le architetture strategiche ed organizzative del corporate venture

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LE ARCHITETTURE STRATEGICHE ED
ORGANIZZATIVE DEL
CORPORATE VENTURE CAPITAL
Paolo Boccardelli
Scuola di Management
Università Luiss Guido Carli
Maurizio Sobrero
Dipartimento di Discipline Economico-Aziendali
Università di Bologna
Febbraio, 2002
Versione 1.3
Pubblicato su Sviluppo&Organizzazione, n. 190 marzo-aprile 2002.
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Sommario
Lo sviluppo delle attività di corporate venturing negli Stati Uniti ed in Europa, solo in
parte riconducibile alla crescita del mercato degli investimenti nel capitale di rischio che
ha caratterizzato i mercati internazionali negli ultimi anni, rappresenta attualmente una
concreta risposta delle imprese high-tech alla riduzione complessiva degli investimenti
diretti in attività di ricerca di base, alla specializzazione settoriale della ricerca interna
ed all’esigenza di aprire nuovi percorsi di crescita attraverso opportunità di
diversificazione tecnologica e di business. A fronte di un’interpretazione più completa
del fenomeno del corporate venturing, si è assistito ad un graduale ma costante processo
evolutivo degli strumenti e dei programmi adottati, al fine di soddisfare l’esigenza di
orientare l’organizzazione ad una maggiore imprenditorialità ed all’assunzione di un
livello di rischio superiore, attraverso la definizione di piani articolati ed eterogenei, che
comprendono iniziative d’investimento diretto ed indiretto e di internal ed external
venturing. La natura prevalentemente strategica di tali iniziative determina una chiara
impostazione dei programmi d’investimento verso opportunità che consentono lo
sfruttamento di sinergie con le business unit dell’impresa madre o che, attraverso
processi deliberati di spin-off, permettono la valorizzazione di asset tecnologici
complementari. La necessità di tenere sotto controllo un ambiente competitivo e
tecnologico molto vasto ed eterogeneo, da un lato, e di valorizzare al meglio le sinergie
con le strutture interne, rende l’architettura dei programmi di corporate venture capital
piuttosto articolata e rivolta alla risoluzione di molteplici problemi di natura
organizzativa, quali le relazioni con i venture finanziati ed i sistemi di rewarding per il
personale coinvolto in tali attività. L’obiettivo di questo lavoro è di fornire, in una
prospettiva organica ed interdisciplinare del fenomeno, una ricognizione e
sistematizzazione del quadro teorico, per poi sviluppare alcune riflessioni operative sul
significato e le implicazioni organizzative dei programmi di corporate venturing in
relazione al ruolo da questi ricoperto nel più ampio problema della gestione strategica
del patrimonio tecnologico.
Gli Autori ringraziano il Dott. Andrea Granelli, l’Ing. Claudio Gentile, l’Ing. Paolo
D’Andrea, il Dott. Giuseppe Visalli, la Dott.ssa Tiziana Mezzaroma ed il Dott.
Alessandro Palmitelli di Telecom Italia Lab, per la loro disponibilità e coinvolgimento
che hanno reso possibile la redazione del caso aziendale e per la loro competenza che ha
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permesso la comprensione di una realtà così complessa. Il presente lavoro è stato
realizzato con il supporto finanziario del progetto ex-60% "Privatizzazioni ed
investimenti in Ricerca e Sviluppo: cambiamenti strutturali e organizzativi".
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1. Introduzione
Le attività di sviluppo e gestione dell’innovazione all’interno dei grandi gruppi
industriali sono state caratterizzate da una crescente diffusione di interventi articolati, di
matrice mista strategico-finanziaria solitamente denominati Corporale Venture Capital.
Questi interventi, che si sono inseriti in un trend di crescita del mercato degli
investimenti nel capitale di rischio che ha caratterizzato i mercati internazionali fino alla
crisi finanziaria del 2001, rappresentano attualmente una concreta sfida organizzativa
per fare fronte alla riduzione complessiva degli investimenti diretti in attività di ricerca
di base, alla forte focalizzazione settoriale e disciplinare dei programmi di ricerca
interna e all’esigenza di capitalizzare su opportunità di diversificazione correlata di
matrice tecnologica, senza farsi carico in maniera esclusiva del rischio di apertura di
nuove linee di business.
L’obiettivo di questo lavoro è di fornire una prospettiva organica e
interdisciplinare
del
fenomeno,
costruendo
alcune
sistematizzazioni
teoriche
accompagnate da riflessioni operative che, a nostro avviso, rappresentano occasioni
concrete di riflessione sul significato e le implicazioni organizzative del ruolo della
gestione dell’innovazione nelle grandi imprese nel mutato quadro competitivo
internazionale. L’organizzazione del lavoro riflette queste premesse. La sezione due
fornisce alcuni dati di contesto che consentono di apprezzare la portata economica e la
rilevanza internazionale del fenomeno del Corporale Venture Capital. La sezione tre
sposta l’attenzione sul piano concettuale, presentando e discutendo i principi alla base
della definizione dell’architettura strategica di un programma di CVC, tenendo conto
dell’evoluzione che il fenomeno ha presentato nel tempo e nella letteratura principale di
riferimento. La sezione quattro è incentrata sull’analisi delle problematiche di natura
organizzativa, che devono essere risolte nello sviluppo ed implementazione di un
programma di corporate venture capital. La sezione 5 presenta al lettore l’opportunità di
contestualizzazione operativa di quanto sviluppato nelle sezioni precedenti attraverso la
discussione del principale esempio di attività di Corporale Venture Capital sviluppatosi
in Italia negli ultimi anni, attraverso Telecom Italia Lab all’interno del gruppo Telecom
Italia. La sezione 6 presenta alcune riflessioni conclusive di sistematizzazione del
lavoro.
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2. Lo sviluppo dei programmi di Corporale Venture Capital negli anni ’90
Lo sviluppo di programmi di Corporate Venture Capital può essere ricondotto a
diversi fattori. In primo luogo, negli anni ’90 si sono sviluppati nuovi mercati finanziari
specializzati in imprese di nuova costituzione ad elevato contenuto tecnologico, che
hanno offerto opportunità concrete per l’uscita in tempi relativamente brevi degli
investitori in capitale di rischio. In secondo luogo, la riduzione della pressione fiscale
sui capital gain, incominciata negli Stati Uniti nel 1978 e successivamente diffusasi
anche nel contesto europeo (in Italia con l’entrata in vigore del D. lgs. 461/97), insieme
alla progressiva armonizzazione del diritto commerciale nei paesi della UE hanno
contribuito ad eliminare alcune asimmetrie regolamentari conferendo ad investimenti in
capitale di rischio caratteristiche di interesse finanziario maggiori rispetto al passato. Un
terzo fattore alla base di questa crescita è la moltiplicazione delle opportunità
d’investimento, che a sua volta deriva da due trend ben evidenti: la nascita di nuovi
cluster high tech; lo sviluppo dei programmi di corporate venture capital. In merito al
primo è sufficiente notare che oltre alla Silicon Valley ed alla Route 128 di Boston,
negli ultimi tempi diversi sono stati i distretti o cluster tecnologici sviluppatisi in Europa
e nel resto del mondo. Tra questi, senz’altro, il più famoso sembra essere la Silicon
Wadi in Israele, ma è opportuno evidenziare anche i cluster dell’informatica in India,
delle tecnologie del Mobile in Scandinavia, delle biotecnologie e del software a
Cambridge in Inghilterra e delle Telecomunicazioni a Sophia Antipolis in Francia
(McKinsey&Company, 2001). Anche in Italia, infine, sono ben avviate alcune iniziative
importanti per lo sviluppo di distretti tecnologici, sebbene ancora a stadi iniziali, come a
Torino sull’ICT, a Bologna sulle tecnologie del multimedia, a Trento e Catania sulla
microelettronica ed a Cagliari sull’IT. Questo notevole fermento distribuito
geograficamente nel mondo ha offerto ad investitori istituzionali, corporate e privati una
varietà di opportunità mai riscontrata in passato.
