colore 96 .
DIALETTICA NEGATIVA. LA COSTRUZIONE DELL'IMMAGINAZIONE CRITICA
L'esistenza di colui che pone la domanda, la domanda dell'interpretazione, non è, dice Adorno, la verità. Non c'è nel dialettico francofortense nessun umanesimo esistenzialista. Leggere i Minima moralia, come pure
95 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 49.
96 Ibidem, p. 50.
156
CRITICA DEL NON VERO
è stato fatto, come testo esistenzialista, è scorretto. Nel saggio Die Aktualitdt der Philosophie leggemmo che:
chi interpretando ricerca dietro al mondo fenomenico un mondo in sé, che ne
costituisca il fondamento e che lo sottenda, si comporta come chi in un enigma
voglia ricercare il riflesso di un essere che gli sta dietro, un Essere che l'enigma
riflette e dal quale si lascia sorreggere, laddove la funzione dell'enigma è quella di
rischiarare a lampi e di sciogliere [aufheben] la forma dell'enigma 97 .
E nella Dialettica negativa quasi negli stessi termini:
in filosofia la domanda autentica comprende quasi sempre in certo modo la sua
risposta. Essa non conosce un prima-poi di domanda e risposta, come la ricerca
scientifica. Deve modellare la domanda in base a ciò che ha sperimentato, in modo
che venga recuperato. Le sue risposte non sono date, fatte, prodotte: in esse si
rovescia la domanda dispiegata, trasparente 98.
Sembra davvero che l'idea dell'interpretazione sia quella che più
costante e invariabile rimane nella produzione di Adorno. Ma che cosa
significa che la domanda non cela la risposta, ma l'una prende il posto
dell'altra? Significa che la «forma di enigma» è, esattamente come la rispo­
sta, solo il risultato di una certa costellazione: i medesimi elementi, in una
diversa disposizione, costituiscono la costellazione con forma enigma e la
costellazione con forma risposta. Ora, che cosa differenzia la forma enig­
ma dalla forma risposta? A proposito della risposta, chiarisce Adorno, la
discriminante è se essa fornisca pane o pietre, secondo le parole scritturali.
Se corrisponda, detto in maniera un poco semplificata, ai bisogni di chi
pone la domanda. Ma:
bisogni reali possono essere oggettivamente ideologie, senza che da ciò nasca un
titolo per negarli. Infatti persino nei bisogni degli uomini catalogati e amministrati
reagisce qualcosa in cui non sono completamente controllati, il sovrappiù della
partecipazione soggettiva, di cui il sistema non è diventato completamente signore.
I bisogni materiali dovrebbero essere rispettati perfino nella loro forma rovesciata
provocata dalla sovrapproduzione 99.
Il bisogno, persino quello organizzato dall'industria che lo induce
solo per poter piazzare sul mercato la sua soddisfazione, conserva del
97 Th.W. Adorno, Attualità della filosofia, cit., p. 7.
98 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 55.
99 Ibidem, p. 82.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
\^~]
desiderio il carattere di negazione dell'immediato dato. Dunque esso è
sempre fonte di quella differenza tra esperienza e idea che è cardine dell'interpretazione. Ma poiché tale differenza si presenta in costellazioni, il
bisogno, come il desiderio, sembrano essere l'energia universale, l'etere,
entro il quale le cose si muovono. Questo non significa fare dei passi in
dirczione del soggettivismo; la dialettica dei bisogni mostra del tutto evi­
dentemente come sarebbe puramente illusorio cercare di far cambiare
idea all'inconscio rispetto ai suoi bisogni. È evidente che la soddisfazione
offerta al pulsionale dalla società, e massimamente da questa società, non
può essere che metonimica 1()0. Tale la sorte dei bisogni «ideologici», essa
è tuttavia identica a quella dei cosiddetti bisogni autentici: anche per essi
la soddisfazione comporterebbe la distruzione. In entrambi i casi, in effet­
ti, la soddisfazione dei bisogni, le risposte al pulsionale, deve essere me­
tonimica - in Adorno non c'è alcuno spazio per un pathos dell'originario.
All'origine c'è solo lo stato di violenza, l'abolizione del quale è comunque
una entrata nello stato sociale. La natura non si camuffa, ma diventa
irrimediabilmente natura seconda. E proprio perché sotto di essa è dor­
miente la natura prima repressa. Ma la prospettiva non è l'abolizione di
ogni repressione, anzi, semmai, è affidata totalmente alla possibilità di una
buona «traduzione» della necessaria rimozione del «testo» originale. Esso
deve essere presupposto come tale, ma non c'è alcun testo originale, anche
se la nostalgia per esso è tuttavia autentica; il fatto che sia una nostalgia
per un passato non esistito non rende inesistente la nostalgia.
Quanto più senza speranza le forme sociali esistenti bloccano questa nostalgia,
tanto più irresistibilmente l'autoconservazione disperata viene gettata in una filo­
sofia [cioè nella forma interpretativa per eccellenza], che deve essere due cose
contemporaneamente, disperata e autoconservazione 1" 1 .
«La mediazione è mediata dal mediato» 102 - questo vale anche per il
linguaggio, e la sorte dei bisogni, il «destino delle pulsioni», che abbiamo
appena visto avviene, per l'uomo, all'interno del linguaggio. All'interno
cioè di una mediazione mediata dal mediato. Essa, in una certa misura,
deve essere imitazione dell'elemento mimetico, come controcanto al nomi-
""' Si ricordino, in proposito, i due saggi: Sulla psicoanalisi revisionista e Psicoaìalisi e sociologia, contenuti in Th.W. Adorno, Scritti sociologici, op. cit.
101 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 83.
1(12 Ibidem, p. 89.
158
CRITICA DEL NON VERO
nalismo, senza imitare il legame teologico tra nome e cosa. La sua dispo­
sizione rivolge la propria astrazione sia contro la realtà di cui «parla», sia
contro se stessa. In esso avviene la mediazione - che un tempo fu costi­
tuzione - tra soggetto e natura. L'atteggiamento mimetico è, in un certo
senso, la cattiva coscienza del linguaggio; in esso il soggetto separato a
forza e del tutto imperfettamente dalla natura vorrebbe riprendere posses­
so della formula magica per l'unità con essa. Ma di contro a ciò sta la sua
costitutiva socialità, con il «disagio» corrispondente, che blocca al sogget­
to come soggetto il ritorno. Persino la regressione più patologica si arresta
di fronte all'elemento bruto dell'amorfo. Al di là del principio di piacere si
trova il terreno metafisico della pulsione a eliminare il terreno delle pul­
sioni, ovvero la differenza stessa tra materia e materia - il circolo che le
ha separate 103 . Scritto in modo fiabesco: nell'Es hanno casa sia i sempre
«identici» impulsi somatici sia il deposito della rimozione (cioè tradizione,
cioè traduzione in forma di contenuti rimossi) sociale. Così che il linguag­
gio, entro il quale si muove l'interpretazione, è agganciato ai due estremi:
da una parte il mimetico come raccordo extratestuale, o extralinguistico
tout court, dall'altra il latente sociale come sua riflessione. Così come ve­
demmo a suo tempo per l'autonomia dell'opera d'arte, e per il bisogno di
sistema, anche in questo caso l'una cosa non è senza l'altra. La soluzione
adorniana all'interno della versione gnoseologica di questa dialettica, quel­
la del rapporto soggetto/oggetto, è la seguente:
non un qualcosa, ma solo proposizioni potrebbero comunque essere ontologiche.
L'individuo, che possiede una coscienza, e la cui coscienza non sarebbe senza di
esso, resta spazio-temporale, fatticità, essente: non essere. Nell'essere è implicito il
soggetto, infatti è un concetto e non immediatamente dato, ma nel soggetto è
implicita una coscienza individuale e quindi un elemento ontico 104 .
E, continua Adorno sempre avente Heidegger come modello critico,
ma la verità, la costellazione di soggetto e oggetto in cui entrambi si compenetrano
può essere tanto poco ridotta alla soggettività, quanto viceversa a quell'essere, di
cui Heidegger tenta di confondere il rapporto dialettico con la soggettività 105 .
io? per questa interpretazione del testo freudiano si rimanda a P. D'Alessandro,
// gioco inconscio nella storia, Franco Angeli, Milano 1990.
104 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p.113.
105 Ibidem, p. 115.
LA DIALETTICA TRA UNIVERSALI E INDIVIDUALITÀ
Così:
non c'è essere senza essente. Il qualcosa, come sostrato, necessario al pensiero, del
concetto [...] è l'astrazione estrema del contenuto materiale non identico con il
pensare, un'astrazione però che non può essere eliminata da alcun ulteriore pro­
cesso di pensiero. [...] Correlativamente, anche al polo opposto soggettivo, il con­
cetto puro, funzione del pensare, non può essere separato radicalmente dall'Io
essente 1()6 .
In questo modo racconta Adorno l'atteggiamento dialettico rispetto
a questo paradosso - che noi potremmo applicare identico all'identico
paradosso del linguaggio/soggetto.
In un certo senso la dialettica è più positivistica del positivismo, da lei disprezzato:
essa rispetta, come pensiero, quel che si deve pensare, l'oggetto, anche dove esso
non segue le regole del pensiero. [...] Il pensiero non è costretto ad accontentarsi
della propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare
a se stesso. [...] Ciò che apparentemente è intollerabile, cioè che la soggettività
presupponga il fattuale, e viceversa l'oggettività il soggetto [che il soggetto presup­
ponga il linguaggio come suo trascendentale, e il trascendentale linguistico l'unio­
ne sociale e il singolo parlante] è intollerabile soltanto per tale accecamento: l'ipo­
stasi del rapporto fra fondamento e deduzione, del principio soggettivo; cui non
si piega l'esperienza del soggetto. [...] Tale dialettica è negativa. La sua idea espri­
me la differenza da Hegel. [...] La forza del tutto che opera in ogni singola deter­
minazione [anche del tutto linguistico, ovviamente] non solo ne è la negazione, ma
anche essa stessa il negativo, non vero 107 .
E si precisa, due pagine dopo che:
di fatto la dialettica non è né soltanto un metodo né qualcosa di reale nel senso
dell'intelletto ingenuo. Non un metodo: infatti la cosa inconciliata [...] è contraddittoria e si chiude a ogni tentativo di una sua interpretazione univoca. [...] Non
un semplicemente reale: infatti la contraddittorietà è una categoria della riflessio-
Dunque come si deve comportare il pensiero dialettico, che è pensie­
ro come interpretazione del carattere enigmatico? Come si deve compor­
tare soprattutto rispetto al fatto che: «il mondo è nella sua testa ma la testa
1)6 Ibidem, p. 121.
"' Ibidem, pp. 126-27.
08 Ibidem, p. 129.
160
CRITICA DEL NON VERO
non è il mondo» l09 ? Dato che il linguaggio, come più volte ripete Adorno,
le è essenziale, nel senso che solo in esso la fantasia esatta può servirsi del
materiale per dar corso all'esperienza di risposta come dissoluzione della
domanda - dissoluzione infine in cui non soggettività e individuo empiri­
co hanno entrambi luogo?
Secondo Adorno contro la tentazione di ridurre la dualità nel trascen­
dentale, del quale: «è quasi impossibile spezzare la forza», nonostante la
assoluta non fondatezza del soggetto, e giacché essa è una non fondatezza
nel pensiero che esige fondatezza, e che non va affatto confusa con l'eteronomia degli individui esistenti, contro la quale al contrario, per quanto
le è possibile, la filosofia dovrebbe protestare, di fronte a ciò:
non è possibile altro che la negazione determinata dei momenti singoli, tramite i
quali il soggetto e l'oggetto sono assolutamente contrapposti e perciò identificabili
l'uno con l'altro. In verità il soggetto non è mai del tutto soggetto, l'oggetto
oggetto. Nessuno dei due però è un pezzo staccato da un terzo elemento che li
trascenderebbe. [...] Si deve tener fermo criticamente alla dualità di soggetto e
oggetto, contro la pretesa di totalità inerente al pensiero. È vero che la separazione
[...] è soggettiva, risultato di una elaborazione ordinatrice. Però la critica dell'ori­
gine soggettiva della separazione non riunifica il separato, quando oramai si è
biforcato nella realtà 110.
Una scelta, forse la principale, in qualche modo di rinuncia e scon­
fitta del pensiero. Del pensiero dialettico. Una sconfitta che si è consumata
al di fuori del pensiero. Ma che tuttavia ha forse ancora una chance di
opposizione. Perché anche il dolore ha una sua forza. La questione per
l'interpretazione critica è: come renderlo produttivo?
19 È una frase della Torah.
10 Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 157.
CAPITOLO V
DIALETTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Se questa opposizione si insedia nel singolo, [...] e [se] questa
scissione sussisterà nella massa più grande del popolo, che costitu­
isce l'organizzazione vivente di un tale spirito, allora i ceti e le leggi,
i costumi e la religione sono spacciati e l'intero della sua coesione,
la sua costituzione, è perduto. [...] L'esistenza della filosofia ha il
suo fondamento nello stesso dissidio, solo che essa filosofia non è
rivolta a singole forme, singole determinatezze, ma alla determina­
tezza intesa nella sua assoluta astrazione, e la figura che in essa si
da vita, è la determinatezza assolutamente libera, nell'elemento del
conoscere; questo suo elemento è esso stesso la coscienza, la singo­
larità...
G.W.F. Hegel 1
MEMORIA TRA TRADUZIONE E DESIDERIO
Uno dei giochi diffusi tra i bambini, che abbiano imparato a servirsi
di immagini e parole, è quello di provarsi a inventare nuovi e straordinari
esseri fantastici. Invariabilmente il gioco si conclude con la scoperta che
non è possibile inventare nulla ex nihilo; tutto quel che si riesce a fare è
combinare in forme e unità mai viste elementi che, per altro, sono tutti già
presenti nell'esperienza. L'atteggiamento di Adorno rispetto all'organo di
senso della critica, critica delle immagini e delle cose, è rassomigliante a
questo. In nessun caso si tratta di scoprire da qualche parte il punto
archimedeo esterno che permetta di sollevare il mondo al di sopra della
nebbia ideologica che lo avvolge. Per due motivi: intanto oltre la nebbia
non si trova il sole, oltre la dialettica dell'illuminismo non è rimasta in
quiete e disponibile la struttura mitico-mimetica, né una qualche altra
sorte di origine; come si è già visto rimozione e istituzione sono atti con­
temporanei. E in secondo luogo, non è reperibile da nessuna parte un
fondamento sottratto alla struttura a partire dal quale si possa condurre la
critica alla definizione dell'immagine del meglio.
1 La citata frase di Hegel si trova nel frammento jenense «Ist auf das Allgemeine», e corrisponde ai fogli lOa e lOb del manoscritto del 1801-02. La traduzione è di
Remo Bodei; cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Einaudi,
Torino 1987. Corsivo mio.
162
CRITICA DEL NON VERO
Uno dei luoghi comuni sulla filosofia di Adorno è proprio questo,
che si sia forsennatamente rifiutato, per cause inerenti alla sua psicologia
individuale (o alla sua classe sociale di origine, a seconda delle versioni)
alla dipittura del meglio. Molti studi sono anche dedicati alla ricerca di un
motivo immanente alla filosofia adorniana dell'assunzione del divieto scrit­
turale di formarsi immagini. Ma sia la spiegazione basata sulla teoria del­
l'industria culturale, per la quale ogni proposizione in positivo collabore rebbe all'apologetica indiretta dell'esistente (curiosamente proprio il rim­
provero che Lukàcs rivolse a Schopenhauer, uno degli scrittori «neri» più
presenti e meno trattati dalla scuola francofortense, eccezion fatta per i
due studi di Horkheimer 2 ), sia la riconduzione di questo motivo alle radici
ebraiche del pensiero di Adorno - che pure sono certamente importantis­
sime e, per tramite di Benjamin e quindi di Scholem, non affatto solo di
seconda mano - entrambe le spiegazioni lasciano teoreticamente insoddi­
sfatti.
In un'opera che difficilmente si è arrestata di fronte a tabù concilia­
tivi quando si trattava di difendere la possibilità di una vita giusta di fronte
alla presente, e che considerava compito della filosofia - uno se non l'uni­
co - quello dello smascheramento di tutte le forme che conducono alla
sopportazione, alla condivisione della scissione attraverso la quale solo è
tollerata la struttura sociale e riproduttiva del capitalismo maturo, e infine
a ogni tentativo di naturalizzare (ed è per Adorno indifferente se si tratti
di naturalizzazione ontologico-teologica o fisico-naturalistica) ciò che è
sociale per sua essenza, in una tal opera la proibizione di farsi immagini
deve avere a che fare, almeno nella testa dell'autore, con un punto nevral­
gico della possibilità del meglio. La mancanza di immagini deve, in una
qualche misura, essere vicina al meglio possibile adesso e qui. E questo in
modo tale da superare l'eterno contrasto tra accontentarsi e non deflette­
re. La proibizione di farsi immagini inoltre - vista la sua connotazione
agogica - deve anche avere relazione con la prassi interpretativa di Ador­
no; in qualche modo le immagini di Dio sviano o corrompono le intatte
possibilità della critica. Vedremo, nella Dialettica negativa come questa
proibizione sia strettamente connessa all'idea della verità, questa infinita
2 Cfr. M. Horkheimer, Sozialphilosophischen Studien, Fischer Verlag, Frakfurt a.
M. 1972; ed. it. Studi di filosofia della società, a cura di W. Erede, trad. A.M. Solmi,
G. Carchia, G. Backhaus, Einaudi, Torino 1981. In particolare i saggi: Schopenhauer e
la società; Sul pessimismo oggi e II pensiero di Schopenhauer in rapporto alla scienza e alla
religione.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\(fì
spina della filosofia. Vedremo come la proposta di Adorno sarà infatti
quella di intessere e accettare, la dialettica della coscienza individuale.
Questo organo, forse il più delicato, dubitabile e incerto tra tutti, proprio
nel suo essere servitore di molti, moltissimi padroni - un poco come la
classe proletaria nella vulgata marxista - dovendo sopportare tutte le ca­
tene ha collegamenti diretti con tutti coloro che tengono le catene, e,
tramite la memoria, può sottoporre a confronto i suoi padroni. E nel
confronto prendere partito contro la propria alienazione a divinità. Perché
la ragione del singolo è pur sempre un frammento della ragione sociale.
Ma alla rappresentazione di questa possibilità, incerta se racchiusa
nei termini di una teoria dell'interpretazione, non è estranea neppure la
delicata questione se l'atto interpretativo debba dipendere da prescrizioni
oppure se, al contrario, le prescrizioni siano determinate da come l'atto
interpretativo è esso di per sé; e va scritto chiaramente: per Adorno la
risposta è decisamente a favore del dover essere. Concependo egli l'interpretazione come chance critica per eccellenza - all'interno della coscienza
di ognuno - la sua è una possibilità, non una prassi determinata dalla
struttura delle cose. Diciamo che non è un existentialia, se non nel senso
che ogni processo di pensiero è anche un atto interpretativo. Ma tanto più
l'atto interpretativo si limita a ricalcare la produzione non individuale di
illustrazione delle strutture del mondo, tanto minore è, come leggemmo,
la partecipazione del soggetto individuale ali'afferramento dei momenti
qualitativi dell'oggetto, tanto più siamo, sempre secondo Adorno, ai con­
fini della critica, verso la scomparsa della interpretazione a favore della
circolazione della mercé. E come efficacemente mostrato da Rossi Landi,
ma non certo solo da lui, la circolazione della mercé presuppone atti
ermeneutici ma non è essa stessa un atto ermeneutico basandosi, per sua
propria forma, sulla identità. E dove regna l'identità astratta non c'è etica
e dunque neppure la necessità della critica.
Abbiamo veduto come l'individuo partecipi del processo interpreta­
tivo non «nonostante» ma «grazie» alla sua costituzione soggettiva. Come
si esprime Adorno, la costituzione tardoborghese dell'individuo è la mi­
gliore chiave d'accesso alla società del capitalismo maturo e, da questa,
alla comprensione della natura seconda in generale. Si tratta ora di mo­
strare in che modo le due facoltà individuali tra cui si situa la critica memoria e desiderio di felicità - abbiano un lato aggettivo, e come tale
oggettività non sia solo dialettica ma anche etica.
Scrive Adorno, nel 1962 in uno dei rari casi di un suo pronunciamen­
to sul «meglio», che: «è bene ciò che si libera dalle catene, ciò che trova
164
CRITICA DEL NON VERO
un linguaggio, ciò che apre gli occhi» 3 . Anche il ricordo, come abbiamo
già visto, è legato al bene - nei Minima moralia si trova la rappresentazio­
ne del desiderio, del destare la speranza, attraverso il ricordo della beata
mattinata perduta nel letto. La forza del pensiero, commenta Adorno, è
qualcosa di simile al ricordo delle lezioni perdute e del poltrire nel letto.
Sempre nello stesso testo si trova espresso anche il legame tra felicità e
ricordo: «il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine», e
poco sopra:
è per la felicità come per la verità: non la si ha, ma ci si è. Felicità non è che l'essere
circondati, l'«essere dentro», come un tempo nel grembo della madre» [...] ecco
perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. [...] Chi dice di essere felice
mente, in quanto evoca la felicità, e pecca contro di essa. Fedele alla felicità è solo
chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la
gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile 4 .
Non si tratta evidentemente della mera impossibilità di essere felici al
tempo presente, bensì della dialettica della rappresentazione della felicità
al tempo presente; la felicità si avverte, ma la distanza necessaria alla
rappresentazione fa sì che dove c'è la rappresentazione allora non c'è più
lo stato, e viceversa. La gratitudine, sentimento volto ad un atto passato,
per forza di cose, è nient'altro che il ricordo della felicità. Così che, po­
tremmo dire, la felicità si lascia vivere e ricordare ma non rappresentare
nella coscienza come stato presente. Che cosa ha mai la felicità, nei con­
fronti della coscienza, da imporre tale proibizione? anche nei confronti
della felicità si esercita la proibizione all'immagine?
È in questione qui il rapporto tra coscienza e felicità, come una specie
determinata di quello più generale tra ricordo e autocoscienza presente; è,
detto in altri termini, lo stesso problema che al termine della sezione sullo
Spirito assoluto fa, in Hegel, «ricominciare da capo» l'intera Fenomenolo­
gia. E dato che per Adorno, vedremo, alla possibilità del meglio è legata
anche l'interpretazione - sospesa tra oggettività che esige un più di sog­
getto, e individualità che è dialetticamente rappresentata da una soluzione
del rapporto tra universalità e particolarità - siamo di fronte a una que­
stione cruciale anche per l'interpretazione. Adorno si esprime chiaramente
sull'oggetto della memoria a cui ci si richiama, il punto di afferramento
della critica, e su di esso non si fa illusioni di alcun tipo:
Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., p. 44.
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 127.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\fó
il fatto che l'esperienza del bello naturale si tenga [...] al di qua del dominio sulla
natura, come se all'origine fosse un'esperienza immediata, ne profila la forza e la
debolezza. La forza, perché quell'esperienza è memore di una situazione senza
dominio, che probabilmente non c'è mai stata 5.
Non dunque qualcosa che sia possibile ricordare, seppure apparte­
nente alla sfera della memoria. Ancora Adorno nel saggio sulla ingenuità
epica, contenuto in Note per la letteratura, a proposito dell'opera ultima
di G. Keller, ma in generale delle opere che rammemorano gli aspetti
«gentili» del capitalismo nascente, scrive, con la consapevolezza che se
l'individuo per come lo conosciamo è un prodotto storico, e dunque
passibile di invecchiamento ma non identificabile allo stato che lo ha
prodotto.
