Esercizio provvisorio dell`impresa e riallocazione dell`azienda nella

Francesco Fimmanò
Esercizio provvisorio dell’impresa e riallocazione dell’azienda
nella riforma della legge fallimentare
Sommario - 1. Il rapporto tra l’azienda ed il fallimento nella riforma della legge
fallimentare; 2. L’evoluzione dei principi ispiratori in tema di conservazione dei valori
produttivi; 3. Il collegamento funzionale tra gestione endoconcorsuale e liquidazione
dell’attivo; 4. L’esercizio provvisorio novellato; 5. Il contratto di affitto: presupposti,
natura ed effetti; 6. I rapporti giuridici pendenti; 7. segue: i rapporti di lavoro
subordinato; 8. La prelazione convenzionale all’acquisto; 9. La vendita unitaria del
complesso aziendale o di singoli rami; 10. L’esercizio della prelazione; 11. Gli effetti della
vendita.
1. Con la riforma delle procedure concorsuali irrompe finalmente a pieno titolo nella legge
fallimentare l’azienda ed il tema della sua circolazione coattiva in funzione della proficua
riallocazione nel mercato. D’altra parte nel fallimento 1, a differenza di quanto accade
nell’esecuzione individuale 2 l’universalità oggettiva e la concentrazione si integrano
perfettamente con la considerazione unitaria del complesso aziendale e soprattutto sono del tutto
funzionali alla sua gestione e liquidazione in blocco 3.
1 Cass. 2 aprile 1985, n. 2259, in Giust. civ., 1985, p. 1039; Cass. 22 novembre 1978, n. 5437, in Giust. civ., 1979, I,
p. 474; Cass. 27 settembre 1971, n. 3461, in Riv. dir. ind., 1972, II, p. 338 con nota di G.C. RIVOLTA, Locazione
immobiliare e vendita dell’azienda del conduttore fallito; Cass. 7 dicembre 1968, n. 3917, in Foro it., 1969, I, p.
1215; App. Lecce 31 dicembre 1980, in Giust. civ., 1981, I, p. 577; Trib. Milano 21 gennaio 1982, in Fallimento,
1983, p. 843. In dottrina cfr. L. MONTESANO, Sulla vendita fallimentare dell’azienda dell’azienda, in Riv. dir. proc.,
p. 19; F.P. LUISO, Procedure esecutive sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir. proc., 1985, p. 599; G. LO
CASCIO, Rapporto di lavoro subordinato inerente all’esercizio dell’impresa e procedimenti concorsuali, in Il
Fallimento, 1981, p. 65; V. GRECO, Il Fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano,
1984, p. 33 s.; A. COLASURDO, Vendita dell’azienda in sede fallimentare e diritti di credito del prestatore d’opera,
in Mass. giur. lav., 1970, p. 166; A. BASSI, Riflessioni sull’affitto d’azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in
Riv. dir. civ., 1982, I, p. 333 s. Contra: S. SATTA, Cose e beni nell’esecuzione forzata, in Riv. dir. comm., 1964, I, p.
356. In particolare A. CANDIAN, Appunti in tema di azienda, in Scritti in onore di Jemolo, Milano 1963, vol. II, p.
162 s., ritiene, invece, percorribile la strada della vendita unitaria forzata dell’azienda, pur nella necessaria ed
ineliminabile diversità degli strumenti espropriativi dei suoi singoli elementi.
2 R. PROVINCIALI, Il sequestro d’azienda, Napoli, 1959, p. 83 s.; C. VOCINO, I poteri del sequestratario di azienda
nel procedimento per l’avocazione dei profitti di regime, in Riv. dir. proc., 1946, I, p. 143 s.; A. CONIGLIO, Il
sequestro giudiziario e conservativo, Milano 1953, p. 80; V. ANDRIOLI, Progresso del diritto e stasi del processo, in
Studi in memoria di Piero Calamandrei, Padova, 1958, vol. 5, p. 427; D. PETTITI, Il trasferimento volontario
d’azienda, Napoli, 1970, p. 154 s.; F.P. LUISO, Procedure esecutive, sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir.
proc., 1985, p. 599, secondo cui un pignoramento d’azienda in considerazione della mancanza nel nostro
ordinamento di un provvedimento strutturale simile alla sentenza dichiarativa di fallimento, si ridurrebbe in realtà al
pignoramento dei singoli beni componenti l’azienda e quindi ad una mera sommatoria di pignoramenti singolari. Per
“poter pignorare tutti gli elementi attivi dell’azienda con un unico atto, sarebbe necessario che il legislatore
prevedesse, anche per l’esecuzione singolare, un atto simile per struttura ed effetti alla sentenza dichiarativa di
fallimento: quindi, in sostanza, un provvedimento dichiarativo, i cui effetti rispetto ai terzi prescindano dalle regole
di circolazione dei singoli diritti”. In mancanza di un atto di questo tipo, il pignoramento d’azienda nel suo insieme è
impossibile. Contra: L. MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano, 1942, p. 399 s.; S. SATTA,
L’esecuzione forzata, in Trattato di diritto civile italiano, IV ed., Torino, 1963, p. 104; A. CANDIAN, Il sequestro
conservativo penale, Padova, 1955, p. 168.
3 Epifanica è la considerazione della Suprema Corte (Cass. 3 novembre 1994, n. 9052, in Giust. civ. 1995, I, p. 966)
secondo cui “la mancata previsione del pignoramento di azienda si giustifica, del resto, con la considerazione che,
quando l’insolvenza dell’imprenditore sia meramente occasionale ed episodica, non vi è necessità di pignorare
Un unico magistrato, il giudice delegato, ha la direzione dell’intero procedimento che
riguarda tutte le componenti aziendali 4 ed un unico “custode” 5, il curatore del fallimento, ha
l’amministrazione e la disponibilità del patrimonio del fallito. Tali considerazioni investono più
in generale le ragioni delle scelte di fondo riguardanti la liquidazione fallimentare dell’attivo, del
tutto disancorata nella novella dalle forme di conversione dei beni in denaro contemplate dal
codice di procedura civile per l’espropriazione individuale (art. 107, l. fall.), e che un tempo ne
rappresentavano il paradigma.
Dunque, se da un lato l’azienda è un fenomeno strutturalmente ed intrinsecamente estraneo
all’espropriazione individuale, dall’altro si innesta naturalmente ed armoniosamente nel
fallimento 6 in quanto il soddisfacimento dei creditori, data la qualità di imprenditore
commerciale del fallito, passa attraverso la estinzione dell’impresa e la liquidazione complessiva
del suo patrimonio 7.
Nell’esecuzione forzata, il complesso di situazioni soggettive inerenti alla qualità di
imprenditore non sono espropriabili. L’impresa come attività di coordinamento di beni, rapporti
ed atti, se da un lato non riceve tutela da parte dell’ordinamento di fronte a pignoramenti che
incidono su quei rapporti o quei beni, dall’altro lato non viene inibita per effetto
dell’espropriazione singolare né tantomeno trasferita agli organi del processo esecutivo.
Anche i meccanismi che mettono in moto il fallimento ed il procedimento esecutivo
individuale sono differenti: il secondo presuppone l’inadempimento e l’esistenza di un titolo
esecutivo, il primo in linea di principio non esige nè l’uno nè l’altro. E’ sufficiente che vi sia
l’insolvenza, la quale può sussistere anche in mancanza dell’inadempimento, ossia quando
l’imprenditore si trovi nell’incapacità di far fronte normalmente alle proprie obbligazioni.
L’espropriazione dell’impresa, realizzata mediante il fallimento, è giustificata dalla
necessità di sottrarne l’esercizio all’imprenditore che ha commesso errori di previsione o di
gestione. Ecco che il procedimento è pervaso dall’officiosità, dalla sommarietà e dalla rapidità,
in quanto diretto a spogliare l’imprenditore dell’amministrazione dell’impresa non appena si
siano manifestati i sintomi di deterioramento della situazione, per evitare che la patologia
degeneri ulteriormente impedendo la ricerca di soluzioni di contenimento del danno sociale. In
l’azienda, essendo sufficiente il pignoramento dei singoli beni di sua proprietà; quando invece gli inadempimenti
dell’imprenditore raggiungono le dimensioni dello stato di insolvenza, si ricorre alla dichiarazione di fallimento che
investe l’intero patrimonio del debitore e dà ingresso all’esecuzione concorsuale...”.