Il riconoscimento da parte dei grandi gruppi industriali delle potenzialità di
sviluppo di fenomeni di imprenditorialità interna, inoltre, ha dato origine alle prime
forme evolute di Corporate Venture Capital (CVC), nate come operazioni ibride di
diversificazione attraverso la creazione di un fondo di investimento interno. Il fondo, la
cui struttura si è nel corso degli anni sempre di più allineata con quanto realizzato nel
settore del Venture Capital (VC) vero e proprio, ha inizialmente rappresentato uno
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strumento più agile per riallocare liquidità in periodi di forte crescita ed espansione su
investimenti in start-up a base tecnologica. Secondo alcuni dati recenti (Industry Week,
2000), il numero di imprese di grandi dimensioni che hanno lanciato un proprio
programma di CVC e che hanno effettuato investimenti negli Stati Uniti è valutabile in
oltre 200, con un valore degli investimenti effettuati che passa dai 1.7 miliardi di dollari
del 1998 ai 6.8 del 1999, in un mercato che ha visto nello stesso anno realizzarsi il
record di investimenti da parte di fondi di Venture Capital, per un valore complessivo di
circa 48 miliardi di dollari (Venture Economics News, 8/2/2000). Tutti i principali attori
della competizione internazionale nei settori ad alta tecnologia sono coinvolti in
operazioni di questo tipo. Motorola, 3M, Corning, Martin Marietta, Xerox, Merck,
Allied Chemical, Kodak, Uniroyal, Intel, Cisco, Westinghouse, Colgate-Palmolive sono
solo alcuni dei nomi di multinazionali che nel corso degli ultimi dieci anni hanno
contribuito ad accelerare questo processo di apertura di finestre tecnologiche attraverso
strumenti finanziari e gestionali innovativi rispetto al modo tradizionale di interpretare
la propria area di business ed il percorso di generazione e valorizzazione
dell’innovazione. Intel Capital, il fondo di investimenti attivato dal colosso dei
semiconduttori nel 1991, è più volte stato indicato come un serio concorrente dei
migliori fondi di Venture Capital, con un portafoglio di investimenti in 350 imprese nel
1999 valutato intorno agli 8 miliardi di dollari e dismissioni in partecipazioni che nel
solo quarto trimestre dello stesso anno hanno generato profitti per oltre 320 milioni di
dollari (Industry Week, 2000). Ma gli attori in questo nuovo scenario non sono solo
nordamericani, come dimostra anche l’antesignana esperienza del fondo della Olivetti a
lungo gestito negli anni ’80 da Elserino Piol. Nokia ha cominciato di recente, istituendo
un proprio fondo, Nokia Venture Partners, da 100 milioni di dollari, il cui ammontare
recentemente è stato esteso a 650 milioni, con sede a Menlo Park in California ed
aprendo negli ultimi mesi uffici a Washington, Londra, Helsinki, Hong Kong e Tokyo
per mantenere un’attenzione elevata anche su altri mercati. Siemens ha chiamato la
propria unità di Corporate Venture Capital “Mustang Venture”, dotandola di un capitale
di 100 milioni di dollari e lasciando il piccolo gruppo di manager responsabili
dell’iniziativa estremamente liberi di agire e di muoversi al di fuori delle consuete rigide
strutture decisionali tipiche del colosso tedesco. Una scelta analoga a quella del gruppo
Matsushita, sbarcato in California nella seconda metà degli anni ’90 con l’intenzione di
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aprire un centro di ricerca che servisse da sensore rispetto al fermento tecnologico
dell’area attorno a Cupertino, presto evolutasi nella decisione di aprire un incubatore, il
Panasonic Digital Concept Center, e allocare 50 milioni di dollari ad un fondo collegato
all’incubatore e specializzato in hardware e software di rete.
In un’indagine condotta dalla Bannock Consulting Ltd. (1999) per l’Unione
Europea, infine, è stato stimato che tra il 1994 ed il 1998 almeno 6 miliardi di Euro sono
stati investiti direttamente in 1000 imprese. Questo valore rappresenta solo il 10% del
totale dei fondi raccolti dal sistema del venture capital puro in Europa, ma allo stesso
tempo si stima che esso rappresenti all’incirca il 40% del totale delle risorse investite
dai venture capitalist in operazioni di finanziamento seed o early stage (European
Commission, 1999). Nel periodo 1996-2000, in effetti, il numero di programmi di CVC
nel mondo è aumentato notevolmente e nel 2000 i fondi destinati al CVC ammontavano
complessivamente a 10 miliardi di dollari statunitensi, di cui 2 solamente in Europa
(Aifi, 2001b). L’investimento in programmi di CVC in Italia è attualmente un dato che
può essere solo stimato, replicando la considerazione che, in valore, i programmi di
CVC rappresentano il 40% degli investimenti del sistema del VC realizzati in
operazioni di seed/early stage. Tali investimenti assommano a 1.045 miliardi di Lire
Italiane (Aifi, 2001a) e, pertanto, l’investimento in CVC può essere valutato pari a poco
più di 400 miliardi di Lire. I programmi di corporate venture capital di maggior rilievo
in Italia sono quelli attivati da Olivetti, Pirelli, Telecom Italia e Enel.
3. L’architettura strategica dei programmi di Corporate Venture Capital
Nell’indagine precedentemente citata condotta dalla Bannock Consulting per
l’U.E. (European Commission, 1999), il Corporate venture capital è definito come
l’attività di investimento in quote di minoranza in imprese nuove e ad alto tasso di
crescita, posta in essere da imprese la cui principale attività non è il venture capital.
Questa ampia definizione, in realtà, nasconde forme ed applicazioni piuttosto
eterogenee. Dalle origini ad oggi, infatti, i principi, le attività e l’organizzazione dei
programmi di corporate venture capital hanno subito notevoli modifiche anche a causa
delle alterne fortune che il CVC stesso ha subito nel corso degli anni. Il ciclo di vita
tipico di un programma di CVC è sempre stato basato su un inizio con entusiasmo, una
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continuazione per l’implementazione ed una conclusione delle iniziative intraprese a
seguito delle prime difficoltà (Chesbrough, 2000).
Sebbene, dunque, il fenomeno risenta della più generale crescita di attenzione
verso forme di investimento in conto capitale in nuove imprese ad alta tecnologia che
hanno caratterizzato la scena economica internazionale degli anni più recenti, a livello
organizzativo non rappresenta una novità. Eppure le forme e le architetture tipiche dei
programmi di CVC attuali si discostano notevolmente da quelli intrapresi nel passato,
poiché tendono oggi a ricalcare maggiormente le strutture e gli strumenti impiegati dai
venture capitalist al fine di orientare l’organizzazione ad una maggiore imprenditorialità
ed all’assunzione di un livello di rischio superiore (Chesbrough, 2000). L’aumentato
interesse nei confronti dei fondi di Corporate Venture Capital sembra rispondere, in
altre parole, sempre di più ad un’esigenza oggettiva, di natura strategica, di
partecipazione alla corsa verso l’innovazione da parte dei competitori consolidati,
attraverso un approccio alla valutazione dei progetti innovativi più legato ad una logica
imprenditoriale che ad una logica di budget (McNally, 1994; European Commission,
1999). L’elemento cruciale e di rottura rispetto al passato è l’esplicita volontà,
contenuta nei programmi di CVC di maggiore rilevanza, di separare nettamente le
attività di business attuali con quelle di scouting di opportunità d’investimento che
devono essere orientate alla creazione del nuovo (Venture Economics, 1993;
Chesbrough, 2000).
