www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ Note a margine di Actoris Studium album II: l’eredità di Stanislavskij e gli attori del secolo grottesco ed. dell’Orso, Alessandria, 2012 Manlio Marinelli Actoris Studium è un progetto di ricerca coordinato da Antonio Attisani1 che ha come finalità lo studio e la riflessione sull’azione e le dinamiche della mimesi nel comportamento attoriale nella dimensione performativa. Da poco è uscito il secondo volume (o album come sarebbe più proprio dire) opera di una nutrita schiera di autori, per lo più giovani. Il libro è diviso in due sezioni: (1) Russia, America, Italia 2) Tra realismo e grottesco, precedute da un saggio metodologico del curatore. Ogni sezione è composta di saggi e materiali tradotti a cura dei vari studiosi impegnati. I temi dominanti, che sono denunciati fin dal sottotitolo della silloge, sono l’eredità di Stanislavskij, in particolar modo tra gli attori americani formatisi nella parte centrale del Novecento, e gli attori del secolo grottesco, attori che abbiano perseguito percorsi “anomali”, eccentrici rispetto alla consuetudine dominante. Come già era per il primo album l’idea è quella di costruire un libro la cui fruizione sia complementare a quella di un sito internet su cui caricare i materiali audiovisivi che documentano le pratiche attoriali discusse nel corso del testo.2 In merito a questo mi pare che si apra una delle prime aporie che ci vengono proposte dagli autori. Mi pare infatti che chiave di volta dell’impostazione metodologica del volume sia un concetto espresso a più riprese nel corso del volume, l’idea, cioè, che gli attori compiano nell’hic et nunc della composizione teatrale una trasformazione su di sé «inducendo una trasformazione analoga, sebbene diversa per grado di intensità, negli spettatori».3 Questa idea espressa in avvio di volume nel saggio prefazione di Attisani mi sembra riecheggi nell’intera concezione del libro, lo percorra sotterraneamente, per riemergere quasi in conclusione nella chiusa del saggio di Marcella Scopelliti sui “Teatri resistenti”, su cui mi soffermerò più avanti. Qui infatti si legge: «I teatri resistenti […] sono teatri del “possibile”, pratiche performative che mostrano uno stesso segreto, il Plot, l’intreccio [...] che guida verso l’unica vera azione possibile: la trasformazione»4. Due esempi tra altri, non a caso posti quasi in testa e quasi in coda alla pubblicazione. Quale importanza hanno queste due brevi, e in parte arbitrarie, citazioni? Provo a spiegarmi facendo qualche passo indietro. Il problema dello studio dell’attore si è sempre scontrato con la tragica consapevolezza dell’aleatorietà dell’arte recitativa, arte che, come l’Euridice del mito, scompare all’istante allo sguardo di che l’osservi. C’è stato un momento negli studi teatrologici in cui c’è stato chi ha intravisto nell’uso del filmato, degli audiovisivi, la fonte per l’eterna giovinezza della performance attoriale, il modo di rendere durevole l’effimero. In realtà è ormai piuttosto evidente che il documento audiovisivo è “un documento” teatrale e non “il documento”. Tuttavia questa imprescindibile notazione vale nella misura in cui si voglia utilizzare l’audiovisivo come documento di lettura del fatto teatrale nel suo complesso, ma qui si parla solo degli attori, solo di loro, si prescinde quindi dalla lettura globale del fenomeno per concentrarsi solo sull’aspetto della http://www.turindamsreview.unito.it 1 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ riflessione sul dato performativo. In realtà il discorso non funziona neanche così in quanto l’attore non esiste al di fuori dei contesti che lo riguardano (contesto spettacolare e contesto culturale, anche l’arte dell’attore è un \testo\ nella storia), al di fuori della dimensione dell’evento globale, che non è documentabile dal solo audiovisivo. Ed eccoci alla trasformazione. Questo progetto non è solo una proposizione di filmati, né solo una sequela di documenti (per altro necessari ma non sufficienti alla filologia dello spettacolo). Nasce proprio dall’idea di integrazione della testimonianza audiovisiva (un documento e non il documento) con testimonianze letterarie, interviste, memorie, saggi di analisi globale che non si limitano a cercare “l’arte dell’attore” nella sua immutabilità. Semplicemente perché l’arte dell’attore immutabile non è. Perché dalla mutazione e dal mutamento è caratterizzata, perché trasforma e si trasforma, perché dal punto di vista ermeneutico, citando il nume tutelare del progetto Carmelo Bene, non ha a che vedere con la memoria ma semmai con l’oblio5, la dimenticanza di sé che è propria di un flusso di trasformazione. Partendo da queste premesse voglio addentrarmi nella lettura del libro a partire proprio dal saggio di Attisani e dalle questioni di metodo e analisi che pone. Lo studioso si concentra su due aspetti importanti: 1) la debolezza della disciplina teatrologica, in particolare nello studio attoriale, 2) L’importanza e le strategie d’uso dell’audiovisivo nell’esegesi sul lavoro del performer Nell’ottica degli studi che partano dal documento audiovisivo, Attisani si dimostra insofferente nei confronti di un approccio esclusivamente “storicistico”6 ma anche verso la «ossessiva