4 Mentre nella procedure esecutive individuali esistono norme inderogabili sulla competenza, nelle procedure
concorsuali la universalità e la concentrazione sono così importanti che la giurisprudenza considera ad esempio
inammissibile l’apertura di due distinte procedure fallimentari a carico del socio illimitatamente responsabile di una
società di persona dichiarata fallita il quale svolga anche attività di imprenditore individuale in un altro luogo. In tal
caso sarà competente per entrambe le fattispecie esclusivamente il Tribunale del luogo della sede della società (Cass.
4 luglio 1985, n. 4024, in Dir. fall., 1985, II, p. 668 e in Fallimento, 1986, p. 402).
5 Nell’espropriazione forzata potranno, invece, aversi più custodi in quanto il codice di procedura civile prevede che
i beni immobili sono affidati ad un custode che normalmente è lo stesso debitore (art. 559), che il denaro viene
asportato e poi depositato nelle forme del deposito giudiziario (art. 520), che i titoli di credito e gli oggetti preziosi
vengono consegnati al cancelliere, per poi provvedersi nei modi che il pretore stabilisce con decreto ( art. 166, disp.
att., c.p.c.) e che per le altre cose mobili si può avere il trasporto in luogo di pubblico deposito o l’affidamento ad un
custode da parte dell’ufficiale giudiziario (artt. 520 e 521). E comunque, come si è giustamente rilevato, “anche se in
concreto si avesse un unico custode per un’azienda costituita soltanto da beni mobili, questi, pur se autorizzato ad
utilizzare le cose pignorate, difficilmente potrebbe gestire l’azienda, dalla quale sono stati sottratti - a seguito di
pignoramento - i titoli di credito e il danaro” (G. BOZZA, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali,
Milano, 1988, p. 33).
6 Al riguardo mi permetto di rinviare per una disamina delle variegate connessioni tra fallimento e azienda a F.
FIMMANÒ, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, Milano, 2000 , p. 48 s.
7 E.F. RICCI, Lezioni sul fallimento, I, Milano 1992, p. 4 s.; in tema cfr. anche G. MONTELEONE, Brevi note sulla
natura giuridica del fallimento, in Riv. Dir. Comm., 1995, I.
questo contesto il fallimento deve essere visto come un momento dell’impresa che “non produce
la sua estinzione ma solo la sua liquidazione” 8.
Dunque come si ebbe ad osservare, non il legislatore del processo ordinario, ma solo quello
del fallimento era rimasto indietro rispetto alla sostanza giuridico-commerciale dell’azienda,
quando non ne ha dettata la unitaria liquidazione 9. La procedura, concepita nel 1942 10 in una
visione panprocessualista, non contemplava istituti e soluzioni di diritto sostanziale 11 che
l’evoluzione del sistema economico ha reso indispensabili 12.
Ed ora il tema della rilevanza endoconcorsuale dell’azienda come entità unitaria 13 è stato
espressamente risolto in via generale dall’intervento riformatore che la inserisce nel sistema
strutturale del fallimento, cogliendo la sostanziale identità dell’humus in cui affondano le radici i
due fenomeni. La novella completa un lungo percorso di interventi settoriali e speciali 14 che
8 In tal senso M. SANDULLI, “Esecuzioni” fallimentari e Terzi, in judicium.it, che evidenzia come la posizione che
ha prevalso nell’interpretazione giurisprudenziale è stata quella che ha considerato il fallimento “come una
procedura esecutiva collettiva, dove la realizzazione dell’attivo, finalizzata al soddisfacimento dei creditori, è stata
individuata come la unica ed assorbente finalità”. Questa impostazione è riduttiva, rispetto alla complessità degli
interessi che sono coinvolti nella procedura e dall’altro canto eccessiva rispetto agli altri interessi, di soggetti
estranei alla procedura che hanno la ventura di incrociarla, e che con la stessa, quindi, devono confrontarsi e
competere. La circostanza che il fallimento “comporti una liquidazione dell’attivo nell’interesse della massa dei
creditori non deve necessariamente significare che sia una esecuzione forzata. Innanzi tutto va ricordato che il
fallimento può essere dichiarato anche su domanda del debitore e quindi la liquidazione può essere considerata in tal
caso volontaria. Già questa possibilità toglie forza alla eventuale qualificazione in termini generali, delle vendite
fallimentari come di vendite coattive.”.
9 L. MONTESANO, Sulla vendita fallimentare dell’azienda, cit., p. 23.
10 La legge fallimentare, per alcuni versi, disciplina una espropriazione concorsuale sui beni dell’imprenditore
piuttosto che disciplinare la crisi dell’impresa, in linea, d’altra parte, con l’impostazione del codice civile in cui è
assegnato un ruolo centrale all’istituto della proprietà, mentre il sistema normativo dell’impresa è diviso con estrema
incertezza fra la disciplina soggettiva dell’art. 2082 e quella oggettiva dell’art. 2555, c.c., (al riguardo A. GAMBINO,
Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce dell’amministrazione straordinaria, in Giur.
comm., 1980, I, p. 569 s.; A. BONSIGNORI, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall., 1996, I, p. 697 s.).
11 G. RAGUSA MAGGIORE, Il Fallimento tra diritto processuale e finalità sostanziale, in Riv. dir. fall., 2003, p. 53;
sul tema cfr. pure E. FRASCAROLI SANTI, L’autonomia privata nei progetti di riforma fallimentare in Italia e nei
sistemi concorsuali europei, in Riv. dir. fall., 2003, p. 605 s.
12 Al riguardo mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, L’informazione e la riallocazione dei fattori produttivi nella
riforma del diritto delle imprese in crisi, in Crisi dell’Impresa e Insolvenza, Quad. giur. comm., Milano, 2005, p.143
s.; Per avere un’idea più precisa dell’incidenza dei mutamenti socio-economici sul diritto con riferimento proprio al
problema oggetto della nostra analisi, basta leggere alcune pagine di LUIGI EINAUDI (Intorno al credito industriale,
Appunti, in Riv. Soc. Comm., 1911,, p. 120) in cui si afferma: “Chi è che può comprare uno stabilimento fallito? O
un uomo nuovo o un vecchio industriale. Di uomini nuovi disposti ad entrare in una industria in cui si fallisce, non
credo ve ne siano. Se ce n’è, deve essere una testa vuota che non potrà tardare a fallire un’altra volta. Che sia un
vecchio industriale dubito ancor più. Quale più quale meno, i vecchi industriali hanno tutti da pensare ai fatti propri
e non amano impegnarsi in nuove imprese. Se hanno del capitale proprio da parte, vorranno conservarlo e non
impegnarlo in un’industria per ora in perdita. Se non hanno capitale proprio non troveranno chi loro l’impresti per
rilevare un’azienda fallita. Tutto sommato, ritengo che, se non intervengono aiuti ufficiali, uno stabilimento fallito
rimarrà chiuso; o se sarà riaperto, coinvolgerà nella rovina propria l’imprudente che si sarà voluto ostinare. Alla
fine, rimarranno in vita soltanto i migliori; il che è appunto desiderabile per rimediare alla crisi”.
13 Si è tuttavia affermato in passato <<che la considerazione unitaria dell’azienda, agli effetti della liquidazione
fallimentare, può presentare qualche utilità solo quando l’organizzazione aziendale raggiunga quel grado di
spersonalizzazione (di regola impossibile al di sotto di certe dimensioni) che consenta al pubblico di dissociare la
valutazione della sua funzionalità dal discredito del suo titolare>> (G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita
dell’azienda, Milano, 1973, p. 3). In linea generale questa affermazione può essere vera, tuttavia non può escludersi
a priori che anche una piccola azienda possa meritare una considerazione unitaria endofallimentare. Esistono
piccole aziende, talvolta leaders mondiali in una particolarissima nicchia di mercato, fortemente spersonalizzate a
prescindere dalle ridotte dimensioni.
14 Infatti, sia l’art. 3 della legge n. 223 del 1991, sia l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, si riferiscono soltanto alla
circolazione coattiva di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a procedure concorsuali e non alla circolazione
di aziende soggette a sequestro giudiziario o comunque oggetto di procedure esecutive individuali. L’art. 14 della
legge n. 49 del 1985, ha previsto a favore di cooperative di lavoratori dipendenti da imprese soggette a procedure
hanno riguardato in particolare le aziende socialmente rilevanti 15, in cui veniva attribuito un
rilievo del tutto particolare ai rapporti di lavoro. In questi casi era stata congegnata nel tempo,
una procedura speciale per imprese individuate in base al parametro occupazionale 16, al preciso
scopo di contribuire alla tutela del lavoro quale interesse costituzionalmente tutelato (art. 4 Cost.)
