LE ARCHITETTURE STRATEGICHE ED ORGANIZZATIVE DEL CORPORATE VENTURE CAPITAL Paolo Boccardelli Scuola di Management Università Luiss Guido Carli Maurizio Sobrero Dipartimento di Discipline Economico-Aziendali Università di Bologna Febbraio, 2002 Versione 1.3 Pubblicato su Sviluppo&Organizzazione, n. 190 marzo-aprile 2002. 1 Sommario Lo sviluppo delle attività di corporate venturing negli Stati Uniti ed in Europa, solo in parte riconducibile alla crescita del mercato degli investimenti nel capitale di rischio che ha caratterizzato i mercati internazionali negli ultimi anni, rappresenta attualmente una concreta risposta delle imprese high-tech alla riduzione complessiva degli investimenti diretti in attività di ricerca di base, alla specializzazione settoriale della ricerca interna ed all’esigenza di aprire nuovi percorsi di crescita attraverso opportunità di diversificazione tecnologica e di business. A fronte di un’interpretazione più completa del fenomeno del corporate venturing, si è assistito ad un graduale ma costante processo evolutivo degli strumenti e dei programmi adottati, al fine di soddisfare l’esigenza di orientare l’organizzazione ad una maggiore imprenditorialità ed all’assunzione di un livello di rischio superiore, attraverso la definizione di piani articolati ed eterogenei, che comprendono iniziative d’investimento diretto ed indiretto e di internal ed external venturing. La natura prevalentemente strategica di tali iniziative determina una chiara impostazione dei programmi d’investimento verso opportunità che consentono lo sfruttamento di sinergie con le business unit dell’impresa madre o che, attraverso processi deliberati di spin-off, permettono la valorizzazione di asset tecnologici complementari. La necessità di tenere sotto controllo un ambiente competitivo e tecnologico molto vasto ed eterogeneo, da un lato, e di valorizzare al meglio le sinergie con le strutture interne, rende l’architettura dei programmi di corporate venture capital piuttosto articolata e rivolta alla risoluzione di molteplici problemi di natura organizzativa, quali le relazioni con i venture finanziati ed i sistemi di rewarding per il personale coinvolto in tali attività. L’obiettivo di questo lavoro è di fornire, in una prospettiva organica ed interdisciplinare del fenomeno, una ricognizione e sistematizzazione del quadro teorico, per poi sviluppare alcune riflessioni operative sul significato e le implicazioni organizzative dei programmi di corporate venturing in relazione al ruolo da questi ricoperto nel più ampio problema della gestione strategica del patrimonio tecnologico. Gli Autori ringraziano il Dott. Andrea Granelli, l’Ing. Claudio Gentile, l’Ing. Paolo D’Andrea, il Dott. Giuseppe Visalli, la Dott.ssa Tiziana Mezzaroma ed il Dott. Alessandro Palmitelli di Telecom Italia Lab, per la loro disponibilità e coinvolgimento che hanno reso possibile la redazione del caso aziendale e per la loro competenza che ha 2 permesso la comprensione di una realtà così complessa. Il presente lavoro è stato realizzato con il supporto finanziario del progetto ex-60% "Privatizzazioni ed investimenti in Ricerca e Sviluppo: cambiamenti strutturali e organizzativi". 3 1. Introduzione Le attività di sviluppo e gestione dell’innovazione all’interno dei grandi gruppi industriali sono state caratterizzate da una crescente diffusione di interventi articolati, di matrice mista strategico-finanziaria solitamente denominati Corporale Venture Capital. Questi interventi, che si sono inseriti in un trend di crescita del mercato degli investimenti nel capitale di rischio che ha caratterizzato i mercati internazionali fino alla crisi finanziaria del 2001, rappresentano attualmente una concreta sfida organizzativa per fare fronte alla riduzione complessiva degli investimenti diretti in attività di ricerca di base, alla forte focalizzazione settoriale e disciplinare dei programmi di ricerca interna e all’esigenza di capitalizzare su opportunità di diversificazione correlata di matrice tecnologica, senza farsi carico in maniera esclusiva del rischio di apertura di nuove linee di business. L’obiettivo di questo lavoro è di fornire una prospettiva organica e interdisciplinare del fenomeno, costruendo alcune sistematizzazioni teoriche accompagnate da riflessioni operative che, a nostro avviso, rappresentano occasioni concrete di riflessione sul significato e le implicazioni organizzative del ruolo della gestione dell’innovazione nelle grandi imprese nel mutato quadro competitivo internazionale. L’organizzazione del lavoro riflette queste premesse. La sezione due fornisce alcuni dati di contesto che consentono di apprezzare la portata economica e la rilevanza internazionale del fenomeno del Corporale Venture Capital. La sezione tre sposta l’attenzione sul piano concettuale, presentando e discutendo i principi alla base della definizione dell’architettura strategica di un programma di CVC, tenendo conto dell’evoluzione che il fenomeno ha presentato nel tempo e nella letteratura principale di riferimento. La sezione quattro è incentrata sull’analisi delle problematiche di natura organizzativa, che devono essere risolte nello sviluppo ed implementazione di un programma di corporate venture capital. La sezione 5 presenta al lettore l’opportunità di contestualizzazione operativa di quanto sviluppato nelle sezioni precedenti attraverso la discussione del principale esempio di attività di Corporale Venture Capital sviluppatosi in Italia negli ultimi anni, attraverso Telecom Italia Lab all’interno del gruppo Telecom Italia. La sezione 6 presenta alcune riflessioni conclusive di sistematizzazione del lavoro. 4 2. Lo sviluppo dei programmi di Corporale Venture Capital negli anni ’90 Lo sviluppo di programmi di Corporate Venture Capital può essere ricondotto a diversi fattori. In primo luogo, negli anni ’90 si sono sviluppati nuovi mercati finanziari specializzati in imprese di nuova costituzione ad elevato contenuto tecnologico, che hanno offerto opportunità concrete per l’uscita in tempi relativamente brevi degli investitori in capitale di rischio. In secondo luogo, la riduzione della pressione fiscale sui capital gain, incominciata negli Stati Uniti nel 1978 e successivamente diffusasi anche nel contesto europeo (in Italia con l’entrata in vigore del D. lgs. 461/97), insieme alla progressiva armonizzazione del diritto commerciale nei paesi della UE hanno contribuito ad eliminare alcune asimmetrie regolamentari conferendo ad investimenti in capitale di rischio caratteristiche di interesse finanziario maggiori rispetto al passato. Un terzo fattore alla base di questa crescita è la moltiplicazione delle opportunità d’investimento, che a sua volta deriva da due trend ben evidenti: la nascita di nuovi cluster high tech; lo sviluppo dei programmi di corporate venture capital. In merito al primo è sufficiente notare che oltre alla Silicon Valley ed alla Route 128 di Boston, negli ultimi tempi diversi sono stati i distretti o cluster tecnologici sviluppatisi in Europa e nel resto del mondo. Tra questi, senz’altro, il più famoso sembra essere la Silicon Wadi in Israele, ma è opportuno evidenziare anche i cluster dell’informatica in India, delle tecnologie del Mobile in Scandinavia, delle biotecnologie e del software a Cambridge in Inghilterra e delle Telecomunicazioni a Sophia Antipolis in Francia (McKinsey&Company, 2001). Anche in Italia, infine, sono ben avviate alcune iniziative importanti per lo sviluppo di distretti tecnologici, sebbene ancora a stadi iniziali, come a Torino sull’ICT, a Bologna sulle tecnologie del multimedia, a Trento e Catania sulla microelettronica ed a Cagliari sull’IT. Questo notevole fermento distribuito geograficamente nel mondo ha offerto ad investitori istituzionali, corporate e privati una varietà di opportunità mai riscontrata in passato. Il riconoscimento da parte dei grandi gruppi industriali delle potenzialità di sviluppo di fenomeni di imprenditorialità interna, inoltre, ha dato origine alle prime forme evolute di Corporate Venture Capital (CVC), nate come operazioni ibride di diversificazione attraverso la creazione di un fondo di investimento interno. Il fondo, la cui struttura si è nel corso degli anni sempre di più allineata con quanto realizzato nel settore del Venture Capital (VC) vero e proprio, ha inizialmente rappresentato uno 5 strumento più agile per riallocare liquidità in periodi di forte crescita ed espansione su investimenti in start-up a