quanto banale proiezione e applicazione del paradigma performativo ai comportamenti e alle situazioni di ogni tipo [...]»7 che caratterizza certi studi di area nord americana. Questa strategia è animata dall’idea di «conquistare con la razionalità di un nuovo approccio alcuni segreti di un’arte8 che prima si ritenevano inattingibili allo studio “teorico” [...]un’arte che contiene in sé una chiave per comprendere meglio anche i comportamenti, i meccanismi più profondi che determinano la vita sociale degli individui, meccanismi dai quali si può essere posseduti e passivi, oppure che si possono imparare a governare»9. Questa prospettiva, che l’autore propone come nuova, va indagata nella consapevolezza «che in questo modo siano possibili scoperte importanti»10 ma anche nella convinzione che il metodo è da definire caso per caso e che l’intersezione con le altre discipline condanna lo studioso ad un «perenne dilettantismo per molte delle discipline che deve comunque praticare»11.L’idea dunque è quella di “produrre conoscenza” sull’attore in un’ottica di analisi che non perda di vista il contesto pragmatico ma soprattutto la trasformazione che «gli attori compiono su se stessi in pubblico, anche se preparandosi prima, poi inducendo una trasformazione analoga [...]negli spettatori»12. Fin qui tre aspetti sugli altri si fanno strada che per comodità di esposizione riassumo: • a) centralità dell’audiovisivo, • b) volontà di concentrarsi sulla presenza scenica dell’attore, • c) relazione tra la trasformazione attoriale e la vita individuale sua e degli spettatori. Per quanto concerne il primo punto va detto che si ragiona su una vexata quaestio della teatrologia dell’ultimo trentennio che è stata, a volte ingenuamente, catturata dalle «mitologie sull’oggettività e l’onnipotenza dei mezzi audiovisivi»13. In quest’ottica l’idea della “trasformazione” su cui mi sto concentrando aggiunge un tassello non secondario ad un approccio non ingenuo a questa categoria di documenti. L’idea infatti che la trasformazione sia un processo che si attua in rapporto agli spettatori e soprattutto all’immediatezza temporale, evenemenziale, del fatto teatrale, offre uno spunto epistemologico di riferimento non secondario e che infatti, a mio parere, informa la parte più notevole dei contributi che compongono il volume, i quali non si affidano, nell’analisi dell’attore, alla sola lettura dei dati che emergono (o sembrano emergere) dalla traccia visiva di un filmato. Senza la consapevolezza della natura parziale del documento audiovisivo, del fatto che non ci http://www.turindamsreview.unito.it 2 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ troviamo in presenza di “una restituzione materiale” dello spettacolo ma di un documento che va proposto in una lettura unitaria con altre classi di fonti,14 rischiamo di ricadere nella tentazione tutta occidentale e pseudoaristotelica di voler ricondurre lo spettacolo (dal carattere evenemenziale) al libro (carattere durevole).15 Del resto Attisani non dimentica di rilevare chiaramente come l’audiovisivo non abbia alcun carattere di pretesa neutralità, in quanto frutto dell’occhio dell’autore, cioè del videomaker o del regista. In quest’ottica egli propone di considerare sempre nell’analisi che l’autore del video è «il [suo]regista ultimo». 16 Per quello che riguarda gli ultimi due punti è opportuna una riflessione comune. Attisani avverte nella premessa che, data la natura del documento audiovisivo di cui s’è detto, è necessario enucleare “questioni di metodo e merito” nel corso della ricerca, durante il percorso di analisi, sottolineando una volta ancora come le questioni di metodo siano ancora da definire, siano sfuggenti: postulando dunque un approccio “debole” che mi trova d’accordo17. Infatti i due ultimi punti dell’elenco che, con intenti riassuntivi, ho elaborato poco fa emergono nel corso del libro più volte e spesso in una dimensione di analisi che a prima vista potrebbe sembrare contraddittoria, in bilico cioè tra un approccio teso alla lettura della mimesi scenica dell’attore “nell’atto”effimero della performance ed uno che allarga lo sguardo agli aspetti della formazione dell’attore, alla pedagogia, alla riflessione sul “sapere attoriale”: ma quella che certuni riterrebbero contraddizione a me pare ricchezza. È necessario che mi spieghi meglio. Ci sono due parti del libro su cui mi voglio concentrare particolarmente: la parte dedicata all’eredità di Stanislavskij negli USA (che si deve in larghissima parte alla curatela molto precisa di Claudia d’Angelo) e il saggio di Marcella Scopelliti su Judith Malina e i teatri resistenti.18 Adesso voglio chiedere ai miei quattro lettori di pazientare per un po’, lasciamo da parte quest’ultimo concetto, lasciamo aperta “la contraddizione”, per addentrarci nella lettura più dettagliata di queste due parti del libro. Claudia D’Angelo ha curato in questa pubblicazione una serie non secondaria di interventi tutti incentrati sulla presenza della ricerca di Stanislavskij negli USA fin dagli anni Venti. In particolare, tra i vari personaggi che incontriamo in queste pagine, tre rivestono un ruolo patentemente nodale: Michail Čechov, Konstantin Stanislavskij e Stella Adler (di cui si occupa Giulia