Soltanto tale ingenuità consente di narrare degli inizi dell'era tardocapitalistica,
gravidi di sciagure, e farli appropriare dall'anamnesi invece di limitarsi a raccon­
tarne e in forza del protocollo che conosce il tempo ancora soltanto come indice,
con ingannevole presenzialità, precipitarli nel nulla di ciò su cui nessun ricordo
riesce più a posarsi. In tale memoria di ciò che propriamente non si lascia più
ricordare [...] esprime naturalmente tanta verità, cioè proprio la fungibilità nemica
della memoria, quanta ne sarebbe di nuovo possibile soltanto a una teoria che in
maniera trasparente precisasse la perdita di esperienza in base all'esperienza della
società. In virtù dell'ingenuità epica la parola narrante, nel cui habitus nei confron­
ti del passato vive sempre un elemento di apologetica e di giustificazione della
datità in quanto degna di nota, corregge se stessa. [...] Il tentativo di emancipare
l'esposizione dalla ragione riflettente è il tentativo sempre già disperato fatto dalla
lingua, spingendo fino all'estremo la sua intenzione determinatrice, di guarire dal
negativo della sua intenzionalità, dalla manipolazione concettuale degli oggetti, e
di far venire avanti il reale in maniera pura, non disturbato dalla violenza degli
ordinamenti delle parole 6 .
Questo straordinario brano va letto attentamente, data la ricchezza
delle connessioni presenti e la modalità, sempre ellittica, delle soluzioni
proposte.
Intanto fa da sfondo la convinzione decisamente marxista di Adorno,
secondo la quale le forme prodotte da un certo grado di sviluppo della
produzione, in questo caso l'individuo borghese, potendo entrare in con­
traddizione con un successivo stadio di sviluppo, non per questo sono
materiale inerte, né inutile. Così il fatto che l'individuo borghese, centrato
1 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 113. Corsivo mio.
6 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 33-34.
166
CRITICA DEL NON VERO
ideologicamente sull'autocoscienza, sebbene di fatto non esista come tale
e non sia affatto centrato sulla coscienza, rifletta un potenziale, un ideale
forse anche, che non appartiene interamente solo allo sviluppo della bor­
ghesia, ne allunga i confini oltre l'oggettiva funzione produttiva e culturale
svolta. E dunque Adorno non è disposto a liquidarlo insieme alla critica
del soggetto trascendentale. In questo, anzi, lo scandalo, il rimosso dell'in­
dividuo, pare essere, a Adorno, assai di più la funzione riflettente e giu­
dicante, vigile per dir così, piuttosto che il meccanismo inconscio.
Questo perché di ogni forma ci si deve appropriare - volenti o no­
lenti - all'interno della determinazione storica (che poi altro non è che un
modo impreciso di dire modo di produzione ) in cui s'è evoluta. Ma non
è lineare quella determinazione, al contrario c'è opposizione tra il raccon­
to: «che conosce il tempo ancora soltanto come indice» e la forza di
«appropriazione nell'anamnesi». Così anche se il «racconto» del tempo
non è «il» tempo, non si può certo cavarsi d'impaccio con la constatazione
che l'esperienza del tempo corrisponda al racconto dell'esperienza; un
simile spicciolo d'idealismo confonderebbe una determinazione nel pen­
siero con una del pensiero, ovvero, idealisticamente appunto, identifiche­
rebbe l'oggetto mentale con l'effettività extra-mentale. La fede nell'im­
mortalità individuale, per esempio, si può ben dire che sia un potente
fattore di organizzazione dell'esperienza soggettiva del tempo, ma non
può certo soddisfare come scansione storica. La differenza tra modello e
sistema non si lascia soppiantare, insomma, da una logica che rifiutando
il sistema non trovi più motivo per distinguere il modello dalla realtà. E
per questo che Adorno può scrivere che, nonostante le similitudini enor­
mi, la logica hegeliana e il modello storico religioso non sono compatibili
(le autorità prussiane, scarse filosoficamente, ma con le orecchie aguzze, lo
dovettero aver ben compreso quando, ascoltati i primi vagiti dei «giovani»
hegeliani, richiamarono Schelling perché estirpasse da Berlino il cancro
dell'hegelismo...). Il fatto è che la totalità hegeliana ha bisogno di essere
orientata temporalmente solo in funzione negativa, perché: «a intenderla
rettamente, la scelta del punto di cominciamento, del primo, è indifferente
per la filosofia hegeliana» 7 ; e non interessa dunque al pensiero dialettico
il dover ripercorrere le stesse tappe del movimento effettivo. In questo si
potrebbe dire che la critica dialettica come teoria interpretativa, escluda
già in linea di principio, l'idea della «ricostruzione» come compito erme-
Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 42.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
1^7
neutico. Non solo, ma cade anche il significato stesso di un primato logico, ontologico, o di qual si voglia gerarchla - che sia determinato dal
«prima» e dal «dopo», e Adorno ne fornisce un esempio proprio riferen­
dosi all'individuo, e richiamando Nietzsche.
Che l'individuo, come insegnano il processo storico e la genesi psicologica, sia
un'istanza derivata; che l'individuo non possa rivendicare per sé quella invariabi­
lità di cui aveva assunto l'apparenza nelle epoche di una società individualistica,
questo fatto può stare alla base del verdetto che la storia ha emesso sull'individuo.
Ma questo giudizio non è assoluto. Come ha capito Nietzsche, ciò che è stato
originato può essere superiore alla sua origine. Critica dell'individuo non significa
sua eliminazione 8 .
L'interpretazione dialettica della storia è temporalmente ingenua per
il cominciamento, ma poiché questo le è indifferente la sua ingenuità si
capovolge. È un poco come se, dovendo rinunciare ad avere in mano o
l'una cosa o l'altra, la dialettica - in una parodia del baratto faustiano abbia appreso a far a meno dell'inizio per avere in cambio il nesso reale
del presente. Grazie a questo intendimento, il soggetto della interpretazione torna in Adorno a un suo posto, come struttura che comprenda anche
l'opposizione tra tempo come indice e tempo come anamnesi. Non è
perché il tempo storico sia soggettivo ma al contrario è perché non lo è
che abbisogna della soggettività, solo così infatti può distinguersi dall'or­
dine dei vissuti e non coincidere con questi. Solo il soggetto, nella sua
costituzione attraverso la memoria, può riconoscere la storia come sua
propria materia e insieme a sé opposta. Ma non è un soggetto trascenden­
tale. L'autonomia della struttura sociale che si maschera come autonomia
del soggetto rende imprescindibile insieme alla critica del nominalismo del
soggetto borghese anche la trascendentalità, senza sconti, come si suoi
dire, fatti in nome del principio speranza. Però la critica si deve arrestare
prima di far confusione e identificare nuovamente il concetto di soggetto
autonomo con l'eteronomia dell'individuo empirico. La destituzione del
primo non deve essere apologetica dello spossessamento del secondo.
Anche una realtà imperfetta può opporsi ad un'idea perfetta; anzi come
ben sapevano i medievali la sola esistenza di una realtà imperfetta è un
gran guaio per la quiete delle perfette idee nella mente di Dio. Avviene
così una strana inversione: la critica alle pretese dell'idea svela l'ideologia
Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 83. Corsivo mio.
168
CRITICA DEL NON VERO
che nasconde l'eteronomia effettuale, mentre la critica al concreto perde
la capacità di distinguere tra eteronomia imposta e revocabile, e eteronomia, per dir cosi, naturale, cioè legata alla condizione umana. È questa
l'inversione: l'irrazionale e il mitico stanno dalla parte del Superlo sociale;
il razionale e il riflessivo sono, per contro, individuali. La civiltà delle
merci ha mercificato il disagio della civiltà, e lo vende.
Es e Super-Io stringono l'alleanza a cui mirava già la teoria, e proprio là dove le
masse agiscono istintivamente sono preformate dalla censura e hanno la benedizio­
ne del potere. [...] La concezione freudiana dell'arcaicità, per non dire «eternità»
dell'inconscio è vera nel senso che le concrete situazioni e motivazione sociali
entrano in quella sfera solo a condizione di trasformarsi, di «ridursi». Il fatto che
l'inconscio e la coscienza non siano contemporanei è esso stesso uno stigma dello
sviluppo sociale contraddittorio. Nell'inconscio si deposita tutto ciò che nel sog­
getto non tiene il passo, ciò che deve pagare lo scotto del progresso e dell'illumi­
nismo. Ciò che è arretrato diventa «eterno» 9.
Per questo il tempo «indice» tende, come abbiamo letto, a precipi­
tare gli eventi nel: «nulla di ciò su cui nessun ricordo riesce più a posarsi».
Mentre il suo contrario, sempre contrario dialettico, s'intende, il ramme­
morare, appare - si pensi alle pagine adorniane su Proust - come un
esempio di quella tendenza illuminista a cui s'è sempre accompagnata,
insieme ad altro, la ricerca freudiana. Rammemorare ha il suo significato
esatto, cioè in costellazione non enigmatica, anche nella più schietta gno­
seologia: «quasi sempre nella eccentricità del pensiero si lascia intravedere
l'elemento centrale» 10 , e questa eccentricità, che è sempre una eccentricità
anche linguistica, non è affatto opposta alla centratura del soggetto. Anzi,
in un'epoca che spossessa il soggetto di fatto, di quasi tutte le sue funzioni,
teoreticamente la soggettività diviene eccentrica rispetto al discorso della
destrutturazione del soggetto. Spiega Adorno che:
già per la sua lingua e i suoi segni il pensiero è preordinato al singolo individuo,
e l'intenzione che questi ha di pensare «per sé» contiene anche nell'estrema op­
posizione all'universale un momento della parvenza: quel tanto del suo pensiero
che appartiene al pensatore individuale è, sia per il contenuto che per la forma,
qualcosa di fuggevole 11 .
Ibidem, pp. 52-53.
1 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., p. 16.
Ibidem, p. 67.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
1£9
Di qui - dal carattere radicalmente anti-ontologico della possibilità
della prospettiva critica, che si affida a quel che appare come il trascura­
bile della totalità sia concettuale che sociale -, da qui dunque l'indispen­
sabilità del soggetto per il reperimento dell'organo di senso dei momenti
qualitativi dell'oggetto. Ora, alla luce di quanto sopra scritto, si compren­
de meglio il dixit adorniano sulla scrittura equidistante: «[per il saggio] la
sua libertà nello scegliersi gli oggetti, la sua sovranità di fronte a tutte le
priorities di fattualità o teoria, derivano dal fatto che tutti gli oggetti sono
per esso alla stessa distanza dal centro» 12 ; e dato che il saggio è modello
dell'interpretazione critica della filosofia: «in un testo filosofico tutte le
proposizioni devono essere ugualmente distanti dal centro» 13 . Perché
quella equidistanza è eccentrica, nella ratio dominante, tanto dal soggetto
ideologico, quanto dall'oggetto quantitativo e meramente essente.
Se il soggetto ha funzione di registrare dove e come può l'eccentrico
della totalità, tuttavia la temporalità della memoria è disordinata dal fatto
che per adempiere a entrambe le sue funzioni - ricordare e fornire mate­
riali per il desiderio - è costretta a rifugiarsi nell'inconscio, a prender
forma in esso, o meglio: a prender forma per poter ri-uscire da esso. La
forma è qualcosa di simile al ritorno del rimosso, come abbiamo visto nella
Teoria estetica.
Tutte le forme della musica, e non solo quelle dell'espressionismo, sono contenuti
precipitati, in cui sopravvive ciò che sarebbe altrimenti dimenticato e che non è
più in grado di parlarci direttamente. Ciò che una volta cercava rifugio nella
forma, sussiste senza nome nella durata di questa. Le forme dell'arte registrano la
storia dell'umanità più esattamente dei documenti 14 .
Ecco dunque che anche in questa dialettica - centrale per il nostro
problema - il rapporto della coscienza alla forma è quello di memoria di
ciò che propriamente non si lascia più ricordare: qualcosa di assai simile
al sentimento di passato, il solo col quale la coscienza individuale possa
rivolgersi alla felicità.
Qualcosa della memoria si oppone all'adattamento. Dobbiamo, pur­
troppo, andarlo a cercare in un luogo semideserto: la critica adorniana alla
12 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I., cit., p. 24.
13 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 74. Identica espressione è anche in
Nofe per la letteratura, voi. I., cit., p. 25.
14 Th.W. Adorno, Filosofia delia musica moderna, cit., p. 49. Un interessante
confronto critico sarebbe possibile con le tesi espresse da F. Orlando in Per una teoria
freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1973.
170
CRITICA DEL NON VERO
così detta «psicoanalisi revisionista». A metà di quel saggio, a proposito
della necessità all'adattamento - spina nel fianco della psicoanalisi critica
- scrive il Nostro: «con la simpatia della Horney per l'adattamento è
strettamente connessa la sua riluttanza a familiarizzare troppo col passa­
to» 15 . Non solo nel senso che l'ottimismo impone di non girarsi indietro
a scanso del rischio di vedere che non tutto poi funziona così bene come
dovrebbe; ma anche - l'abbiamo già visto - perché dal passato emergono
in forma vaga le immagini d'una felicità ricordata che fanno risaltare
l'infelicità presente, perché da quel «ricordare ciò che propriamente non
si lascia più ricordare» si forma l'esperienza d'una razionalità diversa
dall'adattamento alla sottomissione/introiezione della natura. La «intatta
capacità di godere», scrive Adorno, è simile a qualcosa che la psicoanalisi
indicherebbe sotto il nome di complesso edipico. Una fedeltà testarda ad
un elemento a rigore - cioè: al rigore della ratto dominante - inesistente,
giustamente viene definito come atteggiamento nevrotico. Ma gli è che le
nevrosi sono formazioni di compromesso non un mero sintomo d'errore; e
non si lasciano tagliare via come il marcio dal sano, al contrario: esse
vanno interpretate e, sciolto il loro aspetto enigmatico, riconsegnate alla
storia dell'individuo. Proprio contro l'idea che questi debba «farsene una
ragione» e adattarsi al «dato di fatto» della società, si appunta la opposi­
zione adorniana alla psicoanalisi freudiana e alle sue «varianti» statuniten­
si. Spezzare il nesso tra ricordo e critica, gli apparve mutilazione della
facoltà di giudizio - della ragion riflettente -, cioè, in una qualche misura,
coincidendo l'atto del giudizio con quello del pensiero e dell'interpretazione, mutilazione del pensiero.
Il «meglio» non è a disposizione, ma al contrario da strappare con
forza al reale sotto forma di negazione della sua inumanità. La possibilità
diretta di accedere al vero, al buono e al bello è una extrema ratio ma
destinata al fallimento perché si vuole gettata oltre il problema, senza
scioglierlo'nella prassi. Così Adorno può scrivere, ad esempio, che data la
situazione della ragione non è l'eccesso di divieti che paralizza, bensì l'ap­
parenza di essi sopra il dominio:
con la famiglia - perdurando il sistema - è scomparso non solo l'organo più
efficiente della borghesia, ma la resistenza che, se opprimeva l'individuo, d'altro
canto lo rafforzava, o addirittura lo produceva. La fine della famiglia paralizza le
Th.W. Adorno, Scritti sociologici, cit., p. 27.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\~] \
controforze. L'ordine collettivistico nascente è una tragica parodia di quello senza
classi: e col borghese liquida l'utopia che si nutriva dell'amore della madre 16 .
Oppressione e produzione non sono qui presenti solo per tener fede
a un istinto dialettico. Senza la partecipazione del motore individuale del
desiderio, non c'è neppure il movente per l'interpretazione critica. Il fatto
che pensare sia interpretare non significa che non si possa essere ridotti a
non pensare. Siamo a un punto critico: la partecipazione dell'individuo al
processo interpretativo è la chiave di spiegazione del rapporto tra memo­
ria e ricordo. Cos'è infatti la memoria di ciò che non si lascia ricordare se
non un'interpretazione, una metaforica ricostruzione a partire dalle trac­
ce? quelle che Adorno, trent'anni prima, chiamava «tracce dell'oscuro
intreccio dell'essente», e che dovevano fornire il materiale alla esatta fan­
tasia, organo della ars inveniendil? E che significa scoperta di qualcosa che
non è mai esistito? che cosa se non produzione di una immagine? di una
immagine a cui si fa divieto di presentarsi in carne e ossa, e il perché
ancora non lo sappiamo? Che la differenza tra scoperta e invenzione di
una immagine stia nel processo di messa in forma del contenuto? e che
quindi sia una parte del processo del linguaggio attraverso il quale deve
poter essere data la sua utopia?
Attraverso lo shock provocato dalle parole straniere, scrive Adorno,
si ha l'ultimo tentativo di raggiungere gli uomini attraverso il linguaggio:
in tal modo le parole straniere potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del
linguaggio, di un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che stori­
camente esiste, che vive inconsapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come
teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore 17 .
Questa è dunque l'utopia del linguaggio secondo il Nostro: che esso
riesca a dire senza signoria sulle e senza signoria dalle cose esistenti. Come
la memoria, anch'esso si riferisce a una dimensione che, se non addirittura
inesistente, è per lo meno vivente «inconsapevolmente».
Adorno ci porta un esempio di «rammemoratore perfetto», che può
servire da guida per procedere. Scrive: «... la potenza di Bach è la potenza
di questa evocazione. Egli non fu un arcaico maestro artigiano, ma un
16 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 13.
17 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 211.
172
CRITICA DEL NON VERO
genio del saper ricordare» 18, e intende che si tratta di ricordare il posto
dell'uomo nell'assoluto, fino a che, e solo fino a che, precisa con cura
Adorno, l'assoluto non è presente come esperienza corporea. E quindi la
forma artistica bachiana sarebbe una sorta di promemoria, una metonimia
dell'arte e dell'uomo come funtori, segni, del rapporto con l'assoluto.
Assoluto che nei termini della religiosità bachiana, significa felicità.
Il fatto che l'uomo abbia la possibilità di fungere da segno della
felicità attraverso la memoria non è tuttavia esclusivo dell'opera di Bach.
Leggiamo, a esempio, un luogo della Teoria estetica. A proposito della
differenza tra bello naturale e bello artistico del paesaggio si dice che:
«senza una memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza» 19 e si prose­
gue con la già citata definizione dell'arte come memoria di una felicità mai
esistita. Il problema che ci si presenta è questo: quale può essere l'organo
per la memoria del non esistito e non ricordabile?
Adorno, ma come lui anche Benjamin e Bloch, spesso esprime il gesto
della comprensione attraverso una proposizione ipotetica, attraverso il
«come... se...». Si tratta di una secolarizzazione di una tradizione religiosa.
Il racconto o la parabola perdono il valore simbolico 20, attraverso la seco­
larizzazione della dimensione trascendente. Il racconto propone non la
condizione della redenzione ma bensì la descrizione della differenza tra
redenzione e non redento. Si potrebbe scrivere, per gioco, che si tratti di
una «delusione», nel senso etimologico stretto della parola: chi parla è
costretto nella litote dove solo esasperando il negativo si approccia la
verità. Ma se nel procedimento classico della litote il negato non esiste ed
è il falso, mentre l'affermato esiste ed è il vero, nella parodica della seco­
larizzazione della teologia il negato esiste ma è ancora il falso, e nulla è
affermato, e questo è il lato del vero 21 .
Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa
di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un
fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera,
18 Th.W. Adorno, Prismi, eh., p. 133.
19 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 110.
20 Cfr. W. Benjamin, // dramma barocco tedesco, op. cit., e Lettere 1913-40, Einaudi, Torino 1978; E. Bloch, Tracce, op. cit., pp. 9-10, 14, 23-24 et passim. Per quanto
concerne Adorno basti ricordare l'ultimo aforisma dei Minima moralia: «La filosofìa
[...] è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista
della redenzione».
21 Cfr. Walter Benjamin, Tesi sulla storia, in Angelus novus, op. cit.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
173
poggiata su un'ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l'illusione che questa
tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c'era accoccolato un nano gob­
bo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano
del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella
filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato «materialismo storico». Esso
può farcela senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi,
com'è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno 22 .
Attraverso questa costrizione, l'uscita dalla riflessione, dall'interpretazione, non può che essere una de-lusione: una cessazione del gioco. Per
restare all'allegoria benjaminiana, il giocatore di scacchi nascosto nell'au­
toma dovrà, alla fine, deludere gli spettatori e, cessando di giocare, farsi
vedere finalmente come artefice delle vittorie ottenute dal materialismo
storico attraverso la teologia. Anche in questo progetto il fulcro è costitu­
ito da una dimensione temporale del ricordo. È evidente che nessuno
possiede memoria dell'aspetto del mondo «sotto la luce della redenzione»,
né un'anamnesi platonica dei puri concetti dell'essere. L'uso dell'utopia
teologica, piuttosto, ha a che vedere con la battaglia contro il relativismo
interpretativo da un lato, e contro il naturalismo dall'altro. La prospettiva
teologica consegna all'immagine e somiglianzà il diritto/dovere di rispon­
dere in prima persona, come se il soggetto fosse, in quel momento, Dio.
Proprio perché egli è il portatore del divino - come ci rivelarono le scrit­
ture - in esso il divino ha la sua sede umana.
Il rapporto tra Dio e gli uomini, se questi siano «necessari» alla sua
infinità, oppure se Dio avesse potuto anche regnare su un universo senza
uomo, è un tema spettacolare, e che qui purtroppo dobbiamo tralasciare,
della filosofia medioevale, soprattutto intorno al volgere del secondo seco­
lo del primo millennio. Quel che possiamo prendere a prestito, per meta­
fora, è l'idea che l'uomo come organo di senso per il male e per il bene
è indispensabile al processo di perfezionamento del creato (idea questa, a
dir il vero, che risale più indietro, almeno a Boezio). Così allo stesso
modo, l'interpretazione, per Adorno, giacché è legata strettamente al
«come... se...» della redenzione, e poiché questo «come... se...» è avverti­
bile solo dal soggetto, in quanto essere in stato di bisogno che utilizza i
suoi materiali di esperienza e di fantasia per dar forma a dei desideri,
allora benché dell'interpretazione non decida affatto il soggetto, essa può
avvenire solo per suo tramite. Il soggetto empirico esistente è l'unico
22 Ibidem, p. 75.
174
CRITICA DEL NON VERO
portatore delle differenze tra essere e dover essere, nelle quali ha luogo,
secondo Adorno, l'interpretazione.
In un aforisma dei Minima moralia Adorno ripercorre attraverso Jean
Paul e Marcel Proust, la dialettica del ricordo 23 . In esso l'intreccio tra
ricordo e presente, memoria e storia, è mostrato con cenni, purtroppo
brevi ma sufficienti tuttavia a formulare questa osservazione: se il ricordo
è la facoltà individuale di connettere passato e presente - quindi, in un
qualche modo, come già visto, anche la facoltà del desiderio - e la memo­
ria invece il rapporto storico, generale o almeno sopraindividuale, tra
«allora» e «ora», l'individuo e il ricordo sono il teatro nel quale può aver
luogo la rappresentazione di una diversa disposizione della costellazione,
diversa disposizione attraverso la quale il carattere enigmatico del mondo
scompaia, e riluca la traccia del diverso. Che tutto questo avvenga attra­
verso una colossale metafora teologica - il «come... se...» dove si finge che
quel che avviene nell'individuale ricordo riguardi la generale memoria spiega oltre alla proibizione di farsi immagini, che queste subito smonte­
rebbero il carattere del «come... se...» per passare al simbolico, anche la
necessità dell'interpretazipne. Suo modello sarà, per Adorno, l'esecuzione.
Ovvero quella particolare messa in forma dove l'esecutore deve rispondere
sia alle condizioni d'essere della partitura che alla necessità del dover
essere l'esecuzione esecuzione perfetta, compiutamente esprimente la ve­
rità dell'opera. L'esecutore - che non a caso si chiama anche interprete è costretto, insomma, tra essere e dover essere, ontologia ed etica; e se dal
lato della prima sta senz'altro la cosa in sé, dall'altro l'esperienza dell'ese­
cutore non si separa dal suo lavoro, riconnettendolo alla storia.
Non è solo per un gioco etimologico che l'esecutore è interprete.
Adorno ha in mente, senza dubbio, l'esecutore musicale il quale deve
possedere - così si esprime letteralmente il critico francofortense - il ricor­
do anticipatore, deve ricordare tutta la partitura per anticipare il suo senso
in ogni nota che suona. La possibilità della musica sta tutta qui: c'è, ma
attende di essere suonata; senza di che nessun Dio la può salvare.
ONTOLOGIA E DEONTOLOGIA: L'UNITÀ DI LOGICA E ETICA
«II criterio di oggettività - scrive Adorno ne // saggio come forma non è la verifica delle tesi enunciate tramite un esame iterativo, ma è
23 Si tratta del n. 106 «Tutti i fiorellini» alle pp. 195-97 della già citata edizione.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Yì")
l'esperienza individuale compresa tra speranza e delusione. Nel ricordo,
essa da rilievo alle proprie osservazioni, confermandole o confutandole» 24 .