base tecnologica. Secondo alcuni dati recenti (Industry Week, 2000), il numero di imprese di grandi dimensioni che hanno lanciato un proprio programma di CVC e che hanno effettuato investimenti negli Stati Uniti è valutabile in oltre 200, con un valore degli investimenti effettuati che passa dai 1.7 miliardi di dollari del 1998 ai 6.8 del 1999, in un mercato che ha visto nello stesso anno realizzarsi il record di investimenti da parte di fondi di Venture Capital, per un valore complessivo di circa 48 miliardi di dollari (Venture Economics News, 8/2/2000). Tutti i principali attori della competizione internazionale nei settori ad alta tecnologia sono coinvolti in operazioni di questo tipo. Motorola, 3M, Corning, Martin Marietta, Xerox, Merck, Allied Chemical, Kodak, Uniroyal, Intel, Cisco, Westinghouse, Colgate-Palmolive sono solo alcuni dei nomi di multinazionali che nel corso degli ultimi dieci anni hanno contribuito ad accelerare questo processo di apertura di finestre tecnologiche attraverso strumenti finanziari e gestionali innovativi rispetto al modo tradizionale di interpretare la propria area di business ed il percorso di generazione e valorizzazione dell’innovazione. Intel Capital, il fondo di investimenti attivato dal colosso dei semiconduttori nel 1991, è più volte stato indicato come un serio concorrente dei migliori fondi di Venture Capital, con un portafoglio di investimenti in 350 imprese nel 1999 valutato intorno agli 8 miliardi di dollari e dismissioni in partecipazioni che nel solo quarto trimestre dello stesso anno hanno generato profitti per oltre 320 milioni di dollari (Industry Week, 2000). Ma gli attori in questo nuovo scenario non sono solo nordamericani, come dimostra anche l’antesignana esperienza del fondo della Olivetti a lungo gestito negli anni ’80 da Elserino Piol. Nokia ha cominciato di recente, istituendo un proprio fondo, Nokia Venture Partners, da 100 milioni di dollari, il cui ammontare recentemente è stato esteso a 650 milioni, con sede a Menlo Park in California ed aprendo negli ultimi mesi uffici a Washington, Londra, Helsinki, Hong Kong e Tokyo per mantenere un’attenzione elevata anche su altri mercati. Siemens ha chiamato la propria unità di Corporate Venture Capital “Mustang Venture”, dotandola di un capitale di 100 milioni di dollari e lasciando il piccolo gruppo di manager responsabili dell’iniziativa estremamente liberi di agire e di muoversi al di fuori delle consuete rigide strutture decisionali tipiche del colosso tedesco. Una scelta analoga a quella del gruppo Matsushita, sbarcato in California nella seconda metà degli anni ’90 con l’intenzione di 6 aprire un centro di ricerca che servisse da sensore rispetto al fermento tecnologico dell’area attorno a Cupertino, presto evolutasi nella decisione di aprire un incubatore, il Panasonic Digital Concept Center, e allocare 50 milioni di dollari ad un fondo collegato all’incubatore e specializzato in hardware e software di rete. In un’indagine condotta dalla Bannock Consulting Ltd. (1999) per l’Unione Europea, infine, è stato stimato che tra il 1994 ed il 1998 almeno 6 miliardi di Euro sono stati investiti direttamente in 1000 imprese. Questo valore rappresenta solo il 10% del totale dei fondi raccolti dal sistema del venture capital puro in Europa, ma allo stesso tempo si stima che esso rappresenti all’incirca il 40% del totale delle risorse investite dai venture capitalist in operazioni di finanziamento seed o early stage (European Commission, 1999). Nel periodo 1996-2000, in effetti, il numero di programmi di CVC nel mondo è aumentato notevolmente e nel 2000 i fondi destinati al CVC ammontavano complessivamente a 10 miliardi di dollari statunitensi, di cui 2 solamente in Europa (Aifi, 2001b). L’investimento in programmi di CVC in Italia è attualmente un dato che può essere solo stimato, replicando la considerazione che, in valore, i programmi di CVC rappresentano il 40% degli investimenti del sistema del VC realizzati in operazioni di seed/early stage. Tali investimenti assommano a 1.045 miliardi di Lire Italiane (Aifi, 2001a) e, pertanto, l’investimento in CVC può essere valutato pari a poco più di 400 miliardi di Lire. I programmi di corporate venture capital di maggior rilievo in Italia sono quelli attivati da Olivetti, Pirelli, Telecom Italia e Enel. 3. L’architettura strategica dei programmi di Corporate Venture Capital Nell’indagine precedentemente citata condotta dalla Bannock Consulting per l’U.E. (European Commission, 1999), il Corporate venture capital è definito come l’attività di investimento in quote di minoranza in imprese nuove e ad alto tasso di crescita, posta in essere da imprese la cui principale attività non è il venture capital. Questa ampia definizione, in realtà, nasconde forme ed applicazioni piuttosto eterogenee. Dalle origini ad oggi, infatti, i principi, le attività e l’organizzazione dei programmi di corporate venture capital hanno subito notevoli modifiche anche a causa delle alterne fortune che il CVC stesso ha subito nel corso degli anni. Il ciclo di vita tipico di un programma di CVC è sempre stato basato su un inizio con entusiasmo, una 7 continuazione per l’implementazione ed una conclusione delle iniziative intraprese a seguito delle prime difficoltà (Chesbrough, 2000). Sebbene, dunque, il fenomeno risenta della più generale crescita di attenzione verso forme di investimento in conto capitale in nuove imprese ad alta tecnologia che hanno caratterizzato la scena economica internazionale degli anni più recenti, a livello organizzativo non rappresenta una novità. Eppure le forme e le architetture tipiche dei programmi di CVC attuali si discostano notevolmente da quelli intrapresi nel passato, poiché tendono oggi a ricalcare maggiormente le strutture e gli strumenti impiegati dai venture capitalist al fine di orientare l’organizzazione ad una maggiore imprenditorialità ed all’assunzione di un livello di rischio superiore (Chesbrough, 2000). L’aumentato interesse nei confronti dei fondi di Corporate Venture Capital sembra rispondere, in altre parole, sempre di più ad un’esigenza oggettiva, di natura strategica, di partecipazione alla corsa verso l’innovazione da parte dei competitori consolidati, attraverso un approccio alla valutazione dei progetti innovativi più legato ad una logica imprenditoriale che ad una logica di budget (McNally, 1994; European Commission, 1999). L’elemento cruciale e di rottura rispetto al passato è l’esplicita volontà, contenuta nei programmi di CVC di maggiore rilevanza, di separare nettamente le attività di business attuali con quelle di scouting di opportunità d’investimento che devono essere orientate alla creazione del nuovo (Venture Economics, 1993; Chesbrough, 2000). Tale evoluzione ha determinato anche dei cambiamenti nella definizione e nell’ampiezza del CVC, che da fondo di risorse finanziarie finalizzate al solo investimento diretto si è trasformato in un programma articolato di investimenti con finalità eterogenee (Venture Economics, 1993; McNally, 1995 e 1997) e rivolto alla ricerca di opportunità sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione (internal ed external venturing) (Withers, 1997; Mackewicz&Partner, 1998). La presenza di alcuni anni di esperienze e di numerose operazioni d’investimento condotte, consente di trarre alcune lezioni interessanti in merito all’architettura strategica dei programmi di corporate venture capital Dal punto di vista strategico un primo punto importante riguarda la natura degli investimenti e la decisione sul grado di focalizzazione vs. diversificazione degli stessi. A questo proposito i risultati dei diversi studi condotti concordano sul fatto che investimenti in aree di business e in 8 competenze tecnologiche correlate con quelle dell’impresa madre garantiscono al fondo un maggiore successo, da un punto di vista sia finanziario, sia strategico. Utilizzando un database con oltre 32.000 operazioni di investimento da parte di fondi di CVC, Gompers e Lerner (1999), infatti, mostrano che gli investimenti in Start-Up strategicamente correlate con il business della società responsabile del fondo di Corporate Venture Capital hanno una probabilità uguale di arrivare rapidamente e con successo alla quotazione sul mercato rispetto ad investimenti effettuati da parte di fondi specializzati in operazioni di Venture Capital, mentre il contrario è vero per investimenti non correlati. Questo maggiore successo nelle aree collegate si accompagna