Randone).19 La tesi che emerge con chiarezza dai diversi interventi pubblicati è che il ruolo di Lee Strasberg nella diffusione delle teorie di Stanislavskij e nella formazione di varie generazioni di attori (da Gregory Peck a Jack Nicholson tanto per dare un ordine di tempo) è, se non da ridimensionare, quanto meno da integrare col ruolo di Čechov e della Adler. Per quanto concerne il primo, viene presentato il testo di un documentario (Dalla Russia a Hollywood) e due scritti inediti per l’Italia e di un certo interesse storico e teorico.20 Il punto che mi pare più importante non è (o non soltanto) l’aspetto aneddotico e a tratti agiografico che emerge dalle testimonianze degli attori (un vero parterre de roi da Gregory Peck fino a Marylin Monroe) che hanno avuto occasione di essere allievi dell’attore russo. Il punto è la misura del legame e la sua qualità tra la ricerca di Stanislavskij e quella del suo allievo. Il maestro era molto generoso nei confronti dei suoi allievi.21 Non è questa la sede per definire se Čechov fosse un continuatore del metodo o se abbia soltanto divulgato una versione di esso. È certo che, quale che sia il caso, lui fosse tra i più titolati a lavorarci. Proviamo a fare qualche esempio. Non mi soffermerò molto su Dalla Russia a Hollywwod. Mi pare che la maggior parte delle testimonianze raccontino molto del modo di lavorare di Čechov ma non in maniera così approfondita. Molti dei punti trattati non definiscono un suo punto di vista peculiare forse per via della frammentarietà e a volte dell’impressionismo dei testimoni. Immaginazione, concentrazione e irradiazione, i tre concetti che vengono posti a pilastro della sua pedagogia (cfr. p. 28), non mi sembrano tanto http://www.turindamsreview.unito.it 3 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ dissimili dai concetti (e dalle pratiche) che Stanislavskij aveva elaborato e andò perfezionando per tutta la vita.22 Lo stesso dicasi per la tematica delle azioni fisiche e del gesto psicologico la cui marca credo che sia del tutto analoga a quella di Stanislavskij.23 Lo stesso dicasi per “i centri”di cui parla Anthony Quinn ( p. 43) e che sono già presenti in Stanislavskij come perno fondamentale della sua disciplina fisica dell’attore e che a partire da lui avranno uno sviluppo notevolissimo nelle pratiche attoriali della quasi totalità dei maestri pedagoghi del Novecento.24 Un’indagine più approfondita (e non è questa la sede) potrebbe indirizzarsi a definire i tempi e i modi dei differenti sviluppi cronologici di queste tematiche, in particolare definire quale sia “l’osmosi” tra Stanislavskij e il suo allievo. C’è invece un concetto che più di altri colpisce tra le dichiarazioni di questi attori e che viene espresso da Gregory Peck: «Michail Čechov credeva con tutto se stesso che ogni attore di talento sia posseduto da un desiderio di trasformazione profondamente radicato. La ricerca della trasformazione [...] è una delle incessanti ricerche che caratterizzano l’esperienza umana» (p. 44). A partire da questa asserzione la lettura del ruolo di Čechov si pone su uno sfondo differente che è coerente con alcuni altri punti presenti nelle testimonianze di questa sezione del libro, alle quali sto per arrivare, ma in realtà con tutta l’impostazione teorica del volume. Una concezione dell’attore che parte dalla fisiologia per arrivare all’etica ed alla dimensione esistenziale. Ma c’è un altro aspetto che voglio sottolineare, a partire dal primo scritto del libro frutto della mano stessa del regista. In Il teatro del futuro (pp. 49-53) questi si concentra su quali siano le limitazioni all’esplicarsi corretto del mestiere dell’attore e ne individua principalmente tre: botteghino, star system, critici. Il primo limita i tempi delle prove, il secondo spinge l’attore all’isolazionismo, il terzo separa il pubblico dal teatro in quanto ne inquina il giudizio. Gli attori si devono riappropriare del senso del teatro a costo di uscire dal sistema teatrale: «[...] mostreremo lo spettacolo, in una piccola stanza, in un caffè, senza costumi né trucco» (p. 51). Le stesse esigenze e la stessa insoddisfazione per i limiti del teatro che nega la ricerca sono espressi da Stanislavskij nelle inedite lettere americane che la D’Angelo presenta e traduce per la prima volta in italiano.25 In verità si tratta di una di quelle esigenze presenti nella maggior parte dei cosiddetti padri fondatori della regia, che aveva evidenziato già, moltissimi anni fa, Fabrizio Cruciani in un suo celebre volume.26 La fuga dal centro, la volontà di avere spazi e tempi non dettati dal cabotinage del teatro e dalle esigenze del mercato e del sistema teatrale, sono urgenze che nel caso di Čechov si coniugano, mi sembra, con quell’altra idea della trasformazione, direi umana, dell’attore. Un lavorio che non può trovare casa in un lavoro attoriale succube delle esigenze industriali dello spettacolo americano in cui il russo si era trovato a lavorare. Le stesse motivazioni le troviamo nelle memorie di Bertensonn sul soggiorno di Nemerovič-Dančenko a Hollywood, segnate dall’amarezza e dal senso di impotenza che l’altra anima del Teatro d’Arte di Mosca aveva sentito nel suo anno di permanenza nella mecca del cinema. Circondato da attori vanesi