E stata Susan Buck-Morss, nel citato libro su Adorno e Benjamin (e si
direbbe sulla scorta di suggerimenti da parte di M. Jay, come è chiarito
nella prefazione al testo) a indicare nell'esperienza personale di Adorno
come musicista e di Benjamin come traduttore il possibile nucleo del
comune progetto ermeneutico dei due, elaborato nel corso dell'inverno
trascorso insieme 25 . Nella prassi traduttiva - sia musicale che linguistica i due trovavano il modello di una interpretazione che non lasciasse immu­
tato l'interpretato, ma che anzi lo trasformasse interamente. Per quanto
riguarda Adorno troviamo che l'esecuzione è per lui un problema stretta­
mente ermeneutico: «eseguire correttamente un dramma o un brano
musicale significa formularlo correttamente come problema, in modo tale
che vengano riconosciute le esigenze inconciliabili che esso pone all'inter­
prete» 26. Non solo, ma questo atteggiamento vale anche per l'interpretazione di testi filosofici, come si vede più volte nei capitoli di Dialettica
negativa dedicati all'ontologia heideggeriana, dove a ogni passo ci si chie­
de se il pensiero di Heidegger fornisca soddisfazione alle domande che
esso stesso si pone.
Formulare qualcosa come problema non significa altro che rintraccia­
re il bisogno che in esso è contenuto: «come cerco di fare in tutte queste
considerazioni, anche in questo caso bisogna anzitutto cercare di determi­
nare il bisogno o la verità che vi sono impliciti» 27 . Di modo che, visto che
i bisogni sono comunque avvertiti individualmente, problema e bisogno,
domanda e bisogno, sono determinazioni dialettiche, che arrivano alla
contraddizione attraverso l'individuo. Ma il passaggio dalla «cosa» al bi­
sogno è una traduzione. Allo stesso modo in cui eseguire un brano mu­
sicale presentandolo come problema, significa tradurre qualcosa che si
presenta sotto forma di risposta, in un materiale che appaia invece come
problema. Traduzione molto più problematica, per altro, è quella dal
bisogno al desiderio. Sappiamo che individualmente essa avviene sulla
scorta di ricordi che non hanno diretto rapporto con «ciò che è realmente
accaduto». Ma sappiamo anche che i bisogni, commistione di falso e di
24 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, op. cit., p. 11.
25 Cfr. S. Buck-Morss, The origin of negative dialecttcs, op. cit.
26 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 312. Ma cfr. anche l'esempio contenuto
in Dissonanze, cit., p. 191.
27 Th.W. Adorno, Terminologia filoso/tea, voi. I, cit., p. 150.
176
CRITICA DEL NON VERO
vero, confinano da un lato con la struttura antropologico-somatica dell'uo­
mo e dall'altra con la dialettica dell'identità che è costellazione sociale per
eccellenza. Come dire che i bisogni da tradurre sono o ciechi come talpe
o del tutto «inaffidabili», per dir così, index veri et falsi. Il pensiero senza
bisogno è, secondo Adorno, vuoto. Ma il bisogno assurto ad assoluto è
cieco: «vero sarebbe il pensiero che desidera il giusto». Oltre al motore,
insomma, sono necessari anche apparati di guida. Meglio: di traduzione.
Ma che cos'è un desiderio che deve essere'?
Molti critici hanno riconosciuto nel pensiero di Adorno un rifiuto alla
distinzione in linea di principio tra essere e dover essere. A partire dalla
ricostruzione delle connessioni tra critica della società e critica gnoseologica 28, fino ai rapporti con il postmoderno e alla dialettica tra essere e
desiderio, tra ontologia e deontologia 29. Lo stesso Adorno è stato genero­
so nell'indicare la sua filosofia come: «ontologia dello stato falso» (in
Dialettica negativa), «filosofia del non vero» (Minima moralia) e infine a
concludere che: «la filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto
della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si pre­
senterebbero dal punto di vista della redenzione» 30 , dove è evidente come
la necessità di «giustificarsi» della filosofia di fronte alla «disperazione»
stabilisce un legame tra etica e gnoseologia (se così si vuoi considerare la
filosofia) o logica (per restare sul più hegeliano dei modi di esprimersi),
saldo e ultimo. E in effetti la cosa non dovrebbe destare troppo scalpore.
La separazione di filosofia e etica è storicamente prodotta e databile, sep­
pure avvenuta su una serie di direttrici e non su una singola. Accettarla
come definitiva è un processo di accecamento a cui un pensiero accorto
sulle determinazioni alle quali è sottoposta la «lettura» della struttura della
filosofia stessa, non dovrebbe inchinarsi.
Ma preso atto di questo, è assai più difficile mostrare nell'individuo,
nella dialettica tra ricordo e memoria, nella sua presa di partito per la
28 Cfr. M. Barzaghi, Dialettica e materialismo in Adorno, op. cit.; AA.VV. [Tiedemann e Schmidt], Adorno-Konferenz 1983, op. cit.
Per una critica «da sinistra» si vedano i voli, collettanei: Die neue Link nach
Adorno, hrsg. von F. Schòller, Kinder Verlag, Miinchen 1969, e Hamburger AdornoSymphosion, hrsg. von M. Lobig und G. Schweppenhauser, Dietrich zu Kamplen Ver­
lag, Lùneburg 1984.
29 J.P. Ladmiral, Adorno cantra Heidegger, in «Revue d'Esthétique», n. 1-2, 1975.
In questo saggio l'autore mostra come il lato deontologico abbia un «primato» rispetto
all'ontologia, primato tautologico in un certo senso, poiché secondo Ladmiral nelle
categorie del pensiero adorniano è l'etica a stabilire dei «primati» ontologici.
30 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\~]~]
propria felicità, un punto a partire dal quale possa svilupparsi e muoversi
l'oggettività dell'interpretazione, come scrisse Adorno «esperienza indivi­
duale compresa tra speranza e delusione» 31 . Nel saggio Die Aktualitàt der
Philosophie trovammo che la «esatta fantasia» doveva essere l'organo di
senso di una ars inveniendi, il cui scopo era quello di variare i rapporti di
forza della costellazione del reale affinchè il carattere di enigma scompa­
risse per lasciar posto a una nuova costellazione. E se l'esatta fantasia era
l'organo di senso, il materiale era dato dalle immagini dell'essente a partire
dalle quale la fantasia andava ricostruendo le disposizioni possibili della
costellazione. Ora, anche il ricordo individuale ci è apparso come organo
di senso della costruzione di immagini attraverso le quali la memoria
potesse trovare una nuova disposizione di fronte alla quale il reale deve
rendere ragione. E anche l'esecuzione, o la traduzione, abbiamo visto,
sono figure di scioglimento dell'enigmatico come trasformazione dell'enig­
matico in desiderio, in formulazione di problema.
Il fatto è che Adorno concepisce - ma sarebbe meglio dire: «usa»,
senza fornirne una dichiarazione esplicita - uno stesso modello tanto nel
saggio degli anni Trenta, a proposito della filosofia come interpretazione,
tanto per quel che riguarda l'esecuzione/interpretazione dell'arte, tanto
infine per quel che spetta alla filosofia come dialettica di desiderio/rispo­
sta. In ognuno di questi casi, l'individuo assicura la possibilità che si svol­
ga la dialettica delle contraddizioni, delle tensioni portate in atto dagli
elementi materiali, e che da esse fuoriesca l'interpretazione. Vediamo
dunque alcune citazioni dai testi per suffragare questa lettura.
In Metacritica della gnoseologia scrive Adorno:
le cosiddette trovate improvvise non sono né cosi irrazionali né cosi rapsodiche
come attribuisce loro lo scientismo [...] in esse esplode il sapere inconscio, non del
tutto soggetto ai meccanismi di controllo. [...] Poiché non hanno parte alcuna al
lavoro manipolativo della coscienza pilotata dall'Io, ma invece si ricordano in
maniera passivo-spontanea di quegli elementi che irritano il pensiero ordinatore,
queste trovate improvvise sono in effetti «estranee all'Io» - Ichfremd, segnala il
traduttore - [...] Nelle intuizioni la ratio cerca di rammentare quanto ha dimenti-
31 Vale la pena di notare come questo sia il punto dolente di ogni interpretazione
di Adorno come precursore del postmoderno. Si vedano i paradigmatici: Santambrogio, Pensiero negativo e progettualità sociale nel pensiero di Th.W. Adorno, in «Rassegna
italiana di sociologia», 1986; A. Wellmer, Dialettica moderno-postmoderno. La critica
della ragione dopo Adorno, Unicopli, Milano 1987.
178
CRITICA DEL NON VERO
cato. [...] Nel ricordo involontario il pensiero arbitrario tenta, benché invano, di
porre rimedio ad una parte di ciò che tuttavia deve perpetrare 32 .
Qualcosa di simile aveva ricordato Adorno anche nella teoria estetica
dove il contenuto delle opere d'arte vien detto discendere sempre dall'«immaginario come processo latente collettivo» 33 , e anche nel saggio
Skoteinos, ovvero come si debba leggere si era incontrato un simile atteg­
giamento, nel richiamare la funzione insostituibile, nella interpretazione di
Hegel e dei testi in genere, della rammemorazione, ovvero, come scritto
nella Terminologia filosofica del pensare ovunque una propria esperienza
concreta sotto ogni concetto che si incontra nella lettura; negli studi su la
filosofia hegeliana scrive Adorno che:
il tempo è articolabile solo attraverso le distinzioni del noto e non ancora noto, di
ciò che è stato e del nuovo; il procedere ha a condizione una coscienza che scorre
all'indietro. Si ^eve conoscere per intero una frase, certificarsi retrospettivamente
di quanto è preceduto. I singoli passaggi sono da ritenersi conseguenza di questo;
occorre realizzare il senso della memorazione declinante, sentire ciò che riappare
non come corrispondenza architettonica bensì come un divenuto che si impone
per forza propria 34 .
Così il «semplice» consiglio a non sorvolare sui concetti oscuri (riba­
dito sia negli studi su Hegel che nelle lezioni di terminologia filosofica)
appare qui invece, forte dell'excursus che abbiamo compiuto su memoria
e desiderio, come l'autentica soluzione dialettica tra tutto e parti, dove la
parte è la funzione dell'articolazione del tutto, e dove l'interpretazione si
affida alla diatriba incolmabile tra la memoria dell'intero e il senso/ricordo
del singolo frammento.
Ancora una citazione, per concludere, sulla unità. Nei Minima moraUà, «dottrina della retta vita» come è precisato nell'introduzione, Adorno
scrive che: «l'intelligenza è una categoria morale. La separazione di intel­
letto e sentimento [...] assolutizza la suddivisione dell'uomo in funzioni,
suddivisione che, viceversa, si è determinata storicamente» 35 . E dopo aver
chiarito come non si tratti affatto di rinverdire la posizione romantica
dell'unità dei due, conclude che: «il compito della filosofia sarebbe piut-
32 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., pp. 54-55. Corsivo mio.
33 Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 145-46.
34 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 188. Corsivo mio.
35 Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 237.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
179
tosto quello di cercare - nell'opposizione di sentimento e intelletto - la
loro unità: che è appunto unità morale»^.
Tale unità che si prospetta è quella che può essere realizzata dall'interpretazione. È essa a ricollocare nell'opposizione tra «sentimento» e
«intelletto» il compito interpretativo attribuito, senza dubbi, da Adorno
alla filosofia. Il «ricavare prospettive» in cui «le cose appaiano dissestate»,
dell'ultimo aforisma dei Minima moralia, è una prassi interpretativa, un
nuovo punto di vista, a partire dal quale l'enigma della solidità si sciolga
nella sembianza del dissesto. Ma è evidente che «dissesto» - come del
resto molte altre categorie che Adorno applica al campo teoretico 37 - sia
una categoria morale prima e più che gnoseologica. Quando Adorno scri­
ve che il tutto, inteso come società, è reale ma falso, intende proprio
riagganciare giudizio teoretico e posizione etica. Riannodare la scissione
operata dall'utopia illuminista di una perfetta separazione tra dati di fatto,
scienza esatta, e ineffabile sentire, intuitivi sentimenti. È questa la separa­
zione che la critica smentisce come natura e accetta come dato, ma nella
distinzione tra natura e dato. E questa, ancora, la motivazione, del «gesto
impossibile» della filosofia: quello del barone di Mùnchhausen del solle­
varsi da sé per il codino. O l'alternativa, come leggemmo, tra crescere
come tutti gli altri e restare bambino. O ancora, infine, l'utopia del lin­
guaggio: che sempre deve fare nomi nel tentativo, disperato, di afferrare
le cose. Come s'è già visto:
in tal modo le parole straniere potrebbero conservare qualcosa di quell'utopia del
linguaggio, di un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che stori­
camente esiste, che vive inconsapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come
teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore 58.
È il caso di ricordare come «teschio» fosse, proprio nel saggio Die
Aktualitàt der Philosophie dal quale prendemmo l'avvio, simbolo dell'alle­
gorico banjaminiano. In quel luogo Adorno commentava Benjamin richie­
dendo che dall'allegoria derivasse la dialettica della storia naturale, ovvero
la capacità di leggere nella «Natura» lo storico e nello «Storico» il natu­
rale. E quello un problema che concerne la genesi del desiderio, e che ci
riporta alla categoria di esperienza che: «sarebbe l'unità di tradizione e di
Ibidem. Corsivo mio..
Si pensi, ad esempio, all'uso adorniano dell'aggettivo «falsox
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 211.
180
CRITICA DEL NON VERO
manifesto desiderium dell'estraneo. Ma la sua stessa possibilità è messa in
pericolo» 39. Tradizione e ragione hanno la loro unità, qui, come compito
della filosofia, unità che è nell'esperienza come dialettica di tradizione e
desiderio, la stessa del rapporto tra filosofia ed esperienza: «la filosofia si
inspessisce a esperienza affinchè le si dischiuda la speranza» 40, sebbene
tuttavia: «l'esperienza soggettiva è solo il guscio di quella filosofica, la
quale matura al di sotto di essa e poi lo getta via» 41 . Ancora una volta
siamo di fronte a una opposizione simmetrica che bisogna smontare per
poter leggere. Come è possibile che la filosofia debba inspessirsi a espe­
rienza, cioè prender materie e forze dalla dialettica del desiderio che ab­
biamo appena trattato, e nel contempo maturare entro questa e quindi
gettarla via come un guscio?
Nel passaggio tra bisogni, memoria e desideri, attraverso il ricordo e
la produzione di immagini, avviene una traduzione, e questa traduzione è
condizione di non cecità del pensiero, che però abbisogna del vero, giac­
ché giusto è quel pensiero che desidera il vero. Ora è evidente che criterio
di questa traduzione non può essere il rispecchiamento; non ha nessun
senso parlare di rispecchiamento di un dato nella traduzione tra materiale
del pensiero/ricordo e desiderio, e men che meno nel passaggio al pensie­
ro. Se la critica dialettica ha un cominciamento e non un primo - uguale
in questo alla paratassi - la risoluzione di questa a-centralità è in effetti
contenuta proprio in quella unità di etica e logica che la filosofia si trova
a dover realizzare e che è espressa dall'idea che delle interpretazioni non
sia verifica la corroborazione ma: «l'esperienza individuale compresa tra
speranza e delusione» che: «nel ricordo [...] da rilievo alle proprie osser­
vazioni, confermandole o confutandole» 42 , leggendo «con fantasia inge­
gnosa e esatta», dove giudizio e comprensione non sono separati e la
massima guida è quella «contraddittoria» di essere a ogni momento dentro
e fuori del testo, giacché leggerlo significa dischiudere la verità poiché:
«propriamente si lascia comprendere filosoficamente solo ciò che è vero».
Il fatto che guida dell'interpretazione sia il suo movimento stesso e
non un principio esterno né uno interno al solo testo, è chiaro; ma in che
i9 Ibidem, p. 65.
40 Th.W. Adorno, Prismi, cit., p. 247. Non è senza interesse osservare che questo
costrutto è riferito all'opera di Benjamin...
41 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 190.
42 Th.W. Adorno, Noie per la letteratura, voi. I, cit., p. 11.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Jgl
modo il movimento interpretativo, attraverso il soggetto, costituisce l'interpretazione?
LA CONTRADDIZIONE COME CHIAVE ERMENEUTICA
Se davvero l'oggetto della felicità fosse del tutto indifferente, se esso
fosse astrattamente sostituibile, se nel desiderio non fosse rimarcata l'idea
di una mancanza che si sarebbe dovuta evitare - e che in un qualche
tempo sperso nella memoria fu, nella rappresentazione che ne abbiamo,
colmata dall'amore - allora il soddisfacimento totale metonimico, acce­
dendo al sistema delle merci, rappresenterebbe qualcosa di simile alla
«fine della storia». Il carattere di feticcio, le sue evoluzioni nell'industria
culturale, renderebbero impraticabile non solo il pensiero critico ma, in
generale, qualsiasi forma di pensiero. Ma le forze in gioco non appaiono,
alla riflessione, che nella forma in cui giungono alla rappresentazione:
incomprensibili, fantasie, immagini, mostri. Però la loro apparizione è un
fenomeno storico, vale a dire che tramite la forma della loro apparizione
dicono molto sulle contraddizioni a partire dai quali sono state generate.
Abbiamo veduto come la funzione del soggetto empirico, del mille­
nario «individuo», partecipi al processo interpretativo-formativo, sebbene
non ne sia né il centro né il giudice. Ma la dimensione entro la quale
questo può avvenire, è quella dell'esperienza del dolore. Scrive il Nostro:
il riferimento all'esperienza - cui il saggio conferisce tanta sostanza quanta la teoria
tradizionale ne conferisce alle mere categorie - è riferimento a tutta la storia; la
semplice esperienza individuale, la più vicina e quindi quella con cui inizia la
coscienza, è anch'essa mediata dall'esperienza omnicomprensiva dell'umanità sto­
rica; ed è pura illusione della società e dell'ideologia individualistica ritenere che
l'esperienza dell'umanità storica sia mediata e l'immediato sta invece ciò che è
specifico per ciascuno 4 '.
È stato F. Carmagnola, nel testo già citato 44 , a indicare la posizione
di Adorno come «realismo critico»; non nel senso preciso che questo
termine ha nella storia della filosofia, ma più ristrettamente nel significato
per cui verso l'ideologia ogni realismo è necessariamente critico. Se l'ope-
Ibidem, p. 14.
F. Carmagnola, La conoscenza degli estremi, op. cit.
182
CRITICA DEL NON VERO
razione di quella è di far figurare come «natura» delle astrazioni (prima
fra tutte, ovviamente, quella dello scambio tra forza lavoro e salario) allo­
ra la riconduzione realistica dei rapporti funziona da smascheramento
dell'ideologico. Ma, ed è questo il punto, anche la teoria del realismo è
una teoria. La realtà non si lascia mai afferrare come fatto bruto. Il fatto
bruto è non meno mediato della teoria. Il ricorso adorniano all'esperienza
rischia allora di scivolare, per voler controbilanciare l'oggettivismo, in una
troppo accentuata soggettività. E certamente i suoi critici non si lascereb­
bero soddisfare dalla dialettica di soggetto/oggetto. La risposta forte di
Adorno, si trova invece là dove non ci si aspetterebbe di trovarla: se
l'esperienza del soggetto è tanto cruciale è perché essa non è del soggetto.
Nella categoria di intentio obliqua della intentio obliqua è contenuta que­
sta forma: tanto meno il soggetto è padrone della sua esperienza, tanto
più nelle forme soggettive si annida la chiave di volta delle strutture ge­
nerali.
Il richiamo di Adorno all'esperienza non è così possibile confonderlo
con un richiamo esistenzialista. Anzi, proprio perché il soggetto non c'è
quasi, in esso c'è l'altro da esso: soprattutto le strutture della sua produ­
zione e mantenimento. La decifrazione dell'individualità, delle sue espe­
rienze, è per questo vicina alla decifrazione delle parole di una lingua
straniera. Dalla sua riuscita ci si aspetta non tanto la comprensione della
parola - che è anzi il punto di partenza - rna la comprensione della lingua.
In questo, la separatezza di principio tra semantica e sintassi è, se non
revocata, messa in questione, e non solo per l'estraneità, specificamente
adorniana, alla linguistica contemporanea. L'idea che gli elementi ultimi
del significato siano le parole, o la reciproca dimensione che queste isti­
tuiscono tra di loro, è da sottoporre al vaglio della sua propria ideologia
di riferimento, come ogni altra posizione teoretica. Poiché: «non esiste
nulla che non sia mediato», ogni rappresentazione di mediazione è passi­
bile di essere variata ad opera della esatta fantasia. L'arte combinatoria,
che Adorno identificò con la filosofia interpretativa, non è solo l'atteggia­
mento del pensiero di fronte al falso, ma è soprattutto quello del pensiero
di fronte a se stesso. Dove esso dovrebbe sciogliere l'enigma delle sue
proprie figure. Così è l'insieme intero della lingua a cui viene assegnato,
dal pensiero, un valore. Valore che è uno degli elementi della costellazione
del pensiero, non un semplice medium. L'idea del puro medium è assente
da Adorno: «il rapporto della filosofia con i concetti non consiste in primo
luogo nel fatto che essa stabilisca e definisca questi concetti, ma nel fatto
che essa cerca sempre di rendere ragione di ciò che i concetti dicono
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Jg3
obiettivamente» 45 , e ciò che essi devono obbiettivamente dire è la cosa,
della quale parte qualitativa non eliminabile è, come leggemmo, l'esperien­
za soggettiva. La lotta contro l'assolutismo concettuale e quella per l'au­
tonomia - che è lotta morale - del soggetto, si incontrano.
Nella decifrazione si tratta allora di recuperare, attraverso i momenti
soggettivi che mostrano la loro radicale non autonomia, i momenti auto­
nomi tanto del soggetto quanto dell'oggetto. E questo dovrebbe essere
reso possibile per il fatto che il non identico del soggetto è fornito dal
medesimo apparecchio che vorrebbe far scomparire il non identico del
concetto: il concetto. Così:
la dialettica acquista un lato ultrarealistico. [...] Raccogliere e potenziare materia­
listicamente il concetto hegeliano di esperienza è dunque il programma di Adorno
dove [...] l'essenza del logico è non logica, mentre il logico assoluto (Husserl,
Hegel) si basa sulla premessa di un «a priori formale assolutamente libero dai fatti
reali». [...] La Logik der Zerfalls ha insomma una base tradizionale 46 ;
che è quella che riconosce l'elemento idealistico in ogni pensiero che non
introduca in se stesso la propria differenza specifica come antidoto. Cosa
che Adorno ha cercato di fare proprio nella Dialettica negativa, luogo
deputato della Logik der Zerfalls. La conclusione, per quel che ci interessa,
è esemplare:
se la dialettica è differenza, quest'ultima smette di essere l'impensabile, e sta tutta
entro il concetto. [...] La differenza che trova posto nella dialettica è un memento
mori per la dialettica stessa: se essa è «ontologia dello stato falso», vive ed esiste
finché la realtà è falsa essa stessa 4 '.
Quello che stiamo cercando è un modello di autoriflessione del pen­
siero dove il momento da superare è la coazione all'identità. Poiché tutto
è mediato, di ogni cosa, appunto, si può domandare ragione, di ogni
elemento si può provare a variare la costellazione. E in questa variazione
che viene proposto il dolore come organo di senso per la differenza, ov­
vero per il non identico. E quindi come organo di senso per il processo
interpretativo.
Th.W. Adorno, Terminologia filsofica, voi. I, cit., p. 177.
F. Carmagnola, Conoscenza degli estremi, cit., pp. 126-27.
Ibidem.