ad una valutazione dei business finanziati tendenzialmente superiore rispetto agli investimenti guidati da una logica squisitamente finanziaria, con un price premium che secondo alcune stime può arrivare anche al 25% (The Investment Dealers’ Digest, 1999). Pur essendo difficile valutare la convenienza economica in assenza di dati di dettaglio sullo storico della singola operazione, la logica degli investimenti correlati e del possibile sfruttamento di sinergie difficilmente valutabili contabilmente sembra essere una spiegazione plausibile di una maggiore “prodigalità” degli investitori industriali. Nel caso del fondo della Smith Kline costituito nel 1984 in parte anche per rispondere alla crescente ondata di entusiasmo nel settore delle biotecnologie, per esempio, circa il 50% dei 90 investimenti effettuati hanno generato partnership di rilievo in gran parte ancora attive. I piani di CVC, pur se attualmente soggetti ad un trend di sostanziale omogeneizzazione, si caratterizzano per la presenza di attività o linee di azione diverse ed in genere tutte presenti in ogni specifico programma di investimenti stabilito dal corporate venturer. Il CVC, in altre parole, può essere articolato in quattro forme specifiche, che scaturiscono dalle motivazioni alla base delle singole operazioni d’investimento: CVC finalizzato allo spin-off imprenditoriale (Withers, 1997; Mackewicz&Partners, 1998); CVC strategico (McNally, 1994); CVC finanziario; CVC per responsabilità sociale del corporate venturer (European Commission, 1999). Sebbene i motivi e gli obiettivi di un programma di corporate venture capital possano essere molteplici, nell’indagine precedentemente citata (European Commission, 1999) i responsabili dei fondi di CVC delle imprese europee affermano di realizzare operazioni 9 d’investimento soprattutto per motivi strategici/supporto a spin-off (62%) e finanziari (27%). Tali risultati sono del resto conformi alle indagini precedentemente realizzate nei mercati statunitensi (Venture Economics, 1993). Il corporate venture capital a supporto degli spin-off imprenditoriali consente alle imprese che attivano il programma di CVC di risolvere parzialmente uno dei problemi principali nella gestione strategica delle attività di R&S, ovvero la valorizzazione degli investimenti in asset tecnologici. La stessa applicazione dell’approccio delle opzioni reali agli investimenti in R&S (Oriani, 2002), che rileva un impatto positivo degli investimenti in tecnologia sul valore dell’impresa a prescindere dall’effettivo lancio di un’applicazione sul mercato, non riesce a risolvere il nodo cruciale da un punto di vista operativo per le imprese high tech, ovvero come trasformare i flussi d’investimento in ricerca in cash flow positivi nel medio-lungo termine. Uno degli strumenti di maggior impatto per quelle tecnologie che non supportano i business in cui il corporate venturer è impegnato, accanto alla gestione del licensing out, è proprio il favorire gli spin-off imprenditoriali (Roberts, 1991; Roberts e Malone 1996). In tal senso se non è possibile assicurarsi una completa valorizzazione del patrimonio tecnologico generato internamente per limiti finanziari, cognitivi ed organizzativi, i fondi di Corporate Venture Capital rappresentano un’occasione concreta di intervento per continuare a controllare in molti, se non tutti, i suoi aspetti il percorso di nascita, sviluppo e sfruttamento economico anche di quell’innovazione che non supporta le strategie di sviluppo dei business in cui opera il corporate venturer. Gli stimoli alla nascita di nuove imprese e le occasioni concrete perché ciò avvenga, non sono prerogativa di un unico ambiente organizzativo, né devono essere percepiti o vissuti come un fenomeno incontrollabile e destinato necessariamente a depauperare l’organizzazione di provenienza. Al contrario, se gestiti attraverso scelte strategiche deliberate, i processi di spin-off rappresentano occasioni concrete di crescita economica per l’organizzazione “madre” (Lipparini e Serio, 2001). Alcune indagini sulla realtà statunitense, infatti, hanno rilevato come i processi di filiazione o addirittura il solo annuncio di uno spin-off, possano avere un effetto positivo sul valore delle azioni della parent company (Cusatis et al., 1993; Miles e Rosenfeld, 1983). Tale effetto può essere interpretato come un’opzione strategica che attiva un processo di rigenerazione di imprenditorialità nello sfruttare risorse e competenze non impiegate, senza alterare la 10 logica del core business e senza distrarre altre risorse (Roberts e Berry, 1985; Ito, 1995; Lipparini e Serio, 2001). Quest’opzione genera alcune opportunità di rilievo per il corporate venturer, quali: lo sfruttamento di brevetti o asset sviluppati nei dipartimenti di R&S ma che non offrono opportunità competitive nell’ambito del core business; la possibilità di generare rendimenti positivi nel medio termine da investimenti altrimenti non più recuperabili, attraverso la vendita di alcuni asset o di una quota di questi; la possibilità di rifocalizzare le attività sulle tecnologie rilevanti e scorporare dal dipartimento di R&S quelle risorse concentrate su tecnologie diverse, con un indubbio beneficio di riduzione delle overheads; l’opportunità di riallocare al meglio il knowhow e le competenze di manager e professionisti, contribuendo ad una migliore gestione del mercato del lavoro interno; la possibilità di attuare un’operazione di unlock the value che attraverso lo scorporo di una divisione o un ramo di attività riesce a liberare il potenziale di sviluppo di quest’ultima; la possibilità di completare in modo efficace la ristrutturazione di una compagnia diversificata (Lipparini e Serio, 2001). Il corporate venture capital strategico mira a realizzare una presenza su aree di sviluppo tecnologico molto innovative e, pertanto, rischiose, o lontane dagli interessi primari dei business in cui opera il corporate venturer (McNally, 1994). L’importanza di questo fenomeno è amplificata dal fatto che, nonostante diversi autorevoli contributi in passato abbiano posto in discussione la capacità innovativa delle piccole e medie imprese, vi sono numerosi casi a testimonianza dell’importanza del ruolo delle PMI nei processi d’invenzione e innovazione, soprattutto in aree tecnologiche caratterizzate da forte specializzazione e tempi di sviluppo estremamente rapidi (per una review si veda Boccardelli et al., 2000). Lo scouting e finanziamento di progetti di R&S attraverso la partecipazione alle attività di piccole società indipendenti che correrebbero il rischio, se incorporate troppo presto all’interno di strutture di grandi dimensioni, di perdere quella libertà e flessibilità necessarie per operare con tecnologie avanzate in mercati a rapida evoluzione, consente di aprire una finestra sulle tecnologie di frontiera ed in alcuni casi di attivare risorse interne su linee di sviluppo trascurate, a causa di una diffusa miopia rispetto a salti tecnologici in grado di cambiare radicalmente le regole del gioco. Un ulteriore beneficio dello scouting è legato alla ricerca di competenze tecnologiche innovative complementari a quelle impiegate nei business in cui opera il corporate venturer (McNally, 1994). La logica sottostante a tale operazione si basa sul principio di 11 colmare la distanza tra il know-how posseduto ed impiegato dalle business unit e quello necessario per penetrare nuove aree di mercato o per rendere più competitivo l’intero sistema di business. In entrambi i casi il driver principale nella scelta dell’investimento sta nella possibilità di costruire delle partnership strategiche, soprattutto nell’area della R&S, con la società in cui s’investe, per sviluppare applicazioni future da cui trarranno beneficio le business unit o per riconfigurare la catena del valore e migliorare la competitività sul mercato finale (Sykes, 1990). Il CVC puramente finanziario consiste nella scelta di investimenti che hanno come unico obiettivo i rendimenti finanziari. Questo tipo di operazione appare correlato al ciclo dei mercati finanziari, poiché si basa sull’investimento in aziende ad alto potenziale di crescita e sul way-out, attraverso dismissione delle partecipazioni e IPO, in periodi di forte crescita dei mercati borsistici. Questa prospettiva incide anche sul tipo di azienda in cui investire, poiché mentre un investimento di tipo speculativo può portare a realizzare operazioni di seed financing o di finanziamento early stage, un