e produttori idioti, il regista s’era visto rifiutare o stravolgere ogni sceneggiatura o soggetto dietro la motivazione delle leggi del mercato.27 L’idea etica di Čechov, come il volume documenta, non passa senza lasciar traccia nel teatro americano, anzi. Due contributi sono dedicati ad Harold Clurman, altro esempio evidente di quanto il seme europeo abbia fecondato la più parte delle esperienze di maggior rilievo del teatro americano.28 In questi materiali viene presentata l’esperienza del celebre Group Theatre,29 esempio di un teatro-comunità, un collettivo non politico ma volto alla ricerca dell’arte dell’attore in rapporto a quella drammaturgia contemporanea agli anni del new-deal che raccontava la crisi dell’uomo americano del post crisi del ‘29. Clurman non nasconde il proprio debito col teatro d’Arte.30 L’esperienza del Group Theatre mostra quanto l’idea, la pulsione di Čechov, pur non essendo stata vincente rispetto ad un sistema che ha fatto del suo insegnamento null’altro che un sistema per la creazione e lo sfruttamento commerciale di attori di successo, avesse attecchito dando http://www.turindamsreview.unito.it 4 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ vita ad una pianta nascosta ma solida. La fuga dal centro sarà un aspetto necessario ad ogni ricerca teatrale del Novecento, in particolare quelle che si concentrino sulla rifondazione globale dell’arte dell’attore.31 Ma la dimensione etica dell’attore è egualmente presente nel lavoro di Stella Adler del quale informa Giulia Randone.32 La conoscenza diretta dell’esperienza di Stanislavskij consente alla Adler di opporsi alle storture del metodo Strasberg basate su una lettura, per altro parziale, della memoria emotiva, per contrapporre un lavoro articolatissimo basato su immaginazione e circostanze all’interno delle quali il lavoro dell’attore assume un valore differente rispetto alla vulgata del metodo (p. 181). La Adler si concentra sulla salvaguardia del ruolo che si costruisce creando una relazione tra attore e personaggio che non si basa sulla sostituzione ma sul confronto. Alla base di ciò ci sono le azioni, classificate in interne, verbali e fisiche. Le azioni precedono le parole del testo e gran rilievo è dato a quelle fisiche. La mia sintesi è brutale ed ovviamente parziale (rimangono fuori tematiche importanti come ritmo e respiro, che percorrono la riflessione della Adler, ma moltissimo la lettura che Čechov dà della recitazione degli attori di Ivan il terribile di Ejzenstein33 e che recupererò a proposito del saggio della Scopelliti) ma mi serviva per richiamare un serie di concetti e di pratiche già incontrati fin qui, fili che si annodano nel corso del libro e ne costituiscono la trama di superficie. Ma la dimensione etica del fare dell’attore ne è la motivazione di fondo, il comune denominatore. Marcella Scopelliti compie un lavoro diverso rispetto a quanto s’è visto finora. Si concentra infatti sul lavoro creativo di due eccentrici nei rispettivi contesti storico teatrali, Judith Malina e Alexander Moissi,34 in ordine alla fisionomia della loro mimesi recitativa. Soffio e corpo sono i due poli principali su cui si basa la lettura, in particolare dell’agire della Malina. Molto opportunamente l’autrice si riferisce ad Artaud (pp. 345-346) che era diventato una sorta di mentore per il Living Theatre fin dalla fine degli anni ’60.35 Il soffio, dice l’autrice, «è base del dire attoriale» (p. 346), e principio di una vera e propria scienza del respiro che principia ogni lavoro dell’attore sul proprio corpo, il soffio è un elemento originario del corpo: «[...]questa scienza del respiro si sostanzia non solo come azione teatrale fisiologica, bensì soprattutto, come indagine metafisica e operazione morale» (p. 348). Ancora una volta ritmo, respiro. La tensione della Malina verso la questione del corpo assume tratti esistenziali differenti ma, citando Barba, ci sono dei principi che ritornano con una tale frequenza negli scritti e nei personaggi che si incontrano in questo libro che annodare questi fili appare spontaneo. Per carità nessun rapporto di filiazione o di causa-effetto meccanicistica, però ci sono delle correnti sotterranee, dei principi appunto che informano la trasformazione mimetica ponendola in una dimensione che da tecnico-fisiologica tout court, prende dei tratti eurisitci di indagine del rapporto tra il dentro e il fuori dell’individuo, il suo rapporto con la modificazione di se stesso e della realtà, dei suoi principi, che vengono rappresentati. Una parte consistente del saggio è costituita, dunque, dall’analisi di alcune “presenze” della Malina in spettacoli, in particolare italiani, oltre che alcune sue notevoli partecipazioni cinematografiche. In particolare mi soffermo sulla parte dedicata a Maudie&Jane con la regia di Luciano Nattino (p. 346). La Scopelliti si sofferma sull’opposizione del corpo bello e giovane della coprotagonista vs corpo rimosso, corpo vecchio della Malina e sul lavoro vocale di Judith, di una voce che si fa corpo, che ne è quasi un principio fisiologico. Il soffio e la ritualità del movimento e degli atti performativi sono alla base, ci dice la studiosa, di tutte le interpretazioni analizzate della creatrice del Living. La Malina, durante