Tale evoluzione ha determinato anche dei cambiamenti nella definizione e
nell’ampiezza del CVC, che da fondo di risorse finanziarie finalizzate al solo
investimento diretto si è trasformato in un programma articolato di investimenti con
finalità eterogenee (Venture Economics, 1993; McNally, 1995 e 1997) e rivolto alla
ricerca di opportunità sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione (internal ed
external venturing) (Withers, 1997; Mackewicz&Partner, 1998).
La presenza di alcuni anni di esperienze e di numerose operazioni
d’investimento condotte, consente di trarre alcune lezioni interessanti in merito
all’architettura strategica dei programmi di corporate venture capital Dal punto di vista
strategico un primo punto importante riguarda la natura degli investimenti e la decisione
sul grado di focalizzazione vs. diversificazione degli stessi. A questo proposito i risultati
dei diversi studi condotti concordano sul fatto che investimenti in aree di business e in
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competenze tecnologiche correlate con quelle dell’impresa madre garantiscono al fondo
un maggiore successo, da un punto di vista sia finanziario, sia strategico. Utilizzando un
database con oltre 32.000 operazioni di investimento da parte di fondi di CVC,
Gompers e Lerner (1999), infatti, mostrano che gli investimenti in Start-Up
strategicamente correlate con il business della società responsabile del fondo di
Corporate Venture Capital hanno una probabilità uguale di arrivare rapidamente e con
successo alla quotazione sul mercato rispetto ad investimenti effettuati da parte di fondi
specializzati in operazioni di Venture Capital, mentre il contrario è vero per
investimenti non correlati.
Questo maggiore successo nelle aree collegate si accompagna ad una
valutazione dei business finanziati tendenzialmente superiore rispetto agli investimenti
guidati da una logica squisitamente finanziaria, con un price premium che secondo
alcune stime può arrivare anche al 25% (The Investment Dealers’ Digest, 1999). Pur
essendo difficile valutare la convenienza economica in assenza di dati di dettaglio sullo
storico della singola operazione, la logica degli investimenti correlati e del possibile
sfruttamento di sinergie difficilmente valutabili contabilmente sembra essere una
spiegazione plausibile di una maggiore “prodigalità” degli investitori industriali. Nel
caso del fondo della Smith Kline costituito nel 1984 in parte anche per rispondere alla
crescente ondata di entusiasmo nel settore delle biotecnologie, per esempio, circa il 50%
dei 90 investimenti effettuati hanno generato partnership di rilievo in gran parte ancora
attive.
I piani di CVC, pur se attualmente soggetti ad un trend di sostanziale
omogeneizzazione, si caratterizzano per la presenza di attività o linee di azione diverse
ed in genere tutte presenti in ogni specifico programma di investimenti stabilito dal
corporate venturer. Il CVC, in altre parole, può essere articolato in quattro forme
specifiche, che scaturiscono dalle motivazioni alla base delle singole operazioni
d’investimento: CVC finalizzato allo spin-off imprenditoriale (Withers, 1997;
Mackewicz&Partners, 1998); CVC strategico (McNally, 1994); CVC finanziario; CVC
per responsabilità sociale del corporate venturer (European Commission, 1999).
Sebbene i motivi e gli obiettivi di un programma di corporate venture capital possano
essere molteplici, nell’indagine precedentemente citata (European Commission, 1999) i
responsabili dei fondi di CVC delle imprese europee affermano di realizzare operazioni
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d’investimento soprattutto per motivi strategici/supporto a spin-off (62%) e finanziari
(27%). Tali risultati sono del resto conformi alle indagini precedentemente realizzate nei
mercati statunitensi (Venture Economics, 1993).
Il corporate venture capital a supporto degli spin-off imprenditoriali consente
alle imprese che attivano il programma di CVC di risolvere parzialmente uno dei
problemi principali nella gestione strategica delle attività di R&S, ovvero la
valorizzazione degli investimenti in asset tecnologici. La stessa applicazione
dell’approccio delle opzioni reali agli investimenti in R&S (Oriani, 2002), che rileva un
impatto positivo degli investimenti in tecnologia sul valore dell’impresa a prescindere
dall’effettivo lancio di un’applicazione sul mercato, non riesce a risolvere il nodo
cruciale da un punto di vista operativo per le imprese high tech, ovvero come
trasformare i flussi d’investimento in ricerca in cash flow positivi nel medio-lungo
termine. Uno degli strumenti di maggior impatto per quelle tecnologie che non
supportano i business in cui il corporate venturer è impegnato, accanto alla gestione del
licensing out, è proprio il favorire gli spin-off imprenditoriali (Roberts, 1991; Roberts e
Malone 1996). In tal senso se non è possibile assicurarsi una completa valorizzazione
del patrimonio tecnologico generato internamente per limiti finanziari, cognitivi ed
organizzativi, i fondi di Corporate Venture Capital rappresentano un’occasione concreta
di intervento per continuare a controllare in molti, se non tutti, i suoi aspetti il percorso
di nascita, sviluppo e sfruttamento economico anche di quell’innovazione che non
supporta le strategie di sviluppo dei business in cui opera il corporate venturer.
Gli stimoli alla nascita di nuove imprese e le occasioni concrete perché ciò
avvenga, non sono prerogativa di un unico ambiente organizzativo, né devono essere
percepiti o vissuti come un fenomeno incontrollabile e destinato necessariamente a
depauperare l’organizzazione di provenienza. Al contrario, se gestiti attraverso scelte
strategiche deliberate, i processi di spin-off rappresentano occasioni concrete di crescita
economica per l’organizzazione “madre” (Lipparini e Serio, 2001). Alcune indagini
sulla realtà statunitense, infatti, hanno rilevato come i processi di filiazione o addirittura
il solo annuncio di uno spin-off, possano avere un effetto positivo sul valore delle azioni
della parent company (Cusatis et al., 1993; Miles e Rosenfeld, 1983). Tale effetto può
essere interpretato come un’opzione strategica che attiva un processo di rigenerazione di
imprenditorialità nello sfruttare risorse e competenze non impiegate, senza alterare la
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logica del core business e senza distrarre altre risorse (Roberts e Berry, 1985; Ito, 1995;
Lipparini e Serio, 2001). Quest’opzione genera alcune opportunità di rilievo per il
corporate venturer, quali: lo sfruttamento di brevetti o asset sviluppati nei dipartimenti
di R&S ma che non offrono opportunità competitive nell’ambito del core business; la
possibilità di generare rendimenti positivi nel medio termine da investimenti altrimenti
non più recuperabili, attraverso la vendita di alcuni asset o di una quota di questi; la
possibilità di rifocalizzare le attività sulle tecnologie rilevanti e scorporare dal
dipartimento di R&S quelle risorse concentrate su tecnologie diverse, con un indubbio
beneficio di riduzione delle overheads; l’opportunità di riallocare al meglio il knowhow e le competenze di manager e professionisti, contribuendo ad una migliore gestione
del mercato del lavoro interno; la possibilità di attuare un’operazione di unlock the
value che attraverso lo scorporo di una divisione o un ramo di attività riesce a liberare il
potenziale di sviluppo di quest’ultima; la possibilità di completare in modo efficace la
ristrutturazione di una compagnia diversificata (Lipparini e Serio, 2001).