investimento con finalità strategiche può essere più efficacemente valutato in una fase successiva in cui il progetto di business dell’azienda da finanziare appare più chiaro. Esempi rilevanti di attività di CVC puramente finanziario sono stati osservati soprattutto in passato e nei mercati statunitensi, grazie ad una legislazione fiscale piuttosto favorevole. Un caso di rilievo in questo senso è quello di Exxon Corporation che nel 1975 lanciò un programma di CVC puramente finanziario investendo 12 milioni di US$ in 18 imprese esterne (Sykes, 1986). Nel 1982 la quota di Exxon in queste imprese fu complessivamente valutata essere pari a 218 milioni di US$ per un IRR del 51% all’anno. Successivamente Exxon lanciò anche un programma di CVC strategico, basato su 19 internal ventures che avevano la missione di sfruttare le idee emerse nel precedente programma, ma tutte e 19 le attività furono oggetto di write-off senza alcun ritorno da vendita, IPO o operazioni sul mercato (Sykes, 1986). L’ultima forma di CVC è quello legato ad obiettivi di responsabilità sociale, che si basa sull’investimento in nuove imprese volto a creare occupazione in aree locali specifiche. Questo tipo di operazione generalmente segue un precedente programma di downsizing del corporate venturer o la chiusura di installazioni industriali per trasferirle in aree caratterizzate da un costo del lavoro inferiore, ed è finalizzato al rafforzamento dell’immagine aziendale (European Commission, 1999). 12 4. La strutturazione di un programma di Corporate Venture Capital Le diverse forme di CVC analizzate sono solitamente tutte presenti nell’architettura strategica di un singolo programma. Uno degli elementi di maggior rilievo nello sviluppo di un programma di CVC è la scelta delle modalità con cui realizzare gli investimenti: investimenti realizzati direttamente sul capitale di rischio delle aziende; investimenti indiretti, attraverso fondi di VC o, in taluni casi, di private equity; misti. L’adozione di strategie di investimento diretto rispetto a quelle d’investimento indiretto dipende dalla filosofia di gestione del programma di corporate venture capital (McNally, 1997). Se questa è puramente strategica il driver principale che guida i gestori del programma nella scelta della tipologia di investimenti è legato alla ricerca di aziende in cui investire direttamente che possano contribuire allo sviluppo delle competenze possedute. In questo senso, l’elemento discriminante è la ricerca di opportunità di investimento in aziende da acquisire in futuro o con le quali attivare delle partnership strategiche di cui beneficeranno le business unit (Sykes, 1990). Quando, al contrario, la prospettiva è almeno in parte finanziaria, gli investimenti possono essere anche di natura speculativa ed in questo senso l’approccio adottato è maggiormente simile a quello del Venture Capitalist puro, con la partecipazione a fondi indipendenti o la costituzione come general partner di fondi di VC. In questo caso, a fronte dei numerosi vincoli rispetto ad un Venture Capitalist puro, quali la tipologia e la fase dell’investimento e l’orizzonte temporale delle operazioni, un corporate venturer ha comunque la possibilità di sfruttare un potenziale vantaggio nella selezione degli investimenti, legato al possesso di competenze tecniche e di business. La prospettiva sottostante le operazioni di CVC strategico richiede, tuttavia, il monitoraggio di diversi loci of innovation (Powell et al., 1996; Powell, 1998): le attività di R&S poste in essere dai centri di ricerca pubblici e privati; i progetti realizzati nell’ambito degli innovation clusters; le start-up tecnologiche e gli spin-off da centri di ricerca. All’eterogeneità si aggiunge la distribuzione geografica di queste fonti dell’innovazione, che ne rendono assai complesso e costoso il processo di monitoraggio e di scouting. Un programma di scouting completo, infatti, richiederebbe l’investimento di ingenti somme in numerose aziende, tra le quali molte destinate al fallimento. Per tale motivo solitamente in un programma di CVC puramente strategico viene definito un 13 piano di investimenti in fondi di VC indipendenti, al fine di limitare l’esposizione finanziaria su aziende ad alta crescita ma anche ad alto rischio ed allo stesso tempo per mantenere un elevato accesso al deal flow potenziale attraverso il network di relazioni della società di gestione del fondo. In tal modo, il corporate venturer riesce a mantenere attiva la finestra su determinati sviluppi tecnologici e su alcune aree geografiche privilegiate, pur limitando le somme investite ed il rischio sopportato. Uno dei fattori chiave nella definizione di un piano di investimenti indiretti in un programma di CVC strategico, in tal senso, consiste nell’analisi e valutazione dei diversi fondi di VC con l’obiettivo di valutare attentamente il network instaurato dal Venture Capitalist nonché il suo mercato di riferimento di aziende. Per tale motivo i corporate venturer adottano, solitamente, una classificazione dei fondi di VC per area geografica, stadio dell’investimento (seed, early, expansion) e aree tecnologiche in cui investono. Lo sviluppo dei programmi di CVC si articola, dunque, attraverso diverse operazioni che possono essere classificate in funzione di alcune caratteristiche tipiche dell’opportunità di investimento, quali il rischio dell’attività in cui si vuole investire e l’ampiezza dell’innovazione. La prima dimensione deriva dall’incertezza di mercato e di tipo tecnico, sottostante alla tecnologia in cui il corporate venturer vuole investire. L’ampiezza dell’innovazione riguarda, invece, la tipologia del progetto di R&S che ha scatenato l’interesse del corporate venturer e si fa riferimento a progetti di tipo esplorativo o di sfruttamento della tecnologia, ricollegandoci alla nota distinzione tra exploration e exploitation nello sviluppo e gestione della conoscenza avanzata da March (1991). Unendo le due caratteristiche è possibile costruire una mappa in cui collocare le diverse operazioni di investimento di un corporate venturer (Figura 1). Inserire figura 1 circa Nella mappa, nel caso di finalità prevalentemente strategiche, le operazioni d’investimento caratterizzate da rischio elevato su progetti di natura esplorativa (quadrante 9 e parzialmente 5-6-8) sono efficacemente realizzate attraverso la partecipazione a fondi di VC puro accompagnata dalla definizione di accordi tecnologici, in cui l’aspetto significativo è l’accesso al deal flow, piuttosto che l’ottenimento di rendimenti finanziari. La possibilità, infatti, di mantenere sotto osservazione le aziende detenute nel portafoglio del fondo e quelle che partecipano al 14 network della management company, consente al corporate venturer di stabilire se e quando investire direttamente in un’azienda o se più semplicemente definire accordi di natura strategica. Per il monitoraggio e l’investimento in progetti con rischio intermedio e con un’ampiezza intermedia tra exploration ed exploitation (quadrante 5 e, per porzioni inferiori anche gli altri quadranti), l’architettura di corporate venture capital appare piuttosto eterogenea, poiché si tratta dell’area in cui si concentrano il maggior numero di opportunità interessanti da un punto di vista strategico per un corporate venturer e, di conseguenza, le operazioni d’investimento sono differenziate. La partecipazione ad un fondo di VC, unita all’impegno a fornire consulenza tecnologica nella valutazione delle aziende in cui investire, rende possibile un accesso diretto e sistematico al deal flow. Per le opportunità di venturing che consentono lo sfruttamento di sinergie con le business unit dell’impresa, l’investimento diretto rimane la soluzione più efficace, soprattutto in corrispondenza di aziende che realizzano attività innovative caratterizzate da livelli intermedi di rischio e che tendono ad essere vicine allo sviluppo di applicazioni per il mercato. Anche il fondo di risorse dedicato alle attività di sviluppo interno, del resto, deve essere in parte rivolto alla gestione di progetti con rischio ed ampiezza intermedi. Infine, quando sia rischio che ampiezza dell’innovazione sono minimi, da un punto di vista strategico potrebbe essere conveniente, per le ragioni sopra evidenziate, stimolare lo spin-off e valutarne un eventuale finanziamento attraverso il CVC al fine di valorizzare gli asset tecnologici complementari o di scarso interesse per il core business. Va sottolineato che