17. Il tutto nel quadro di un nuovo tipo di intervento pubblico nell’economia rappresentato da
una forma evoluta di socializzazione del dissesto, i cui costi non sono scaricati sulla collettività e
che tende a favorire l’occupazione reale disincentivando il ricorso agli ammortizzatori sociali in
un’ottica evoluta di job creation.
La riforma da questo angolo visuale apre alla vocazione del fallimento alla conservazione
riallocativa dei valori aziendali in funzione non dell’occupazione come la legislazione speciale,
ma del più proficuo e rapido soddisfacimento delle ragioni creditorie. L’impostazione
complessiva recupera nell’impianto generale anche al giudice quelle funzioni di garanzia e
mediazione degli interessi anche sociali che la procedura tutela e che in passato erano state
generalmente sottratte alla giurisdizione nella convinzione che alla stessa fossero esclusivamente
riservate funzioni di realizzazione coattiva dei crediti 18.
Tutte le nuove norme riguardanti sia l’esercizio provvisorio, l’affitto e la vendita
dell’azienda (artt. 104, 104 bis, 104 ter, 105, l. fall.,19) danno per scontata la sopravvivenza della
res azienda all’evento in sè della dichiarazione di insolvenza 20 ed all’uopo precisano (ammesso
concorsuali, ammessi al trattamento della cassa integrazione guadagni e che abbiano in affitto, e più in generale in
gestione, anche parziale, le aziende di appartenenza, un diritto di prelazione in caso di vendita coattiva delle stesse.
Ma soprattutto l’art. 3 della legge n. 223 del 1991, ha sancito espressamente l’ammissibilità dell’affitto e della
vendita unitaria del complesso aziendale nel fallimento di imprese dotate dei requisiti dimensionali per accedere al
trattamento di cassa integrazione straordinaria ed ha legato funzionalmente i due istituti utilizzando come giuntura il
diritto di prelazione a favore dell’affittuario in funzione della successiva alienazione.
14 Sul “senso” della definizione mi permetto ancora di rinviare a F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione
dell’azienda socialmente rilevante, cit., p. 8 s. E’ come se la legislazione speciale avesse concepito, accanto alla
grande impresa assoggettabile all’Amministrazione straordinaria, un tipo di impresa intermedia qualificata dal punto
di vista occupazionale ossia con più di quindici lavoratori dipendenti. Questo requisito numerico rappresenta
tradizionalmente la linea di confine a partire dalla quale l’impresa è considerata socialmente rilevante.
16 Il parametro dei sedici dipendenti occupati, tradizionalmente rappresenta lo spartiacque a partire dal quale
l’impresa è considerata socialmente rilevante. L’espressione più di quindici dipendenti è stata per molti anni la
formula magica che separava i lavoratori tutelati da quelli sforniti di protezione contro i licenziamenti ingiustificati.
17 Nello stesso sistema si innesta l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, che prevede proprio per il trasferimento di
aziende in crisi appartenenti alla stessa tipologia di impresa contemplata dalla legge n. 223, un complesso
procedimento di informazione e consultazione sindacale diretto a favorire la continuazione dell’attività economica a
tutela del lavoro, pur sacrificando alcune garanzie individuali dei singoli lavoratori. D’altra parte l’art. 47 era
originariamente parte dello stesso disegno di legge poi sfociato nella l. 223 del 1991. Infatti il legislatore italiano,
dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee (sentenza del 10 luglio 1986 sulla causa
235\84, in Foro it., IV, c. 12 s.) agli obblighi comunitari per non aver dato attuazione alla direttiva concernente il
riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, pensò di inserire la materia nel progetto di riforma
del mercato del lavoro - poi sfociato nella 223\91 - che conteneva un titolo apposito dedicato alla <<attuazione di
direttive delle Comunità europee>>. Tuttavia la evidente difficoltà di arrivare in tempi brevi all’approvazione della
riforma, spinse il legislatore a stralciare la parte relativa al trasferimento d’azienda e ad inserirla nella legge c. d
comunitaria n. 428 del 1990 (F. FIMMANÒ, Fallimento cit., p. 320).
18 Ed infatti le imprese dove più forti sono gli interessi collettivi connessi alla crisi, sono state storicamente sottratte
al giudice fallimentare e assoggettate all’intervento spesso scoordinato dell’Amministrazione, sia per la convinzione
che i magistrati per mentalità e cultura fossero inidonei ad affrontare tali problemi e sia perché gli stessi soggetti lesi
dal dissesto preferivano scaricare il costo della crisi sulla collettività socializzandola.
19 Introdotte dagli artt. 89 e ss. del d.lgs n. 5 del 9 gennaio 2006, in Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2006,
supplemento ordinario n. 13.
20 L’azienda come complesso di beni e persone organizzati mediante l’attività di coordinamento dell’imprenditore
deve comunque essere considerata come una realtà che si estingue solo a causa della concreta ed effettiva
disgregazione dei fattori della produzione e non certo per effetto dell’evento concorsuale in sé (Cass. 9 giugno 1981,
n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2492, secondo cui “poichè l’azienda è un complesso di beni e di servizi, capitale,
fisso e circolante, e lavoro unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e
che fosse realmente necessaria la precisazione) che il relativo ambito di applicazione peraltro
può non riguardare solo il complesso produttivo unitario come configurato in capo
all’imprenditore fallito, ma anche il ramo od i rami dell’azienda.
Il trasferimento potrà riguardare infatti anche un ramo d’azienda 21, ossia una frazione del
complesso destinata originariamente all’esercizio di un settore della sua attività, che, integrando
autonomamente un idoneo, autonomo e compiuto strumento d’impresa dotato di attitudine alla
destinazione imprenditoriale, va trattato, nella dinamica giuridica della circolazione, anche
coattiva, sostanzialmente come un’azienda 22. E’ evidente che, per quanto rilevato, il ramo
acquisisce rilevanza autonoma solo all’atto del perfezionamento dell’atto dispositivo e fino a
quel momento il suo rilievo è meramente concettuale 23.
2. La legge delega all’art. 6 lettera a), n. 10, già sanciva che il decreto delegato dovesse
prevedere “che entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario il curatore predisponga un
programma di liquidazione da sottoporre previa approvazione del comitato dei creditori,
all’autorizzazione del giudice delegato contenente le modalità e i termini previsti per la
realizzazione dell’attivo, specificando:… 10.1) se è opportuno disporre l’esercizio provvisorio
dell’impresa o di singoli rami di azienda anche tramite l’affitto a terzi…..10.4) le possibilità di
cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in
blocco…” 24.
Questa impostazione presenta una continuità logica ed ideologica rispetto alla disciplina
dell’Amministrazione Straordinaria, riformata nel 1999 proprio con l’idea di agganciarla
successivamente alla riforma delle altre procedure concorsuali 25. In questo senso va letta in
particolare la previsione del citato strumento del programma di liquidazione contenente
coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli
beni destinazioni diverse” (sul tema cfr. pure G. RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa commerciale e il
fallimento (art. 10 L.F.), in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 172 s.). Sulla vocazione all’unità oggettiva già prima del codice
del 1942 si osservava che “nella pratica, la continuità delle aziende, sorpassanti la vita di chi le ha fondate e dirette;
la possibilità che esse passino, nella loro integrità, da un patrimonio ad un altro; lo sforzo stesso con cui il
commerciante si industria di dar loro, anche visibilmente, una considerazione obiettiva, producono l’effetto notevole
che la persona del proprietario vada, nella considerazione della clientela, gradatamente allontanandosi, per cedere il
passo all’affermazione più salda e soprattutto più stabile dell’azienda” (U. NAVARRINI, Trattato elementare di
diritto commerciale, II, Torino, 1935, p. 2).
21 Sull’argomento esaustivamente M.S. SPOLIDORO, Conferimento di ramo d’azienda (considerazioni su fattispecie
e disciplina applicabile), in Giur. comm., 1993, p. 692 s., ed S. DELOGU, Cessione di quota d’azienda, in Contr.
impr., 1994, p. 505 s..
22 Trib. Brescia 14 giugno 1996, in Foro pad., 1997, I, p. 111.
23 In tal senso P. MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica, Napoli, 1985, p. 157. In giurisprudenza tra le altre
Cass. 11 agosto 1990, n. 8219, in Giur. it., I, 1, c. 584 s. con nota di SANZO.
24 La Legge 14 maggio 2005, n. 80, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 maggio 2005, n. 111, di conversione
del DL 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo
economico, sociale e territoriale del Paese (meglio noto come decreto sulla competitività), contempla una delega al
Governo ad adottare nei 180 giorni “uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942 n. 67”.