Il corporate venture capital strategico mira a realizzare una presenza su aree di
sviluppo tecnologico molto innovative e, pertanto, rischiose, o lontane dagli interessi
primari dei business in cui opera il corporate venturer (McNally, 1994). L’importanza di
questo fenomeno è amplificata dal fatto che, nonostante diversi autorevoli contributi in
passato abbiano posto in discussione la capacità innovativa delle piccole e medie
imprese, vi sono numerosi casi a testimonianza dell’importanza del ruolo delle PMI nei
processi d’invenzione e innovazione, soprattutto in aree tecnologiche caratterizzate da
forte specializzazione e tempi di sviluppo estremamente rapidi (per una review si veda
Boccardelli et al., 2000). Lo scouting e finanziamento di progetti di R&S attraverso la
partecipazione alle attività di piccole società indipendenti che correrebbero il rischio, se
incorporate troppo presto all’interno di strutture di grandi dimensioni, di perdere quella
libertà e flessibilità necessarie per operare con tecnologie avanzate in mercati a rapida
evoluzione, consente di aprire una finestra sulle tecnologie di frontiera ed in alcuni casi
di attivare risorse interne su linee di sviluppo trascurate, a causa di una diffusa miopia
rispetto a salti tecnologici in grado di cambiare radicalmente le regole del gioco. Un
ulteriore beneficio dello scouting è legato alla ricerca di competenze tecnologiche
innovative complementari a quelle impiegate nei business in cui opera il corporate
venturer (McNally, 1994). La logica sottostante a tale operazione si basa sul principio di
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colmare la distanza tra il know-how posseduto ed impiegato dalle business unit e quello
necessario per penetrare nuove aree di mercato o per rendere più competitivo l’intero
sistema di business. In entrambi i casi il driver principale nella scelta dell’investimento
sta nella possibilità di costruire delle partnership strategiche, soprattutto nell’area della
R&S, con la società in cui s’investe, per sviluppare applicazioni future da cui trarranno
beneficio le business unit o per riconfigurare la catena del valore e migliorare la
competitività sul mercato finale (Sykes, 1990).
Il CVC puramente finanziario consiste nella scelta di investimenti che hanno
come unico obiettivo i rendimenti finanziari. Questo tipo di operazione appare correlato
al ciclo dei mercati finanziari, poiché si basa sull’investimento in aziende ad alto
potenziale di crescita e sul way-out, attraverso dismissione delle partecipazioni e IPO,
in periodi di forte crescita dei mercati borsistici. Questa prospettiva incide anche sul
tipo di azienda in cui investire, poiché mentre un investimento di tipo speculativo può
portare a realizzare operazioni di seed financing o di finanziamento early stage, un
investimento con finalità strategiche può essere più efficacemente valutato in una fase
successiva in cui il progetto di business dell’azienda da finanziare appare più chiaro.
Esempi rilevanti di attività di CVC puramente finanziario sono stati osservati soprattutto
in passato e nei mercati statunitensi, grazie ad una legislazione fiscale piuttosto
favorevole. Un caso di rilievo in questo senso è quello di Exxon Corporation che nel
1975 lanciò un programma di CVC puramente finanziario investendo 12 milioni di US$
in 18 imprese esterne (Sykes, 1986). Nel 1982 la quota di Exxon in queste imprese fu
complessivamente valutata essere pari a 218 milioni di US$ per un IRR del 51%
all’anno. Successivamente Exxon lanciò anche un programma di CVC strategico, basato
su 19 internal ventures che avevano la missione di sfruttare le idee emerse nel
precedente programma, ma tutte e 19 le attività furono oggetto di write-off senza alcun
ritorno da vendita, IPO o operazioni sul mercato (Sykes, 1986).
L’ultima forma di CVC è quello legato ad obiettivi di responsabilità sociale,
che si basa sull’investimento in nuove imprese volto a creare occupazione in aree locali
specifiche. Questo tipo di operazione generalmente segue un precedente programma di
downsizing del corporate venturer o la chiusura di installazioni industriali per trasferirle
in aree caratterizzate da un costo del lavoro inferiore, ed è finalizzato al rafforzamento
dell’immagine aziendale (European Commission, 1999).
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4. La strutturazione di un programma di Corporate Venture Capital
Le diverse forme di CVC analizzate sono solitamente tutte presenti
nell’architettura strategica di un singolo programma. Uno degli elementi di maggior
rilievo nello sviluppo di un programma di CVC è la scelta delle modalità con cui
realizzare gli investimenti: investimenti realizzati direttamente sul capitale di rischio
delle aziende; investimenti indiretti, attraverso fondi di VC o, in taluni casi, di private
equity; misti. L’adozione di strategie di investimento diretto rispetto a quelle
d’investimento indiretto dipende dalla filosofia di gestione del programma di corporate
venture capital (McNally, 1997). Se questa è puramente strategica il driver principale
che guida i gestori del programma nella scelta della tipologia di investimenti è legato
alla ricerca di aziende in cui investire direttamente che possano contribuire allo sviluppo
delle competenze possedute. In questo senso, l’elemento discriminante è la ricerca di
opportunità di investimento in aziende da acquisire in futuro o con le quali attivare delle
partnership strategiche di cui beneficeranno le business unit (Sykes, 1990). Quando, al
contrario, la prospettiva è almeno in parte finanziaria, gli investimenti possono essere
anche di natura speculativa ed in questo senso l’approccio adottato è maggiormente
simile a quello del Venture Capitalist puro, con la partecipazione a fondi indipendenti o
la costituzione come general partner di fondi di VC. In questo caso, a fronte dei
numerosi vincoli rispetto ad un Venture Capitalist puro, quali la tipologia e la fase
dell’investimento e l’orizzonte temporale delle operazioni, un corporate venturer ha
comunque la possibilità di sfruttare un potenziale vantaggio nella selezione degli
investimenti, legato al possesso di competenze tecniche e di business.
La prospettiva sottostante le operazioni di CVC strategico richiede, tuttavia, il
monitoraggio di diversi loci of innovation (Powell et al., 1996; Powell, 1998): le attività
di R&S poste in essere dai centri di ricerca pubblici e privati; i progetti realizzati
nell’ambito degli innovation clusters; le start-up tecnologiche e gli spin-off da centri di
ricerca. All’eterogeneità si aggiunge la distribuzione geografica di queste fonti
dell’innovazione, che ne rendono assai complesso e costoso il processo di monitoraggio
e di scouting. Un programma di scouting completo, infatti, richiederebbe l’investimento
di ingenti somme in numerose aziende, tra le quali molte destinate al fallimento. Per tale
motivo solitamente in un programma di CVC puramente strategico viene definito un
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piano di investimenti in fondi di VC indipendenti, al fine di limitare l’esposizione
finanziaria su aziende ad alta crescita ma anche ad alto rischio ed allo stesso tempo per
mantenere un elevato accesso al deal flow potenziale attraverso il network di relazioni
della società di gestione del fondo. In tal modo, il corporate venturer riesce a mantenere
attiva la finestra su determinati sviluppi tecnologici e su alcune aree geografiche
privilegiate, pur limitando le somme investite ed il rischio sopportato. Uno dei fattori
chiave nella definizione di un piano di investimenti indiretti in un programma di CVC
strategico, in tal senso, consiste nell’analisi e valutazione dei diversi fondi di VC con
l’obiettivo di valutare attentamente il network instaurato dal Venture Capitalist nonché
il suo mercato di riferimento di aziende. Per tale motivo i corporate venturer adottano,
solitamente, una classificazione dei fondi di VC per area geografica, stadio
dell’investimento (seed, early, expansion) e aree tecnologiche in cui investono.