corporate venturer di rilievo e con esperienze di successo, hanno recentemente intrapreso una strada di minor esposizione ai rischi del venturing diretto, come ad esempio Lucent Technologies che nei primi giorni del 2002 ha annunciato di aver ceduto l’80% di tutti i ventures detenuti in portafoglio a Coller Capital Ltd. Le due società hanno poi costituito un fondo chiamato New Venture Partners II LP per gestire queste aziende, di cui Lucent detiene il 20% come limited partner (The Daily Deal.com, 2002). Quando, invece, la finalità del programma di CVC è anche di tipo finanziario, potrebbe essere conveniente istituire e gestire un fondo di VC puro, ma con un portafoglio di investimenti caratterizzati da rischio ed ampiezza eterogenei (area dei quadranti 8-5-6-9), il cui obiettivo primario è il rendimento del fondo stesso. Un esempio di tale architettura è il fondo Nokia Venture Partners per investimenti sulle 15 tecnologie del Mobile e di Internet in cui all’obiettivo strategico si accompagna uno di tipo finanziario. Da un punto di vista organizzativo è opportuno riflettere su alcuni fattori che caratterizzano l’attivazione dei programmi di CVC. Un primo elemento importante è legato al rapporto tra l’attività di gestione del programma e le attività delle altre divisioni dell’impresa. Alcuni sono gli elementi interessanti che emergono a questo proposito. In primo luogo, le attività del fondo non sono immuni dalla cosiddetta NIH syndrom, o sindrome del non inventato qui, generando forti resistenze da parte delle strutture interne dell’organizzazione ai vari livelli e rendendo necessaria per il fondo un appoggio forte ed incondizionato da parte del top management, pena il fallimento dell’operazione. E’ proprio ad uno scarso successo nell’integrazione delle operazioni di CVC con le attività tradizionali, infatti, che può essere ricondotta la probabilità di interruzione delle operazioni prima della scadenza predefinita. Questo limite è connesso alla caratteristica essenziale del corporate venture capital, ovvero la netta separazione tra lo scouting di opportunità d’investimento e di internal venturing e la gestione dei business attuali (European Commission, 1999; Chesbrough, 2000). Se da un lato è essenziale isolare i gestori del programma di corporate venture capital dalle attività routinarie, è altrettanto vero che tale frattura rende fondamentale il supporto del top management ed un’attenzione e cura particolari nel tentativo di valorizzare quelle sinergie che erano state ricercate durante le operazioni di scouting. Un secondo problema che occorre risolvere nella conduzione di un’operazione d’investimento, riguarda il supporto che il corporate venturer fornisce all’azienda in cui si è investito. Sia venture capitalist che corporate venturer offrono alle aziende finanziate un sostegno maggiore rispetto alle sole risorse finanziarie, che va dalla consulenza tecnologica, ove possibile, e strategica fino al supporto nel recruiting di personale (Gorman e Sahlman, 1989; Sapienza, 1992; Zider, 1998). Il rischio che un corporate venturer corre ancor più di un VC è quello di stringere troppo anticipatamente le relazioni con la società in cui si è investito, a causa dell’ansia di veder realizzate al più presto le sinergie ricercate nell’investimento. Questo errore potrebbe soffocare le capacità di sviluppo e la creatività tipica della piccola realtà imprenditoriale, ed in questo modo ridurre sostanzialmente il vantaggio del programma di corporate venture capital (McNally, 1997; European Commission, 1999). 16 Un ulteriore problema che lo sponsor di un programma di CVC deve fronteggiare è il bilanciamento tra internal ed external venturing. Si pone, in altre parole, in maniera concreta il problema dell’identificazione delle risorse interne come possibili target di investimento rispetto ad opportunità rinvenibili all’esterno. Se, infatti, da un lato un occhio di riguardo per l’interno rischia di utilizzare lenti più permissive rispetto a quanto riservato a iniziative provenienti dall’esterno, dall’altro l’incoraggiamento di forme di imprenditorialità interna pone fortemente un’esigenza di definizione di sistemi di incentivi coerenti con l’assunzione di rischio ma, al tempo stesso, in grado di offrire qualche garanzia aggiuntiva rispetto ad opzioni di finanziamento completamente esterne all’impresa. Tale delicato equilibrio deve essere ricercato dal management, che, spesso, influenza in maniera determinante il successo delle iniziative di venturing (Edlund e Magnusson, 2001). A tale proposito occorre rilevare che il problema è duplice. Da un lato, si tratta di incentivare lo sviluppo di idee innovative senza generare fenomeni di totale anarchia rispetto agli obiettivi interni di R&S. Dall’altro è necessario riflettere sulla diffusione di una cultura imprenditoriale all’interno dei laboratori come un fatto non scontato. La realtà è, tuttavia, più articolata e l’esperienza recente di Lucent Technologies con il processo di riorganizzazione e valorizzazione dei Bell Labs rappresenta un caso interessante di analisi nel dettaglio di piani di incentivazione individuale, volti a stimolare e supportare la creazione di idee e progetti di business innovativi pur mantenendo una sorta di controllo sulle iniziative intraprese (Chesbrough e Socolof, 2000). Un’esperienza analoga di matrice europea è la Nokia Ventures Organization che, oltre ad essere lo sponsor principale del fondo di VC Nokia Venture Partners per gli investimenti rivolti all’esterno, si occupa del programma di internal venturing (Day et al. 2001). Queste osservazioni ci portano a considerare un ulteriore elemento di interesse che emerge dalle ricerche condotte in questo ambito e che è direttamente collegato alla struttura degli incentivi dei diversi attori coinvolti. Per quanto riguarda i gestori del fondo di Corporate Venture Capital, vi è unanimità nel riconoscere loro una struttura di compensation simile a quanto offerto dai fondi di Venture Capital (Block e MacMillan, 1993; Brazeal, 1993; European Commission, 1999; Chesbrough, 2000). Anche se a questo proposito le politiche di remunerazione interna rendono sconveniente l’adozione 17 di una forma di compensazione completamente collegata alla performance economica del fondo per non generare disparità di trattamento rispetto al top management, l’aumentata pressione competitiva da parte del settore del VC rende sempre meno praticabili offerte di remunerazioni più tradizionali, che rischiano di generare rapide uscite dall’organizzazione delle risorse migliori. Una delle soluzioni più diffuse in proposito, è quella di utilizzare sistemi di rewarding analoghi a quelle dei venture capitalist solo per strutture di gestione di fondi nettamente separate dalla parent company. Per il gruppo che si occupa di gestire i programmi di venturing operando dall’interno dello sponsor del programma, il sistema d’incentivazione viene costruito in modo equivalente rispetto al resto del personale, per evitare disparità di trattamento e la diminuzione dell’efficacia del programma di CVC (European Commission, 1999; Day et al., 2001). Ad ogni modo a testimonianza di una maggiore sensibilità in questo senso, negli ultimi anni è possibile riscontrare anche forme inverse di mobilità del lavoro, con il passaggio di esperti di investimenti da fondi di VC a fondi di Corporate Venturing. Questo fattore, peraltro, è uno dei principali a sostegno della tesi che, per un programma di CVC completo e di successo, è necessario accompagnare ad una struttura di gestione interna al corporate venturer, un’organizzazione esterna ed indipendente o almeno un accordo ben strutturato con un’impresa che gestisce un fondo di VC indipendente (Rind, 1981). Infine, la finalità strategica che spesso informa i programmi di CVC rende la presenza di fallimenti nelle operazioni d’investimento un’opportunità di rilievo. Mentre, infatti, la società di gestione di un fondo di VC puro tende a smantellare ed a dimenticare in fretta le numerose esperienze fallimentari, il corporate venturer deve cercare di attivare fenomeni di learning by failures, conducendo un’analisi approfondita sui venture detenuti in portafoglio e falliti (Chesbrough, 2000). Solo dopo aver analizzato criticamente le ragioni del fallimento ed aver appresso utili suggerimenti per nuove operazioni o per altre attività nell’ambito della compagnia, è possibile sciogliere il gruppo e dedicarlo ad altri compiti (Chesbrough, 2000). Al fine di illustrare le problematiche operative da affrontare nello sviluppo di un programma di CVC, nel successivo paragrafo viene illustrato un caso del nostro paese, quello di Telecom Italia, in cui è possibile rinvenire il tentativo di costruire in modo articolato una struttura di corporate venture capital, che pur se iniziato a metà degli anni 18 ’90 solo recentemente ha acquisito alcuni tasselli importanti per il completamento di un’architettura strategica ed organizzativa di successo. 