la sua infanzia, ascoltava su sollecitazioni della madre Rose, ex attrice, la voce dell’attore ebreo italo-albanese Alexander Moissi, incisa in un vecchio disco. Quella voce serve a creare un circuito stabilito dalla Scopelliti tra Moissi e la Malina, in cui la pratica della voce coinvolge anche gli aspetti rituali dell’infanzia di Judith: un archetipo fondante che investe la dimensione esistenziale dell’attrice americana che connette la tematica del soffio artaudiano, alla http://www.turindamsreview.unito.it 5 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ tematica della trasformazione attraverso il personaggio che coinvolge la dimensione globale dell’individualità dell’attore. La voce di Moissi, cantilenante, magica, di cui aveva parlato Kafka, era una voce d’attore irregolare, antiaccademico e nemico delle accademie, una voce in cui si leggeva «il trionfo della performance sul testo» (p. 364).36 Un lavoro di interpretazione “fisica” tra interno ed esterno nell’interpretazione del ruolo che, spiega la Scopelliti, aveva colpito lo stesso Stanislavskij. Moissi, come la Malina, è un “attore creativo” per il quale la respirazione si pone come aspetto caratterizzante dell’interpretazione.37 Avevo lasciato in sospeso qualcosa e avevo promesso che avrei chiuso il cerchio. Si parlava di contraddizioni solo apparenti. In realtà la risposta è contenuta nell’analisi. La Scopelliti si concentra parecchio sull’analisi delle mimesi attoriale colta nel momento del suo avvenire, o meglio, nella registrazione, memoria parziale, del suo atto. La D’Angelo compie un accurato lavoro filologico di proposta di documenti coerenti tra di loro nel raccontare la pedagogia, la costruzione, i principi che presiedono a quel momento finale che è la presenza scenica dell’attore. I due momenti, che sono stati a lungo arbitrariamente separati o maldestramente confusi, nell’analisi, sono invece complementari tra loro, parziali o incomprensibili se non posti in una giusta relazione.38 Nell’analisi i due momenti si completano in una relazione di approcci che costituisce, ne sono convinto, la base stessa, l’ontologia della o delle discipline teatrologiche. Ancora un paio di notazioni prima di concludere. Dalla lettura di questo libro si riceve una doppia impressione in merito al modo in cui è stato recepito Stanislawskij negli USA. C’è stata una ricezione secondaria, minoritaria, etica, che seppellita nei meandri carsici di alcuni attori di origine europea per nascita e formazione (Malina, ebrea tedesca allieva di Piscator, ma anche Clurman e Adler) è riemersa in vari momenti, subendo però costantemente la rimozione oppressiva di un sistema sospettoso verso questi attori bizzarri, eccentrici, non classificabili, fuori dalla determinazione e dall’esclusione che, per parafrasare Foucault, il potere determina sul sapere teatrale. E poi c’è la seconda ricezione che, pur avendo come seme e campo lo stesso della prima, ne ha dato una lettura e un uso esattamente opposto, facendo del sistema un prontuario efficace per la costruzione di attori efficaci e produttivi nella logica fordista dell’industria americana, in questo caso cinematografica. Una mercificazione del Sistema da parte del sistema. Non posso non pensare a quello che, oramai quasi trent’anni fa, aveva dichiarato Leo De Berardinis a Oliviero Ponte di Pino: «Mi sembra ridicolo ricevere Brecht o Artaud dall’America.[...]. La cultura europea non deve essere una materia prima che viene distillata dalla tecnologia americana e poi restituita come prodotto fasullo, commerciabile»39. Seconda notazione. Leggere un libro è addentrarsi in un labirinto: per venirne fuori non esiste un solo cammino e ciascun cammino che trovi l’uscita può essere quello giusto e ciascuno è diverso. Il cammino che ho seguito io ha attraversato alcune strade; altre, egualmente importanti e praticabili, le ha lambite appena, altre sono state dimenticate. Questo inconveniente è tanto più plausibile quanto più è complesso il libro. Questo libro è molto complesso. Il lettore vi troverà un’ampia sezione dedicata a Tatiana Pavlova e al suo ruolo nel tentativo di colmare il ritardo del teatro italiano a cura di Roberta Indiogia, un paio di scritti di Maria Pia Pagani, il primo su NemerovičDančenko in Italia, che integra quello già citato, e offre un’analisi in particolare della vicenda del dramma Il valore della vita, il secondo dedicato alla tournée italiana del Gruppo di Praga nel 1927. Inoltre uno studio attento sull’attrice catalana Margarida Xirgu di Anna Caixach, incentrato in particolare su due poli del suo lavoro interpretativo, «espressione interiore-espressione plastica» (p. 321), attraverso i quali la Xirgu riesce a dare un aspetto visibile all’invisibile interiorità. Da ultimo una sezione dedicata a Sandro Lombardi comprendente un saggio di Lorenzo Mango, che di Tiezzi e Lombardi è uno specialista, e uno scritto dell’attore. Il nodo centrale del saggio è costituito dalla http://www.turindamsreview.unito.it 6 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ “autoralità” di Sandro Lombardi, cioè dalle strategie creative di attore-autore del personaggio che caratterizzano questo “interprete” del teatro italiano, in una misura quasi analoga all’idea di