184
CRITICA DEL NON VERO
In quanto il pensiero si sprofonda in quel che dapprima gli sta di fronte, il con­
cetto, diventando consapevole del suo carattere immanentemente antinomico, se­
gue l'idea di qualcosa che sarebbe al di là della contraddizione. Il contrasto tra il
pensiero e l'eterogeneo rispetto ad esso si riproduce nel pensiero stesso come una
sua contraddizione immanente. La critica reciproca di universale e particolare, atti
d'identificazione, che giudicano se il concetto è adeguato al suo contenuto o se il
particolare coincide anche con il suo concetto, sono il mezzo per pensare la non
identità di particolare e concetto: e non solo quello del pensiero. Se l'umanità deve
liberarsi dalla coazione che realmente subisce sotto forma di identificazione, deve
anche conseguire l'identità con il proprio concetto. A ciò partecipano tutte le
categorie rilevanti. Il principio di scambio, la riduzione del lavoro umano al con­
cetto universale astratto del tempo di lavoro medio, è imparentato strettamente
con il principio di identificazione. Il suo modello sociale è lo scambio e non
sarebbe senza di esso; tramite lo scambio entità singole e prestazioni non identiche
diventano commensurabili, identiche. La diffusione del principio trasforma tutto
il mondo in identico, in totalità 48 . '
Essa è l'identità irrazionale: «se a nessun uomo fosse più sottratta una
parte del suo lavoro vivente, sarebbe raggiunta una identità razionale e la
società avrebbe superato il pensiero identificante» 49 .
Come dire, in un altro modo, che l'utopia di un linguaggio dove ogni
cosa corrisponda al suo segno, dove tra i parlanti sia istituita una perfetta
comprensione, di fatto esiste: essa è la struttura sociale di produzione.
Solo che esiste in una forma rovesciata. Così il «centro» attorno a cui
stiamo indagando - il soggetto dell'organo di senso della differenza - è
esso stesso un centro distorto, equilibrio di una struttura percepita dall'in­
dividuo come perennemente sull'orlo di una catastrofe. Dunque ciò di cui
andiamo in cerca deve mostrare come siano possibili distorsione e identità
allo stesso momento, ideologia e critica dell'ideologia nello stesso essere
sociale ì0. Per far questo riprendiamo quanto già accennato circa composi­
zione ed esecuzione musicali, in quanto modelli di prassi interpretativa 51 .
Adorno concepisce l'esecuzione come una vera e propria interpretazione,
dove il termine 'esecuzione' esce dal contesto strettamente artistico per
~1X Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 130-31.
49 Ibidem.
'" Evidentemente questo aspetto ci riguarda qui solo dal lato individuale, anche
se sarebbe necessario, in seguito, ricostruire più ampiamente le connessioni di questo
con la collettività sociale.
51 Alcuni critici hanno notato l'importanza paradigmatica di queste due categorie.
Si vedano, ad esempio: R. Tiedemann, Adorno Konferenz 1983, op. cit.; D. Schnebel,
Komposition von Sprache - sprachlichc Gestaltung von Musik in Adornos Werk, in
AA.VV., Thcodor W. Adorno zum Gcdàchtms, op. cit.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
185
entrare a indicare ogni sorta di «giustificazione» dei concetti; l'esecutore
deve trovare l'interpretazione perfetta, non può accontentarsi di giungere
semplicemente a considerare che quella certa successione di segni potreb­
be essere letta ed eseguita in questo o quest'altro modo - non può lasciare
il testo in forma di domanda inespressa. Mentre ecco come viene mostrata
da Adorno l'oggettività dell'interpretazione e dell'esecuzione.
Il pensiero finisce sempre col lavorare intorno ad una cosa e alle sue formulazioni
che gli forniscono il suo elemento passivo. In termini-limite si può dire: io non
penso, e questo è ben pensare. Un segno sensibile abbastanza appropriato per
rendere visivamente tale verità, potrebbe essere costituito dalla matita o dalla
penna che si tiene in mano mentre si pensa. [...] Simili strumenti, di cui si ha
bisogno anche se non sono affatto comodi da usare, ci ricordano che non dobbia­
mo pensare a casaccio, ma a qualcosa di preciso. L'interpretazione e la critica dei
testi è perciò il fondamento inestimabile dell'aggettività del pensiero^2.
Questa posizione, di colui che «indossa» uno strumento di scrittura
e «lavora» intorno alla cosa, appare davvero simile a quella del musicista
con lo strumento in mano, per il quale il massimo di attenzione e concentrazione deve, non porlo in primo piano, ma al contrario dare alla parti­
tura tutte le voci in essa contenute. Insomma è necessario che l'esecutore
conosca la storia dell'opera che sta suonando.
Capire allora non significa altro che enucleare quel che l'autore di volta in volta
ha voluto dire o, comunque, far emergere i moti psicologici e individuali. [...] Ma
così come difficilmente si può stabilire che cosa un individuo ha pensato o provato
nella tale e tal altra occasione, allo stesso modo da tali forme di penetrazione
nell'animo dell'autore non si ricaverebbe nulla di essenziale. Gli impulsi degli
autori si spengono nel contenuto oggettivo da quelli assunto. Per svelarsi, tuttavia,
l'obiettiva pienezza dei significati racchiusi in qualsiasi fenomeno spirituale esige
dal destinatario proprio quella spontaneità della fantasia soggettiva che invece
viene frustata in nome di una disciplina oggettiva. Non c'è risultato interpretativo
che al tempo stesso non sia proiezione all'interno dell'opera".
Si comincia cosi a chiarire il ruolo della soggettività nel processo
interpretativo. La fantasia è soggettiva nella misura in cui si oppone alla
falsa oggettività, e per quanto tenue sia è l'unico filo rimasto per uscire dal
labirinto. Ancora più deciso è, se possibile, Adorno in un altro luogo:
'2 Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., pp. 18-19. Corsivo mio.
^ Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 7.
186
CRITICA DEL NON VERO
a voler essere precisi, // pensante non pensa affatto, ma si fa teatro dell'esperienza
intellettuale, sema dipanarla. [...] I suoi concetti brillano della luce di un terminus
ad quem che gli rimane sconosciuto e non invece di un manifesto terminus a quo,
ed è qui che il suo stesso metodo esprime l'intenzione utopica.
E Adorno prosegue come avevamo già anticipato:
i suoi concetti vanno esposti in maniera che si sorreggano a vicenda e che ciascuno
riceva la propria precisa articolazione soltanto dalle configurazioni che forma nel
rapporto con altri. In esso elementi discreti e tra loro differenziati si raccolgono
in un unico contesto leggibile; il saggio non crea costruzioni né strutture. Tuttavia
attraverso il loro movimento gli elementi si cristallizzano in configurazione. Questa
è un campo di forze così come nella visuale del saggio, ogni produzione spirituale
deve tradursi in un campo di forze 54 .
L'irrinunciabilità del soggetto non deriva solo dalla dialettica dell'oggettività dell'oggetto, ma anche dalla necessità di assentarsi. E solo un
soggetto che ci sia può assentarsi. Perché le immagini del teatro che va
messo in moto devono pur sempre essere coniate e avere senso. A propo­
sito della necessità di seguire da un lato il puro svolgersi delle determina­
zioni e dall'altro rappresentarsi ogni volta il contenuto di ogni preposizio­
ne, nella lettura di Hegel, Adorno precisa che «l'equivalente di tale espe­
rienza», quella dello spirito, « è nel lettore l'immaginazione» mentre: «se
questi volesse meramente constatare che cosa significhi un passo, o addi­
rittura inseguire la chimera di indovinare cosa mai l'autore abbia voluto
dire, gli si volatizzerebbe il contenuto» 55 .
L'immaginazione può far ciò che Adorno le chiede perché a fondo
della sua capacità di mettere in forma differente le costellazioni entro cui
compare il reale, così come per la memoria e il ricordo, si trova l'imma­
ginario come «processo latente collettivo», come risultato di una tradizio­
ne. Ma questa è stata a sua volta un'opera di ermeneutica, nel cui risultato
è celata la forza che l'ha condotta in forma. La partecipazione della fan­
tasia individuale serve a mettere in moto le contraddizioni senza le quali
neppure l'inconscio, che pure non ne ha, avrebbe di che esistere. La
fantasia individuale partecipa per la sua caratteristica di portare, quasi
come tracce rovesciate, cifrata la realtà, nient'affatto fantastica, in cui vive
l'individuo. Che è poi la sola che ci preme di interpretare. E tale fantasia
è un organo del rapporto tra tradizione e individuo.
54 Ibidem, pp. 17-18. Corsivo mio.
55 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 190-91.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Jgy
Varrebbe la pena di scrivere una storia della fantasia. [...] La sua denigrazione [...]
è un fenomeno tipico della regressione dello spirito borghese, che non deve tut­
tavia essere considerato come un suo errore evitabile, ma avviene nel segno di una
fatalità che unisce la ragione strumentale di cui la società ha bisogno con quel
tabù. [...] Fantasia significa meno inventare liberamente che operare mentalmente
senza il soccorso pronto e affrettato dei fatti'6;
e a proposito della filosofia della musica riusciamo a sapere che cosa il
nostro intenda per fantasia. Altro non è che quella ars inveniendi cui serve
da organo. Organo della Darstellung del pensiero l'esperienza e il deside­
rio, organo della arte combinatoria la fantasia; per questo, ad esempio:
la pedagogia musicale dovrebbe innanzi tutto sollecitare la capacità degli scolari
della fantasia musicale, e insegnare agli scolari ad immaginarsi la musica con
l'orecchio interiore. [...] Diventa così evidente la funzione fondamentale della
fantasia, che è la capacità di concepire immediatamente ciò che si esegue e si
ascolta come veicolo di un fattore spirituale".
E questa è la funzione stretta - giacché veicolo altro non significa della 'forma', della tradizione. Del resto Adorno si esprime in maniera
quasi identica, anni dopo, a proposito della lettura: «si deve leggere Hegel
descrivendo insieme le curve del movimento spirituale, quasi a suonare
con l'orecchio speculativo i pensieri come note» 58 . Diventa tradizione,
ricordiamo, solo ciò che è stato rimosso, e che a causa di tale rimozione
tende a diventar forma, nel senso che ogni forma corrisponde a un con­
tenuto rimosso. La tradizione così:
è in contraddizione con la razionalità, sebbene questa si formi all'interno di quella.
Il suo mezzo non è la coscienza, ma il carattere vincolante dato, irriflesso, di
determinate forme sociali, la presenza del passato, è tale carattere che si trasferisce
immediatamente nella sfera spirituale. La tradizione in senso stretto è incompati­
bile con la società borghese 59 .
Ma il rapporto che la tradizione propone non è altro, l'abbiamo visto
nella citazione adorniana di Benjamin, che il testo su cui si adopera l'interpretazione. Interpretare qualcosa che non sia passato in eredità ma che
sia ancora da avvenire sarebbe un controsenso. Quando Adorno, quindi,
Th.W.
Th.W.
Th.W.
Th.W.
Adorno,
Adorno,
Adorno,
Adorno,
Dialettica e positivismo in sociologia, cit., pp. 64-65.
Dissonanze, cit., pp. 133 e 135.
Tre studi su Hegel, cit., p. 172.
Parva Aesthetica, cit., p. 27.
188
CRITICA DEL NON VERO
sostiene che la tradizione è a rigore incompatibile con la società borghese,
è perché essa - del resto esattamente come il rimosso - conserva in forma
qualcosa che dovrebbe essere, nelle intenzioni, consegnato all'oblio. Come
la contraddizione, che è indice di una contraddizione reale astratta nel
pensiero, anche la costrizione della tradizione non è mai derivata dal puro
ciclo.
L'oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata: giacché la
traccia della storia nelle cose, nelle parole, nei colori e nei suoni è sempre quella
della passata sofferenza. Per questo la tradizione si trova oggi davanti a una con­
traddizione insolubile: nessuna è attuale né da resuscitare, ma quando ogni tradi­
zione è spenta, la marcia verso la disumanità è iniziata 60.
Già con questo, forse saremmo in grado di mostrare il ruolo della
«soggettività», nel senso precisato, all'interno del processo interpretativo.
È necessario però indicare - citando interamente il punto nevralgico in cui
il Nostro spiega il carattere della tradizione, per evitare fraintendimenti e
predisporre una buona comprensione della Dialettica negativa - in che
senso la tradizione sia la forma della forma. Rileggiamo quindi dal saggio
su Arnold Schònberg.
«Una tradizione - scrive Freud nell'ultima opera da lui portata a termine, "Mosè
e il monoteismo" - basata soltanto sulla tradizione orale non potrebbe possedere
il carattere ossessivo che è insito nel fenomeno religioso. Essa verrebbe ascoltata,
valutata, e forse respinta, proprio come ogni altra notizia; ma non acquisterebbe
mai il privilegio di potersi svincolare dal pensiero logico. Deve aver subito la
rimozione, lo stato di permanenza nell'inconscio, prima di poter produrre al suo
ritorno effetti cosi imponenti, di poter costringere le masse nel suo incantesimo.»
Ma non solo la tradizione religiosa, anche quella estetica è ricordo di un fattore
inconscio, addirittura rimosso. Quando essa sprigiona di fatto «effetti grandiosi»,
questi non nascono dalla coscienza rettilinea e di superficie della continuazione,
ma semmai dal luogo in cui il ricordo inconscio spezza la continuità. La tradizione
è presente nelle opere accusate di sperimentalismo, e non in quelle intenzional­
mente tradizionalistiche. [...] Egli [Schònberg] rivolge una feconda critica al ma­
nifesto materiale sonoro del classicismo e del romanticismo, agli accordi tonali e
ai loro collegamenti guidati da norme precise, al melodizzare contenuto tra inter­
valli di seconda e quelli delle triadi, insomma a tutta la facciata della musica degli
ultimi duecento anni. Ma nella grande musica della tradizione questi elementi non
interessavano in quanto tali, bensì in quanto essi assumevano una funzione precisa
nel rappresentare lo specifico contenuto musicale, il dato compositivo. Sotto la
facciata c'era un'altra struttura latente, determinata in vari modi dalla facciata ma
60 Ibidem, p. 33.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
Ig9
sempre producente e giustificante dal suo interno tale facciata, intesa come un
elemento costantemente problematico. Capire la musica tradizionale significò sem­
pre anche rendersi conto, insieme con la struttura della facciata, anche di quell'al­
tra struttura, realizzando il rapporto reciproco tra le due. [...] La spontanea forza
creativa di Schònberg eseguì un'oggettiva sentenza storica, diede cioè libero corso
alla struttura latente mettendo da parte quella manifesta 61 .
È questa quella che abbiamo chiamato, con Adorno, esecuzione. Non
che senza Schònberg la sentenza sarebbe stata annullata, oppure che
qualcuno avrebbe dovuto «far la parte» di Schònberg. Semplicemente
qualcuno doveva essere in grado di avvertire non solo la facciata, ma
anche la portanza latente. In grado di sentire ovunque la forma come
contenuto. La forma intesa fin nel suo intimo, l'intimo di quegli intervalli
che secondo Fiatone davano il ritmo alla saggezza e alla bellezza, e che
secondo l'avversario Aristotele, erano addirittura ritmati sulle orbite cele­
sti. Quella «natura» andava sentita come «storia», qualcuno doveva avver­
tire il dolore annidato nella forma, nella rimozione, e dargli parola. Questo
non significa, e il dialettico Adorno ne è del tutto consapevole, che l'eli­
minazione della forma darebbe come risultato la libertà. Come per la
tradizione la forma è la forma della memoria che non può essere ricordata.
E questa memoria è ancor meglio che nessuna memoria. L'interpretazione
non fa che applicare alla lettera la legge dell'identità, variando il campo di
forze della configurazione, e quindi il significato complessivo. Là dove
questa variazione viene avvertita come «dolore» dal soggetto che, nella
dialettica tra rimozione e ritorno del rimosso, «si fa teatro dell'esperienza»
sostituendo le parti mancanti con le sue immagini - della cui origine
abbiamo già discusso abbastanza - significa che una contraddizione del
«testo» è penetrata nella esistenza individuale e che la forma è stata lace­
rata e la totalità rotta. Ottenere queste prospettive è, appunto, secondo
Adorno il compito della filosofia.
Non è quindi per amor della sofferenza, o per pessimismo, che Ador­
no assegna al doloroso - al «da rimuovere» - tanta parte. E del resto si
potrebbe dire, in modo semplice, che il dolore altro non è che il negativo
nella forma dell'esperienza del singolo il quale, con immagini di felicità
prese a prestito dalla: «memoria di ciò che propriamente non si lascia più
ricordare», fa la prova: pronunciando tutti i nomi per vedere quali dolga­
no. L'eliminazione della forma non coincide con la libertà più di quanto
Th.W. Adorno, Prismi, cit., pp. 153-54.
190
CRITICA DEL NON VERO
il libero scambio coincida con l'abolizione della coazione identitaria. Per
questo Adorno sostiene che solo in una società dove a nessuno fosse
sottratta parte del suo lavoro si potrebbe realizzare un'identità non mac­
chiata da una falsa equivalenza. Fino a allora il dolore resterà una contrad­
dizione oggettiva avvertita dal soggetto, teatro dell'esperienza. Avvertita
dal soggetto che tanto più viene distrutto tanto più lascia intravedere la
trama del sovrasoggettivo. Tuttavia «avvertita» non intende certo un
modello di coscienza assoluta. L'avvertimento della contraddizione ogget­
tiva è, da parte del soggetto, per lo più inconscio. Per questo dobbiamo
ancora compiere il passo della dialettica della forma - della parodia prima di concludere la ricerca, e vedere come la storia entri a costituire
tutti i punti di questa configurazione.
IL DEBITO STORICO E IL RAPPORTO TRA VERITÀ E PIACERE
Nei vari rapporti dialettici che abbiamo analizzato fin qui - memoria,
ricordo, tradizione, e via dicendo - una delle dimensioni specifiche della
dialettica è rimasta in ombra. E in effetti non perché sia poco importante
ai nostri fini. Si tratta di quel che Hegel così spiega nella Fenomenologia
dello spirito 62 :
La sostanza viva è bensì l'essere il quale è in verità Soggetto, o, ciò che è poi lo
stesso, è l'essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il
movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenir-altroda-sé con se stesso. Come soggetto essa è la pura negatività semplice, ed è, proprio
per ciò, la scissione del semplice in due parti, o la duplicazione opponente; questa,
a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione;
soltanto questa ricostituentesi eguaglianza o la riflessione entro l'esser-altro in se
stesso, - non unità originaria come tale, né unità immediata come tale, - è il vero.
Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all'inizio la propria
fine come proprio fine, e che solo mediante l'attuazione e la propria fine è effet­
tuale.
E, più oltre, vien detto che cosa sia tale «ricostituentesi eguaglianza»:
l'elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e
questo intero movimento costituisce il positivo, e la verità del positivo medesimo.
Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il
62 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 14.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\C)\
falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba far
astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come
essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di un alcunché di
rigido, che, tagliato via dal vero, debba venir abbandonato, dove che sia, al di fuori
di questo; né d'altronde il vero è da considerare come un alcunché di positivizzato
e morto, giacente inerte dall'altra parte. L'apparenza è un sorgere e un passare che
né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l'effettualità e il movimento della
vita della verità. Per tal modo, il vero è il trionfo bacchico dove non c'è membro
che non sia ebbro 65 .
Adorno commenta proprio questo celebre passo della Vorrede hege­
liana: «nella sua microstruttura il pensiero hegeliano, come la sua figura
letteraria, è quel che Benjamin chiamava "dialettica in stasi"» 64 ; ovvero la
capacità di «fare come se» si potesse sospendere il corso delle reciproche
determinazioni dialettiche per sorprenderne due, per dir così, sull'atto di
congiungersi.
Stiamo qui trattando di qualcosa di essenziale alla dialettica. Forse
non la peggiore tra le sue definizioni sarebbe quella che la identificasse
con la forza di cogliere il vero come movimento anziché come risultato.
Con il suo corollario secondo il quale soggetti e oggetti sono altrettanto
divenire quanto il divenire della loro relazione. Se abbiamo lasciato che
mancasse questo aspetto dalla trattazione di una teoria dell'interpretazione
in Adorno, è stato in primo luogo perché la questione è sufficientemente
nota (sebbene spesso si direbbe, con Hegel, nota ma per questo non
affatto conosciuta...), e in secondo luogo perché una sua anche insufficien­
te trattazione ci avrebbe occupati troppo a lungo. Se ora se ne scrive
seppure brevemente è per arricchire di questa determinazione quanto
detto in precedenza sulla costellazione e sul destino della lingua. La paro­
dia è infatti, per anticipare qualcosa, un movimento che si attua all'interno
di due dimensioni storiche differenti entro una stessa configurazione.
Nella terminologia filosofica leggemmo che: «i termini filosofici sono,
propriamente, dei punti nodali della storia del pensiero che si sono con­
servati e attorno a cui ruota - per cosi dire - la storia della filosofia.
Oppure - se mi consentite la formulazione: ogni termine filosofico è la
cicatrice di un problema irrisolto» 615 , ma la cicatrice è come il sintomo:
essa esprime non solo il passato, l'accaduto, ma altrettanto radicalmente il
presente, il ritorno del rimosso, per come esso si è determinato.
63 Ibidem, pp. 37-38.
64 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 184.
65 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, voi. I, cit., p. 213.
192
CRITICA DEL NON VERO
Si potrebbe dire che ogniqualvolta un termine si è cristallizzato e ricompare con­
tinuamente, esso non indica sempre e univocamente la stessa cosa, ma potete
invece esser certi che è accaduto qualcosa di cui i filosofi non sono venuti a capo 66.
Come dire che le parole che conserviamo sono solo quelle irrisolte,
di cui non si è riusciti «a fornire la giustificazione». Giustificazione che è
sempre extralessicale, così che conclude Adorno: «la mia tesi è che i ter­
mini invariati esprimono l'identità dei problemi tramandati, mentre il
processo storico che risolve i problemi in modi diversi dev'essere cercato
nel cambiamento dei significati» 67 .
Anche a proposito del rapporto tra tradizione, cioè storia rimossa,
delle parole in generale e le parole stesse, Adorno si esprime chiaramente.
La lingua della scrittura non è un agglomerato di contrassegni; nella scrittura i
valori di ciascuna parola e di ciascun nesso di parole ricevono oggettivamente la
loro espressione dalla loro storia, e dentro la storia delle parole sta il processo
storico in generale 68;
per questo terminologia e tradizione intrattengono un rapporto così stret­
to, perché:
questa trasmissione [quella dei problemi dei quali «non si è venuti a capo»] è una
funzione della terminologia, che in tal modo è a priori in un certo rapporto di
contrasto o di contraddizione col pensiero immediato della cosa stessa. Essa ha
cosi qualcosa dei fenomeni di pedagogizzazione che possiamo osservare oggi: il
problema di insegnare qualcosa ad altre persone, di trovare i mezzi con cui comu­
nicare e trasmettere loro certe conoscenze, viene a sostituire il problema della cosa
stessa o della verità della cosa 69 ;
anche se bisogna constatare che purtroppo oggi:
la disputa su ciò che i filosofi intendevano dire nei loro testi ha preso il posto del
problema di ciò che i testi dicono in se stessi, e del rapporto che esiste fra ciò che
essi dicono con la verità che noi possiamo pensare. Lavorare contro questa specie
di filologizzazione è certo uno dei compiti essenziali della filosofia 70.
66
67
68
69
70
Ibidem, p. 214.
Ibidem, p. 215.
Th.W. Adorno, Parva Aesthetica, cit., p. 32.
Th.W. Adorno, Terminologia filoso/tea, voi. I, cit., p. 58.
Ibidem, pp. 64-65.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
^93
È ancora in quest'ambito di pensiero che riacquista pieno significato
quanto leggemmo sulle «omissioni del testo» che sono sempre in qualche
modo omissioni del termine per un concetto o del concetto tout court:
«più importante di ciò che egli aveva in mente è ciò di cui parla» giacché
non è il soggetto scrivente a guidare la dialettica di terminologia/tradizio­
ne che abbiamo appena delineato:
il primato dell'obiettività, rispetto al corso dei pensieri quali si vorrebbero, della
determinata circostanza che dev'essere considerata, costituisce anche nella filosofia
di Hegel un'istanza contro la medesima. Se all'interno di un paragrafo il problema
che gli compete si delinea come circoscritto e risolto [...] allora anche l'intenzione
di Hegel si chiarisce, sia che ciò che egli pensava cripticamente ora si disveli da
sé, sia che le sue considerazioni si articolino attraverso le loro stesse omissioni".