4. Le attività di Corporate venture capital in Telecom Italia: Telecom Italia Lab1 Le attività di corporate venture capital in Telecom Italia iniziano nel 1996, ma solo nel primo semestre del 2000 le attività di VC e di R&S furono riunite nell’ambito di un’unica business unit. Quest’ultima, infine, è stata scorporata e conferita alla nuova società Telecom Italia Lab (TILab) costituita nel 2001. Solamente a partire da quella data è stata formalmente costituita un’unità organizzativa, il Venture Capital Management, specializzata nelle attività di venturing. L’organizzazione delle attività di VC in Telecom Italia è realizzata secondo il modello prevalente, che in diverse circostanze ha mostrato di essere di successo. Tale applicazione si basa sulla separazione netta delle attività di venturing che ricalcano il modello del VC puro, e che consente per queste di adottare sistemi di rewarding diffusi nel mercato del venture capital. Per le attività di venturing realizzate internamente, al contrario, una distinzione netta negli strumenti di incentivazione rispetto al resto del personale non può essere realizzata a meno di perdere parte del valore legato alle operazioni di investimento di un corporate venturer, cioè le sinergie con l’azienda in cui s’investe, a causa di un potenziale rischio di non accettazione dei contributi apportati dal venture. La missione e le attività dell’unità di venturing di Telecom Italia s’ispirano ai modelli di CVC di maggior successo ed in tal senso si sviluppano con finalità prevalentemente strategiche di sostegno ai processi di innovazione del gruppo nell’ambito del mercato dell’ICT, pur non trascurando completamente la considerazione di fattori di natura finanziaria. In questo senso, le complessità precedentemente evidenziate sono state oggetto di riflessione e di tentativi di soluzione attraverso un’architettura di CV molto articolata, basata su programmi di internal ed external venturing e su investimenti sia diretti sia indiretti. La strada intrapresa dal gruppo è giustificata dalle complesse esigenze di venturing e scouting tecnologico, legate alle pressioni competitive che l’azienda affronta nel mercato dell’ICT, la cui percorribilità è 1 Le informazioni di seguito descritte fanno riferimento all’articolazione organizzativa ed alle procedure previste nell’ambito di Telecom Italia Lab fino al 31 dicembre del 2001, data in cui è stata conclusa la rilevazione. Per un’analisi più generale sull’evoluzione delle attività di R&S in Telecom Italia, si veda Munari (2002). 19 stata, in un certo senso, agevolata dal prestigio e dalle competenze posseduti dal centro di R&S del gruppo (CSELT), che hanno reso l’azienda un partner attraente anche per operatori finanziari indipendenti. Partecipazione a fondi di VC indipendenti La partecipazione come limited partner ai fondi di VC, anche accompagnata da accordi tecnologici, rappresenta un modo per esternalizzare parte delle attività di scouting in aree tecnologiche e geografiche di interesse per la società. Per tale motivo è stato deciso di partecipare a quei fondi di VC, che da uno screening iniziale sulle potenzialità di offrire accesso al deal flow, consentono il monitoraggio di innovation cluster di particolare eccellenza, e di progetti di sviluppo di notevole ampiezza per tecnologie ad alto rischio (quadrante 9 e parzialmente 5, della mappa in figura 1). La partecipazione al fondo, inoltre, è guidata prevalentemente da alcuni aspetti di natura strategica legati alla possibilità per TILab di sviluppare delle partnership con le aziende presenti nel network del fondo attraverso l’impiego dei prodotti, dei servizi e delle tecnologie sviluppate dall’azienda per i mercati in cui opera il gruppo. TILab attualmente partecipa a cinque fondi (si veda figura 2). La costituzione di fondi di VC Nel 1998 Telecom Italia ha istituito in collaborazione con Mediocredito Centrale un fondo di VC, Fintech, che realizza investimenti nell’area dell’ICT, localizzati prevalentemente in Italia, e nel 2001 ha promosso la costituzione di un altro fondo di VC negli Stati Uniti, Saturn Venture Partners, dotato di un capital committed di 280 milioni di US$, per investimenti nell’ICT (prevalentemente wireless). Essendo i fondi aperti al capitale di terzi, la responsabilità gestionale impone alle due management company di perseguire prioritariamente obiettivi di ritorno finanziario. In questo senso la finalità di attrarre potenziali limited partner nel fondo e sviluppare le operazioni di VC nel modo migliore, richiede di ricorrere a sistemi gestionali e di rewarding del personale, allineati a quelli che i professional del settore possono rinvenire in altre società di VC. In questa ottica, il fondo deve ricercare opportunità per massimizzare l’IRR del portafoglio di investimenti, anche selezionando investimenti ad alto rischio e con ampiezza massima o intermedia (nella mappa in figura 1, quadranti 8-9-6 ed in parte 5). 20 Scouting tecnologico e investimento diretto Le azioni di investimento diretto sono focalizzate sui settori Wireless e Internet & Media, nei quali TILab è in grado di comprendere più efficacemente il valore strategico di un investimento rispetto alle attività di business del gruppo. L’investimento diretto si sostanzia nell’acquisto di una quota di minoranza in società ad alto potenziale, in cui sia possibile rinvenire le potenzialità di sviluppare sinergie con i laboratori di CSELT o con altre business unit del gruppo. In questo senso si tratta di opportunità di investimento in cui rischio ed ampiezza dell’innovazione appaiono eterogenei ma comunque non raggiungono i valori massimi o minimi (nella figura 1, quadranti 5 e parzialmente tutti gli altri). Una volta identificata l’opportunità, la fase di negoziazione è incentrata sul valore dell’impresa e sulle opzioni contrattuali che consentono a Telecom Italia di realizzare efficacemente il way-out e valorizzare le sinergie ipotizzate durante le attività di valutazione. Questo principio porta ad esempio ad introdurre nel contratto d’investimento una clausola a favore di Telecom Italia di acquisto per il 100% della società ad un prezzo da negoziare tra le parti, ed a realizzare una valutazione di natura strategica anche qualora ragioni di tipo finanziario inducano a considerare favorevolmente l’ipotesi del way out.. Inserire figura 2 circa qui TILab investe direttamente solo in aziende Italiane ed Israeliane, poiché mentre le prime hanno un impatto diretto sul mercato principale di Telecom Italia, le seconde sono inserite in un contesto territoriale che rende la loro capacità innovativa superiore alla media di altre imprese. L’operazione è generalmente focalizzata sul primo round di finanziamento, poiché diviene possibile attivare uno scambio di conoscenze e competenze con l’azienda in cui s’investe, offrire supporto tecnologico, che permette a Telecom Italia di limitare l’esposizione finanziaria a fronte di un contributo tecnico di valore, e fornire maggiore credibilità all’investimento nei confronti delle divisioni, che potrebbero essere affette dalla NIH syndrom ed ostacolare l’eventuale accettazione dei contributi dell’azienda in cui si è investito Attualmente le aziende nel portafoglio di 21 TILab sono 9, inclusa Vocalpoint che si è fusa con Loquendo, ma quest’ultima è controllata da TILab (Figura 2). Internal Venturing e CVC Spin-off La necessità di valorizzare il patrimonio tecnologico detenuto dal centro di R&S ha indotto TILab a mettere a punto un processo di internal venturing, in grado di stimolare la creatività dei ricercatori su idee di prodotti, servizi e tecnologie, che possono ampliare l’offerta dei laboratori ed essere opportunità di sviluppo dei business. Tale processo è stato definito di Creative Lab ed è finalizzato alla costruzione di un meccanismo per censire, valutare e finanziare le idee più promettenti. Le proposte avanzate dai ricercatori, dopo eventuali revisioni ed approfondimenti, vengono presentate al Comitato Tecnico e Strategico di TILab, che ne decide un eventuale inserimento nelle Celle di Innovazione. Queste ultime sono degli incubatori in cui viene offerto il supporto tecnico, di mercato e di tipo manageriale necessario a trasformare un’idea di sviluppo tecnico in un progetto di business concreto, che possa essere reinserito nelle attività delle divisioni o che invece possa dare vita ad uno spin-off. In questo secondo caso la struttura di VC di TILab effettua una valutazione della proposta, con gli stessi criteri utilizzati per valutare un investimento esterno, e nel caso ne propone il finanziamento al Comitato degli Investimenti. 