25 Molte delle soluzioni del nuovo sistema sono infatti mutuate dalla vecchia legislazione in tema di
amministrazione straordinaria, a partire dalla stessa possibilità di vendita unitaria dell’azienda. L’art. 3, del d.lgs. n.
835 del 1986, convertito nella legge n. 19 del 1987, esclude, in caso di cessione di azienda appartenente ad impresa
soggetta ad amministrazione straordinaria, l’applicazione degli artt. 2112 e 2560, comma 2, c.c., per il personale non
contestualmente trasferito. E soluzioni analoghe la legge n. 223 del 1991 adotta anche rispetto a quelle contemplate
dalla legge 22 aprile 1985 n. 143 per le imprese soggette ad amministrazione straordinaria, che in caso di cessazione
dell’esercizio dell’attività prevedeva il trattamento di integrazione salariale straordinaria per dodici mesi, al fine di
consentire il graduale assorbimento di lavoratori da parte delle imprese cessionarie che ex art. 2, legge 212 del 1984,
avevano l’obbligo di assumere i lavoratori nei limiti imposti dall’autorità di vigilanza.
eventualmente l’ipotesi di affitto dell’azienda, o di rami, a terzi propedeutico ad una successiva
alienazione in blocco.
Il precedente disegno di legge delega c.d. Trevisanato 26 enunciava invece come principio
direttivo “l’obiettivo della valorizzazione degli organismi produttivi e dei patrimoni assicurando
il miglior soddisfacimento possibile dei creditori” inserendolo in una concezione del sistema
complessivo completamente nuova e scollegata dal passato. Nello stesso senso andava lo schema
successivo redatto dalla Commissione Trevisanato c.d ristretta, sulla base di un vero e proprio
corpo normativo (ci riferiamo in particolare agli artt. 146 e 147).
Il tema della valorizzazione degli organismi produttivi compatibilmente col
soddisfacimento dei creditori, risponde d’altra parte al dato oggettivo che nelle fasi di crisi
conclamata l’azienda o alcuni suoi rami possono sopravvivere alla diaspora concorsuale. Anzi la
procedura deve essere in grado consentire la salvaguardia del complesso organizzato di beni e
persone, laddove sia meritevole di essere conservato, evitando distruzioni di ricchezza, purché
ciò sia compatibile col migliore soddisfacimento dei creditori. L’interesse dei creditori che
rimane la finalità prioritaria se non addirittura unica 27 evolve anche in virtù dell’attribuzione
agli stessi di un ruolo più attivo in conformità a quanto accade negli altri ordinamenti.
Il nodo è quello di equilibrare i sacrifici imposti dalla tutela di determinati interessi
individuali o di categoria in funzione dei vantaggi che ne possono derivare per il sistema
economico nel suo complesso. Si è rilevato che si tratta di un “criterio di composizione di
interessi confliggenti cui spesso si è fatto ricorso” nel diritto commerciale, ed in particolare
societario e cartolare, ove il sacrificio di un interesse individuale può giustificarsi “in vista di un
beneficio per l’intera categoria di appartenenza del soggetto il cui interesse individuale viene
sacrificato”. I creditori del fallito sono spesso “anch’essi imprenditori: pertanto, il sacrificio che
26 Sul progetto mi permetto di rinviare a: AA.VV., Crisi dell’impresa e insolvenza, Atti del Convegno. Isernia, 18
ottobre 2003, Quaderni di giur. comm., Milano, 2005 e ai contributi di: L. ABETE, F. AULETTA, A. BASSI, E.
BOCCHINI, C. CARDARELLI, M. DESARIO, F. DI GIROLAMO, S. FIORE, F. FIMMANÒ, M. LUBRANO, M. MAROBBIO, C.
MIMOLA, A. PENTA, A. PISANI MASSAMORMILE, R. RUBINO DE RITIS, G. SANTONI. Cfr. pure M.FABIANI, Riforma
<<condivisa>> della legge fallimentare: un’impresa possibile, in Foro it., 2004, V, 125. Tale disegno di legge, in
tema di salvaguardia dei valori aziendali, prevedeva <<che in caso di accesso alla procedura di composizione
concordata il debitore mantenga la gestione dell’impresa (art. 3 lett.f) sotto il controllo dei commissari giudiziali>>.
Nel caso in cui il debitore, poi, non fosse ricorso alla procedura di crisi, era contemplata la possibilità di un piano di
regolazione dell’insolvenza alternativo alla liquidazione endoconcorsuale di un gruppo di creditori o terzi
interessati avente ad oggetto la conservazione anche parziale dell’impresa (art.5, comma 4 lett. a). Era previsto
altresì l’esercizio provvisorio, anche parziale ossia di un ramo aziendale, se compatibile con la conservazione del
valore del patrimonio (art. 13 lett. d, rubrica liquidazione e ripatizione della attività). Veniva poi espressamente
contemplato l’affitto endoconcorsuale, anche per rami con determinazione dei casi di possibile concessione
all’affittuario della prelazione all’acquisto (lettera f) ed il conferimento in una o più società, anche di nuova
costituzione e con procedura semplificata di beni, crediti o complessi aziendali con i rapporti contrattuali in corso,
escludendo la responsabilità dell’alienante in base all’art. 2560, c.c.,. Nulla viceversa si diceva sulla fase successiva
di vendita dell’azienda, eccezion fatta per il generale riferimento alla semplificazione delle modalità di liquidazione
dell’attivo secondo modelli di speditezza, flessibilità e trasparenza (lett. b). Rimanevano aperti, almeno sul piano del
diritto positivo, i problemi legati alle procedure di alienazione dei complessi aziendali, specie di quelli comprensivi
di beni immobili, del loro coordinamento con le procedure di informazione e consultazione sindacale e con
l’eventuale esercizio della prelazione da parte dell’affittuario. Più ampio ed articolato era l’intervento realizzato
dalla seconda commissione Trevisanato, con la previsione di un’ampia ed espressa regolamentazione di affitto e
vendita dell’azienda nella procedura (pubblicato integralmente in supplemento al Fallimento, 2004, n. 8, con
presentazione di M. Fagiani).
27 La Relazione ministeriale al Re, sul r.d. 16 marzo 1942 n. 267, dopo aver affermato che la legge fallimentare
rappresenta l’intenzione del legislatore di non compiere solo una riunione formale di istituti tra loro connessi, ma
dare un’impronta sostanzialmente unitaria alla disciplina della crisi economica dell’impresa in relazione ai superiori
interessi dell’economia generale, al n. 3, evidenzia che <<la nuova legge assume la tutela dei creditori come un
altissimo interesse pubblico e pone in essere tutti i mezzi perchè la realizzazione di questa tutela non venga
intralciata da alcun interesse particolaristico, sia del debitore sia dei singoli creditori>> (sul punto cfr. N.
LONGOBARDI, Crisi dell’impresa e intervento pubblico, Milano, 1985, p. 12 s.; A. MAFFEI ALBERTI, La
conservazione dell’attività di impresa nelle procedure concorsuali vigenti, in Liquidazione o conservazione
dell’impresa nelle procedure concorsuali, Atti del Convegno S.I.S.C.O., 10-11 marzo 1995, Milano, 1996, p. 19).
sopportano nella loro tutela individuale può essere compensato dal beneficio che la disciplina
adottata comporta per l’intero sistema delle imprese di cui sono partecipi” 28. Questa dovrebbe
essere la nuova frontiera del diritto fallimentare, anche in chiave di analisi economica, come
procedura potenzialmente in grado di salvaguardare l’interesse oggettivo dell’impresa in cui
convive l’interesse dei creditori, dei lavoratori, degli stakeholders e più in generale
dell’economia, riducendo altresì i costi sociali del dissesto.
Al fine di evitare la dispersione dei valori aziendali, la legge fallimentare ante riforma
contemplava soltanto l’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, che a sua volta
rivestiva funzioni diverse a secondo della fase del procedimento in cui veniva disposto. Già da
tempo tuttavia la meritoria opera della prassi giurisprudenziale 29, aveva delineato un
armamentario in grado di realizzare meglio lo stesso fine consentendo al tempo stesso di evitare
soluzioni di continuità nell’esercizio dell’attività economica ed oneri ulteriori per il fallimento
ovvero l’affitto dell’azienda endoconcorsuale 30, utilizzato in funzione della successiva vendita,
nell’ambito di un tipico programma unitario. Anzi lentamente l’affitto ha soppiantato l’esercizio
provvisorio che ha mantenuto un ruolo del tutto marginale.