Contro queste accumulazioni di storia nelle parole e nelle costellazio­
ni, accumulazione che oscilla sempre tra soluzione e rimozione, si pone la
trascendenza della singola parola, il cui rappresentante paradigmatico
Adorno individua in Heidegger. Chi abusa di questa trascendenza, che
deriva, secondo il Nostro, dal rapporto tra particolare e universale:
punta su una teoria prettamente nominalista del linguaggio, secondo la quale le
parole sono gettoni da gioco scambiabili, non toccate dalla storia. Questa tuttavia
penetra in ogni parola e impedisce ad esse la riproduzione di quel presunto senso
originario di cui il gergo va a caccia. Che cosa è gergo e che cosa no dipende dal
fatto di scrivere la parola con un accento nel quale essa si ponga come trascenden­
te rispetto al proprio significato; oppure di dare peso alle singole parole a spese
della proposizione, del giudizio, del pensato 72 .
A fronte di questa trascendenza ne esiste un'altra.
Il desideratum della filosofia, quel che le è esclusivamente proprio e in ragione del
quale la rappresentazione (Darstellung) le è essenziale, è il motivo per cui tutte le
parole dicono più di quanto ciascuna dice. Di ciò approfitta la tecnica del gergo.
La trascendenza della verità rispetto al significato delle singole parole e dei giudizi
viene aggiunta alle parole stesse come loro proprietà immutabile, mentre quel Più
si costruisce solo nella costellazione, in forma mediata. Il linguaggio filosofico, in
base al suo ideale, trascende ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pen-
71 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 181-82.
72 Th.W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Suhrkamo
Verlag, Frankfurt a. M. 1964; ed. it., Gergo dell'autenticità. Sull'ideologia tedesca, a cura
di R. Bodei, Bollati Boringhieri, Torino 1969, p. 10.
194
CRITICA DEL NON VERO
siero. Esso trascende in forma dialettica, quando al suo interno la contraddizione
di verità e pensiero diventa cosciente di sé e dunque padrona di sé 73 .
Ogni pensiero contiene dunque, nella sua materialità formale, nel
contenuto d'esperienza, nelle sue leggi segniche e simboliche, una storia
che deve essere conosciuta. Il suo valore non è deciso dall'oggetto né
dall'interesse del soggetto - piuttosto dalla sua capacità di aprire all'espe­
rienza. E dunque, poiché l'esperienza non è immediatamente il pensiero,
di andar contro di sé, di aprire quel che pure stando a suo fondamento,
viene da esso negato sotto l'identificazione. Questa è la sua forza. Ogni
interpretazione è così uno smontaggio di una costellazione a partire da
una determinata cristallizzazione storica di essa. Cristallizzazione che si
lascia leggere per lo più nella dialettica storica dei termini e del rapporto
tra senso (per cui desiderio e ricordo) del singolo e rappresentazione
(Darstellung) della struttura sociale. L'atto della comprensione è contem­
poraneo, anzi forse è lo stesso del giudizio formulato secondo l'intricato
e incosciente avvertimento soggettivo della contraddizione sotto l'aspetto
della tradizione, della rimozione e della «forma naturale». In quel che si
avverte come mancanza, anche nell'esperienza individuale, tanto più dove
l'autonomia del soggetto è ridotta dalla potenza della struttura, si intrave­
de la traccia di quel che è stato necessario sottrarre alla cosa per giungere
all'espressione. Sottrazione a cui si aggiunge quella propria e determinata
di quella espressione rispetto a tutte le altre possibili. Questa doppia in­
terpretazione, o esecuzione ideologica, si può dire ripeta, ogni volta, il
processo, messo in luce da Adorno, della dialettica dell'illuminismo, dalla
mimesi al simbolo e poi al segno. Dove la progressiva separazione istitu­
isce lo spazio di differenza entro il quale poi di necessità si situerebbe
l'interpretazione come critica. Senza quelle sottrazioni, o sovracostruzioni,
il che è qui lo stesso, c'è, appunto, solo la paura come rapporto con il
naturale, e la paura non è una interpretazione. Molto freudiano in questo,
Adorno scommette sulla ineliminabilità del desiderio come motore del
processo illuministico, e della autoriflessione di esso; autoriflessione che
trova il suo culmine proprio nella interpretazione offerta da Dialettica
negativa. Senza desiderio quindi, a livello di esecutori delle rappresenta­
zioni delle configurazioni (Darstellungen der Konstellation], non c'è inter­
pretazione poiché manca la distanza tra pensiero e realtà. Giacché il de­
siderio del pensiero è stato, secondo il Nostro, modellato sul lavoro come
73 Ibidem, pp. 12-13.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\^
primo fondamentale atto negativo. Ma anche senza l'obbligo all'identità
razionale di pensiero e realtà, non si da desiderio, e quindi la contraddi­
zione che richiede l'interpretazione.
In un certo senso dotare di contenuto reale un pensiero e conoscere
a quale desiderio esso risponda sono la medesima cosa. La differenza in
tale medesimità, la dialettica della formazione dell'individuo, è lo spazio
che Adorno assegna all'interpretazione. Solo in esso la capacità dell'indi­
viduo di produrre immagini come proiezione e sostituto dell'esperienza,
consente la posizione dell'arte combinatoria che elimina il carattere di
enigma del reale falso per far riferimento, sotto di esso, ai suoi moventi.
In questo, accettare ogni pensiero come risposta a desideri e decidere sulla
loro soddisfazione è tutt'uno. È però necessario mostrare come tale unità,
la cui leva etica abbiamo già indicato, faccia riferimento a una categoria di
verità ingenua, realista e al contèmpo essenzialmente critico dialettica.
Scrive Adorno che:
la filosofia non consiste semplicemente nella corrispondenza fra il pensiero e il
linguaggio da un lato e l'oggetto dall'altro, ma in verità possiede o coglie il suo
oggetto sempre soltanto in quanto lo sorpassa, è qualcosa di più del puro oggetto.
Di conseguenza l'immagine, o l'allegoria, è un elemento pressoché irrinunciabile
della stessa filosofia ' 4 .
E quindi la filosofia è più che una interpretazione del mondo, è una
critica che anticipa, per quanto le è possibile, un'altra forma sociale. Così
che il processo interpretativo, che tanto si appoggia alla contraddizione
oggettiva, soggettivamente avvertita dall'individuo come dolore e infelici­
tà, nel momento in cui scioglie l'apparenza di ineluttabilità del proprio
oggetto, si fa anche strumento di liberazione. Però, questo non può acca­
dere una volta per tutte. L'interpretazione che ha sempre a che fare con
le parole deve in ogni momento tener presente che se è richiamata fuori
di esse, è perché il linguaggio stesso non è linguistico ma storico. Non è
quindi legittimo:
cercare di fare a meno di ogni surplus storico. Bisogna confrontare ciò che le
parole storicamente evocano con il livello di coscienza che è il proprio, e chiedersi
se ciò che si tratta di esprimere qui può essere ancora considerato come qualcosa
di sostanziale dal punto di vista della cosa 7'.
' 4 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, voi. I, cit., pp. 63-64.
'' Ibidem.
196
CRITICA DEL NON VERO
Questa evocazione storica ha il suo corrispettivo nell'atteggiamento
d'attesa del soggetto:
chi voglia conoscere una cosa, e non ricamarvi sopra con delle categorie, deve
invero rimettersi ad essa senza riserve, senza coperture pregiudiziali; ciò gli riesce,
però, solo qualora in lui stesso vi sia già in stato di attesa, come teoria, il potenziale
di quel sapere che poi si attualizza solo mediante lo sprofondarsi nell'oggetto 76;
una «precomprensione», direbbero gli ermeneuti, che non è solo esisten­
ziale, bensì anche sedimentata nell'oggetto che è socialmente prodotto né
più né meno delle parole. Per questo:
l'oggetto si apre ad un'insistenza monadologica, che è cosciente della costellazione
in cui esso sta: la possibilità di penetrare all'interno richiede quell'elemento este­
riore. Tale universalità immanente nel singolo è però aggettiva come storia sedimen­
tata. Essa è in lui e fuori di lui, un elemento che lo avvolge, in esso ha il suo posto.
Cogliere la costellazione in cui sta la cosa equivale a decifrarla come quella che lo
porta in sé come suo divenuto. [...] Soltanto un sapere che ha presente anche la
collocazione storica dell'oggetto nel suo rapporto con altri, è in grado di liberare
la storia nell'oggetto: attualizzazione e concentrazione di qualcosa di già noto, che
lo modifica. La conoscenza dell'oggetto nella sua costellazione è conoscenza del
processo accumulato in esso 11 .
Tra l'altro la «insistenza monadologica» trova in Teoria estetica una
sua più ampia formulazione nel carattere monadologico delle opere d'arte:
sempre più l'atto interpretativo cessa di far differenza sulla categoria alla
quale dovrebbe appartenere il suo proprio oggetto, per divenire atto cri­
tico vero e proprio. Esso è alla ricerca dei «punti ciechi della storia» allo
stesso modo in cui Marx chiarì, una volta per tutte, che la società si cifra
nei suoi prodotti i quali le appaiono incomprensibili fino a che oscuro
rimane il fondamento della loro produzione. La rimozione storica, ripor­
tare a coscienza la quale è il compito dell'interpretazione critica, non
appare dunque mai come un dato di fatto, ma è nascosta sotto le contrad­
dizioni che, come dei sintomi, tendono a costituire una totalità senza via
d'uscita. Non è la totalità ciò di cui l'interpretazione va in cerca. Poiché
essa è presente solo nelle sue contraddizioni determinate, e queste a loro
volta sono tali in quanto nascondono l'effettuale, il «testo» da leggere si
può dire che, a rigor di termini, non esista ancora. Ciò di cui disponiamo
76 Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 123.
77 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, p. cit., p. 165. Corsivi miei.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
\()~]
sono solo gli scarti della sua soppressione delle sue tracce. La questione
appare più chiara, forse, seguendo quanto scrisse Adorno a proposito
dell'amico Benjamin.
Se Benjamin ebbe a scrivere che la storia è stata scritta finora dal punto di vista
del vincitore e deve essere scritta da quello dei vinti, occorre aggiungere che la
conoscenza deve bensì rappresentare la logica infausta della successione di vittoria
e disfatta, ma deve rivolgersi - nello stesso tempo - a ciò che non è entrato in questa
dinamica, a ciò che è rimasto per via: ai prodotti di scarto e ai punti ciechi che sono
sfuggiti alla dialettica. [...] Ciò che trascende la società dominante, non è solo la
potenzialità che essa ha sviluppato, ma anche ciò che non è entrato nelle leggi del
movimento storico. La teoria si vede rinviata all'obliquo, all'opaco, all'indetermi­
nato, che, come tale, ha senza dubbio qualcosa di anacronistico, ma non si esau­
risce nell'invecchiato, perché ha giocato un tiro alla dinamica storica. [...] Gli
scritti di Benjamin sono il tentativo, continuamente ripreso, di mettere filosoficamente a frutto ciò che non è ancora determinato dalle grandi intenzioni. Il compito
che egli ci ha lasciato in eredità è quello di non affidare esclusivamente questo
tentativo ai rebus sconcertanti del pensiero, ma di recuperare ciò che è privo di
intenzione attraverso il concetto: l'obbligo di pensare dialetticamente e non dialetti­
camente ad un tempo'*.
Il «privo di intenzione» era, lo ricordiamo, il punto nevralgico della
ermeneutica filosofica nei saggi degli anni Trenta. L'appiglio dialettico
della critica deve passare attraverso di esso - come la Deutung freudiana
attraverso il Lustprinzip - perché solo li sopravvive ancora il non-identico
della totalità sociale sviluppata. Essa ha soppresso le proprie origini nel
tentativo di occultare le proprie contraddizioni. Ma capire significa affer­
rare il processo dialettico, e senza contraddizioni non c'è processo. Non
è allora per amore dei «minimi passaggi» che l'interpretazione si affida
all'eccentrico e all'individuale; non è una sua forza ma una sua debolezza
il fatto che la storia si conservi solo in essi; però questa debolezza e pur
tuttavia una chance. Le immagini di felicità dell'infanzia non valgono come
terminus ad quem dell'interpretazione, ma come corpo di uno spirito che
è ancora di là da venire; segno che una diversa realtà deve poter esistere:
le tracce discendono dall'indicibile dell'infanzia, che una volta diceva tutto. [...]
Ma l'adulto che ricorda tutto ciò porterà alla vittoria le pedine che a suo tempo
ha perso al gioco, senza tuttavia tradirne l'immagine alla ragione troppo adulta;
quasi ogni ermeneutica accogli in sé la spiegazione razionalistica e poi la strapazza
per bene. Le esperienze sono tanto poco esoteriche quanto ciò che una volta
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 178-79. Corsivi miei.
198
CRITICA DEL NON VERO
commuoveva nelle campane di Natale e che ora non si lascia mai completamente
cancellare: quel che è ora e qui non può essere tutto 79 .
L'interpretazione non affronta il proprio compito del tutto disarmata.
Se non si intende la coscienza come mero portavoce del principio di
realtà, e se si riconosce come anche la più rarefatta tra le funzioni trascen­
dentali abbia un referente empirico, allora si deve anche ristabilire la
verità dell'idealismo: il soggetto riflette se stesso, l'oggetto no. Ma questo
non comporta che l'interpretazione sia idealista. Al contrario. Uscire dal
concetto le è essenziale tanto quanto entrarvi davvero. E ciò è possibile
perché resta vero - contro l'idealismo - il primato dell'oggetto; la coscien­
za è infatti il processo di riflessione di una conciliazione (quella di soggetto
e oggetto) che non è riuscita, e la negatività del pensiero lo sta a testimo­
niare. La critica è così costretta a fare ritorno all'«impotenza dello spirito»,
a prender coscienza del fatto che il rapporto del pensiero con i suoi og­
getti è esso stesso un prodotto sociale, la soluzione del quale coincide, «in
ultima istanza» come s'usa dire, con quella di un superamento delle attuali
contraddittorie forme sociali.
La coscienza è funzione del soggetto vivente, il suo concetto è formato a sua
immagine. Ciò non si può eliminare dal suo senso. L'obiezione che in tal modo si
confonde il momento empirico della soggettività con quella trascendentale o essen­
ziale è debole. Senza alcuna relazione con una coscienza empirica, quella dell'io
vivente, non ci sarebbe alcuna coscienza trascendentale, puramente spirituale.
Riflessioni analoghe sulla genesi dell'oggetto sarebbero vane. Mediazione dell'og­
getto significa che non può essere ipostatizzato staticamente, dogmaticamente, ma
è conoscibile soltanto nel suo intreccio con la soggettività; mediazione del soggetto
significa che letteralmente non sarebbe senza il momento dell'oggettività. Indice
del primato dell'oggetto è l'impotenza dello spirito in tutti i suoi giudizi come
nell'organizzazione della realtà. L'elemento negativo, cioè che allo spirito non è
riuscita la conciliazione insieme all'identificazione, diventa motore della propria
demistificazione. Esso è vero e apparenza: vero, perché nulla è esente dal dominio
che esso ha portato alla sua forma pura; non vero: perché nella sua confusione con
il dominio non è affatto lo spirito che si crede di essere e per cui si spaccia. Con
ciò l'illuminismo trascende la sua autointerpretazione tradizionale: essa non è più
soltanto demitologizzazione come reductio ad hominem, bensì viceversa anche
come reductio hominis, come comprensione dell'inganno del soggetto stilizzantesi
ad assoluto. Il soggetto è la tarda forma del mito, eppure simile alla più antica 80 .
79 Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 220-21. Adorno sta, nel
brano citato, parlando di E. Bloch.
80 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 186.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
199
II soggetto è mitico poiché mitica è:
la celebrazione dell'insensato come senso, la ripetizione rituale di connessioni
naturali in singole azioni simboliche come se in tal modo fossero una sovranatura.
Categorie come l'angoscia, di cui si deve almeno stabilire che non dovrebbe durare
per sempre, diventano [...] elementi costitutivi dell'essere in quanto tale 81 .
L'interpretazione è legata alla autointerpretazione del pensiero più di
quanto di solito si ammetta. Non perché «l'essere che può essere compre­
so è linguaggio», ma al contrario perché anche il linguaggio deve essere
compreso come essere sociale. L'opera di composizione di differenti co­
stellazioni, che è tutt'uno con l'interpretazione, non è allora solo un arti­
ficio atto a disvelare la falsa apparenza, non è solo illuminismo, ma al
contempo anche critica del mito illuministico di una ragione naturalmente
indirizzata alla felicità degli uomini. L'idealismo di questa fede non sta
però nella convinzione che la ragione debba poter guidare l'organizzazio­
ne dell'esistenza, ma nell'aver espulso dallo spirito - e di conseguenza
dalla verità - ogni riferimento alla materia, nell'aver fatto del bene qual­
cosa che non ha nulla a che spartire con il piacere. Come dire che la
dialettica dell'illuminismo ha occultato la dialettica di materia e spirito, la
cui conciliazione pure fu il suo scopo dichiarato.
Contro questa estrema idealizzazione anche del momento corporale
Adorno sostenne che non ha senso una verità che non abbia a che fare con
il piacere fisico e, in ultima istanza, con quello sensuale. Se la repressione
dell'individuo è il prezzo pagato dall'illuminismo nella sua battaglia contro
il mito, l'autocritica dell'illuminismo deve cominciare, o meglio trova il
suo motivo, proprio li:
l'aspirazione materialista di capire la cosa, esige il contrario: l'oggetto nella sua
interezza si potrebbe pensare solo senza immagine. Tale assenza d'immagine con­
verge con il divieto teologico di farsi un'immagine di Dio. Il materialismo lo
secolarizza, non permettendo di dipingersi positivamente l'utopia: questo è il con­
tenuto della sua negatività. Esso è d'accordo con la teologia, laddove è più mate­
rialistico. La sua nostalgia sarebbe la resurrezione della carne, che invece è del
tutto estranea all'idealismo, il regno dello spirito assoluto. Punto di fuga del
materialismo sarebbe la propria negazione, la liberazione dello spirito dal primato
dei bisogni materiali nella condizione della loro soddisfazione. Lo spirito potrebbe
conciliarsi soltanto con l'impulso corporale placato e diventare quel che da tanto
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 107.
200
CRITICA DEL NON VERO
tempo promette soltanto, finché - entro il sortilegio delle condizioni materiali nega la soddisfazione dei bisogni materiali 82 .
Allora l'individualità che serve da sostegno all'interpretazione critica
non è più cieca sulle proprie origine, non è individualità come mero sup­
porto delle funzioni soggettive, delle quali giustamente va condotta fino in
fondo la critica, ma elemento nel quale si incontrano il presente della
negazione e il telos della liberazione. Dolore, ricordo e desiderio non sono
esistenziali ma momenti materiali della storia. L'interpretazione che li usa
per scomporre le costellazioni enigmatiche in figurazioni trasparenti, nell'opporsi alla falsa totalità si ritrova opposta anche a se stessa, rimandata
ad un livello elementare della sensazione dove non c'è nulla da interpre­
tare, infatti:
non c'è sensazione senza momento somatico. [...] Qualunque sensazione è in sé
anche senso del corpo. Non si può nemmeno dire che questo «accompagni» quel­
la. [...] Il timbro verbale di parole come sensibile, sensuale, anzi già quello di
sensazione, rivela quanto poco le fattispecie cosi designate siano puri momenti
della conoscenza, come li tratta la gnoseologia. La ricostruzione immanente al
soggetto del mondo oggettuale non avrebbe potuto costruire la base della sua
gerarchia, la sensazione appunto, senza la physis, e la gnoseologia autarchica solo
su di essa. Come elemento non puramente cognitivo della conoscenza il momento
somatico è irriducibile. [...] Il fatto che le prestazioni cognitive del soggetto della
conoscenza secondo il loro senso siano somatiche, tocca non solo il rapporto di
fondazione di soggetto ed oggetto, ma anche la dignità del corporale. Al polo
ontico della conoscenza esso si rivela come suo nucleo 83 .
L'esistenza di questo «nucleo» non è, però, la base di una metafisica
sensista. Adorno, cosciente di star riflettendo su un momento originario
virtuale, sui «pensieri di Dio prima della creazione», non vuole affatto
affermare che la riflessione critica debba chiudersi una volta raggiunto il
«grado zero» del soma. Intanto perché l'uomo non segue la legge mecca­
nica della causalità newtoniana, e il fatto che alla base si ritrovi sempre
l'elemento corporeo non significa che esso, in quanto causa, sia superiore
e spieghi tutti i suoi effetti. Ma poi, e soprattutto, perché lo stadio elemen­
tare del corpo è indissolubilmente intrecciato con la concreta situazione
della coscienza del corpo. Detto altrimenti, riprendendo i termini de Die
82 Ibidem, p. 185.
85 Ibidem, p. 173.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
201
Idee der Naturgeschichte, la natura sulla quale si è elevata la società è
diventata sociale tanto quanto appare, di contro, naturale la organizzazio­
ne capitalista di quella. Solo nella negazione dell'apparenza naturale della
società si accede ancora, e per via negativa, ad una natura non trasmutata.
È questo che connette l'interpretazione alla «dignità corporale» come
nucleo del «polo ontico» della conoscenza. Man mano che la critica sma­
schera la verità occultata nelle rappresentazioni ideologiche, variando e
decentrando, in base al ricordo e al desiderio di felicità contenuti nell'in­
dividuo, la struttura degli intrecci dialettici fino a che esibiscano una di­
versa possibilità di conciliazione che essi pure portano in loro, le si fa
incontro il proprio per altro, la materia dalla quale sono derivate le forme
logiche contro le quali si adopera.
L'estremo riferirsi al piacere sensuale delle mediazioni e quindi il
nucleo materiale della gnoseologia, allora, e siamo qui giunti al nucleo
della prassi interpretativa di Adorno, è la prima apparizione della forma
parodica che la contraddizione assume quando un contenuto materiale si
presenta opposto ad un altro come una forma di contro ad un contenuto.
Chiarire in che rapporto questi due elementi stiano tra di loro all'interno
della prassi interpretativa, e come la forma si sdoppi in tradizione e anti­
cipazione, sarà il compito del prossimo paragrafo. Per adesso concludiamo
vedendo all'opera questa negatività nel nesso tra pensiero e infelicità in­
dividuale.
Ogni dolore ed ogni negatività, motore del pensiero dialettico, sono la forma alta­
mente mediata, talvolta irriconoscibile, del fisico, cosi come ogni felicità tende alla
soddisfazione sensuale e in essa ottiene la sua aggettività. Se si toglie alla felicità
ogni aspetto in tal senso, non è più tale. Nei dati soggettivamente sensuali quella
dimensione, che a sua volta è l'elemento che si oppone allo spirito nello spirito,
viene ridotta in certo modo alla sua riproduzione gnoseologica. [...] È comodo
criticare questa teoria come celatamente ingenuamente naturalistica. Ma in essa
vibra un'ultima volta il momento somatico entro la gnoseologia, prima che venga
del tutto eliminato. Esso sopravvive nella conoscenza come sua inquietudine, che
la mette in movimento e si riproduce implacabilmente nel suo sviluppo. La co­
scienza infelice non è una accecata vanità dello spirito, ma gli è inerente, l'unica
autentica dignità che ricevette nella separazione dal corpo. [...] La minima traccia
di una sofferenza senza senso nel mondo dell'esperienza smentisce tutta la filoso­
fia dell'identità. [...] // momento corporale annuncia alla conoscenza che non ci deve
essere sofferenza, che tutto deve diventare diverso. [...] Per questo l'elemento speci­
ficamente materialistico converge con quello critico, con la prassi che muta la società.
L'eliminazione del dolore, o la sua attenuazione fino a un grado che non è anticipabile teoreticamente e al quale non si può porre alcun limite, dipende non dal
singolo, che sente il dolore, ma soltanto dal genere, cui appartiene anche quando se
202
CRITICA DEL NON VERO
ne separa e aggettivamente viene respinto nella solitudine assoluta dell'oggetto impotenfe 84.
Se questo è vero, tutto l'apparato interpretativo che abbiamo fin qui
ricostruito deve, anch'esso, commisurarsi e trovare ragione nello stesso
«elemento specificatamente materiale», in ultima istanza la protesta che
«non ci deve essere sofferenza».