5. Conclusioni Gli sviluppi recenti nei programmi di corporate venture capital si discostano notevolmente da quelli del passato, poiché tendono a ricalcare maggiormente le architetture strategiche ed organizzative impiegate dai gestori di fondi di VC indipendenti. Tale evoluzione nasce dall’esigenza di orientare l’organizzazione ad una maggiore imprenditorialità ed all’assunzione di un livello di rischio superiore, attraverso la definizione di programmi articolati ed eterogenei, che comprendono iniziative d’investimento diretto ed indiretto e di internal ed external venturing. Il cambiamento osservato deriva dall’aumentato interesse nei confronti di tali iniziative, che offrono risposte concrete e di notevole impatto all’esigenza di partecipare alla corsa verso l’innovazione, a fronte di un calo degli investimenti diretti in R&S corporate e all’esigenza di una sempre più rapida generazione di nuovi business di matrice tecnologica. 22 La natura prevalentemente strategica delle iniziative di corporate venture capital si accompagna ad un’impostazione dei programmi d’investimento che privilegiano la ricerca delle sinergie tra i venture finanziati e le business unit dell’impresa madre. Questo elemento incide sull’architettura dei programmi di CVC, sulla scelta del tipo di investimenti da effettuare e sul modo di condurre le operazioni stesse. La necessità di tenere sotto controllo un ambiente competitivo e tecnologico molto vasto ed eterogeneo rende difficile sviluppare l’architettura del programma di CVC attraverso il solo investimento diretto, e la caratterizzazione delle alternative possibili sviluppata nella figura 1 consente di utilizzare due dimensioni rilevanti quali il rischio dell’investimento e l’ampiezza dell’innovazione tecnologica come guida per l’articolazione delle alternative. Da un punto di vista organizzativo gli elementi di maggior rilievo sono legati al rapporto tra l’attività di gestione del programma e le attività delle altre divisioni dell’impresa ed alla costruzione del sistema di rewarding di chi si occupa del programma. In merito al primo punto abbiamo rilevato come la gestione di questa relazione debba essere orientata alla ricerca di un equilibrio tra il supporto e l’eccessivo controllo sull’azienda in cui si investe. A questo problema si aggiunge la necessità di sostenere l’investimento all’interno dell’azienda per evitare di incorrere nella NIH syndrom, che potrebbe rendere vano l’intero sforzo effettuato. In relazione al sistema di rewarding, è interessante notare come i programmi di CVC maggiormente diffusi hanno scelto di intraprendere la strada dell’uniformità per le risorse interne al corporate venturer e della differenziazione per quelle che lavorano in fondi di VC nettamente distinti, pur se facenti parte di un unico programma. La realizzazione di programmi di CVC in aziende dotate di centri di sviluppo delle competenze tecnologiche deve fronteggiare l’ulteriore problema della valorizzazione degli asset creati internamente. Questo fenomeno si traduce nella necessità di bilanciare le risorse dedicate all’internal piuttosto che all’external venturing, con il rischio di privilegiare le iniziative interne rispetto alle altre. E’ importante rilevare che tutte le aziende che affrontano queste problematiche si trovano a dover sviluppare un ambiente organizzativo che incentivi forme di imprenditorialità interna, ma che, al tempo stesso, sia in grado di offrire qualche garanzia aggiuntiva rispetto ad opzioni di finanziamento completamente esterne all’impresa. 23 La competizione sui mercati di consumo e di fornitura si è estesa anche sul mercato dello scouting tecnologico, che, soprattutto nei settori high tech, è divenuto ormai essenziale per perseguire strategie di crescita di successo. La soluzione dei problemi presentati, in questo senso, incide in maniera decisiva sulla possibilità di sviluppare architetture di corporate venture capital in grado di conseguire gli obiettivi sempre più ambiziosi delle aziende che operano in business a base tecnologica. 24 Bibliografia Aifi, (2001a), Il Mercato Italiano del Venture Capital e Private Equity, www.aifi.it. Aifi, (2001b), ´Incubatori Privati: Realtà Internazionale e Modello Italiano`, Collana Capitale di Rischio e Impresa, quaderno n. 10, www.aifi.it. Block Z., and O. Ornati, (1987), ´Compensating Corporate Venture Managers`, Journal of Business Venturing, 2, pp. 41-51. Block Z., MacMillan I., (1993), Corporate venture capital: Creating New Businesses Within the Firm, Harvard Business School Press, Boston. Boccardelli P., Macioce A., Oriani R., (2000), Innovazione, Tecnologia e Piccole e Medie Imprese, LUISS Edizioni, Roma. Brazeal V., (1993), ´Organizing for Internally Developed Corporate Ventures`, Journal of Business Venturing, 8, pp. 75-80. Bygrave W., Timmons J., (1986), Networking among Venture Capital Firms, in Frontiers of Entrepreneurship Research 1986, Center for Entrepreneurial Studies, Babson College, Wellesley, MA. Chesbrough H. W., Socolof S. J., (2000), ´Creating New Ventures from Bell Labs Technologies`, Research/Technology Management, march-april, pp. 13-17. Chesbrough H., (2000), ´Designing Corporate Ventures in the Shadow of Private Venture Capital`, California Management Review, 42, pp. 31-49. Cusatis P. J., Miles J. A., Woolridge J. R., (1993), ´Restructuring through Spinoffs: the Stock Market Evidence`, Journal of Financial Economics, 33, pp. 145-161. Day J., Mang P. Y., Richter A., Roberts J., (2001), ´The Innovative Organization: Why New Ventures Need More Than a Room of Their Own`, The McKinsey Quarterly, 2, pp. 21-31. Edlund M., Magnusson M. G., (2001), ´Influence of the Dominant Management Logic on an Internal Corporate Venture`, in Edlund M., Related Diversification. On Business Creating Processes in Large Technology-Based Firms, Ph. D. Dissertation, Chalmers University of Technology, Göteborg, Sweden, paper III. European Commission, (1999), Corporate venture capital in Europe, Enterprise Directorate-General Innovation Policy Unit, Bruxelles. Fast N., (1978), The Rise and Fall of Corporate New Venture Divisions, Ann Arbor, MI, UMI Research Press. Gee R., (1994), ´Finding and Commercializing New Businesses`, Research/Technology Management, January/February, pp. 49-56. Gompers P., Lerner J., (1999), ´Can Corporate Venture Capital Succeed?: Organizational Structure, Complementarities and Success´, in Morck R, Concentrated Ownership, Chicago, University of Chicago Press for the National Bureau of Economic Research. Gorman M., Sahlman W., (1989), ‘What Do Venture Capitalist Do?’, Journal of Business Venturing, 4, pp. 231-248. Industry Week, (2000), ´Something Old, Something New`, by Weld Royal, 6/12/2000. Ito K., (1995), ´Japanese Spin-Offs: Unexplored Survival Strategies`, Strategic Management Journal, 16, pp. 431-446. Lipparini A., (1995), Imprese, relazioni tra imprese e posizionamento competitivo, ETAS Libri, Milano. Lipparini A., Serio L., (2001), ´Lo Spin-Off quale Strategia Deliberata`, Sviluppo & Organizzazione, 183, pp. 21-34. 