In precedenza, la mancata previsione di tali rimedi in sede normativa aveva suscitato dubbi
sulla loro ammissibilità e sulla disciplina eventualmente applicabile 31 in base alla considerazione
che non configurando un modo di realizzazione dell’attivo e ritardando anzi la liquidazione,
sarebbe stato in contrasto con la funzione della procedura che è quella di soddisfare il più
rapidamente possibile le ragioni creditorie. Poi, come detto, il legislatore seppure in modo
incidentale e speciale, ha cominciato a dare inquadramento normativo alla fattispecie e si è usciti
da quello stato di agnosticismo legislativo che aveva caratterizzato il tema 32.
28 Così V. CALANDRA BUONAURA, Liquidazione dell’attivo fallimentare: profili problematici e prospettive di
riforma, in Riv. dir. fall., 2003, I, p. 161 s., che aggiunge che la valenza di questo criterio può risultare indebolita
dalla presenza rilevante di creditori che non rivestono la qualità di imprenditori, per i quali il beneficio non si
produce quanto meno in via diretta. Salvo che questi creditori non godano già di una specifica tutela in ragione della
debolezza della loro posizione e\o della natura del loro credito (ad es. il privilegio dei crediti di lavoro previsto
dall’art. 2751 bis, c.c.).
29 Cfr. Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, p. 2263 s.; Trib. Monza 19 aprile 1992 (ord.) in Giur.
comm. 1994 , p. 155 ed in Fallimento, 1993, p.190, (che in particolare afferma <<....in primo luogo, che la vendita
o la cessione dell’azienda fallita diventa uno dei mezzi deputati, in modo tipico, a realizzare il patrimonio
responsabile; in secondo luogo che a tale esito liquidativo può essere funzionale e preordinato un antecedente affitto
dell’azienda o di sue parti, in ragione dell’interesse a non disperdere i valori patrimoniali ed a conservare il carattere
produttivo e l’occupazione aziendale...>>); Trib. Napoli 6 maggio 1999, in Giur. nap., 2000, p. 143. Cass. 25 marzo
1961, n. 682, in Giust. civ., 1961, I, p. 969, in Dir. fall., 1961, II, p. 655 e in Foro it., 1961, I, c. 1143; App. Napoli
29 settembre 1959, in Dir. fall., 1959, I, c. 685; Trib. Roma 29 luglio 1959, in Dir. fall., II, p. 692. Ma si veda pure
P. PAJARDI, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959, p. 69 s.; F. DIMUNDO – E. CRISTIANI, Affitto di
azienda e fallimento, in Fallimento, 2003, p. 5 e La prassi dei Tribunali italiani in materia di fallimento, Milano,
1982, II, p. 64 (ove su un campione di 65 tribunali 38 rispondevano, già 15 anni fa, che generalmente erano propensi
ad accogliere la richiesta di affitto di azienda e solo 24 si dichiaravano normalmente contrari).
30 Per riferimenti F. FIMMANÒ, op. ult. cit., p. 71 s. e P.F. CENSONI, La sorte dei rapporti pendenti nel fallimento nel
caso di affitto di azienda, in Giur. Comm., I, 2003, p. 333 s.
31 P. SANDULLI, In tema di affitto d’azienda e di amministrazione del patrimonio del fallito da parte degli organi
del fallimento, in Foro it., 1959, I, c. 685 s.; R. PROVINCIALI, Manuale di diritto fallimentare, II, Milano, 1970 p.
1432; A. BONSIGNORI, Profilo sistematico delle vendite fallimentari, Napoli, 1963, p. 42, 43 n. 3; M. GRANDI, Le
modificazioni del rapporto di lavoro, Milano, 1972, p. 337. Al contrario ammettevano già in passato l’affitto
endoconcorsuale: U. AZZOLINA, Il fallimento, 2 ed, Torino, 1961, p. 835; G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita
dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, p. 13 ss.; A. DE MARTINI, L’usufrutto d’azienda, Milano 1950, p. 416 s.
32 Già il vecchio progetto di riforma della legge fallimentare, elaborato su incarico del Ministero di Grazia e
Giustizia dal Centro Interdisciplinare Studi di Lissone ed il successivo disegno di legge delega, portati a termine da
due diverse Commissioni presiedute da Piero Pajardi nel 1983 e nel 1984, indicavano tra le linee guida la necessità
di agevolare, nella liquidazione fallimentare, la conservazione dell’azienda, nell’interesse dei creditori e dei
dipendenti e più ampiamente dell’interesse pubblico collegato alla salvezza delle unità produttive, tenuto anche
conto (come si legge nella relazione al disegno di legge) della eventuale economicità dell’operazione, sostenuto
dalle necessarie norme di deroga alle disposizioni che sanciscono il subentro dell’acquirente nei contratti di lavoro e
3. La concezione del fallimento quale procedura meramente esecutiva tendente a soddisfare
rapidamente le ragioni creditorie, trova fondamento essenzialmente nella “reazione culturale alla
teoria istituzionale dell’impresa, che con l’ideologia corporativa si era tentato di affermare nella
codificazione del 1942, piuttosto che in una serena valutazione (anche sotto il profilo storico e
sistematico) del dato normativo” 33.
Infatti, la celerità non è perseguita dalla legge in sé ma proprio in funzione della tutela dei
creditori, e non sempre la mera rapidità della liquidazione dell’attivo realizza la migliore tutela
dei loro interessi. Una procedura impostata in funzione della sola rapidità potrebbe portare gli
organi ad alienare a più persone i singoli beni del complesso con un ricavo inferiore a quello
raggiungibile mediante una vendita unitaria, oppure a vendere l’azienda ad un prezzo basso,
perché ad esempio in quel momento la platea dei soggetti interessati all’acquisto, per motivi di
mercato o di informazione, è ridotta.
L’esercizio provvisorio e soprattutto l’affitto non implicano necessariamente ritardi nella
liquidazione in quanto non impediscono la tempestiva vendita globale dell’azienda ed anzi
possono essere preordinati proprio a tale forma di liquidazione dell’attivo 34 , consentendo di
conservare la funzionalità dell’apparato economico-produttivo all’esercizio dell’impresa,
l’avviamento, l’aggregazione dei valori patrimoniali e la tutela della professionalità acquisita dai
lavoratori. Anzi questo è il modello privilegiato scelto dal legislatore della riforma che all’art.
104 bis, comma 1, prevede l’autorizzazione all’affitto “quando appaia utile al fine della più
proficua vendita dell’azienda o di parti di essa” ed all’art. 105, comma 1, preveda la liquidazione
frazionata quando “risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi
rami…non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori”.
Si tratta insomma da un lato di soddisfare le esigenze di conservazione del complesso,
evitandone la disgregazione e la perdita di valore come going concern, e dall’altro di consentire
la preparazione delle condizioni più favorevoli alla sua alienazione riallocativa. Il collegamento
funzionale che può crearsi tra gestione endoconcorsuale e liquidazione in blocco non esclude,
peraltro, che gli organi del fallimento possano preferire la vendita dei singoli beni che
compongono l’azienda affittata, anche se ciò da regola è divenuta in qualche modo ipotesi
residuale.
L’affitto, in particolare, nonostante qualcuno in passato l’abbia considerato una modalità di
liquidazione dell’attivo 35, riguarda comunque la fase di amministrazione dei beni del fallito,
la sua responsabilità solidale per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta (al riguardo cfr. Il progetto di
riforma della legge fallimentare, Milano, 1985).
33 Così efficacemente M. SANDULLI, Esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali e rapporti pendenti, in
Giur. comm. 1995, I, p. 199.
34 Si è rilevato (G.C. RIVOLTA, L’affitto, cit., p. 19) che esistono <<dei casi in cui il titolo di godimento dell’azienda
è tale da non consentire comunque la liquidazione di questa: di guisa che - esercizio provvisorio a parte - unica
risorsa rimane proprio l’affitto. Basti pensare al fallimento dell’usufruttuario d’azienda, quando il titolo costitutivo
vieti la cessione dell’usufrutto (art. 980 cod. civ.). In tal caso si potrà tutt’al più ammettere che l’affitto dell’azienda
incida sulla liquidazione di quei soli beni che, in quanto disponibili senza intaccare integrità e funzionalità
dell’azienda stessa si ritengano - secondo una tesi autorevole, ma molto contrastata - acquisiti in proprietà
dell’usufruttuario. Detta tesi porta però a ritenere, per coerenza, che la proprietà dei beni stessi passi ulteriormente
all’affittuario: di guisa che, a ben vedere, la stipulazione del contratto d’affitto non solo non rinvierebbe la loro
liquidazione, ma s’identificherebbe con essa>>.