interprete di Thomas Bernhard: «[...] una strategia di lavoro che non coincide con l’espessività soggettiva e singolare dell’essere attore ma riguarda la creazione dello spettacolo come progetto comune e condiviso» (p.373)40. In questo senso torniamo alla tematica del lavoro dell’attore all’interno del teatro di regia. Segue uno scritto di Lombardi. Al di là delle argomentazioni quanto emerge dal saggio è quel suo vizio della scrittura, curata, calligrafica; un vizio che in Sandro Lombardi ha a che vedere proprio con l’impulso di autoralità che è suscitato dalla lotta con il drammaturgo e soprattutto con il regista: «É un po’ come l’enigmatica lotta di Giacobbe con l’angelo del racconto biblico: c’è tensione e a volte anche conflitto, sussunti tuttavia dalla comunità del compito, dalla reciprocità del mettersi in gioco, del denudarsi» (p. 374).41 Metodologia e dati: sono due aspetti di rilievo che troviamo in questo libro. Ma oltre che alla comunità scientifica credo che questo volume dovrebbe essere letto anche dai registi italiani, da troppi anni, a parte qualche rara eccezione, imbellettatori di testi, impacchettatori di confezioni pseudocritiche, dimentichi degli attori, perché in realtà, ignoranti di essi. Questa lettura servirebbe loro per capire qual è il ruolo dell’attore nella mimesi teatrale, per assumere finalmente una dimensione meno libresca della regia teatrale, per recuperare il teatro alla sua statura di arte effimera, di soffio, circuito continuo di continua trasformazione. 1 Il primo volume è uscito nel 2009, Antonio Attisani, Actoris Studium Album I, ed. dell’Orso, Alessandria, 2009. L’autore è anche curatore della collana e creatore del progetto Seminario permanente sulle arti dinamiche intitolato a Carmelo Bene, dal cui ambiente di studio è scaturita questa pubblicazione. 2 Il sito è www.sempercb.unito.it. Tuttavia il curatore avverte nella prefazione-Istruzioni per l’uso che l’organizzazione del sito ha rivelato alcuni problemi tecnici a causa dei quali i materiali audiovisivi di questo volume sono, attualmente, visibili solo presso l’archivio del Dipartimento DAMS di Torino 3 Antonio Attisani, L’attore sincero nel secolo grottesco, p. 6. 4 Marcella Scopelliti, Judith Malina e i Teatri resistenti, p. 369. 5 La bibliografia è sconfinata ma un quadro accurato e interessante è Pergiorgio Giacchè, Carmelo Bene, antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano, 1997 pp. 85 e sgg., e pp. 94 e sgg., ma anche Gilles Deleuze, Un manifesto di meno in Bene-Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 71 e sgg. Ora in AA.VV, Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, Milano, 1995. 6 Dice Attisani: “Tutto ciò non si fa per aggiungere pagine alla storiografia corrente” p. 4. 7 Idem. p. 5. 8 The secret art of performer è il titolo di un libro di Nicola Savarese ed Eugenio Barba, apparso in varie forme ed edizioni negli ultimi trent’anni e che, insieme a La canoa di carta, del solo Barba, ha finito per essere un reference book per l’approccio all’attore sulla base dell’antropologia teatrale. 9 Idem, p. 4. 10 Idem, p. 4. 11 Idem. http://www.turindamsreview.unito.it 7 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ 12 Idem p. 6, corsivo mio. 13 Marco De Marinis, Capire il teatro, La Casa Usher, Firenze, 1994 [ristampa della precedente 1988] p. 210, ora in nuova edizione aggiornata, Bulzoni, Roma, 2008. Utile per le riflessioni e la sistematizzazione delle principali posizioni e aporie legate all’uso di studio del mezzo audiovisivo. Da consultare anche Andrea Balzola, Franco Prono La nuova scena elettronica , Rosenberg e Seller, Torino, 1994, in particolare le pp. 30 e sgg. in cui Balzola si concentra sull’idea di trascrizione in video letterale e a più macchine da presa. Un punto aggiornato si trova in Stefano Locatelli, Memoria del teatro e patrimonio teatrale, in Il Castello di Elsinore, n. 54, 2006 pp. 156 che si concentra anche sulle questioni legate all’uso selettivo della rete in quanto conservazione della memoria e sugli aspetti legislativi della faccenda e mette in guardia contro “il determinismo tecnologico”. 14 Cfr. De Marinis, op. cit. p. 212 e sgg. 15 Cfr. Ferdinando Taviani Presentazione, in Quaderni di teatro, IV, 16, 1982 p. 8. 16 Cfr. le pp. 7-10. Vari spunti con riferimenti bibliografici si trovano nei contributi che ho citato poco fa e che offrono una trattazione organica anche di quest’ultimo punto. 17 Rimango ancora oggi dell’avviso che la mollezza è una caratteristica epistemologica della teatrologia dalla quale, non solo non si esce, ma che costituisce una peculiarità distintiva di tale disciplina. Cfr., tra gli altri, De Marinis op. cit., pp. 32-33; sulla dialettica tra teorizzazione ed empiricità, alla base del discorso che sto conducendo, s’era soffermato già una ventina di anni fa Ferdinando Taviani, Lettera su una scienza dei teatri, in Teatro e Storia, n. 9, 1990, p. 189. 18 Dunque documenti compresi da p. 27 a 197 curati da Claudia d’Angelo, fatta eccezione per il saggio Recitare per essere umani: Stella Adler di Giulia Randone e Marcella Scopelliti, Aria di famiglia. Judith Malina e i teatri resistenti, pp. 241-371 19 Giulia Randone, Recitare per essere umani, pp. 161-197. 