Lo sviluppo dei programmi di CVC si articola, dunque, attraverso diverse
operazioni che possono essere classificate in funzione di alcune caratteristiche tipiche
dell’opportunità di investimento, quali il rischio dell’attività in cui si vuole investire e
l’ampiezza dell’innovazione. La prima dimensione deriva dall’incertezza di mercato e
di tipo tecnico, sottostante alla tecnologia in cui il corporate venturer vuole investire.
L’ampiezza dell’innovazione riguarda, invece, la tipologia del progetto di R&S che ha
scatenato l’interesse del corporate venturer e si fa riferimento a progetti di tipo
esplorativo o di sfruttamento della tecnologia, ricollegandoci alla nota distinzione tra
exploration e exploitation nello sviluppo e gestione della conoscenza avanzata da March
(1991). Unendo le due caratteristiche è possibile costruire una mappa in cui collocare le
diverse operazioni di investimento di un corporate venturer (Figura 1).
Inserire figura 1 circa
Nella mappa, nel caso di finalità prevalentemente strategiche, le operazioni
d’investimento caratterizzate da rischio elevato su progetti di natura esplorativa
(quadrante 9 e parzialmente 5-6-8) sono efficacemente realizzate attraverso la
partecipazione a fondi di VC puro accompagnata dalla definizione di accordi
tecnologici, in cui l’aspetto significativo è l’accesso al deal flow, piuttosto che
l’ottenimento di rendimenti finanziari. La possibilità, infatti, di mantenere sotto
osservazione le aziende detenute nel portafoglio del fondo e quelle che partecipano al
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network della management company, consente al corporate venturer di stabilire se e
quando investire direttamente in un’azienda o se più semplicemente definire accordi di
natura strategica. Per il monitoraggio e l’investimento in progetti con rischio intermedio
e con un’ampiezza intermedia tra exploration ed exploitation (quadrante 5 e, per
porzioni inferiori anche gli altri quadranti), l’architettura di corporate venture capital
appare piuttosto eterogenea, poiché si tratta dell’area in cui si concentrano il maggior
numero di opportunità interessanti da un punto di vista strategico per un corporate
venturer e, di conseguenza, le operazioni d’investimento sono differenziate. La
partecipazione ad un fondo di VC, unita all’impegno a fornire consulenza tecnologica
nella valutazione delle aziende in cui investire, rende possibile un accesso diretto e
sistematico al deal flow. Per le opportunità di venturing che consentono lo sfruttamento
di sinergie con le business unit dell’impresa, l’investimento diretto rimane la soluzione
più efficace, soprattutto in corrispondenza di aziende che realizzano attività innovative
caratterizzate da livelli intermedi di rischio e che tendono ad essere vicine allo sviluppo
di applicazioni per il mercato. Anche il fondo di risorse dedicato alle attività di sviluppo
interno, del resto, deve essere in parte rivolto alla gestione di progetti con rischio ed
ampiezza intermedi. Infine, quando sia rischio che ampiezza dell’innovazione sono
minimi, da un punto di vista strategico potrebbe essere conveniente, per le ragioni sopra
evidenziate, stimolare lo spin-off e valutarne un eventuale finanziamento attraverso il
CVC al fine di valorizzare gli asset tecnologici complementari o di scarso interesse per
il core business. Va sottolineato che corporate venturer di rilievo e con esperienze di
successo, hanno recentemente intrapreso una strada di minor esposizione ai rischi del
venturing diretto, come ad esempio Lucent Technologies che nei primi giorni del 2002
ha annunciato di aver ceduto l’80% di tutti i ventures detenuti in portafoglio a Coller
Capital Ltd. Le due società hanno poi costituito un fondo chiamato New Venture
Partners II LP per gestire queste aziende, di cui Lucent detiene il 20% come limited
partner (The Daily Deal.com, 2002).
Quando, invece, la finalità del programma di CVC è anche di tipo finanziario,
potrebbe essere conveniente istituire e gestire un fondo di VC puro, ma con un
portafoglio di investimenti caratterizzati da rischio ed ampiezza eterogenei (area dei
quadranti 8-5-6-9), il cui obiettivo primario è il rendimento del fondo stesso. Un
esempio di tale architettura è il fondo Nokia Venture Partners per investimenti sulle
15
tecnologie del Mobile e di Internet in cui all’obiettivo strategico si accompagna uno di
tipo finanziario.
Da un punto di vista organizzativo è opportuno riflettere su alcuni fattori che
caratterizzano l’attivazione dei programmi di CVC. Un primo elemento importante è
legato al rapporto tra l’attività di gestione del programma e le attività delle altre
divisioni dell’impresa. Alcuni sono gli elementi interessanti che emergono a questo
proposito. In primo luogo, le attività del fondo non sono immuni dalla cosiddetta NIH
syndrom, o sindrome del non inventato qui, generando forti resistenze da parte delle
strutture interne dell’organizzazione ai vari livelli e rendendo necessaria per il fondo un
appoggio forte ed incondizionato da parte del top management, pena il fallimento
dell’operazione. E’ proprio ad uno scarso successo nell’integrazione delle operazioni di
CVC con le attività tradizionali, infatti, che può essere ricondotta la probabilità di
interruzione delle operazioni prima della scadenza predefinita. Questo limite è connesso
alla caratteristica essenziale del corporate venture capital, ovvero la netta separazione
tra lo scouting di opportunità d’investimento e di internal venturing e la gestione dei
business attuali (European Commission, 1999; Chesbrough, 2000). Se da un lato è
essenziale isolare i gestori del programma di corporate venture capital dalle attività
routinarie, è altrettanto vero che tale frattura rende fondamentale il supporto del top
management ed un’attenzione e cura particolari nel tentativo di valorizzare quelle
sinergie che erano state ricercate durante le operazioni di scouting.
Un secondo problema che occorre risolvere nella conduzione di un’operazione
d’investimento, riguarda il supporto che il corporate venturer fornisce all’azienda in cui
si è investito. Sia venture capitalist che corporate venturer offrono alle aziende
finanziate un sostegno maggiore rispetto alle sole risorse finanziarie, che va dalla
consulenza tecnologica, ove possibile, e strategica fino al supporto nel recruiting di
personale (Gorman e Sahlman, 1989; Sapienza, 1992; Zider, 1998). Il rischio che un
corporate venturer corre ancor più di un VC è quello di stringere troppo anticipatamente
le relazioni con la società in cui si è investito, a causa dell’ansia di veder realizzate al
più presto le sinergie ricercate nell’investimento. Questo errore potrebbe soffocare le
capacità di sviluppo e la creatività tipica della piccola realtà imprenditoriale, ed in
questo modo ridurre sostanzialmente il vantaggio del programma di corporate venture
capital (McNally, 1997; European Commission, 1999).
16
Un ulteriore problema che lo sponsor di un programma di CVC deve
fronteggiare è il bilanciamento tra internal ed external venturing. Si pone, in altre
parole, in maniera concreta il problema dell’identificazione delle risorse interne come
possibili target di investimento rispetto ad opportunità rinvenibili all’esterno. Se, infatti,
da un lato un occhio di riguardo per l’interno rischia di utilizzare lenti più permissive
rispetto
a
quanto
riservato
a
iniziative
provenienti
dall’esterno,
dall’altro
l’incoraggiamento di forme di imprenditorialità interna pone fortemente un’esigenza di
definizione di sistemi di incentivi coerenti con l’assunzione di rischio ma, al tempo
stesso, in grado di offrire qualche garanzia aggiuntiva rispetto ad opzioni di
finanziamento completamente esterne all’impresa. Tale delicato equilibrio deve essere
ricercato dal management, che, spesso, influenza in maniera determinante il successo
delle iniziative di venturing (Edlund e Magnusson, 2001).