35 A. BONSIGNORI, Liquidazione dell’attivo, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, Bologna
Roma, 1976, sub art. 104, p. 33 (che definisce l’affitto d’azienda un modo di liquidazione provvisoria dell’attivo); R.
PROVINCIALI, Trattato cit., p. 1598; e prima ancora F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, II ed.,
Padova, 1931, p. 221 s., che individua nella conversione in danaro dei beni del debitore pignorato lo scopo della
vendita forzata, in cui lo scambio beni-danaro si potrebbe ottenere sia con la locazione sia con la vendita, con la
sola differenza che la prima realizzerebbe il reddito della cosa concedendone il godimento temporaneo, mentre la
risolvendo sostanzialmente i problemi della organizzazione e della custodia. Amministrazione e
liquidazione non sono attività tra loro incompatibili, anzi la seconda presuppone che i beni da
alienare siano mantenuti nella piena efficienza e redditività sino a quando non vengono venduti.
E la prima fase, spesso erroneamente sottovalutata nel fallimento, ha una sua autonoma
valenza, garantendo la conservazione della vitalità degli aggregati produttivi attraverso cui si
possono efficacemente tutelare gli interessi della produzione e con essi quelli creditorii ed
occupazionali.
La liquidazione è invece la fase di conversione dei beni in denaro destinato e l’ipotesi che
questa funzione possa essere svolta dai canoni di locazione è meramente teorica. Vero è che
l’affitto determina il trasferimento della facoltà di disposizione del capitale circolante e che in tal
senso può avere un effetto parzialmente liquidatorio, tuttavia questo profilo non può da solo fare
dello strumento una modalità di liquidazione e trasformare i canoni pagati dall’affittuario da
corrispettivo del godimento dell’azienda in prezzo del trasferimento dei beni aziendali. Peraltro
“se viene rispettato anche nel fallimento il meccanismo di conservazione delle normali dotazioni
di scorte, nonchè quello di regolare in denaro la differenza tra le consistenze di inventario
all’inizio ed al termine dell’affitto (artt. 2562 e 2561 c.c.), nulla viene sottratto alla liquidazione
vera e propria ed alle aspettative dei creditori” 36.
In ogni caso, considerato che la finalità principale del fallimento è la liquidazione del
patrimonio del debitore assoggettato alla procedura, è evidente che il contratto di affitto può
superare i limiti oggettivi rispetto alle caratteristiche strutturali della procedura e le obiezioni
sollevate da parte della precedente dottrina sulla sua generalizzata ammissibilità, se è stipulato
con caratteri e funzioni strumentali rispetto alla vendita. Non a caso il disposto del nuovo art. 104
bis, comma 1, sancisce come visto che anche prima della presentazione del programma di
liquidazione, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato
dei creditori, autorizza l’affitto dell’azienda del fallito a terzi, anche limitatamente a specifici
rami, quando “appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della
stessa”. L’art. 104 ter, l. fall., contempla a sua volta che “il programma di liquidazione deve
indicare le modalità e i termini previsti per la realizzazione dell’attivo, specificando: a)
l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda, ai
sensi dell’articolo 104, ovvero di autorizzare l’affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi
dell’art. 104 bis…”
D’altra parte queste erano già la linee guida seguite dal legislatore della legge n. 223 del
1991 nell’ideare e disciplinare l’affitto di aziende socialmente rilevanti, in funzione
strutturalmente e funzionalmente anticipatoria e propedeutica rispetto alla vendita.
Sono state individuate ed assegnate, insomma, assume le funzioni prodromiche della
gestione endoconcorsuale rispetto alle procedure di alienazione 37, quanto meno come
cristalizzazione di scelte operate dagli organi fallimentari riguardo al trasferimento in blocco del
complesso, consentendo nell’ambito della procedura la realizzazione di una vicenda circolatoria
di tipo meramente soggettivo, in cui può funzionare da giuntura la prelazione convenzionale
concessa all’affittuario, che è speculare, sul piano strutturale, a quella legale contemplata dal
comma 4 dell’art. 3, della legge 223 del 1991 e prima ancora dall’art. 14 della legge n. 49 del
1985.
seconda realizzerebbe in danaro il valore della cosa attribuendone il godimento definitivo. Nello stesso senso Cass.
10 agosto 1992, n. 9429, in Dir. fall., 1993, II, p. 38.
36 A. BASSI, Riflessioni sull’affitto di azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in Riv. dir. civ., 1982, I, p. 335.
37 In tal senso Trib. Monza, 14 febbraio 1992, in Giur. it., I, 2, 320-321, 1994, I, c. 320 con nota di L. CONFESSORE,
Affitto d’azienda, atti di amministrazione e autorizzazione del giudice delegato (anche alla stregua dell’art. 3 legge
n. 223/91).
4. In passato secondo una certa impostazione l’affitto endofallimentare avrebbe dovuto
essere considerato una forma particolare di esercizio provvisorio dell’impresa 38, essendo
entrambi mezzi di realizzo 39, conservativi del patrimonio, preparatori della liquidazione 40 e di
carattere temporaneo 41, con la sola differenza che mentre la gestione provvisoria spetta
direttamente al curatore, in caso di affitto la gestione spetta ad un terzo 42.
Al contrario, i due istituti pur avendo finalità talvolta analoghe ossia la conservazione
della funzionalità dell’azienda all’esercizio dell’impresa e la tutela dell’avviamento in funzione
della più proficua liquidazione possibile (ed è questa la ragione dell’accorpamento nel medesimo
Capo), differiscono in modo netto e sostanziale 43anche nel nuovo impianto normativo che pur li
vede collocati nel medesimo Capo VI, rubricato “Dell’esercizio provvisorio e della liquidazione
38 In tal senso Cass. 7 aprile 1930, n. 1158, in Dir. fall., 1931, p. 289.
39 R. PROVINCIALI, La continuazione dell’impresa del fallito, in Dir. fall., 1972, I, p. 405 s.; R. BETTINI,
Sull’esercizio provvisorio inteso come strumento di economicità dell’azienda dichiarata fallita, in Riv. dott. comm.,
1967, p. 457. Già nel vigore del vecchio codice di commercio si era sostenuto sia che la continuazione del
commercio fosse un atto di amministrazione diretto a continuare l’efficienza dell’attività del fallito (A. BRUNETTI,
Diritto fallimentare, Roma, 1932, p.541), sia che costituisse un mezzo per una liquidazione più proficua che non
arresta la stessa ma la trasforma (U. NAVARRINI, Trattato di diritto fallimentare, Bologna, 1934, II, p. 62).
40 Per G. RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, p. 416, <<deve escludersi che in sè
l’affitto dell’azienda del fallito appartenga agli strumenti di liquidazione aziendale; mediante l’affitto, infatti, si
vuole recuperare il massimo di utili possibili dall’azienda del fallito. Inoltre, l’affittuario tende a ripristinare la
gestione sotto il profilo del profitto, sicchè alla fine di fronte ad un’azienda vitale può anche discutersi di
risanamento dell’impresa col risultato che alla liquidazione potrebbe sostituirsi la ripresa stessa dell’attività
imprenditoriale, per effetto di un concordato. In tal senso, quindi, non sembra che sussista una ratio differente tra
affitto d’azienda ed esercizio provvisorio dell’impresa escludendosi in entrambi i casi un’attività meramente
liquidativa. E ciò anche alla luce dell’art. 3, legge 23 luglio 1991, n. 223, che concede all’affittuario il diritto di
prelazione sull’azienda concessagli in affitto, in caso di liquidazione>>.
41 Ci si è chiesti, peraltro, se l’ufficio fallimentare possa instaurare rapporti contrattuali di gestione, affini all’affitto
dell’azienda, in situazioni particolari in cui risulterebbe difficile chiedere un canone di locazione oppure in cui è
opportuno che al canone venga sostituita una partecipazione agli utili. Si tratta evidentemente di casi molto peculiari
che sporadicamente potranno porsi all’attenzione dell’interprete ma che tuttavia meritano di essere considerati. La
prima ipotesi è quella del comodato endofallimentare (sull’argomento: G.E. COLOMBO, L’azienda e il mercato, in
Tratt. Dir. dir. comm. Dir. pubb. Econ., vol. III, Padova, 1979 p. 295; P. BERNARDINI, Comodato d’azienda,
usufrutto d’azienda ed intrasmissibilità dell’autorizzazione di polizia, in Foro pad., 1955, I, c. 1051; M. FRAGALI,
Comodato, in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, II ed., Bologna-Roma, 1966, p. 264 s.; N.