PER UNA TEORIA DELL'INTERPRETAZIONE: LA PARODIA
Nel corrispettivo nell'edizione tedesca dei testi di Adorno disponibili
in italiano, si contano soltanto poche occorrenze del termine 'parodia' Parodie in tedesco. Se nonostante questo verrà impiegata per definire la
chiave della prassi interpretativa di Adorno, questo è dovuto al fatto che
non si tratta di «trovare» una parola, quanto di definire un concetto. In
questo senso si sarebbe potuto cercare di dare la costellazione di qualche
altro termine - dialettica per esempio, o critica - e in fondo sarebbe stato
10 stesso, con l'inconveniente però di dover continuamente dare le diffe­
renze rispetto a tutti gli altri impieghi. Inconveniente che arricchirebbe
senz'altro il significato, ma che renderebbe la ricostruzione molto più
lunga del lecito in questa occasione 85 .
Adorno, in più luoghi, fa professione in un'ermeneutica del trascura­
bile:
seguo un metodo in cui dichiaro spontaneamente e assai volentieri la mia fiducia,
11 metodo che si basa sulla convinzione che affermazioni eccentriche, che in appa­
renza non hanno affatto il peso ad esempio della grande filosofia ufficiale, ma in
cui il pensiero per cosi dire si mette in libertà, permettono di riconoscere chiara­
mente il vero significato che si cela dietro di essa 86.
M Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., pp. 202-03. Spaziature mie.
85 Un'interessante digressione si presenterebbe qui nel raffronto tra la teoria althusseriana della lettura sintomale e la qui proposta parodica interpretativa di Adorno.
Manca lo spazio per svolgere il tema; vorrei tuttavia citare il lavoro di A Callinicos,
Marxism and Philosophy, Oxford University Press, New York 1985, alle pp. 80-95
questi tenta un accostamento tra i due sulla base di un supposto comune antihegelismo,
in quanto entrambi difenderebbero i diritti del particolare contro l'universale. Pur non
condividendo l'impostazione del commento, mi sembra tuttavia sintomale che Callini­
cos abbia riconosciuto il legame tra le due teorie critiche e cercato di esaminare la loro
relazione. In un qualche modo questo ci conforta nel lavoro di esporre la dialettica
adorniana sub specie di «ermeneutica» critica...
86 Th.W. Adorno, Terminologia filolofica, voi. I, cit., p. 156.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
203
Di questa fiducia, che l'individuo sia uno strumento di misurazione
sensibilissimo delle configurazioni ideologiche principali, di cui già a lun­
go abbiamo parlato, è espressione anche un altro luogo dei Minima moralia, che è, al contempo, il principio dell'interpretazione parodica: «l'in­
dividuo è talmente storico in tutte le sue fibre da essere in grado di ribel­
larsi, con la trama sottile della sua costituzione tardoborghese, alla trama
sottile della costituzione tardo borghese» 87 . E una sineddoche interpreta­
tiva di Adorno su Hegel chiarisce questo frammento di aforisma. In essa
si mostra, all'interno del testo, come il principio della parte per il tutto sia,
oltre che figura retorica, anche ben altro. A proposito della attribuzione
del lavoro alle attività dello spirito, scrive Adorno:
Hegel non può, a nessun costo, far parola della divisione di lavoro fisico e spiri­
tuale e non decifra lo spirito come aspetto isolato del lavoro, ma vanifica invece
il lavoro a momento dello spirito, sceglie in certo qual modo a sua massima la
figura retorica pars prò foto 8X.
Il fatto è che, senza la rimozione hegeliana, sapremmo ancora qual­
cosa sulla divisione del lavoro, ma non sapremmo nulla sulla necessità
hegeliana della sua soppressione, che è, per la storia della divisione del
lavoro, altrettanto importante. Per questo (rimandando ancora un poco
una definizione di parodia) Adorno può scrivere che le bugie hanno le
gambe lunghe, tanto che si può dire precorrano i tempi: «... la ragione si
è rifugiata - interamente ed ermeticamente - nelle idiosincrasie personali
[...] l'ingiustizia è il medio della vera giustizia», dato che per il mondo: «la
sua essenza è l'inessenza: ma la sua apparenza, la menzogna mercé la quale
sussiste, è l'esponente della verità» 89 . Infatti: «a volersi esprimere enfatica­
mente, parodia significa impiego delle forme nell'epoca della loro impossibi­
lità. La parodia dimostra tale impossibilità e modifica cosi le forme»™.
La parodia si definisce anche in rapporto all'allegoria e all'ironia91 . Su
quest'ultima le opinioni di Adorno sono chiare; se: «l'ironia enigmatica
che non è riducibile a uno scherno contenutistico, si può capire per la
prima volta [in Thomas Mann] in base alla sua funzione capace di dar
forma» 92 ; tuttavia:
Th.W. Adorno, Minima rnoralia, cit., p. 171.
Th.W.
Th.W.
Th.W.
Cfr. R.
Th.W.
Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 55.
Adorno, Minima moralia, cit., pp. 73, 81 e 129.
Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 288. Corsivo mio.
Luperini, L'allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma 1990.
Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., p. 42.
204
CRITICA DEL NON VERO
il mezzo stesso dell'ironia è entrato in contraddizione con la verità. L'ironia con­
futa l'oggetto in quanto lo rappresenta come ciò che pretende di essere e lo
commisura - senza giudizio, quasi senza intervento del soggetto osservante - al suo
essere-in-sé. Essa coglie il negativo confrontando il positivo con la sua stessa pre­
tesa di positività. Non appena aggiunge una parola di spiegazione, l'ironia si di­
strugge. Essa presuppone quindi l'idea di ciò che è di per sé evidente e - in origine
- della risonanza sociale. [...] L'ironia è passata, ad intervalli, dalla parte degli
oppressi, specialmente quando, in realtà, essi non erano già più tali. Ma, prigionie­
ra della propria forma, non si è mai del tutto liberata dall'eredità autoritaria, dalla
malignità che non ammette obiezioni. [...] [Così che] II medium dell'ironia, la
differenza tra ideologia e realtà, è scomparso. L'ideologia si rassegna a confermare
la realtà attraverso la duplicazione pura e semplice della stessa. L'ironia diceva di
una cosa: questo è ciò che afferma di essere, ma ecco com'è in realtà; ma oggi,
anche nella menzogna radicale, il mondo si fa forte del fatto che le cose stanno
proprio cosi, e questa semplice constatazione coincide, per lui, col bene 93 .
Più complessa è invece la questione allegorica. Per una sua esaustiva
trattazione nell'opera di Adorno sarebbe necessaria una ricognizione
molto ampia. Tuttavia per delineare la differenza specifica con la parodia,
ci basti qui darne una momentanea definizione. Potremmo chiamare «al­
legorico» quell'atto espressivo e interpretativo che nella ripetizione di un
contenuto identico varia la forma espressiva della sua rappresentazione, e
con questo modifica il contenuto stesso. Dato questo potremmo, ex con­
trario, definire la parodia come presentazione di un nuovo contenuto al­
l'interno della medesima forma, col che la forma stessa ne viene mutata.
Che cosa sia il contenuto è stato detto in precedenza 94 ; la forma - «dia­
lettica della tradizione» e «storiografia inconscia» - vien così definita da
Adorno in un luogo cruciale della Dialettica negativa, perfetto a indicare
da subito la portata ambigua, tra ideologia e liberazione, della forma:
ciò che appare come privo di forma ad una costituzione dell'esistenza modellata
esclusivamente secondo una ragione soggettiva, è il puro principio dell'essere per
un altro, del carattere di mercé, che soggioga i soggetti. [...] Ma lo stesso carattere
di mercé, dominio mediato di uomini su uomini, fissa i soggetti nella loro minorità;
la loro maturità e la libertà rispetto al qualitativo andrebbero insieme. Lo stile
manifesta sotto i riflettori dell'arte moderna stessa i suoi momenti repressivi. Il
bisogno della forma che esso manifesta inganna sul suo elemento cattivo, coatto.
Una forma che non dimostra in se stessa il suo diritto alla vita grazie alla sua
funzione trasparente, ma viene solo posta perché sia forma, è non vera è quindi
insufficiente anche come forma 95 .
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 253-55.
Cfr. i cpp. Ili e IV di questo lavoro.
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 84-85.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
205
È questa una strana equivalenza: l'immaginario è processo latente
collettivo come la forma è storiografia inconscia, che deve dimostrare di
essere vera per non tradire la propria funzione. Evidentemente la forma,
la dialettica della forma, all'interno delle tensioni configurative, cariche di
storia accumulata, deve possedere anche un momento liberatorio, di
espressione di ciò che altrimenti resterebbe senza parola. Questa capacità
liberatrice della forma, in effetti, la vediamo all'opera nella prassi critica
di Adorno.
Due esempi. Il primo riguarda la professione più antica di Adorno,
quella di critico musicale. La posizione paradigmatica assegnata al tardo
Beethoven 96 o a Mahler 97 , dipende dalla capacità espressa nelle opere di
forzare il grado di maturazione del materiale compositivo giunto loro in
eredità. Tale «forzatura» è, appunto, il processo parodico. Non si tratta
infatti - come Adorno rimproverò alla tarda dodecafonia e serialismo - di
azzerare le forme ereditate per erigerne delle nuove. In questo modo si
avrebbe, al contrario, una seconda rimozione operata sulla prima. Piutto­
sto il problema è far esplodere la contraddizione che le forme assumono
quando non sono più atte a contenere l'esperienza che vien loro consegna­
ta. E una contraddizione oggettiva - avrebbe scritto Lukàcs - non una
innovazione soggettiva. Questa dialettica assomiglia più a quella tra forze
produttive e rapporti di produzione, sulla quale è modellata, che non alla
dialettica crescente dell'esperienza della Fenomenologia dello spirito. Ma
prima di ulteriori precisazioni vediamo un secondo esempio.
Nel commentare la piece teatrale di Beckett, Finale di partita, Adorno
riassume la posizione di Beckett indicando proprio nella capacità di mo­
strare l'impossibilità delle forme dell'individuo borghese, attraverso una
rappresentazione delle forme dell'individuo borghese, il valore estetico
dell'opera beckettiana:
il dégout di Beckett non può essere imposto dall'esterno. Esortato a stare al gioco,
risponde con la parodia: è la parodia della filosofia vomitata fuori dai suoi dialo­
ghi, e del pari la parodia delle forme - perciò - [...] ogni tentativo di interpretazione rimane inevitabilmente in arretrato rispetto a Beckett: eppure il suo teatro,
proprio perché si limita a una realtà empirica infranta, guizza oltre questa, e
rimanda a una interpretazione proprio per la sua natura enigmatica. La possibilità
Cfr. Th.W. Adorno, Sul tardo stile di Beethoven, in «Aut Aut», n. 225,
Cfr. Th.W. Adorno, Mahler, op. cit.
206
CRITICA DEL NON VERO
che un'interprelazione sia o meno all'altezza di tutto questo potrebbe quasi diven­
tare il criterio di una filosofia futura 98 .
Questa è, di nuovo, la descrizione della filosofia che Adorno presentò
in L'attualità della filosofia: risoluzione del carattere enigmatico. Infatti la
necessità della interpretazione che la parodia richiede è legata alla impos­
sibilità, conferita dall'essere semplice impiego di materiale empirico, di
scavalcare i limiti dell'espressione. Come anche la soluzione dell'enigma
altro non era che una diversa disposizione della costellazione dello stesso
materiale empirico che costituiva la domanda. Il posto che allora era oc­
cupato dalla an invenienài e dalla esatta fantasia, è qui preso dalla inter­
pretazione della parodia, qualcosa che si potrebbe parafrasare kantiana­
mente: la parodia senza filosofia è cieca, ma la filosofia senza parodica è
vuota". Ma la parodia ha anche la sua realizzazione nel mondo. Spesso
anzi, l'inveramento delle istanze della ragione illuministica si attua sotto
forma parodica, quasi che non si fosse stati capaci di «ricostruire il testo»
della storia al fine di «bandire il demoniaco». Scrive Adorno in due di­
stanti periodi di tempo:
In un'ora storica in cui la conciliazione di soggetto e oggetto è stata rovesciata in
parodia satanica, in liquidazione del soggetto nell'ordine oggettivo, può ancora
giovare alla conciliazione soltanto la filosofia che disdegna l'inganno di quell'ordi­
ne e fa valere, contro l'autoalienazione universale, ciò che è alienato senza più
speranze, ciò per cui nemmeno la «cosa stessa» ha più nulla da dire 100.
E quasi trent'anni più tardi, a proposito della consumazione delle
forme tramite la funzione parodica, e tra queste del simbolismo, ripete
che:
si potrebbe dimostrare che i simboli o, detto linguisticamente, le metafore, nella
nuova arte si rendono tendenzialmente autonome rispetto alla loro funzione di
simboli ed in tal modo contribuiscono per la loro parte alla costituzione di una
sfera antitetica all'empiria e ai suoi significati. L'arte assorbe i simboli grazie al
fatto che essi non simboleggiano più niente [...] ciò che prima era simbolico
diviene letterale 101 ;
e questa è, in un qualche modo, la verità odierna del simbolico.
Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 270-71.
Cfr. Th.W. Adorno Teorìa estetica, cit., pp. 138-39.
' Th.W. Adorno, filosofia detta musica moderna, cit., pp. 32-33.
Th.W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 162-63.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
207
Vediamo così come alla parodia corrisponda sempre una sopravvi­
venza di forme dove, grazie al mutamento dei contenuti che si richiede
vengano da esse mostrati, si mostra la verità dei contenuti che, per essere
accolti, devono distruggere la forma; come se qualcosa di non partoribile
dovesse essere comunque partorito da un utero umano.
La forma, che deve ovunque essere sentita come contenuto - perché
è questo il modo in cui la materia penetra nel soggetto - ne è solo l'ese­
cuzione a livello molto avanzato: l'estetica, dove i gradi di coscienza cor­
rispondono a materiali compositivi, cioè a forme molto precise. Ma la
medesima cosa abbiamo vista all'opera anche come nerbo dell'interpretazione della dialettica dell'illuminismo: la maturazione di un rapporto di­
verso tra individuo e natura modifica l'interno stesso dell'una e dell'altro.
Anzi, crea addirittura tale interno. La modificazione della forma di un
rapporto muta i contenuti del rapporto e ne porta alla luce uno nuovo. Il
mito, definito in Dialettica negativa come ritorno dell'identico, è realmente
simile, in un qualche modo, all'intento parodico, che vuole a ogni costo
fermarsi presso la tradizione, e con questo la minaccia.
Aveva scritto Freud 1()2 che sovente il decorso delle rimozioni è quello
per cui il soggetto si attacca alle proprie difese dimenticando il motivo e
il fatto per cui sono state istituite. Secondo Adorno nella dialettica della
tradizione accade qualcosa di simile: tanto più l'individuo vuole fermarsi
presso la forma di individualità che ha ricevuto in eredità, tanto più i
contenuti d'esperienza gliela distruggono sotto gli occhi. La dialettica
dell'esperienza è una funzione parodica. Quel che viene sperimentato
deve in qualche modo essere ricondotto per differenze e identità al già
noto, ma se fosse identico al già noto non sarebbe vissuto come nuovo.
L'utopia del concetto, secondo le parole di Adorno, di aprire l'a-concettuale con concetti senza renderglielo simile, esprime del resto la stessa
cosa: la necessità di una forma senza che questa porti all'identificazione
astratta sotto di essa. La parodia può far ciò perché in essa la forma, a
dispetto del suo «esser tenuta ferma», ha funzione negativa. Nella questio­
ne, per dir così, si da sempre ragione al contenuto che «non ci sta»,
rispetto alla forma; ma in questo la forma non è meramente tolta ma
interpretata nelle sua «originaria rimozione».
Anche il primato dell'oggetto 103 ha la sua formulazione all'interno
della dialettica parodica che stiamo indagando. Essa infatti per sua stessa
S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, op. cit.
Cfr. Th.W. Adorno, Parole chiave, cit., pp. 211-14, 250-51, 218 et passim.
208
CRITICA DEL NON VERO
essenza non tende alla realizzazione dell'unità tra espressione e contenuto,
o meglio: vi tende scoprendone l'impossibilità. Così la intentio obliqua
viene in luce attraverso la divisione tra momenti soggettivi (e il loro riman­
do oggettivo) e momenti oggetti (attraverso il loro rimando soggettivo,
come leggemmo a proposito dei «momenti qualitativi dell'oggetto»), divi­
sione che altrimenti sarebbe impraticabile. Lo scontro che si realizza, nel
tentativo soggettivo di rimandare l'obiettivo solo al momento formale, si
manifesta nella resistenza che questo offre - come testimonia anche la più
semplice delle esperienze.
Similmente la critica immanente, istanza materialistica per eccellenza
secondo Adorno, è anch'essa una forma parodica. Anzi attraverso di essa
scopriamo l'elemento estetico della parodia: il carattere «come... se...» 104 .
La critica immanente altro non fa che prendere per buone alla lettera le
domande che il testo si pone e commisurare le sue risposte a quelle. Così
come la forma saggio, esso non si interroga, almeno al principio, sull'ori­
gine di posizione delle domande, ma fa «come se» la loro forma fosse
naturale. Imita la storia naturale concependo ovunque lo storico come
naturale e viceversa. Il suo risultato è, appunto, la scoperta della differenza
che sussiste tra la forma domanda entro cui è collocato il testo, e il con­
tenuto delle risposte che vengono offerte, e questa è la spiegazione del
«dileguare» del carattere di enigma, che incontrammo nel primo capitolo.
Anche questo «dileguare» è in sostanza una dialettica delle forme. È la
forma enigmatica che dilegua per contraddizione col suo contenuto, o
meglio: con quel suo contenuto che si è ottenuto permutando gli elementi
materiali della sua costellazione, attraverso la fantasia, in una diversa di­
sposizione.
Si vede bene coinè il momento soggettivo della parodia non sia né
individuale né esistenziale. La fantasia è l'elemento grazie al quale le ten­
sioni della costellazione possono essere trasposte nel pensiero. Senza di
che l'arte sarebbe semplicemente la realtà, il pensiero la cosa. Identità di
reale e razionale. Ma il pensiero, modellato sul lavoro, come vedemmo, ha
la sua prima e essenziale disposizione nella negazione del dato per come
esso appare. Per questo non è necessaria una negazione reale ma solo
quella della riflessione. La scissione così tra le due è tanto essenziale quan­
to, in prospettiva, la concezione della loro possibile unificazione. Infatti
solo in forza di tale scissione può avvenire la critica del concetto e del
Cfr. cap. IV.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
209
reale. Ma la forza che conduce a questa scissione - per proseguire nella
ricollocazione delle categorie che abbiamo commentate nel corso del lavo­
ro - pur trovandosi entro le cose, è come bloccata dalla potenza della
realtà, la quale non teme alcun male dalla contraddizione. L'orrore per la
contraddizione è una cosa che appartiene tutta alla mente dell'uomo, la
realtà è contraddittoria, eppure ciò, di per sé, non la smuoverebbe di un
centimetro.
Il pensare qualcosa di contraddicentesi pare precedere la separazione. In senso
genetico la logica si rappresenta come tentativo di integrazione e di stabile ordine
dell'originariamente multivoco, come passo decisivo della demitologizzazione. La
sua autorità assoluta [...] deriva proprio dalla sua trasformazione in tabù, quindi
nell'inibizione di tendenze contrarie preponderanti. In quanto «legge del pensie­
ro», esso ha come contenuto un divieto: non distrarti dal pensare, non ti fare
distogliere l'attenzione dalla natura inarticolata, ma trattieni salda come possesso
l'unità dell'intenzionato' 05 .
Ecco perché solo in una sospensione essenziale del carattere reale
della realtà, il soggetto può darsi alla contraddizione e provare a muovere
i suoi termini, fino a che si dissolva. Sotto la pressione dell'angoscia e della
paura, questo non sarebbe possibile. La parodia, realizzando il contatto
tra due epoche diverse - la antecedente che si presenta come forma, e la
seguente sotto l'aspetto del contenuto - limita la pressione dell'orrore
mitico e insieme ne conserva memoria, senza la quale infatti l'incontro non
si realizzerebbe.
Nel rapporto tra desiderio e memoria, avevamo visto come si realizzi
una traduzione di materiali di varia provenienza. Anche questa traduzione
può essere vista sotto il riguardo che qui ci occupa. Che cos'è la traduzio­
ne infatti se non una forma della parodia? Essa consiste in quella partico­
lare forma di esecuzione del testo dove i segni vanno disposti in immagini
e connessioni di significati, dove elementi all'apparenza insignificanti rice­
vono dalla comprensione l'unica certezza del «io significo questo 'qualco­
sa'». A partire da questa certezza, cioè dal loro carattere di realtà cifrata,
essi vengono tradotti in una forma - diversa da quella del puro-segno/
puro-significante - che consenta al loro contenuto di diventare linguaggio.
Ma si tratta qui di un contenuto che è al contempo formale e materiale 106.
105 Th.W. Adorno, Metacritica della gnoseologia, cit., pp. 87-88.
106 Cfr., curiosamente, W. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, op. cit.
210
CRITICA DEL NON VERO
La forma stilistica è, infatti, una precisa disposizione sociale storica­
mente divenuta. Le connessioni dei segni, la «forma enigma» è allora
veicolo di altrettanto contenuto del semplice contenuto materiale, di quel
che «viene raccontato». Anche in questo caso vige il principio dialettico
per il quale solo tramite la contraddizione si può «aprire l'a-concettuale
senza renderselo identico». Letteralmente la traduzione sarebbe, come la
parodia, un impiego della forma nell'epoca della sua impossibilità. Essa
esegue quel che lo scritto sembra chiedere, cioè che lo si sorpassi per
giungere alle cose, in tutta serietà. Ma solo se questa traduzione si sarà
spellata le mani nel tentativo della fedeltà assoluta, e cioè della forma
perfetta, potrà risaltare la differenza tra il contenuto e la sua espressione.
Questa differenza è per Adorno vicinissima alla verità. Essa, e non altro,
costituisce la strada verso il non identico. Tale differenza allora non deve
essere eliminata, ancorché la sua eliminazione fosse possibile, perché solo
grazie ad essa è possibile mandare a frutto la critica su entrambi i versanti:
quello del contenuto e quello della forma - e in questo esprimere il giu­
dizio sul rapporto tra realtà e pensiero.
Entrambi sono prodotti sociali, passati attraverso un processo di messa
in forma. Non sono dati - se non al singolo individuo - ma posti. Nella
lettura dei testi la filosofia, come indicò Adorno, realizza il proprio pecu­
liare rapporto con la tradizione: il mantenimento dei termini nella muta­
zione del loro significato. La differenza formale registra entrambi, ovvero
la variazione delle costellazioni reali e sociali e ideologiche. Come a dire
che nella storia, ad esempio, del conio wolfiano della parola 'BewuBtsein',
e della sua introduzione all'interno di tutta la successiva speculazione
dell'idealismo, è cifrato un contenuto che si scontrerà violentemente,
poniamo, con l'anglosassone 'mind', nella filosofia neopositivistica.
La parodia è anche la modalità dell'esecuzione. Se questa richiede
che la «traduzione» venga condotta nel reperimento dei problemi che il
testo (musicale, scritto, o quant'altro) presenta, quella suggerisce che la
esecuzione non sia affatto solo un regresso allo stadio precedente, a quella
problematica di cui il testo dovrebbe costituire la risposta. Si tratta al
contrario di vedere come il problema riceva nuova luce all'interno della
forma in cui esso è presentato come risposta. La vicinanza infatti tra co­
stellazione e parodia è fortissima. Anzi si potrebbe dire che la parodia è
una costellazione allungata su entrambi gli assi: diacronico e sincronico.