25 Lorenzoni G., (1998), ´Dove studiano gli imprenditori´ Economia e Management, 6, pp. 63-72. Mackewicz&Partner, (1998), Venture Capital and Corporate Venture Capital: Financing Alternatives for Innovative Start-Ups and Young Technological Companies in Germany, Mackewicz&Partner, Munich. March J. G., (1991), ´Exploration and Exploitation in Organizational Learning`, Organizational Science, 2, pp. 71-87 McKinsey&Company, (2001), I Cluster Hi-Tech e le Aziende Innovative, McKinsey&Company, Settimo Milanese (Mi). McLelland D. C., (1961), The Achieving Society, Princeton, D. Van Nostrand. McNally K., (1994), Corporate Venture Capital Investment in the UK: Objectives, Strategies and Future Prospects, Department of Geography, University of Southampton, Southampton. McNally K., (1995), External Equity Finance for Technology-Based Firms in the UK: the Role of Corporate Venture Capital, Department of Geography, University of Southampton, Southampton. McNally K., (1997), Corporate Venture Capital: Bridging the Equity Gap in the Small Business Sector, Routledge, London. Miles J. A., Rosenfeld J. D., (1983), ´The Effect of Voluntary Spin-Off Announcements on Shareholder Wealth`, Journal of Finance, 38, pp. 1597-1606. Munari F., (2002), Privatizzazioni e Innovazione. Nuovi Assetti Proprietari e Investimenti in Ricerca e Sviluppo, Carocci, Roma, (in corso di pubblicazione). Oriani R., (2002), Il Valore della Conoscenza Tecnologica. Un’Analisi nella Prospettiva delle Opzioni Reali, Ph. D. Dissertation, Dottorato di Ricerca in Direzione Aziendale, Dipartimento di Discipline Economico-Aziendali, Università degli Studi di Bologna, Bologna. Powell W. W., (1998), ´Learning from Collaboration: Knowledge and Networks in the Biotechnology and Pharmaceutical Industry`, in California Management Review, 40, pp. 228-240. Powell W. W., Koput K., Smith-Doerr L., (1996), ´Interorganizational Collaboration and the Locus of Innovation: Networks of Learning in Biotechnology`, in Administrative Science Quarterly, 41, pp. 116-145. Relazione Annuale CSELT, 1999. Rind K., (1981), ´The Role of Venture Capital in Corporate Development`, Strategic Management Journal, 2, pp. 169-180. Roberts E. B., (1991), Entrepreneurs in High Technology. Lessons from MIT and Beyond, Oxford University Press, New York, NY. Roberts E. B., Berry C. A., (1985), ´Entering New Business: Selecting Strategies for Success`, Sloan Management Review, Spring, pp. 3-17. Roberts E. B., Malone D. E., (1996), ‘Policies and Structures for Spinning Off New Companies from Research and Development Organizations’, R&D Management, 26, pp. 17-47. Sapienza H., (1992), ‘When Do Venture Capitalist Add Value?’, Journal of Business Venturing, 7, pp. 9-27. Siegel R., Siegel E., MacMillan I., (1988), ´Corporate Venture Capitalists: Autonomy, Obstacles and Performance`, Journal of Business Venturing, 3, pp. 233-247. Sykes H, (1990), ´Corporate Venture Capital: Strategies for Success`, Journal of Business Venturing, 5, pp. 37-47. 26 Sykes H., (1986), ´The Anatomy of a Corporate venture capital Program: Factors Influencing Success`, Journal of Business Venturing, 1, pp.275-293. Sylos Labini P., (1993), ´Da impresa a impresa` Industria e sindacato, 6. The Daily Deal.com, January/04/02, (2002), Lucent Unloads Majority of Startup to Coller, www.ipo.com/venture/news. The Investment Dealers’ Digest, (1999), ´Another Record Year for Venture Capital, but Can It Last?`, by Michael Gannon, 22/11/1999, New York. Venture Economics News, 8/2/2000. Venture Economics, (1993), The State of Corporate venture capital, Venture Capital Journal, June. von Hippel E. (1977), ´Succesfull and Failing Internal Corporate Ventures: An Empirical Analysis`, Industrial Marketing Management, 6, pp. 163-174. Withers, (1997), Window of Technology: Corporate venture capital in Practice, Withers Solicitor, London. Zider B., (1998), ‘How Venture Capital Works’, Harvard Business Review, 76, pp. 131139. 27 . / # # ! "#$ "% 4 ' + ,* * # ** 3 % ) + ' * , * # )+ - ) # () # # " & '' 0 1 2 Figura 1: Mappa del corporate venture capital * ; - *= " ) -) +5 9( ) -) +5 81/9 5 1990 5 044/ * ** % -) +5 819 5044 -) +5 819 5 044 ; -) +5 8199 5 1999 : ) ; < ) ) -) +5 8199 5 1999 -) +5 637( 5 1990 Locationet – Movenda – Cygent – Usablenet – D-mail – Virtualself – Ifm – Siosistemi – ITXC Figura 2: Portafoglio investimenti di TILab Fonte: materiale interno TILab 28 Tavola 1 - Sintesi delle principali ricerche sul Corporate Venture Capital Autore Von Hippel, E. Anno 1977 • • Fast, N. 1978 • • Rind, K. 1981 • • Sykes, H. 1986 • • Block,Z. e Ornati, O. 1987 • Siegel, R., Siegel, E e MacMillan, I. 1988 • • Gompers, P. e Lerner, J. 1999 • • • Principali risultati New ventures operanti in mercati in cui l’impresa madre aveva un’esperienza pregressa avevano maggiore probabilità di successo; Le unità di Coporate Venture Capital nel tempo si trovavano a dover gestire gli investimenti di minore successo, poichè quelli più brillanti venivano rapidamente coinvolti dalle SBU o si affermavano autonomamente sul mercato. Conferma ai risultati ottenuti da von Hippel; Presenza di un problema interno di gestione del successo delle new ventures laddove possano essere percepite come una minaccia nei confronti di aree di business già controllate da altre parti dell’impresa. Conferma della presenza di forti criticità decisionali interne in casi di sovrapposizione commerciale tra la new venture e altre SBU; La discrepanza temporale tra decisioni di investimento e valutazione delle performance fa sì che si assista ad un avvicendamento nel management dell’unità di Coporate Venture Capital, con conseguenti potenziali problemi di forte avversione al rischio e differimento delle decisioni più ciritiche. Exxon cominciò con successo un’attività di Corporate Venture Capital lanciando nel 1975 un fondo che investì 12 milioni di dollari in circa 18 new ventures e fu liquidato nel 1982 con IRR pari al 51%; Sempre nel 1982 lanciò poi un programma totalmente focalizzato sul Coporate Venture Capital per portare avanti alcune delle idee emerse dall’esperienza precedente. Nessuna delle 19 new ventures lanciate attraverso questo programma riuscì ad essere competitiva sul mercato. La maggior parte delle imprese coinvolte nello studio utilizzavano forme di compensazione dei manager dell’unità di Coporate Venture Capital analoghe a quelle del resto del management dell’impresa per evitare forti asimmetrie retributive; Per massimizzare il successo economico-finanziario dell’unità di Coporate Venture Capital è necessario garantire alla stessa massima libertà d’azione; Tale libertà si traduce, tuttavia, nel caso di business correlati commercialmente con quanto già realizzato dall’impresa, in occasioni di possibile contrasto; investimenti in Start-Up strategicamente correlate con il business della società responsabile del fondo di Corporate Venture Capital hanno un probabilità uguale di arrivare rapidamente e con successo alla quotazione sul mercato rispetto ad investimenti effettuati da parte di fondi specializzati in operazioni di Venture Capital, mentre il contrario è vero per investimenti non correlati; il maggiore successo nelle aree collegate si accompagna ad una valutazione dei business finanziati tendenzialmente superiori rispetto a quanto effettuato da altri investitori; rispetto ai piani iniziali, è molto probabile che i programmi di Corporate Venture Capital vengano chiusi o subiscano forti ridimensionamenti prima delle scadenze prestabilite, soprattutto quando gli investimenti effettuati siano troppo diversificati rispetto al portafoglio di attività caratteristiche dell’impresa. 29 Tavola 2 - L’architettura strategica del Corporate venture capital Caratteristica Tipologia Obiettivi specifici Finalità Strategica Scouting Tecnologico Sinergie con attività interne Valorizzazione competenze interne Finanziaria Rendimenti del fondo di risorse finanziarie Valutazione dell’investimento Mediamente superiore a quella Valutazione delle sinergie finanziaria realizzabili con attività del corporate venturer (soprattutto nei fondi con finalità strategiche) Way-out Sell-off; I.P.O.; Acquisizione; In tutti l’obiettivo peculiare è in Fusione con spin-off genere quelle di recuperare le sinergie ipotizzate attraverso la definizione di accordi di partnership Modalità di sviluppo Internal Vs. External Venturing Sviluppo di opportunità di business generate all’interno, recupero investimenti passati, sviluppo di fonti di vantaggi competitivi facendo leva sullo scouting all’esterno 30 Tavola 3 - Lo sviluppo di un programma di Corporate venture capital Area d’intervento Tipologia Priorità specifiche Investimenti 1. Diretti Strategiche 2. Diretti tramite costituzione di Finanziarie fondi di VC Programma 3. Indiretti Accesso al deal flow 1.Relazione tra destinatari 1. NIH Syndrom dell’investimento e corporate venturer 2. Rischio di anticipazione dell’avvio delle relazioni strategiche 3. Learning by failures 2.Internal vs. External Venturing 1. Valutazione investimenti interni 2. Incentivazione del personale di ricerca verso il business development 3. Sistemi di gestione e rewarding 1. Personale interno, allineati al del personale resto dell’organizzazione. 2. Personale di strutture indipendenti, allineati a gestori di fondi di VC.