VISALLI, Locazione d’immobile ed affitto d’azienda, Napoli, 1969, p. 94 n. 2; D. PETTITI, Il trasferimento
volontario, cit., p. 149; G. FERRARI, voce Azienda, in Enc. Dir., Milano, 1959, vol. IV, p. 740; ed in giurisprudenza
App. Milano 9 giugno 1952, in Temi, 1964, p. 384; Cass. 14 luglio 1956, n. 2673, in Giust. civ., 1956, I, p. 2045.
Con specifico riferimento al fallimento G.C. RIVOLTA, L’affitto, cit., p. 47; App. Napoli 29 settembre 1959, cit, p.
986, che ritiene compatibili col fallimento negozi giuridici di temporanea cessione del godimento - affitto,
comodato, - ovvero di trasferimento a terzi della pura detenzione della cosa - deposito, contratto di gestione...). Il
comodato d’azienda, nella pratica è stato spesso utilizzato come rapporto temporaneo e provvisorio in attesa della
precisa formulazione delle clausole di un contratto di affitto, al fine di consentire al futuro affittuario di iniziare
immediatamente la gestione: ciò soprattutto nell’ipotesi in cui il locatore non possa o non voglia gestire direttamente
l’attività nemmeno per un tempo limitato, come può accadere nel caso di fallimento.. Altra ipotesi è invece quella
della cointeressenza impropria (art. 2554, comma 1, parte I, c.c.) contratto con il quale il curatore potrebbe associarsi
agli utili della gestione di una certa attività economica senza partecipazione alle perdite ed in cui l’apporto del
fallimento potrebbe essere costituito dalla concessione in godimento dell’azienda del debitore fallito. In verità, ci
pare che questa ulteriore forma di gestione indiretta, anche se probabilmente legittima, difficilmente possa
soddisfare esigenze talmente peculiari da non poter essere soddisfatte mediante il contratto di affitto.
42 Se ne deduceva che l’affitto presupporebbe l’esercizio provvisorio e sarebbe assoggettato alla disciplina, ricca di
cautele, sancita dall’art. 90 della legge fallimentare.P. PAJARDI, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959,
p. 334; Id., Casi clinici, II, p. 281 s.; Id., Casi clinici, III, p. 358; Trib. Ariano Irpino 20 aprile 1958, cit., p. 691.
43 La continuazione temporanea rimane fase “interna” del procedimento fallimentare sebbene con un contenuto
amministrativo e contabile autonomi (VITALE, Fallimento, VIII, «Custodia e amministrazione delle attività
fallimentari», in Enc. Giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1990, § 6).
dell’attivo”, laddove il vecchio art. 90, l. fall., era inserito nel Capo IV, rubricato “Della custodia
e dell’amministrazione delle attività fallimentari”.
Innanzitutto l’esercizio provvisorio, anche a seguito della riforma, può essere disposto in
momenti diversi della procedura e per assolvere a funzioni differenti: con la dichiarazione di
fallimento oppure successivamente (e non più dopo che sia stato reso esecutivo, con decreto, lo
stato passivo), in una complessiva strategia destinata comunque ad essere assorbita dal
programma di liquidazione . I primi due commi del nuovo art. 104, l. fall., sanciscono che “con
la sentenza dichiarativa del fallimento, il tribunale può disporre l’esercizio provvisorio
dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, se dalla interruzione può
derivare un danno grave (e non più anche irreparabile), purché non arrechi pregiudizio ai
creditori. Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere
favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, la continuazione
temporanea dell’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda,
fissandone la durata”.
L’impianto nonostante gli interventi normativi rimane analogo al precedente, con una
redistribuzione tra gli organi della procedura dei poteri di iniziativa all’avvio, alla continuazione,
al controllo ed alla revoca del rimedio. Rimangono due le fasi in cui la misura può essere
disposta (anche se cronologicamente scadenzate in modo innovativo) ma finalizzate ad obiettivi
differenti, che in passato avevano portato una parte della dottrina a sostenere che si trattasse
addirittura di due istituti distinti: in cui quello previsto dal primo comma del vecchio art. 90, l.
fall., poteva essere funzionale ad interessi diversi da quello dei creditori, vista l’assenza di
connessioni letterali tra pregiudizio da scongiurare ed interesse del ceto creditorio.
Nella prima fase l’istituto può essere diretto, anche nella nuova disposizione, ad evitare un
danno grave (e non più irreparabile) non necessariamente ai creditori ma all’impresa e per
l’effetto a tutti i soggetti che possono conseguentemente riceverne pregiudizio44, e quindi è
giustificato dalla soddisfazione dell’interesse socio-economico, anche nei casi in cui si
concretizza nella gestione in perdita di un’impresa parassitaria 45.
Tuttavia l’art. 104, l. fall., aggiunge, proprio per evitare la dilatazione generata in passato
dall’interpretazione riferita, che la sentenza di fallimento può disporre l’esercizio “purché non
arrechi pregiudizio ai creditori”. Valutazione molto difficile da fare per il Tribunale in sede di
dichiarazione di insolvenza, a meno che non abbia effettuato una istruttoria prefallimentare
“invasiva”, che gli consenta di conoscere concretamente la vicenda di crisi trattata 46.
44 L’impresa costituisce da questo angolo visuale il punto di riferimento e di saldatura in cui confluiscono gli
interessi di tutti coloro che si muovono nel suo ambito: l’imprenditore, i lavoratori, i terzi in generale ed i creditori in
particolare. Si tratta di interessi diversi, spesso contrastanti, che tuttavia si compongono al fine di perseguire
l’interesse oggettivo dell’impresa: il suo fisiologico inserimento nel mercato, interesse idoneo a sua volta ad
appagare gli obiettivi individuali.
45 Nella prassi si è spesso dilatata l’utilizzazione dell’istituto oltre i limiti previsti dal legislatore; così si è avviata la
procedura di esercizio provvisorio per completare un ciclo produttivo industriale iniziato, con le materie prime già
acquistate; per vendere merce deperibile; per assicurare la continuazione di un pubblico servizio in concessione; per
completare la costruzione di un immobile, allo scopo di venderlo in condizioni più appetibili dal mercato; per
mantenere in vita un’azienda al fine di non disperderne l’avviamento, etc. (al riguardo G. PELLEGRINO, Acquisizione,
custodia ed amministrazione delle attività fallimentari: esercizio provvisorio dell’impresa, in Le procedure
concorsuali, Trattato diretto da Ragusa Maggiore e Costa, II, Torino, 1997, p. 401 s.; G. LO CASCIO, Il fallimento e
le altre procedure concorsuali, Milano, 1991, p. 235).
46 Sul tema dei rapporti tra salvaguardia dei valori e tempestività dell’azione sulla base di una istruttoria fatta anche
di CTU ed ispezioni, di tipo quasi commissariale, mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, Le prospettive di riforma
del diritto delle imprese in crisi tra informazione, mercato ed esigenze di conservazione dei valori aziendali, in
Fallimento, n. 4, 2004, p. 459 s. Si tenga conto che peraltro il nuovo art. 15, in tema di istruttoria prefallimentare
sancisce ai commi 7,8,9, che “Il Tribunale può delegare al giudice relatore l’audizione delle parti. In tal caso il
giudice delegato provvede, senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione ed all’espletamento dei
mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. Le parti possono nominare consulenti tecnici. Il tribunale,
ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa
Nella seconda fase, invece, l’esercizio deve essere assistito dal criterio dell’economicità,
tanto è vero che la norma prevede, come nella versione precedente, che il giudice delegato (e non
più il Tribunale) può autorizzare la continuazione solo se c’è il parere favorevole del comitato
dei creditori. Orbene, già prima l’attribuzione di un’efficacia vincolante al parere dei creditori
evidenziava una chiara volontà legislativa di condizionare l’esercizio provvisorio alla
valutazione di coloro che sono interessati solo ad una economica liquidazione e non sono
influenzabili da istanze, per così dire, extraimprenditoriali.
In tutti e due i casi la continuazione può avere finalità conservative dell’azienda, ma
giammai essere utilizzato in funzione del risanamento dell’impresa appartenente al debitore
fallito, obiettivo assolutamente estraneo alla procedura fallimentare in quanto tale 47.
Nel fallimento l’azienda (e non l’impresa) come complesso di beni e persone organizzati
mediante l’attività di coordinamento dell’imprenditore può sopravvivere nel senso che si
estingue solo a causa della concreta ed effettiva disgregazione dei fattori della produzione e non
certo per effetto dell’evento concorsuale in sé 48.