Questo può essere visto recuperando il saggio come forma paratattica, e
quindi di rappresentazione della costellazione, per eccellenza. Scrive
Adorno che il disagio per il modo di procedere del saggio è:
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
211
in parte vero in parte sbagliato. Vero perché di fatto il saggio non conclude e la
incapacità di concludere riemerge come parodia del suo stesso a priori; e allora gli
si addossa una colpa commessa invece dalle forme che cancellano la traccia del­
l'arbitrarietà. Il disagio è invece fuori posto perché la costellazione del saggio non
è arbitraria. [...] Definiscono il saggio l'unità del suo oggetto e l'unità di teoria ed
esperienza entrate nell'oggetto stesso. [...] Riferendosi sempre a cose già fatte, il
saggio non si presenta mai come creazione né cerca qualcosa di omnicomprensivo,
la cui totalità sia analoga a quella della creazione. La totalità del saggio, unità di una
forma che è in sé costruita esaustivamente, è la totalità del non totale, è una totalità
che neppur come forma propugna la tesi [...] dell'identità di pensiero e cosa;
e poco dopo conclude:
esso realizza quasi parodisticamente quella polemica altrimenti spuntata che il pen­
siero conduce contro una mera filosofia dei punti di vista. Esso logora le teorie che
gli sono vicine; la sua tendenza è sempre rivolta a liquidare l'opinione, anche
quella con la quale esso inizia. Il saggio è ciò che è stato fin dall'inizio, la forma
critica per eccellenza; e cioè, in quanto critica immanente di produzione spirituali
e confrontazione di quel che esse sono col loro concetto, critica dell'ideologia 107 .
La forma saggio è dunque nient'altro che forma parodica applicata.
Ciò a dire che la forma della riflessione e quella dell'interpretazione coin­
cidono (cosa che, del resto, avevamo già trovata scritta in Adorno). Per
questo, e non per altro, non è solo il vero che ha bisogno dell'interpreta­
zione, ma anche l'interpretazione che ha bisogno del vero. Detto in altri
termini: l'interpretazione è possibile solo come critica.
Data questa funzione è importante indicare come la parodia sia l'in­
verso interpretativo che si trova ex negativo nella dialettica negativa adorniana a svolgere il ruolo della Aufhebung. Se questa ha il compito di
risalire all'universale che si rivela essere la verità della contraddizione
particolare, quella serve a smontare l'apparenza della conciliazione tra
singolare e universale, l'apparente verità della espressione dell'universale
nel particolare, e viceversa. Serve, in una parola, a far sentire la mancanza
della universalità, a smascherare l'apparenza per la quale ogni frammento
è frammento di nulla. Giacché l'universale esiste nella forma di una pro­
duzione di soggetti che non sono più in grado di riconoscerlo, attraverso
l'analisi del non riconoscimento viene a galla il materiale dell'accecamen­
to. Quando trovammo scritto che nei «vuoti del testo» si concentrava,
forse, proprio la forza del testo, riconoscemmo in questo l'espressione del
10/ Th.W. Adorno, Note per la letteratura, voi. I, cit., pp. 22-24. Corsivi miei.
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CRITICA DEL NON VERO
fatto che la totalità entro la quale il pensiero si svolge può essere presen­
tata come tale solo a patto di una serie di rimozioni. Attraverso l'interpretazione parodica possiamo adesso render la cosa ancora più chiara.
La società, la totalità sociale, penetra nell'individuo non come estra­
neità, ma perché ne è la forma; ed in modo accresciuto quando questi vuoi
essere un universale. Giacché il pensiero non è l'oggetto, l'eterogeneità è
inespugnabile. Ma in quanto la cosa è in quel modo nella testa essa diviene
utilizzabile dal soggetto, e cioè dall'essere sociale. Il suo nome sarà tanto
più corretto quanto più mostrerà la secondarietà del materiale d'esperien­
za e sociale dal quale è tratto. Questi sono la sua forma, cioè la parte
universale del suo senso/contenuto. E, poiché l'universale per l'uomo non
è solo la natura, esso è violenza che si esercita per tradurre una cosa
dentro una testa. Tuttavia questa non è affatto la prima traduzione. Poiché
l'uomo è, sia come concetto che come ente, esattamente una astrazione di
una determinata epoca sociale, ne abbiamo il risultato che ogni pensiero
è già sempre una traduzione elaborata dal soggetto con i suoi materiali e
le sue forme, ma soprattutto sotto la necessità del principio sociale di
realtà. Quindi materiali e forme - che per la quasi totalità non sono co­
scienti - di quel che esperisce come se fosse non tradotto. È la storia di
questo supposto non tradotto che chiarisce di che cosa in realtà si tratti;
come dice Adorno, la forma è una storiografia inconscia.
Sotto una interminabile serie di analogie e trasposizioni - di astratte
identità - è andata persa la possibilità di riconoscimento senza identifica­
zione con la forma di dominio. Ciò che un tempo servì letteralmente alla
sopravvivenza è sopravvissuto a scapito dell'utilizzo razionale di quel che
era stato prodotto.
La parodia mostra che l'esperienza individuale che sarebbe necessaria
alla creazione di una forma di identità razionale non è disponibile. Mentre
l'identità effettiva viola continuamente la non identità, essa si trasmette
come una coazione all'unità. Come unità è index dell'utopico, ma come
coazione essa è la forma di pensiero entro cui il non identico viene rimos­
so. Il mantenimento della forma è un modo della memoria, seppur di una
memoria che ha dovuto prender la strada della rimozione. In questo i
linguaggi e le forme sono depositi della memoria, trascendentali di fronte
al soggetto empirico, ma costellazioni storiche di fronte al soggetto uma­
nità. Entro di essi i vuoti, i lapsus e le scelte stilistiche indicano i nuclei
delle posizioni di agenti sovraindividuali, di interessi che si formano e
cambiano nella struttura sociale.
Il soggetto interpretante ha a disposizione i materiali per cogliere
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
213
queste costellazioni, la fantasia gli permette di mettere in scena la rappre­
sentazione del «dato», e, attraverso il desiderio, di variare le sue combi­
nazioni. Di modo che nessuna appaia immutabile e pura natura.
L'esperienza del dolore che si avverte nella distanza tra desiderio,
felicità e esperienza, è indice di una contraddizione non soggettiva. Di un
errore nella trama della rappresentazione che avviene dentro la duplicazio­
ne irriflessiva del «dato». Per questo il pensiero ha bisogno di tutte le
tendenze empirico-soggettive e insieme avviene là dove, «propriamente
non si pensa affatto», nel soffermasi presso la cosa, nel prestare a essa la
forza per quell'esperienza di sé che essa non può compiere. Essa - il non
identico - è intrappolata nella forma del «nome». Al nome spetta di co­
struire l'impianto di liberazione. La parodia, come distribuzione e soluzio­
ne tra forma - come deposito di soluzioni passate per uscire dallo stato di
paura - e contenuto - inteso quale esperienza presente di una forma e di
un contenuto - consente l'interpretazione storica della cosa. E allo stesso
modo come mantenimento della forma, essa si oppone alla sua rimozione,
cioè all'operazione ideologica che trasforma il revocabile in naturale.
Ma in quanto «mantenimento della forma nell'epoca della sua impos­
sibilità», la parodia non identifica, non concettualizza ogni cosa. Attende
allo scontro tra l'obbligo inevitabile dell'eredità della specie e l'istintualità
individuale: principio dell'esecuzione come interpretazione. E nella prete­
sa di cacciare a forza le cose entro le forme socialmente disponibili - nel
principio della critica immanente - segue le tracce della «traduzione»
compiuta1 da ogni testo. Nel dover essere per il quale nella dialettica tra
esperienza e concetto, la mancanza può essere tanto dell'uno quanto del­
l'altra.
L'espressione paratattica smonta la priorità che la forma esigerebbe
dal contenuto. Così come accade nell'allegoria - che è il complemento e
non il contrario della parodia - il fatto che la forma venga mantenuta pur
se divenuta tradizione passata, significa che qualcosa di rimosso, la tradi­
zione, viene mantenuto affinchè un altro rimosso possa venir mostrato.
L'espressione indica, l'interpretazione protegge tale atto dal regredire a
cieca imitazione e ripetizione mitica, e dal porsi ideologicamente come
non rimosso, verità pura. A sua volta il mostrare dell'espressione vieta al
concetto di ridurre il mostrato all'identità concettuale, modellata su quella
sociale della rinuncia alla revocabilità della funzione mercé.
La due forme, quella che si presenta come tale e l'altra, sua esecuzio­
ne all'interno del «come... se ...», si presentano insieme. Ognuna reclama
che venga mostrato il suo proprio contenuto, cioè: un contenuto più vec-
214
CRITICA DEL NON VERO
chic ed uno più nuovo, come se fossero separabili e separati. Il primo è,
per dir così, un pericolo oramai fermo che permette al pericolo attuale l'identificazione indeterminata - di venire a galla. L'interpretazione si
serve di questi due piani per rinfacciare continuamente al primo quel che
ha fatto; non al fine della sua redenzione, ma per permettere al secondo
di farsi luce, nella rappresentazione del primo come un «ex-secondo». Si
tratta di fare il Wttz del primo affinchè il secondo non ne abbia a soffrire.
Questo significa che la teoria dell'interpretazione adorniana è dialet­
tica in senso stretto, in quanto riconosce la mediazione come universale,
e insieme non dialettica, poiché lascia che una necessità impossibile viga
al fine di far emergere il diritto del parlante: «che quel che è non è tutto
quel che è» 108 . La parodia come interpretazione tien fermo alle regole del
gioco, ma per gioco. Sotto di esso, la decisione spetta al desiderio di
felicità. Che esso sia stato costruito con materiali dubbi non diminuisce la
sua importanza. La sua secondarietà è scandalosa solo per un pensiero che
vorrebbe ancorare l'autonomia in un punto fermo ontologico, quale che
sia. Parodia vuole che il processo interpretativo venga condotto su se
stesso fino alla propria impotenza: autointerpretazione spietata dell'inter­
pretazione, riconoscere in sé l'intreccio di interpretazione e ideologia, che
non interpreta affatto, ma tutto prende per buono e tutto per vero.
E questo del resto nient'altro che il contenuto della autocritica della
ragione illuministica, alla quale Adorno ha dedicato la sua opera. Nella
convinzione che dopo di esso il processo non possa che avvenire nella
dirczione di una radicalizzazione della ragione, ma di un regresso o az­
zeramento. Anche questo significa la dignità incomparabile, come si espri­
me Adorno, del ricordare, fuori da cui c'è solo l'inizio delle barbarie.
È un'autocritica che si svolge nella realtà, per quanto questa sia di­
venuta concettualmente problematica, e nella realtà dell'individuo. Con­
cettualmente però sta a significare: alla ragione stessa. Mentre gli individui
continuano a vivere e interpretare, il vero si annuncia, oltre che come
divenire, anche come possibilità che si palesa quando la forma mantenuta,
contenuto di primo grado, si appresta a ricevere un nuovo contenuto, che
è al contempo la sua critica. E nell'entrare in essa la modifica.
È questo che decide dell'interpretazione: se tra i due contendenti,
l'esperienza e la forma, debba vincere l'uno o l'altro. Nel primo caso
108 La frase si trova, come incipit, all'inizio di AA.VV., Die nette Link nach Ador­
no, op. cit., con l'indicazione che si tratti di una dichiarazione orale... Ma del resto
espressioni quasi identiche si trovano in tutti i testi di Adorno.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
215
avremmo una regressione dell'esperienza e la mercificazione dell'industria
culturale. Nel secondo, se sospinto da buoni desideri, una modificazione
della tradizione, del rimosso formale, che apra alla possibilità della memo­
ria, del toglimento del tabù sul rimosso.
Esattamente come avviene, secondo Adorno, nell'arte, la doppia let­
tura è lettura genealogica del contenuto come reazione alla forma mime­
tica e all'imitazione astratta della ratio oggi dominante. Nella seconda
lettura, parallela, si scoprirà, forse, la posizione mediata della prima e
insieme i diritti naturali che hanno bisogno di entrambe le cose: il loro
dominio e la loro libertà - il testo e l'interpretazione.
La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il
tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista
della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana
dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a poste­
riori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si
dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno,
deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza
arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto,
è il compito del pensiero. E la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale
invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non
appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l'assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure
d'un soffio, al cerchio magico dell'esistenza 109 .
Forse c'è una possibilità anche per questa impossibilità all'interpretazione. Ma di essa si decide uscendo dal problema di che cosa intendesse
Adorno, secondo il principio della sua stessa filosofia, per vedere se i suoi
testi dicano il vero o il falso sulla realtà. Ma per far questo è di essa che
si deve pensare.
FINE DELL'INTERPRETAZIONE
La musica di Mahler non è soggettiva nel senso che esprime l'individuo, ma perché
egli la pone in bocca al disertore. Tutto in essa è l'ultima parola. Chi va alla forca
butta fuori tutto quello che altrimenti avrebbe detto quando non lo ascoltava
nessuno: solo che ora è detto apertamente. La musica confessa che il destino del
mondo non dipende più dall'individuo, ma sa anche che questo individuo non
Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.
216
CRITICA DEL NON VERO
possiede alcun contenuto che non sia suo, per quanto infranto e impotente. Per
questo le fratture dell'individuo sono la scrittura della verità. In esse il movimento
della società si presenta negativo come nelle sue vittime. In queste sinfonie anche
le marce vengono intese e riflesse da colui che esse travolgono con sé. Solo quelli
che sono usciti dai ranghi, i calpestati, l'avamposto perduto, il soldato sepolto al
suono delle belle trombe, il povero tamburino, gli uomini totalmente privi di
libertà incarnano per Mahler la libertà. Senza nulla promettere, le sue sinfonie
sono ballate della disfatta: che «presto sarà notte» 110.
Con queste frasi si conclude il saggio di Adorno su Mahler. In esse,
credo si possa dire, è detto anche il destino della filosofia del filosofo
francofortense.
La riflessione filosofica è, almeno in Italia, dominata da correnti che
potrebbero essere definite «ermeneutiche». La loro comune definizione
dipende meno da concordi risultati che dall'identità dei presupposti del
modo di procedere, di decidere che cosa costituisca un problema e, entro
di esso, scegliere che cosa debba essere considerata una risposta.
È la filosofia della morte della metafisica, della morte del soggetto,
della morte della verità. Certamente Nietzsche e Heidegger da un lato,
Freud, Lacan e Derrida dall'altro, e la fenomenologia infine dal terzo,
costituiscono i vertici di un triangolo che entro di sé ha accumulato una
quantità notevole di materiale e speculazione. Non è senza rapporto,
questo affermarsi, con i mutamenti sociali e politici intercorsi dalla fine
degli anni Sessanta a oggi.
Curiosamente tutte e tre le «scuole» sopra indicate appartennero
anche al patrimonio culturale di Adorno. Tuttavia se «la filosofia si man­
tenne in vita perché era stato mancato il momento della sua realizzazio­
ne» 111 , egli ha sempre concepito l'autoriflessione, l'autocritica dell'illumi­
nismo, come unica possibilità di una teoria che conservasse pudore di
fronte al reale. Come prodotto della divisione sociale del lavoro, la filoso­
fia non può evitare di interrogarsi sull'altra metà, sulla sorellastra cattiva,
sul suo altro. Ma questo significa, probabilmente e in primo luogo, non
confondere i problemi del reale con quelli dei concetti, e la problematicità
della categoria di «reale» con una problematicità reale. La posizione cri­
tica di Adorno nei confronti di Husserl ne è un esempio lampante.
Se abbiamo tentato, allora, una teoria dell'interpretazione in Adorno,
non è stato perché la «risposta» di Adorno a quell'«enigma» potesse gia1(1 Th.W. Adorno, Mahler, cit., p. 286.
11 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 3.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
217
cere accanto all'enigma «lasciandolo immutato» - ma perché essa, come
filosofia critica, modificasse con la risposta la forma stessa dell'enigma 112 .
Si è trattato di immergere nell'opera di Adorno una serie di problemi
- che non è stato possibile esplicitare ogni volta indicandone paternità e
riferimenti bibliografici — per osservare a che genere di configurazione di
forze dessero luogo una volta immersi in un ambiente tanto differente. E
in questo, data la «forma saggio» e paratattica del pensiero di Adorno, si
è dovuto, per forza di cose, seguire almeno in parte la sua convinzione
dell'impossibilità di riassumere per risultati, ma, al contrario, di collocare
tutte le proposizioni «ugualmente vicine al centro» 113 . Questo ha fatto sì
di rendere impossibile una vera e propria conclusione al lavoro, che sareb­
be da pensare come l'archivio dei suoi risultati. Quel che invece si può
fare, e che ci accingiamo a compiere, è la rappresentazione della costella­
zione generale dei problemi, dove a ogni termine corrisponda: «l'evocazio­
ne dei suoi significati in rapporto al livello storico di coscienza raggiun­
to» 114 .
«Per una teoria dell'interpretazione» significa appunto che il lavoro
effettuale dovrebbe ancora essere compiuto. Il quale, tuttavia, senza l'au­
silio dei materiali, che costituiscono la forma del problema, così come Vars
invcmendi e l'«esatta fantasia» sarebbe lavoro vuoto.
Nel lungo tragitto compiuto attraverso trentotto anni di produzione
di Adorno, alcuni temi principali si sono mostrati ricorrenti - secondo lo
stesso autore, questo è indice della verità del problema che li ha suscitati,
e la loro variazione è il contenuto di verità che in essi, di volta in volta,
può venir pensato.
Alcuni di essi, come la critica dell'ontologia e della fenomenologia
husserliana delle Ricerche logiche, l'interpretazione della coazione al siste­
ma in Hegel o la polemica antipositivista, sono sufficientemente noti per­
ché non ci si soffermi su di essi in questa conclusione.
Altri, per contro, sembrano quasi stare al di fuori del recinto sacro
della filosofia, nel quale, a detta di Hegel, gli uomini attendono che scenda
finalmente, la divinità 115 .
Il punto nevralgico, non solo di questa ricerca ma dell'intera produ­
zione estetica ci i Adorno, è qualcosa che potremmo chiamare in termini
12
'
14
15
Cfr.
Cfr.
Cfr.
Cfr.
Th.W. Adorno,
Th.W. Adorno,
Th.W. Adorno,
G.W. F. Hegel,
Die Aktualitàt der Philosophie, op. cit.
Parafassi, in Note per la letteratura, voi. I, op. cit.
Terminologia filolofica, op. cit.
Estetica, cit., pp. 7J3-19 e 754-57.
218
CRITICA DEL NON VERO
gadameriani Verwandlung ins Gebilde. È il principio per il quale le forme
di coscienza trasmettono i loro contenuti sotto l'aspetto di una forma, che
a sua volta costituisce l'intero cui si sottomettono e che compone le parti.
Ed è certamente questa una delle più antiche idee di Adorno, giacché la
troviamo sin dalla Filosofia della musica moderna - non del tutto a spro­
posito si potrebbe indicarne uno degli antecedenti nella allegoria benjaminiana - e fino alla Teorìa estetica, dove oramai prende la forma della
dialettica tra forma dell'opera, materiale compositivo e dialettica della
tradizione.
Ma essa, ed è questo uno dei punti della tesi, non è un processo
esclusivo dell'ambito artistico: la si ritrova anche nella Dialettica dell'illu­
minismo e, in parte mutata, nella prospettiva della dissoluzione dell'indi­
viduo borghese dei Minima moralia. Essa è, in qualche modo, già la pa­
rodia - l'organo di attuazione dell'interpretazione - per come è stato
presentato. Infatti grazie alla differenza tra elementi materiali formali e
materiali dell'enigma, l'interpretazione collega diversi stadi della coscien­
za, non solo individuale, ma soprattutto storica e cioè, nel caso nostro,
sociale; sebbene questo collegamento resti qualcosa di sostanzialmente
diverso dalla «fusione di orizzonti», trattandosi piuttosto di un teatro di
contraddizioni.
Il fatto che le forme attraverso le quali, socialmente, si organizza la
sopravvivenza dell'individuo e il controllo della natura, restino a comporre
la tradizione con un processo analogo a quello delle forme estetiche, in­
dica come, in generale, la coscienza sia il deposito di esperienze che si
arrestano — come le figure della fenomenologia hegeliana - grazie al loro
assumere un aspetto generico-formale. E Adorno non ha in alcun luogo
sottovalutato il potere del linguaggio in questa operazione. Ma pure, con­
tro tutta una tradizione psicoanalitica e strutturalista, ha sempre tenuto
fermo alla distinzione tra trascendentale e sociale, cosi come a quella tra
medium e origine ontologica.
Solo attraverso il linguaggio il concetto è un qualcosa di relativamen­
te stabile al confronto di quel che sotto di esso si intende indicato. È
questo il «realismo ingenuo» di Adorno. E tuttavia l'ipostasi del linguag­
gio è, per Adorno, la identificazione del medium con la cosa mediata, e
della mediazione con la ragion sufficiente. La trascendenza si attua non
tendendo al massimo l'aspetto trascendentale del linguaggio, bensì secon­
do il Nostro, allestendo paratatticamente l'utopia del concetto: esprimere
l'aconcettuale senza renderselo identico.
La differenza tra le due operazioni in questo consiste: nella decisione
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
219
su che cosa sia il concreto, e se si debba filosofare su di esso o a partire
da esso. In questo contesto Adorno rifiuta il procedimento della definizio­
ne. Sapendo in anticipo a che cosa corrisponda il nome è poi operazione
semplice, sebbene non indolore, rinunciare a qualsiasi idea di verità mentre in realtà si sta rinunciando a una idea aristotelica di verità che lo
sviluppo storico ha già da lungi liquidato.
Il processo di astrazione, appunto, irrinunciabile al pensiero, ha la
sua parte di verità nella certezza, che solo identificando l'eterodosso è
possibile proseguire nell'illuminismo, ma è pure anche cosciente che i suoi
oggetti sono comunque enti di pensiero, parole non cose. L'interpretazione deve rendersi accorta di ciò: di avere a che fare con forme eterodosse
di enti di pensiero.
Del resto alcune magistrali interpretazioni di Adorno sfruttano pro­
prio la differenza esistente tra la forma, come funzione concettuale e
espressiva (termini altrimenti distinti) unificante, il suo uso, e la sua con­
temporanea impossibilità a render ragione dell'esperienza; basti ricordare
non solo il Beethoven della sonata 111, ma anche Mahler e Beckett. Dove
la «impossibilità alla forma» non è solo il risultato di una personale pas­
sione di Adorno per le così dette avanguardie storiche, ma indica una
precisa zona di rimozione. In termini molto nietzscheani, e molto freudia­
ni anche, essa è la rimozione dell'individuale concreto, del mondo del
caos, a favore di una astrazione ordinatrice. Ma giacché il mondo umano
è sempre meno quello naturale e sempre più quello sociale, anche della
apparente irrazionalità del mondo sociale - apparente nel senso che si
tratta in realtà di una «razionalità tecnica» - deve quella rimozione render
conto.
Nel teatro della riflessione che l'individuo è in grado di mettere in
moto attraverso la potenza del desiderio come elaborazione successiva di
un utopico stato di grazia, e in cui viene chiamata in giudizio, per una
volta, la realtà, si incontrano così due concordanti eppure antitetiche
necessità. Da un lato quella per cui senza la ragione («illusione necessaria»
la chiamò Nietzsche) non c'è libertà ma solo terrore, dall'altro quella di
autoriflettere le identificazioni astratte della ragione giacché sotto il peso
di esse rischia di scomparire la possibilità stessa dello scopo per il quale
erano sorte: l'autoconservazione nella dirczione della felicità.
È per questo che l'interpretazione si scopre prima di tutto come
critica del non vero. Spinta da una parte contro la signoria del così-e-nonaltrimenti, che il «dato» sembra esigere di per sé, e che l'orizzonte ideo­
logico allarga sempre più al sociale come se fosse dato di natura, e dall'ai-
220
CRITICA DEL NON VERO
tra costretta, contro forse le sue tendenze più intime, a bloccarsi la via
della regressione - dove la consegna nelle mani dell'irrazionale è la più
completa possibile - essa rivendica la vicinanza assoluta di verità e piacere
sensuale senza per questo voler scambiare la propria identità con l'otteni­
mento del secondo.
Fu probabilmente questo uno dei punti di rottura teorica tra Marcuse
e Adorno. Nel secondo resiste l'idea che l'identità sia una ricorrenza
multipla, senza alcuna possibilità di ricercarne il fondamento, pena lo
scoprire solo l'«inconscio collettivo latente» di questa organizzazione so­
ciale, cioè, in ultima istanza, della organizzazione sociale basata sulla di­
visione del lavoro. L'interpretazione assume cosi la prospettiva - ennesimo
passo in dirczione della morte di Dio - dell'individuo al quale essa deve
restituire speranza. Sebbene esso sia solo una delle forme, né la più antica
né certo la più solida — dell'evoluzione della specie umana. E qui che trova
sostegno la critica immanente e la negazione determinata, medium dialet­
tica dell'interpretazione. Sebbene si debba dire che le contraddizioni ap­
partengano sempre alla cosa - al «testo» se così ci si vuole esprimere - la
loro messa in moto non è naturale: essa dipende sempre dal «negativo»
del loro coglimento, del sentimento negativo che si trasforma in una do­
manda, come scrisse Adorno, petulante e ingenua ma, che cosi ingenua
poi non è mai, sul perché così e non altrimenti.