20 Di Čechov esistevano già in Italia, soprattutto, due traduzioni di quello che è il suo libro più importante. Mi riferisco a Michail Čecov, La tecnica dell’attore, Audino, Roma, 2001, che di fatto è una versione ampliata del precedente All’attore, pubblicato da La Casa Usher, la traduzione del quale era stata condotta sulla redazione del 1942 dello stesso libro. Altri scritti sono Sul sistema di Stanislavskij,in Fabio Mollica (a c. di) Il teatro possibile, La Casa Usher, Firenze, 1989, e Il lavoro su di sé secondo il sistema di Stanislavskij, in Idem. 21 La sua generosità nasceva probabilmente dall’ossessione di morire senza che vi fosse qualcuno in grado di continuare l’opera gigantesca che aveva iniziato: in quest’ottica si possono leggere i suoi rapporti con Mejerchol’d, con Vachtangov, rapporti però per niente idilliaci e caratterizzati da un conflitto allievo-maestro (padre-figlio?) più che evidente. Per i contrasti, anche al vetriolo, con Vachtangov cfr. l’introduzione di Fausto Malcovati a Evgenij Vachtangov, Il sistema e l’eccezione, La Casa Usher, Firenze, 1984, p. XV e sgg. e i documenti suoi pubblicati nel medesimo volume pp. 42 e sgg. dai quali emerge un rapporto duplice sospeso tra ammirazione, affetto, ma anche contestazione. Un discorso non troppo dissimile per Mejerchol’d: cfr. Vsevolod Mejerchol’d, L’ottobre teatrale, a c. di Fausto Malcovati, Feltrinelli, Milano, 1977 p. 176 e sgg. Negli ultimi anni Mejerchol’d rivendicava con forza il legame col maestro anche nel tentativo disperato di riabilitare la sua figura di fronte al regime, tanto screditata da portarlo al processo, alla tortura e alla drammatica fucilazione nel 1940. 22 Più che ai classici Il lavoro dell’attore su se stesso Laterza, Bari-Roma, 1996 [ed. riveduta da Fausto Malcovati rispetto alle precedenti] e Il lavoro dell’attore sul personaggio, Laterza, Bari-Roma, 1988 farò riferimento a Konstantin Stanislavskij, L’attore creativo, La Casa Usher, Firenze, 1989 [II ed.]: il carattere da lezione dei materiali di questo http://www.turindamsreview.unito.it 8 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ libro (dei seminari al Bol’soj) ne danno una dimensione più vicina a quella di un lavoro pratico sull’attore. Per la concentrazione cfr. le pp. 69 e sgg. in rapporto all’azione fisica, al respiro ritmico (su cui torna Scopelliti a proposito della Malina), al controllo del corpo per il passaggio da interno ed esterno nella costruzione della parte. In merito alla fantasia è interessante sottolineare che Čechov, “divulgando”il lavoro dell’attore creativo su di sé ponesse nella fantasia un punto nodale del sistema di Stanislavskij. Cfr. Čechov, Il lavoro dell’attore, op. cit. p 80-83 e Stanislavskij, L’attore creativo, op. cit. p 86 23 Cfr. L’attore creativo, op. cit. pp 109, 124 e sgg., 128, 143 e sgg., e 149 in particolare sulla tematica della memoria muscolare. 24 Stanislavskij, L’attore creativo, op. cit., p. 85-86. Analogamente troviamo pratiche sul centro o il baricentro o punti di irradiazione dell’energia in Copeau, in Grotowski, in Barba, ma anche nelle pratiche teatrali di un Dario Fo o di Peter Brook e nell’altro celeberrimo allievo di Stanislavskij, Meierchol’d. 25 Konstantin Stanislavskij, Lettere dall’America pp. 67-78. 26 Fabrizio Cruciani, Il teatro del novecento, Sansoni, Firenze, 1985 [nuova ed. ampliata Editori e Associati, Roma, 1995]. L’idea della fuga dal centro come esperienza caratterizzante la pratica e l’istituzione stessa del concetto novecentesco di regia è stata più recentemente ripresa e sistematizzata da Mirella Schino, Teorici, registi e pedagoghi, Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino, 2001. 27 Un russo a Hollywwod, 1926-1927, a c. di Claudia D’Angelo. 28 Svegliati e sogna. Celebrazione e ricordi di Harold Clurman e Tetsuo Kogawa, Il teatro che volevamo. Conversazione con Harold Clurman,a c. di Claudia D’Angelo. 29 Non è infatti un caso se nel dopoguerra, negli anni della nascita della regia italiana, uno studioso militante come Vito Pandolfi dedicasse qualche pagina attenta al Group theatre (di cui nessuno in quegli anni sapeva molto) in due volumi di insieme su teatro e regia. Cfr. Vito Pandolfi, Lo spettacolo del secolo, Nistri-Lischi, Pisa, 1953, p.179, ripreso con qualche piccola variazione in Idem, Regia e registi del teatro moderno, Cappelli, Bologna, 1973, p. 166. Un percorso di andata e ritorno dell’idea dei teatri come laboratori e luoghi di pedagogia e di etica teatrale tra USA ed Europa su cui tornerò in conclusione di questo scritto. 30 Cfr. pp. 148 e 153. 31 Nel volume si vedano anche l saggi sulle zone di eccentricità dell’arte dall’attore incarnate dalla Malina, da Moissi e dalla Kaminska. Cfr. Giulia Randone, La missione fallita di una grande attrice- Ida Kaminska, Marcella Scopelliti, Aria di famiglia. Judith Malina e i teatri resistenti. Sulla vicenda della fuga e dei padri fondatori si concentra acutamente Mirella Schino, Teorici, registi e pedagoghi, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino, 2001. 32 Giulia Randone, Recitare per diventare esseri umani, pp.161-197. 33 Cfr. Michail Čechov, Lettera ai colleghi sovietici del film Ivan il terribile, a cura di Claudia d’Angelo, pp. 5367, Giulia Randone, cit., p. 190. Per avere un parametro di queste tematiche in Stanislavskij all’inizio degli anni venti cfr. Konstantin Stanislavskij, L’attore creativo, op. cit., p.49. 