A tale proposito occorre rilevare che il problema è duplice. Da un lato, si tratta
di incentivare lo sviluppo di idee innovative senza generare fenomeni di totale anarchia
rispetto agli obiettivi interni di R&S. Dall’altro è necessario riflettere sulla diffusione di
una cultura imprenditoriale all’interno dei laboratori come un fatto non scontato. La
realtà è, tuttavia, più articolata e l’esperienza recente di Lucent Technologies con il
processo di riorganizzazione e valorizzazione dei Bell Labs rappresenta un caso
interessante di analisi nel dettaglio di piani di incentivazione individuale, volti a
stimolare e supportare la creazione di idee e progetti di business innovativi pur
mantenendo una sorta di controllo sulle iniziative intraprese (Chesbrough e Socolof,
2000). Un’esperienza analoga di matrice europea è la Nokia Ventures Organization che,
oltre ad essere lo sponsor principale del fondo di VC Nokia Venture Partners per gli
investimenti rivolti all’esterno, si occupa del programma di internal venturing (Day et
al. 2001).
Queste osservazioni ci portano a considerare un ulteriore elemento di interesse che
emerge dalle ricerche condotte in questo ambito e che è direttamente collegato alla
struttura degli incentivi dei diversi attori coinvolti. Per quanto riguarda i gestori del
fondo di Corporate Venture Capital, vi è unanimità nel riconoscere loro una struttura di
compensation simile a quanto offerto dai fondi di Venture Capital (Block e MacMillan,
1993; Brazeal, 1993; European Commission, 1999; Chesbrough, 2000). Anche se a
questo proposito le politiche di remunerazione interna rendono sconveniente l’adozione
17
di una forma di compensazione completamente collegata alla performance economica
del fondo per non generare disparità di trattamento rispetto al top management,
l’aumentata pressione competitiva da parte del settore del VC rende sempre meno
praticabili offerte di remunerazioni più tradizionali, che rischiano di generare rapide
uscite dall’organizzazione delle risorse migliori. Una delle soluzioni più diffuse in
proposito, è quella di utilizzare sistemi di rewarding analoghi a quelle dei venture
capitalist solo per strutture di gestione di fondi nettamente separate dalla parent
company. Per il gruppo che si occupa di gestire i programmi di venturing operando
dall’interno dello sponsor del programma, il sistema d’incentivazione viene costruito in
modo equivalente rispetto al resto del personale, per evitare disparità di trattamento e la
diminuzione dell’efficacia del programma di CVC (European Commission, 1999; Day
et al., 2001). Ad ogni modo a testimonianza di una maggiore sensibilità in questo senso,
negli ultimi anni è possibile riscontrare anche forme inverse di mobilità del lavoro, con
il passaggio di esperti di investimenti da fondi di VC a fondi di Corporate Venturing.
Questo fattore, peraltro, è uno dei principali a sostegno della tesi che, per un programma
di CVC completo e di successo, è necessario accompagnare ad una struttura di gestione
interna al corporate venturer, un’organizzazione esterna ed indipendente o almeno un
accordo ben strutturato con un’impresa che gestisce un fondo di VC indipendente (Rind,
1981).
Infine, la finalità strategica che spesso informa i programmi di CVC rende la
presenza di fallimenti nelle operazioni d’investimento un’opportunità di rilievo. Mentre,
infatti, la società di gestione di un fondo di VC puro tende a smantellare ed a
dimenticare in fretta le numerose esperienze fallimentari, il corporate venturer deve
cercare di attivare fenomeni di learning by failures, conducendo un’analisi approfondita
sui venture detenuti in portafoglio e falliti (Chesbrough, 2000). Solo dopo aver
analizzato criticamente le ragioni del fallimento ed aver appresso utili suggerimenti per
nuove operazioni o per altre attività nell’ambito della compagnia, è possibile sciogliere
il gruppo e dedicarlo ad altri compiti (Chesbrough, 2000).
Al fine di illustrare le problematiche operative da affrontare nello sviluppo di un
programma di CVC, nel successivo paragrafo viene illustrato un caso del nostro paese,
quello di Telecom Italia, in cui è possibile rinvenire il tentativo di costruire in modo
articolato una struttura di corporate venture capital, che pur se iniziato a metà degli anni
18
’90 solo recentemente ha acquisito alcuni tasselli importanti per il completamento di
un’architettura strategica ed organizzativa di successo.
4. Le attività di Corporate venture capital in Telecom Italia: Telecom Italia Lab1
Le attività di corporate venture capital in Telecom Italia iniziano nel 1996, ma solo nel
primo semestre del 2000 le attività di VC e di R&S furono riunite nell’ambito di
un’unica business unit. Quest’ultima, infine, è stata scorporata e conferita alla nuova
società Telecom Italia Lab (TILab) costituita nel 2001. Solamente a partire da quella
data è stata formalmente costituita un’unità organizzativa, il Venture Capital
Management, specializzata nelle attività di venturing. L’organizzazione delle attività di
VC in Telecom Italia è realizzata secondo il modello prevalente, che in diverse
circostanze ha mostrato di essere di successo. Tale applicazione si basa sulla
separazione netta delle attività di venturing che ricalcano il modello del VC puro, e che
consente per queste di adottare sistemi di rewarding diffusi nel mercato del venture
capital. Per le attività di venturing realizzate internamente, al contrario, una distinzione
netta negli strumenti di incentivazione rispetto al resto del personale non può essere
realizzata a meno di perdere parte del valore legato alle operazioni di investimento di un
corporate venturer, cioè le sinergie con l’azienda in cui s’investe, a causa di un
potenziale rischio di non accettazione dei contributi apportati dal venture.
La missione e le attività dell’unità di venturing di Telecom Italia s’ispirano ai
modelli di CVC di maggior successo ed in tal senso si sviluppano con finalità
prevalentemente strategiche di sostegno ai processi di innovazione del gruppo
nell’ambito del mercato dell’ICT, pur non trascurando completamente la considerazione
di fattori di natura finanziaria. In questo senso, le complessità precedentemente
evidenziate sono state oggetto di riflessione e di tentativi di soluzione attraverso
un’architettura di CV molto articolata, basata su programmi di internal ed external
venturing e su investimenti sia diretti sia indiretti. La strada intrapresa dal gruppo è
giustificata dalle complesse esigenze di venturing e scouting tecnologico, legate alle
pressioni competitive che l’azienda affronta nel mercato dell’ICT, la cui percorribilità è
1
Le informazioni di seguito descritte fanno riferimento all’articolazione organizzativa ed alle procedure
previste nell’ambito di Telecom Italia Lab fino al 31 dicembre del 2001, data in cui è stata conclusa la
rilevazione. Per un’analisi più generale sull’evoluzione delle attività di R&S in Telecom Italia, si veda
Munari (2002).
19
stata, in un certo senso, agevolata dal prestigio e dalle competenze posseduti dal centro
di R&S del gruppo (CSELT), che hanno reso l’azienda un partner attraente anche per
operatori finanziari indipendenti.