L'interpretazione si incontra allora con la immagine secolarizzata
(altra categoria benjaminiana) dell'allegoria interpretativa biblica: il senso
morale e anagogico sono in realtà più che il risultato, la guida dell'inter­
pretazione. E non è questo indifferente alla dialettica della messa in forma
tipica della parodia. Fu Kant, almeno nelle ricostruzioni adorniane, a in­
dicare come l'intelletto abbia come unica funzione di mettere in forma
quel che di per sé ne avrebbe poca, o addirittura alcuna (anche qui Nietzsche non è estraneo...). Aggiunge Adorno che questo è anche il modus
procedendi dell'eredità, della tradizione. La cosa non è ininfluente: la tra­
dizione è, paradossalmente, l'ambito stesso della verità. Se essa è la con­
servazione del processo intero, e la tradizione la trasformazione di un
contenuto - cioè per un dialettico come Adorno una «relazione» - in una
forma vincolante, allora la interpretazione e la tradizione sono identiche e
contrarie.
Come mostrano le interpretazioni di filosofia della musica di Adorno,
l'extraestetico penetra nell'opera d'arte come vincolo formale, come con­
tenuto sociale rimosso e, ideologicamente, ad un tempo espresso. Ma l'in­
dividuo, che non è certamente soggetto di questo processo, è tuttavia il
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
221
suo vero organo di senso. Come dire che la memoria sociale è più com­
pleta ma assai più cieca del ricordo individuale. In quella si conservano
finanche le tracce di ciò che non ha traccia, di ciò che è stato espulso, ma
solo in queste le forme possono risultare incongrue rispetto alle esperien­
ze. Se - ancora Nietzsche 116 - il giudizio è sempre in ultima istanza un
giudizio di soddisfazione espresso dall'uomo, allora anche categorie come
impossibilità o possibilità sono espressioni di una situazione di felicità o
di dolore.
Sebbene l'individuo non possa mutare le costellazioni concrete, egli
può tuttavia considerarle «come... se...» potessero essere diverse. La filo­
sofia ha raggiunto, nel processo, in fondo sempre illuministico, di demi­
stificazione, un grado di coscienza che non può essere eluso. Eppure ha
reso anche ancor più chiaro che la coscienza è una forma di un determi­
nato grado di sviluppo. Questa idea, per lo meno di Marx prima che di
Adorno, secondo la quale «l'essere sociale determina la coscienza», è
anche la chiave di volta per la rivolta della coscienza contro l'essere. Quel
che oggi vorrebbe essere accolto come smentita del materialismo storico
e della critica dell'economia politica, il fatto che le forme di coscienza
influiscano sulle forme produttive, è invece forse l'apertura a una diversa
interpretazione della storia. Diversa interpretazione che né l'abiura di
Lukàcs (che per primo formulò chiaramente, per una parte, questa idea)
né il riassunto ad hoc della filosofia del Novecento compiuto per richiu­
derla sotto l'inganno estremo metafisico, possono annullare.
L'individuo si trova sul limite di tutto. Indifeso dallo strapotere della
struttura, sociale o testuale, storico-biologica o inconscia, egli non è in
grado di reperire da nessuna parte un punto fermo a partire dal quale
pensare e criticare. Eppure l'atto della interpretazione continua, anzi esso
è forse, come scrisse Adorno nel mille e novecentotrentuno, l'atteggiamen­
to per eccellenza della filosofia. Gli è che il rimosso torna a presentarsi
all'individuo come eredità sociale, come forma, forma stessa della sua
coscienza, con la quale, nonostante tutte le sempre crescenti difficoltà egli
rifiuta di non identificarsi. Ma questo grado eli sviluppo della coscienza si
116 Che la filosofia di Nietzsche appartenga in qualche modo alla tradizione della
scuola di Francoforte è indubitabile. Pochi sono, per altro, i lavori di questi autori che
discutano di Nietzsche. È un'assenza interessante. Tuttavia non credo che le interpretazioni di tale mancanza fondate sul concetto di 'natura' in Adorno e Nietzsche colle­
gano il punto cruciale, che forse andrebbe cercato, semmai, nello «illuminismo diabo­
lico» dei due.
222
CRITICA DEL NON VERO
duole della vita che conduce, e non trova in sé forme — concettuali, espres­
sive e di azione - necessarie a comprenderla e a mutarla. Anzi a lui, e
anche per noi, come si esprimerebbe Hegel, tali forme sono diventate,
parodisticamente, materiali, di nuovo come un tempo dovettero esser state
prima di venir spediti sufficientemente lontani da non costituire più una
minaccia. Su questi materiali si esercita la pressione artistica, ma anche la
pressione del pensiero tout court.
Entrambi afflitti dalla impossibilità di calare l'esperienza nelle forme
che il mondo ha approntato per essa, ne forniscono una rappresentazione
(in questi casi Adorno usa sempre e invariabilmente il termine Darstellung
per distinguere dalla rappresentazione come costruzione di immagine, in
tedesco Vorstellung}™ dove le tensioni restano: dove la forma viene im­
piegata nonostante la sua inadeguatezza. Dove la parodia della forma - il
portare il sempre identico (l'inconscio è privo di tempo) dentro il nuovo
(interpretare significa far irrompere il tempo nell'inconscio che di per sé
ne è privo) 118 - distrugge la forma stessa come natura, le toglie il carattere
di tradizione inviolabile, rende meno dura la rimozione. Cade, insomma,
il velo per il quale tutto appariva immutabile e immutato. E l'interpretare
si scopre critica del non vero.
Allora la coscienza individuale si scopre essa stessa una forma prodot­
ta, storicamente prodotta, una «sottile trama» la chiama Adorno, dell'epo­
ca tardoborghese. E ad essa si pongono di fronte altre forme - altri me­
dium -, dall'aspetto trascendentale come è non solo il linguaggio, ma la
struttura stessa del pensare per identificazioni, sorta in assonanza con la
divisione del lavoro nella sfera della produzione e l'identificazione nella
sfera della circolazione e scambio. Queste forme hanno, per Adorno, alla
radice la medesima struttura delle forme artistiche - che non per nulla egli
117 L'importanza del termine Darstellung all'interno del pensiero adorniano me­
riterebbe una ricerca a sé; probabilmente a cominciare dalla «comparsa» di questa
parola all'interno della cerchia degli autori di riferimento del Nostro. L'origine dell'uso
moderno risale, secondo il dizionario storico, alla «rappresentazione» che le parti uf­
ficiali sostenevano in ambito giudiziario e in particolare durante un processo, dove la
parola e la cosa erano legate in destino dalla sistemazione delle cause e delle leggi. Cosa
che, tra l'altro, concorda con quanto sostenuto da Gadamer in Verità e metodo a
proposito del latino repmesentatio. Ovviamente non è qui possibile procedere oltre in
tale ricerca...
118 Sarebbe assurdo pensare di indicare tutti i passi in cui Freud parla della
dimensione temporale del non-conscio; indichiamo tuttavia due trattazioni tarde del
tema, che ci paiono paradigmaticamente chiare, cfr. dunque S. Freud Opere, voi. XI
1930-38, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 541-54, 572-74 e 599-609.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
223
chiama «materiali compositivi» - e di queste condividono il carattere:
riprendendo un tema quasi fichteano (passato ad Adorno sicuramente
attraverso le letture kantiane e la peculiare fenomenologia di Cornelius) si
potrebbe dire che senza limiti non c'è neppure Io, o detto in termini più
dialettici: prima o al di sotto delle forme che la coscienza assume in eredità
e impone non c'è la libertà del contenuto, ma solo la massima indetermi­
natezza, la vuotezza quasi assoluta, del caos - l'essere e il nulla della prima
triade della Scienza della logica hegeliana.
Così che la coscienza individuale, entro la quale avviene la composi­
zione di forze della interpretazione sebbene, ripetiamo, non l'interpretazione stessa, non ha a disposizione una via d'uscita che non sia quella di
far la prova: inserire i propri contenuti in quelle forme di cui dispone. E
il chiasmo si intreccia ulteriormente se si tiene presente come, per Adorno
ma non solo per lui, i contenuti della coscienza sono sociali fino all'osso,
e, d'altra parte, le forme, sia quella particolare della coscienza individuale,
sia quelle «trascendentali» (per riassumere con questo nome quel che
potrebbe andare sotto la categoria lukàcsiana di «seconda natura») sono
il risultato della spinta all'autoconservazione, sono la risultante di relazioni
e rapporti di forza la cui forza è conservata nella forza della forma che si
esercita, appunto, come tradizione, in arte, e come «trascendentale» nella
conoscenza, per far solo due tra i molti possibili esempi.
La croce in chiasmo dell'interpretazione, allora, non si attua tramite
la liberazione dalla forme della «natura seconda», né, d'altro canto, iden­
tificandole con la natura tout court e proseguendo quindi alla ricerca di un
fondamento: l'interpretazione è, per Adorno, atto sostanzialmente privo di
fondamento. Sebbene egli suggerisca una serie di verifiche 119 , è del tutto
chiaro come le reazioni individuali della interpretazione non possano fun­
gere da criterio del vero. A meno che esse siano non-individuali e il vero
sia concepito in modo, per dir così, non aristotelico.
Questo è, però, proprio quel che vien messo in gioco da quel proces­
so che chiamammo interpretazione parodica. In essa la coscienza indivi­
duale, che si è assicurata i contenuti empirici (ai quali secondo il Nostro
ogni contenuto è alla fine riconducibile), si fa teatro della propria costitu­
zione, delle forme sociali - nel senso ampio del termine - rapporti istituiti
e rimossi e genealogie. Essa ne fa teatro come se questi fossero natura
prima, valide e certe. Ma accade, e parrebbe accada sempre più spesso,
Cfr. il cap. IV.
224
CRITICA DEL NON VERO
che questo «modo di prender sul serio», questa «critica immanente» all'in­
terno della dialettica della domanda, faccia saltar via la pretesa di neutra­
lità, di funzionalità, di verità in una parola, delle forme, lasciando l'indi­
viduo e i suoi medium fratti e scomposti. È qui che, sostenuto dal deside­
rio e dalla convinzione che «quel che è non è tutto quel che è», il teatro
comincia a combinare in forme diverse quegli stessi elementi, fino a elimi­
nare ogni priorità, riconoscere la mediazione e, finalmente, mettere in atto
la critica. I suoi contenuti, che sono tanto dell'individuo quanto della sua
società, non possono scomparire. Il loro destino è fissato nell'alternativa
fra assumere forma distorta - sforzarsi, per dir così, di entrare in scarpe
troppo strette -, e sempre più distorta man mano che l'evoluzione storica
modifica i tratti richiesti dal principio di conservazione, con tutte le sue
versioni sociali e individuali, oppure agire modificando quelle forme: re­
troagire sulla propria eredità, considerando tutto ciò che appare natura
come storia, non «dato» ma «posto», e, in ultima istanza, revocabile.
L'interpretazione per Adorno non deve, allora, tanto avere a suo
risultato la scoperta del vero come rispecchiamento, quanto la modifica­
zione dello statuto dell'apparente e del reale. Modificazione che si riassu­
me fin troppo facilmente nel diritto alla felicità, nel diritto a commensu­
rare le «cose» a questa. Si tratta, è chiaro, di «conquistare una prospetti­
va» e non la cosa stessa nella sua essenza, come se essa avesse una essenza.
Questa prospettiva è, in fondo, quella dialettica, della cosa come processo
e quindi della mutazione del suo contenuto e della sua verità in relazione
al grado di sviluppo. È la prospettiva della critica per eccellenza: prender
tutto per vero al fine di verificare ogni nome come se si trattasse di dar
nomi per la prima volta.
È evidente che una simile interpretazione lungi dall'abolire la tradi­
zione e la trasmissione, deve anzi conservarle come solo materiale su cui
può operare. La costellazione, infatti, entro cui avviene la interpretazione
parodica, se è mossa dalla coscienza individuale, non è tuttavia affatto, o
quasi per nulla, questione di coscienza individuale. Non si tratta, per
Adorno, di sistemare i punti più dolenti del soggetto di modo che egli
possa adattarsi, più o meno bene, alle condizioni presenti; quanto permet­
tere allo stato presente delle cose di lasciar muoversi finalmente le proprie
forze, che sono le forze delle cose e del soggetto, insomma della loro
mediazione 12°.
120 Th.W. Adorno, Parole chiave, op. cit., in particolare si veda il saggio Su sog­
getto e oggetto.
DIDATTICA NEGATIVA ED ESPERIENZA. LA PARODIA
225
Se è vero che senza l'intervento del soggetto, meglio: del pensiero e di
suo padre, il desiderio, non si metterebbe in moto il negativo del conside­
rare l'enigma «come... se...», pure è certo che se la sistemazione del mondo
fosse razionale alla felicità, nessuno scontento potrebbe infilarvi di soppiatto delle contraddizioni. Così l'interpretazione parodica non è soggettiva,
nel senso che di essa non decide il soggetto, e neppure il suo risultato è la
ricostruzione dell'intento soggettivo. Ma non è nemmeno oggettiva, in essa
non c'è alcun essere-cosi-e-non-altrimenti che venga tenuto fermo, neppu­
re nella più raffinata delle astrazioni. Essa, così si esprimerebbe Adorno,
rimane ferma alla distinzione ma nella prospettiva della sua revoca: nella
prospettiva non di recidere la dialettica tra soggetto e oggetto, bensì, attra­
verso il riconoscimento della sua complessità, di accrescerla.
La storia - come memoria e come ricordo - è il nerbo stesso della
possibilità del chiasme interpretativo di cui abbiamo parlato poco sopra.
L'oblio «è disumano» non solo perché scorda i morti, ma soprattutto per­
ché solo attraverso la accumulazione storica di significato, di successioni di
strati di forma, di diverse forme di rapporto, la interpretazione può tener
teso il filo che collega quel che deve venir provato e quel che, di fatto espe­
rito, viene informato in esso. Fin nel caso più semplice, quello di una sin­
gola parola, solo se in essa si è accumulata della storia, l'esperienza che sotto
di essa dovrebbe essere pensabile dal soggetto può contraddirla o farsi
contraddire. La storia, che pure non è immediatamente conoscenza, come
mediazione del mondo è il medium della conoscenza, ovvero dialetticamen­
te, in qualche modo, l'oggetto della conoscenza. Come abbiamo detto, è la
prospettiva su di essa che l'interpretazione deve liberare. Non «ciò che è
avvenuto» si tratta di interpretare, ma l'effetto che ciò che è avvenuto ha su
quel che deve, o può dover, avvenire. La storia è, insomma, il medio e la
causa delle trasformazioni in forma, delle rimozioni, e delle reazioni dell'«organo di senso» individuo che abbiamo visto all'opera nell'interpretazione. Così se la conoscenza storica è indispensabile per comprendere il
«valore di posizione» delle parti dell'interpretando, l'interpretazione non si
esaurisce in essa, né nella sua ricostruzione. Anzi, si potrebbe forse prospet­
tare - ma la ricerca è tutta da compiere - se Adorno non concepisca la storia
come una forma dell'interpretazione. Certamente il libro «storico» Dialet­
tica dell'illuminismo si propose proprio di comprendere la prima interpre­
tazione dopo il mito, l'atto costitutivo, dell'illuminismo.
Ma del resto in conclusione, neppure l'interpretazione è conoscenza
in Adorno, se non in quanto egli ha considerato la conoscenza, per come
essa è oggi possibile, solo come negazione determinata del non vero.
BIBLIOGRAFIA GENERALE
La presente bibliografìa si riferisce solo alle opere effettivamente utilizzate o
citate, nonché ai testi di riferimento che compaiono in nota. Non è quindi esau­
stiva delle pubblicazioni di e su Adorno".
PARTE PRIMA: OPERE E SAGGI DI Tn.W. ADORNO, CITATI, IN ORDINE CRONOLOGICO
SECONDO LA DATA DI PUBBLICAZIONE IN ITALIA
Minima moralia, trad. R. Solmi, Einaudi, Torino 1954.
Filosofia della musica moderna, trad. L. Rognoni, Einaudi, Torino 1959.
Dissonanze, trad. G. Manzoni, (l'edizione italiana porta in aggiunta due saggi del
1957: Neue Musik, Interpretation, Publikum e Verfremdes Hauptwerk) Feltrinelli, Milano 1959.
Kierkegaard. Costruzione dell'estetico, trad. A.B. Cori, Longanesi, Milano 1962.
Sulla metacritica della gnoseologia, trad. A.B. Cori, Sugarco, Milano 1964.
Dialettica dell'illuminismo, scritta con Max Horkheimer, trad. R. Solmi, Einaudi,
Torino 1966.
Lezioni di sociologia, (gli scritti sono attribuiti all'Istituto per la ricerca sociale di
Francoforte, senza indicazione dei singoli autori. Corrisponde al voi. IV dei
"Frankfurter Beitràge zur Soziologie", M. Horkheimer e Th.W. Adorno
compaiono come curatori della raccolta) trad. A. Mazzone, Einaudi, Torino
1966.
Wagner-Mahler, (i due studi sono accorpati solo nell'edizione italiana) trad. M.
Bartolotto e G. Manzoni, Einaudi, Torino 1966.
Compaiono con l'indicazione dell'edizione originale quelle opere straniere che
sono state consultate effettivamente in quell'edizione, accompagnata con l'indicazione
della traduzione italiana con l'anno di riferimento dell'edizione dalla quale è tratta
l'eventuale citazione.
BIBLIOGRAFIA GENERALE
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critica", n. 17, 1967.
Il fido maestro sostituto trad. G. Manzoni, Einaudi, Torino 1969.
È superato Marx? in AA.VV. Marx Vivo, Mondadori, Milano 1969.
Dialettica negativa, trad. C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970.
Introduzione alla sociologia della musica, trad. G. Manzoni, Einaudi, Torino 1971.
Tre studi su Hegel, trad. F. Serra, II Mulino, Bologna 1971.
Dialettica e positivismo in sociologia, autori vari, trad. A.M. Solmi, Einaudi, Torino
1972.
Prismi, trad. C. Mainoldi, M.B. Peruzzi, E. Zolla, E. Filippini, G. Manzoni, A.B.
Cori, Einaudi, Torino 1972.
L'attualità della filosofia, trad. C. Pettazzi, in "Utopia", 1973, n. 7-8.
Parole chiave. Modelli critici, trad. M. Agrati, Sugarco, Milano 1975.
Teoria estetica, trad. E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975.
Terminologia filoso/tea, trad. A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, 2 voli.
Scritti sociologici, (si tratta di una selezione degli scritti compresi nell'edizione
originale tedesca) trad. A.M. Solmi, Einaudi, Torino 1976.
L'idea di storia naturale, trad. M. Tosti Croce, in "II Cannocchiale", 1977, n. 1-2.
Note per la letteratura, trad. E. De Angelis, A. Frioli e G. Manzoni, Einaudi,
Torino 1979, 2 voli.
Parva Aesthetica, E. Farnchetti, Feltrinelli, Milano 1979*.
// tardo stile di Beethoven, trad. A. Arbo, in "Aut Aut", 1988, n. 225.
Il gergo dell'autenticità, trad. R. Bodei, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
PARTE SECONDA: EDIZIONE TEDESCA DELLE OPERE COMPLETE DI TH.W. ADORNO
Theodor Wisengrund Adorno, Gesammelte Schnften, hrsg. von G. Adorno und R.
Tiedemann, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., in 20 Banden.
I: Philosophische Frùhschriften
II: Kierkegaard. Konstruktion des Àsthetischen
III: Dialektik der Aufklàrung
IV: Minima moralia
V: Zur Metakritik der Erkenntnistheorie
Drei Studien zu Hegel
VI: Negative Dialetktik
VII: Àsthetische Theorie
Vili: Soziologische Schriften I
IX: Soziologische Schriften II
X: Kulturkritik und Gesellschaft. Prismen.
Ohne Leitbild. Parva Aesthetica
Eingriffe. Stichworte
XI: Noten zur Eiteratur
XII: Philosophie der neuen Musik
XIII: Die musikalische Monographien
XIV: Dissonanzen
XV: Komposition fùr den Film
228
BIBLIOGRAFIA GENERALE
Der getreuer Korrepetitor
XVI: Musikalische Schriften I-III
XVII: Musikalische Schriften IV
XVIII: Musikalische Schriften V
XIX: Musikalische Schriften VI
XX: Vermischte Schriften
PARTE TERZA: BIBLIOGRAFIA CRITICA
Sezione prima: volumi collettanei su Adorno e la scuola di Francoforte.
AA.VV., Teorie letterarie nella scuola di Francoforte, in «Quaderni critici», Roma
1976. In particolare i saggi: M. Carlino, // surrealismo negli scritti teoricocritici di Marcuse, Adorno, Benjamin; A. Mastropasqua, Alcune note su Benjamin, Adorno e la scuola di Francoforte.
AA.VV., Theodor W. Adorno, hrsg. von H.L. Arnold, Text+Kritik, Mùnchen
1971.
AA.VV., Adorno Konfernz 1983, hrsg. von L.V. Friedeburg und J. Habermas,
Suhrkamp Verlag, FRankfurt a. M. 1983. In particolare i saggi: A. Schmidt,
Begriff des Materialismus bei Adorno; H.R. Jauss, Der literarische Prozef, des
Modernismus von Rousseau bis Adorno; P. Biirger, Das altern der Moderne;
W. BonE, Empirie und Dechifrierung von Wirklichkeit. Zur Methodologie bei
Adorno.
AA.VV., Th.W. Adorno zum Gedàchtnis. Eine Sammlung hrsg von FI. Schweppenhàuser, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1971. In particolare i seguenti
saggi: Th.W. Adorno, Resignation; J. Habermas, Theodor W. Adorno wdre
am 11 September 66 Jahre alt geworden; P. von Haselberg, Denken aus Pro­
test; G. Picht, Atonale Philosophie; D. Schnebel, Komposition von Sprache....
AA.VV., Die frankfurter Schule im Licht des Marxismus. Zur Kritik des Philosophie
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AA.VV., IJber Th.W. Adorno, hrsg. von Oppens, Suhrkamp Verlag, Frankfurt
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AA.VV., Die neue Linke nach Adorno, hrgs. von W.F. Schòller, Kinfler Verlag,
Mùnchen 1969.
AA.VV., Kritik und Interpretation der kritischen Theorie, Aufsàtze ùber Adorno,
Horkheimer, Marcuse, Benjamin, Habermas. A. Achenbach, GieBen 1975.
AA.VV., Hamburger Adorno-Sympbosion, hrsg. von M. Lòbig und G. Scweppenhàuser, Dietri eh zu Klampen Verlag, Lùneburg 1984. In particolare i
saggi: R. Tiedemann, Begriff-Bild-Name. Uber Adornos Utopie von Erkenntnis; C. Tùrke, Gottesgeshcenk Arbeit. Theologisches zu einem profanen Begriff; W. Hofer, Adorno und Kafka.
AA.VV., Zeugnisse. Th.W. Adorno zum sechzigsten Geburstag, hrsg. von M.
Horkheimer, Europàische Verlagsanstalt, Frankfurt a. M. 1963.
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a partir du Manuscript de 1844; G. Hòhn, Une logique de la décomposition
polir une lecture de Th.W. Adomo; M. Jimenez, Présences d'Adorno; J.R.
Ladmiral, Adorno cantra Heidegger; O.K. D'Allones, Adorno non Adorno.
AA.VV., Adorno, in «Revue d'Esthétique», nuova serie, 1985, n. 8. In particolare
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1 Questo preziosissimo volume è comparso dopo la stesura del presente lavoro;
se ne da qui notizia soprattutto per l'interesse che esso riveste, e non solo per i lettori
di Adorno, ma non è stato, per ovvia impossibilità, utilizzato come apparato critico.
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