34 Moissi e la Malina, attori di epoche diverse, sono accomunati dall’autrice in merito alla comune appartenenza al mondo ebraico e a comuni strategie performative, principalmente sull’uso della voce. Analogamente si troveranno punti di vista sul teatro Yiddish nell’intervista di Kogawa a Clurman proposta dalla D’angelo ma soprattutto in Giulia Randone, La missione fallita di una grande attrice - Ida Kaminska, pp. 279-313. http://www.turindamsreview.unito.it 9 www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ 35 Su tutta la questione cfr. Julian Beck - Judith Malina, Il lavoro del Living Theatre, Ubulibri, Milano, 1982, pp. 23, 61, 66 e sgg., p. 77 e sgg., 116, in cui si chiariscono i termini dell’incontro dei Beck con la poetica di Artaud nel 1958 e l’impatto della tematica del respiro e del corpo nell’elaborazione del Living a partire almeno da The brig e i materiali pubblicati in Kenneth H. Brown, La prigione, Einaudi, Torino, 1977 (con prefazione polemica di Julian in merito alla censura redazionale dell’editore nella composizione del testo). Ma una lettura utile per entrare nella poetica del Living “artaudiana” è anche Julian Beck, La vita del teatro, Einaudi,Torino, 1975, p. 34, 64, 67, 69, 165. Un panorama generale, sistematico e ben argomentato in Marco De Marinis, Il Nuovo Teatro, Bompiani, Milano, 1987, p. 40. 36 Effettivamente, raccontando la lettura offerta la sera del 28 febbraio 1912 da Moissi, Kafka scrive in un pagina di diario del 3 marzo 1912: “[Moissi] ci fa arrivare addosso la voce col respiro di uno che corra”, e ancora, “egli stette ritto, liberato dal testo”. Franz Kafka, Diari, Mondadori, Milano, 1953, trad. di Ervino Pocar, p. 199-200, corsivo mio. 37 Questi temi attraversano le teorie recitative, le pratiche teatrali, le esegesi critiche di qualche decennio. Citare la letteratura critica al riguardo è un’impresa titanica alla quale mi sottraggo volentieri. Offro solo due suggestioni su parola e voce del tutto differenti, che quindi è bello proporre proprio per le loro divergenze. Eugenio Barba è tornato spesso sulle tematiche del rapporto tra azione e voce ma mai in modo così immediato, organico e intellegibile a tutti come in La Canoa di carta, Il Mulino, Bologna, 1993, soprattutto cap. VIII, segnatamente pp. 242 e sgg. E Artaud dice: “[...] ce langage objectif et concret du théâtre sert à coincer, à enserrer des organes. […]. abandonnant les utilisations occidentales de la parole, il fait des mots des incantations. Il pousse la voix. Il utilise des vibrations et des qualités de voix.” Antonin Artaud, Le théâtre et son double,Gallimard, Paris, 1964, p. 138, corsivo mio. 38 Sulla questione della separazione dei processi e dei prodotti nell’ambito dello studio e della ricezione teatrale ancora efficace è Marco De Marinis, Capire il teatro, op. cit., cap. IV, p. 115 39 Intervista con Leo De Berardinis di Oliviero Ponte di Pino in Jack Gelber, La connection, Ubulibri, Milano, 1983 p. 102. Leo polemizzava anche con il Living e con la matrice europea dei suoi riferimenti, un percorso di andata e ritorno culturale in cui il percorso finiva, secondo lui, per mercificare le idee e appiattirle. La specificità americana era Charlie Parker, e da quello partiva Leo nel concepire un nuovo apporto all’idea di improvvisazione. 40 Ho sempre avuto un’idea di Lombardi come attore bernardiano. Si pensi alle tante descrizioni che Bernhard fa di Minetti: “[Minetti] non si lascia dirigere da nessuno e interpreta il testo a modo suo, adattandolo, […] ha un’esperienza inaudita, che abbraccia decenni di lavoro teatrale, perciò interpreta una parte in piena coscienza, non come un attore impiegato, ma con tutte le raffinatezze e mostruosità richieste dalla parte”: Kurt Hoffman a cura di, Conversazioni con Thomas Bernhard, Guanda, Parma, 1989, p. 77 [trad. italiana]. 41 Sandro Lombardi negli ultimi anni ha scritto alcune cose, la più sorprendente delle quali è l’autobiografia artistica Gli anni felici, Garzanti, Milano, 1994, volume che ha fatto definire Lombardi “un intellettuale di apertura europea” da parte di un critico rigoroso, in particolare in merito all’aspetto dello stile, come Dante Isella. Marco De Marinis ha scritto un saggio che offre delle tassonomie piuttosto precise nell’ambito delle “autobiografie” degli attori, Visioni della scena. Teatro e scrittura, Laterza, Bari-Roma, 2004, cap. VIII. E’ interessante notare come Lombardi sfugga in Gli anni felici ad alcuni frame piuttosto tipici del “genere” (per esempio lo schema teleologico nel racconto di vita costituito da “Vocazione-debutto-difficoltà-iniziali successi-viaggi-interpretazioni celebri individuato da De Marinis, op. cit. p. 151); secondo me è proprio in questo scarto di originalità che risiede il carattere di opera letteraria del suo libro rispetto alla semplice importanza documentaria o di curiosità di molte esperienze analoghe di colleghi (fatte le dovute eccezioni a parte come Carmelo Bene, che, appunto, è a parte, in quanto la dimensione dello scrittore non è una vacanza nell’opera di Carmelo). http://www.turindamsreview.unito.it 10