Partecipazione a fondi di VC indipendenti
La partecipazione come limited partner ai fondi di VC, anche accompagnata da
accordi tecnologici, rappresenta un modo per esternalizzare parte delle attività di
scouting in aree tecnologiche e geografiche di interesse per la società. Per tale motivo è
stato deciso di partecipare a quei fondi di VC, che da uno screening iniziale sulle
potenzialità di offrire accesso al deal flow, consentono il monitoraggio di innovation
cluster di particolare eccellenza, e di progetti di sviluppo di notevole ampiezza per
tecnologie ad alto rischio (quadrante 9 e parzialmente 5, della mappa in figura 1). La
partecipazione al fondo, inoltre, è guidata prevalentemente da alcuni aspetti di natura
strategica legati alla possibilità per TILab di sviluppare delle partnership con le aziende
presenti nel network del fondo attraverso l’impiego dei prodotti, dei servizi e delle
tecnologie sviluppate dall’azienda per i mercati in cui opera il gruppo. TILab
attualmente partecipa a cinque fondi (si veda figura 2).
La costituzione di fondi di VC
Nel 1998 Telecom Italia ha istituito in collaborazione con Mediocredito Centrale un
fondo di VC, Fintech, che realizza investimenti nell’area dell’ICT, localizzati
prevalentemente in Italia, e nel 2001 ha promosso la costituzione di un altro fondo di
VC negli Stati Uniti, Saturn Venture Partners, dotato di un capital committed di 280
milioni di US$, per investimenti nell’ICT (prevalentemente wireless). Essendo i fondi
aperti al capitale di terzi, la responsabilità gestionale impone alle due management
company di perseguire prioritariamente obiettivi di ritorno finanziario. In questo senso
la finalità di attrarre potenziali limited partner nel fondo e sviluppare le operazioni di
VC nel modo migliore, richiede di ricorrere a sistemi gestionali e di rewarding del
personale, allineati a quelli che i professional del settore possono rinvenire in altre
società di VC. In questa ottica, il fondo deve ricercare opportunità per massimizzare
l’IRR del portafoglio di investimenti, anche selezionando investimenti ad alto rischio e
con ampiezza massima o intermedia (nella mappa in figura 1, quadranti 8-9-6 ed in
parte 5).
20
Scouting tecnologico e investimento diretto
Le azioni di investimento diretto sono focalizzate sui settori Wireless e Internet
& Media, nei quali TILab è in grado di comprendere più efficacemente il valore
strategico di un investimento rispetto alle attività di business del gruppo. L’investimento
diretto si sostanzia nell’acquisto di una quota di minoranza in società ad alto potenziale,
in cui sia possibile rinvenire le potenzialità di sviluppare sinergie con i laboratori di
CSELT o con altre business unit del gruppo. In questo senso si tratta di opportunità di
investimento in cui rischio ed ampiezza dell’innovazione appaiono eterogenei ma
comunque non raggiungono i valori massimi o minimi (nella figura 1, quadranti 5 e
parzialmente tutti gli altri).
Una volta identificata l’opportunità, la fase di negoziazione è incentrata sul
valore dell’impresa e sulle opzioni contrattuali che consentono a Telecom Italia di
realizzare efficacemente il way-out e valorizzare le sinergie ipotizzate durante le attività
di valutazione. Questo principio porta ad esempio ad introdurre nel contratto
d’investimento una clausola a favore di Telecom Italia di acquisto per il 100% della
società ad un prezzo da negoziare tra le parti, ed a realizzare una valutazione di natura
strategica anche qualora ragioni di tipo finanziario inducano a considerare
favorevolmente l’ipotesi del way out..
Inserire figura 2 circa qui
TILab investe direttamente solo in aziende Italiane ed Israeliane, poiché mentre
le prime hanno un impatto diretto sul mercato principale di Telecom Italia, le seconde
sono inserite in un contesto territoriale che rende la loro capacità innovativa superiore
alla media di altre imprese. L’operazione è generalmente focalizzata sul primo round di
finanziamento, poiché diviene possibile attivare uno scambio di conoscenze e
competenze con l’azienda in cui s’investe, offrire supporto tecnologico, che permette a
Telecom Italia di limitare l’esposizione finanziaria a fronte di un contributo tecnico di
valore, e fornire maggiore credibilità all’investimento nei confronti delle divisioni, che
potrebbero essere affette dalla NIH syndrom ed ostacolare l’eventuale accettazione dei
contributi dell’azienda in cui si è investito Attualmente le aziende nel portafoglio di
21
TILab sono 9, inclusa Vocalpoint che si è fusa con Loquendo, ma quest’ultima è
controllata da TILab (Figura 2).
Internal Venturing e CVC Spin-off
La necessità di valorizzare il patrimonio tecnologico detenuto dal centro di R&S
ha indotto TILab a mettere a punto un processo di internal venturing, in grado di
stimolare la creatività dei ricercatori su idee di prodotti, servizi e tecnologie, che
possono ampliare l’offerta dei laboratori ed essere opportunità di sviluppo dei business.
Tale processo è stato definito di Creative Lab ed è finalizzato alla costruzione di un
meccanismo per censire, valutare e finanziare le idee più promettenti. Le proposte
avanzate dai ricercatori, dopo eventuali revisioni ed approfondimenti, vengono
presentate al Comitato Tecnico e Strategico di TILab, che ne decide un eventuale
inserimento nelle Celle di Innovazione. Queste ultime sono degli incubatori in cui viene
offerto il supporto tecnico, di mercato e di tipo manageriale necessario a trasformare
un’idea di sviluppo tecnico in un progetto di business concreto, che possa essere
reinserito nelle attività delle divisioni o che invece possa dare vita ad uno spin-off. In
questo secondo caso la struttura di VC di TILab effettua una valutazione della proposta,
con gli stessi criteri utilizzati per valutare un investimento esterno, e nel caso ne
propone il finanziamento al Comitato degli Investimenti.
5. Conclusioni
Gli sviluppi recenti nei programmi di corporate venture capital si discostano
notevolmente da quelli del passato, poiché tendono a ricalcare maggiormente le
architetture strategiche ed organizzative impiegate dai gestori di fondi di VC
indipendenti. Tale evoluzione nasce dall’esigenza di orientare l’organizzazione ad una
maggiore imprenditorialità ed all’assunzione di un livello di rischio superiore, attraverso
la definizione di programmi articolati ed eterogenei, che comprendono iniziative
d’investimento diretto ed indiretto e di internal ed external venturing. Il cambiamento
osservato deriva dall’aumentato interesse nei confronti di tali iniziative, che offrono
risposte concrete e di notevole impatto all’esigenza di partecipare alla corsa verso
l’innovazione, a fronte di un calo degli investimenti diretti in R&S corporate e
all’esigenza di una sempre più rapida generazione di nuovi business di matrice
tecnologica.
22
La natura prevalentemente strategica delle iniziative di corporate venture capital si
accompagna ad un’impostazione dei programmi d’investimento che privilegiano la
ricerca delle sinergie tra i venture finanziati e le business unit dell’impresa madre.
Questo elemento incide sull’architettura dei programmi di CVC, sulla scelta del tipo di
investimenti da effettuare e sul modo di condurre le operazioni stesse. La necessità di
tenere sotto controllo un ambiente competitivo e tecnologico molto vasto ed eterogeneo
rende difficile sviluppare l’architettura del programma di CVC attraverso il solo
investimento diretto, e la caratterizzazione delle alternative possibili sviluppata nella
figura 1 consente di utilizzare due dimensioni rilevanti quali il rischio dell’investimento
e l’ampiezza dell’innovazione tecnologica come guida per l’articolazione delle
alternative.
Da un punto di vista organizzativo gli elementi di maggior rilievo sono legati al
rapporto tra l’attività di gestione del programma e le attività delle altre divisioni
dell’impresa ed alla costruzione del sistema di rewarding di chi si occupa del
programma. In merito al primo punto abbiamo rilevato come la gestione di questa
relazione debba essere orientata alla ricerca di un equilibrio tra il supporto e l’eccessivo
controllo sull’azienda in cui si investe. A questo problema si aggiunge la necessità di
sostenere l’investimento all’interno dell’azienda per evitare di incorrere nella NIH
syndrom, che potrebbe rendere vano l’intero sforzo effettuato. In relazione al sistema di
rewarding, è interessante notare come i programmi di CVC maggiormente diffusi hanno
scelto di intraprendere la strada dell’uniformità per le risorse interne al corporate
venturer e della differenziazione per quelle che lavorano in fondi di VC nettamente
distinti, pur se facenti parte di un unico programma.
La realizzazione di programmi di CVC in aziende dotate di centri di sviluppo
delle
competenze
tecnologiche
deve
fronteggiare
l’ulteriore
problema
della
valorizzazione degli asset creati internamente. Questo fenomeno si traduce nella
necessità di bilanciare le risorse dedicate all’internal piuttosto che all’external
venturing, con il rischio di privilegiare le iniziative interne rispetto alle altre. E’
importante rilevare che tutte le aziende che affrontano queste problematiche si trovano a
dover sviluppare un ambiente organizzativo che incentivi forme di imprenditorialità
interna, ma che, al tempo stesso, sia in grado di offrire qualche garanzia aggiuntiva
rispetto ad opzioni di finanziamento completamente esterne all’impresa.
23
La competizione sui mercati di consumo e di fornitura si è estesa anche sul
mercato dello scouting tecnologico, che, soprattutto nei settori high tech, è divenuto
ormai essenziale per perseguire strategie di crescita di successo. La soluzione dei
problemi presentati, in questo senso, incide in maniera decisiva sulla possibilità di
sviluppare architetture di corporate venture capital in grado di conseguire gli obiettivi
sempre più ambiziosi delle aziende che operano in business a base tecnologica.
24
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Locationet – Movenda – Cygent –
Usablenet – D-mail – Virtualself – Ifm – Siosistemi – ITXC
Figura 2: Portafoglio investimenti di TILab
Fonte: materiale interno TILab
28
Tavola 1 - Sintesi delle principali ricerche sul Corporate Venture Capital
Autore
Von Hippel, E.
Anno
1977
•
•
Fast, N.
1978
•
•
Rind, K.
1981
•
•
Sykes, H.
1986
•
•
Block,Z. e
Ornati, O.
1987
•
Siegel, R.,
Siegel, E e
MacMillan, I.
1988
•
•
Gompers, P. e
Lerner, J.
1999
•
•
•
Principali risultati
New ventures operanti in mercati in cui l’impresa madre aveva
un’esperienza pregressa avevano maggiore probabilità di successo;
Le unità di Coporate Venture Capital nel tempo si trovavano a dover
gestire gli investimenti di minore successo, poichè quelli più brillanti
venivano rapidamente coinvolti dalle SBU o si affermavano
autonomamente sul mercato.
Conferma ai risultati ottenuti da von Hippel;
Presenza di un problema interno di gestione del successo delle new
ventures laddove possano essere percepite come una minaccia nei
confronti di aree di business già controllate da altre parti
dell’impresa.
Conferma della presenza di forti criticità decisionali interne in casi di
sovrapposizione commerciale tra la new venture e altre SBU;
La discrepanza temporale tra decisioni di investimento e valutazione
delle performance fa sì che si assista ad un avvicendamento nel
management dell’unità di Coporate Venture Capital, con conseguenti
potenziali problemi di forte avversione al rischio e differimento delle
decisioni più ciritiche.
Exxon cominciò con successo un’attività di Corporate Venture
Capital lanciando nel 1975 un fondo che investì 12 milioni di dollari
in circa 18 new ventures e fu liquidato nel 1982 con IRR pari al 51%;
Sempre nel 1982 lanciò poi un programma totalmente focalizzato sul
Coporate Venture Capital per portare avanti alcune delle idee emerse
dall’esperienza precedente. Nessuna delle 19 new ventures lanciate
attraverso questo programma riuscì ad essere competitiva sul
mercato.
La maggior parte delle imprese coinvolte nello studio utilizzavano
forme di compensazione dei manager dell’unità di Coporate Venture
Capital analoghe a quelle del resto del management dell’impresa per
evitare forti asimmetrie retributive;
Per massimizzare il successo economico-finanziario dell’unità di
Coporate Venture Capital è necessario garantire alla stessa massima
libertà d’azione;
Tale libertà si traduce, tuttavia, nel caso di business correlati
commercialmente con quanto già realizzato dall’impresa, in
occasioni di possibile contrasto;
investimenti in Start-Up strategicamente correlate con il business
della società responsabile del fondo di Corporate Venture Capital
hanno un probabilità uguale di arrivare rapidamente e con successo
alla quotazione sul mercato rispetto ad investimenti effettuati da parte
di fondi specializzati in operazioni di Venture Capital, mentre il
contrario è vero per investimenti non correlati;
il maggiore successo nelle aree collegate si accompagna ad una
valutazione dei business finanziati tendenzialmente superiori rispetto
a quanto effettuato da altri investitori;
rispetto ai piani iniziali, è molto probabile che i programmi di
Corporate Venture Capital vengano chiusi o subiscano forti
ridimensionamenti prima delle scadenze prestabilite, soprattutto
quando gli investimenti effettuati siano troppo diversificati rispetto al
portafoglio di attività caratteristiche dell’impresa.
29
Tavola 2 - L’architettura strategica del Corporate venture capital
Caratteristica
Tipologia
Obiettivi specifici
Finalità
Strategica
Scouting Tecnologico
Sinergie con attività interne
Valorizzazione competenze
interne
Finanziaria
Rendimenti del fondo di risorse
finanziarie
Valutazione dell’investimento
Mediamente superiore a quella
Valutazione delle sinergie
finanziaria
realizzabili con attività del
corporate venturer (soprattutto nei
fondi con finalità strategiche)
Way-out
Sell-off; I.P.O.; Acquisizione;
In tutti l’obiettivo peculiare è in
Fusione con spin-off
genere quelle di recuperare le
sinergie ipotizzate attraverso la
definizione di accordi di
partnership
Modalità di sviluppo
Internal Vs. External Venturing
Sviluppo di opportunità di
business generate all’interno,
recupero investimenti passati,
sviluppo di fonti di vantaggi
competitivi facendo leva sullo
scouting all’esterno
30
Tavola 3 - Lo sviluppo di un programma di Corporate venture capital
Area d’intervento
Tipologia
Priorità specifiche
Investimenti
1. Diretti
Strategiche
2. Diretti tramite costituzione di
Finanziarie
fondi di VC
Programma
3. Indiretti
Accesso al deal flow
1.Relazione tra destinatari
1. NIH Syndrom
dell’investimento e corporate
venturer
2. Rischio di anticipazione
dell’avvio delle relazioni
strategiche
3. Learning by failures
2.Internal vs. External Venturing
1. Valutazione investimenti
interni
2. Incentivazione del personale di
ricerca verso il business
development
3. Sistemi di gestione e rewarding 1. Personale interno, allineati al
del personale
resto dell’organizzazione.
2. Personale di strutture
indipendenti, allineati a gestori
di fondi di VC.
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