L’impresa, intesa come attività economica dell’imprenditore fallito, può essere continuata
dal curatore non per risanarla ma per mantenere in vita quella organizzazione di beni e persone
che ne costituisce lo strumento. D’altra parte già nella Relazione del Guardasigilli al codice del
‘42, sull’impresa in generale (n. 34), è chiara la distinzione tra impresa in senso funzionale, come
attività professionale organizzata dell’imprenditore, ed impresa in senso strumentale come
organizzazione del lavoro e degli altri strumenti produttivi cui dà luogo l’attività professionale
dell’imprenditore. Quest’ultima “in fondo è sì ancora una espressione dinamica, cui mette
origine l’attività, ma allorché si distacca dal suo autore acquista il carattere più statico
dell’azienda 49.
Il sistema disegnato dalla novella è completato, nel quadro redistributivo delle funzioni, dal
pregnante potere di controllo che il comitato dei creditori ha anche sulla esecuzione dell’istituto.
L’art. 104, l.fall., stabilisce, che il comitato dei creditori è convocato dal curatore, almeno
ogni tre mesi, per essere informato sull’andamento della gestione e per pronunciarsi
sull’opportunità di continuare l’esercizio e che se non ravvisa l’opportunità di continuare, il
giudice delegato ne ordina la cessazione.
Ogni semestre, o comunque alla conclusione del periodo di esercizio provvisorio, il
curatore deve presentare un rendiconto dell’attività mediante deposito in cancelleria. In ogni caso
il curatore informa senza indugio il giudice delegato e il comitato dei creditori di circostanze
sopravvenute che possono influire sulla prosecuzione dell’esercizio provvisorio. Il tribunale
infine può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento laddove ne
ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo sentiti il
curatore e, come sempre il comitato dei creditori 50.
E’ evidente, dunque, che l’esercizio provvisorio ad opera della curatela, nonostante
l’apparente ampliamento normativo che ne contempla sostanzialmente le potenzialità di istituto
funzionale alla valorizzazione dell’attivo o almeno al contenimento del depauperamento dei
oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o
revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza”.
47 In tal senso Cass., 9 gennaio 1987, n. 71, in Giur. comm., 1987,II, p. 562, contra: Trib. Messina 8 lglio 1981, in
Dir. fall., 1982, II, p. 1257. Sul tema cfr. A. CAVALAGLIO, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento
(Profili funzionali), in Giur. comm., 1986, I, p. 235 s.
48 Cfr. Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2492, secondo la quale <<Poichè l’azienda è un
complesso di beni e di servizi, capitale, fisso e circolante, e lavoro unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in
funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi
siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse>>. Al riguardo cfr. pure G. RAGUSA MAGGIORE,
La cessazione dell’impresa commerciale e il fallimento (art. 10 L.F.), in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 172 s.
49 G. RAGUSA MAGGIORE, Imprenditore Impresa Fallimento, Padova, 1979, p. 253.
50 Si tratta dei commi 2,3,4 e 5 dell’art. 104, l. fall.,.
valori aziendali51, rimane nel suo complesso un fenomeno eccezionale, e meglio ancora
residuale (rispetto all’affitto), estraneo per natura alla fisiologia dei compiti dell’ufficio
fallimentare, che può essere autorizzato solo in casi particolari 52 e nei limiti 53 e con le garanzie
previste dalla legge 54.
In caso di continuazione temporanea non c’è evidentemente circolazione dell’azienda, il
curatore si sostituisce coattivamente al fallito in funzione del soddisfacimento dei creditori
concorsuali 55; tant’è che si è addirittura sostenuto in passato che la titolarità dell’impresa
rimarrebbe nella persona del fallito 56 e da ciò la giurisprudenza, ha tratto la possibilità che
quest’ultimo, in veste di coadiutore, possa compiere il reato di bancarotta qualora si appropri di
somme che derivano dall’esercizio 57.
In caso di affitto, invece, l’esercizio dell’attività economica va imputata direttamente al
terzo affittuario, il fallimento rimane del tutto estraneo alla gestione. La continuazione
temporanea dell’impresa del fallito continua a rientrare in una sorta di gestione pubblica
processuale 58 in cui viene sostanzialmente dissociato l’esercizio dell’attività economica dalla
51 Si è osservato che nella vecchia legge fallimentare l’esercizio provvisorio non era interpretabile come “possibilità
di accrescere la massa attiva, in ragione di un avviamento e di una predisposizione funzionalizzata dei beni aziendali
che il lungo decorso procedimentale avrebbe deprivato, o perlomeno sminuito, di qualsiasi profittabilità economica”
(F. LO CICERO, L’affitto endofallimentare dell’azienda e l’esercizio provvisorio dell’impresa, in www.dircomm.it,
2005, n. 10, p. 1). Il legislatore della novella ha concepito tale fattispecie collegandola espressamente alla fase
liquidatoria dell’attivo, ritenendo che “la fattispecie possano rappresentare un elemento non trascurabile della
produzione dell’attivo e dunque, connotare in senso diverso rispetto al passato almeno una fase della procedura, non
più esclusivamente dettata alla liquidazione dello status quo ante ma eventualmente produttiva di un terminus ad
quem, protratto nel tempo procedimentale”.
52 G. BOZZA, op. cit., p. 11; sul punto cfr. anche R. CAVALLO BORGIA, Continuazione dell’esercizio dell’impresa
nell’amministrazione straordinaria e nelle procedure concorsuali: profili funzionali, in Giur. comm., 1982, I, p.
762; I. ANDOLINA, Liquidazione dell’attivo ed esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, in Dir. fall., 1978, I,
p. 181; F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit.. p. 89 s.; G.C. RIVOLTA,
L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, p. 421.
53 L’art. 104 conferma in particolare il carattere assolutamente provvisorio dell’esercizio dell’impresa del fallito,
così come disposto già dal vecchio art. 90 l. fall. Infatti, il quarto comma dell’art. 104 precisa che “se il comitato dei
creditori non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il giudice delegato ne ordina la cessazione”.
Inoltre, il comma settimo dispone che “il tribunale può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi
momento laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo, sentiti il
curatore ed il comitato dei creditori”.
54 V’è chi sulla base della legge delega (n. 80 2005) è di avviso diverso pronosticando che l’istituto dovrebbe
assumere i caratteri di ordinaria misura, funzionale ad attuare le finalità conservative in prospettiva della vendita,
nell’ambito di un rinnovato concetto di concorso dei creditori (B. MEOLI, La continuazione temporanea
dell’esercizio dell’impresa, in Fallimento, 2005, p. 1043).
55 Cass. 27 ottobre 1966, n. 2637, in Giust. civ., 1967, I, p. 524; Cass. 21 febbraio 1979 n. 1109, in Dir. fall., 1979,
II, p. 163; Cass. 4 ottobre 1982, n. 5076, in Dir. fall., 1983, II, p. 117; Cass. 9 gennaio 1987, n. 74, ivi, 1987, II, p.
351.
56 G. Rivolta, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, p. 218.
57 In tal senso, Cass. pen. 1° dicembre 1970, in Giust. pen., 1971, II, p. 792. Si è spesso, anche in sede
di riforma della legge fallimentare, sostenuta da qualche parte la opportunità di prevedere l’affiancabilità
al curatore dell’imprenditore-debitore nella gestione dell’impresa. L’impostazione è stata criticata più in
generale per l’improbabile proficuità di una collaborazione da parte del fallito, nelle vesti di ausiliario, la
cui conduzione degli affari ha comunque provocato esiti negativi.
58 Secondo una certa impostazione, in verità opinabile, un aspetto deteriore della procedura fallimentare nella sua
evoluzione storica sarebbe stato proprio la sua lenta “ma graduale processualizzazione, prodromo logicamente
inevitabile dell’assurdo odierno, che è costituito dall’affidare l’amministrazione e la liquidazione di una impresa a
giudici e ad avvocati, anzichè a managers” (A. BONSIGNORI, Introduzione cit., p. 14). La riforma in questa linea
contempla la possibilità di nominare quali curatori anche “coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione,
direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia
intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento” (art. 28, comma 1, lett. c l. fall.).
responsabilità e dal rischio, normalmente concentrati nello stesso soggetto 59. Tuttavia se il
legislatore del 1942 aveva essenzialmente concepito l’esercizio provvisorio dell’impresa come
strumento amministrativo della procedura, il legislatore della novella ha collegato la fattispecie
espressamente alla fase liquidatoria dell’attivo, ritenendola, unitamente all’affitto dell’azienda,
uno strumento importante nella massimizzazione dell’attivo.
Nella prima ipotesi, perciò, il fallimento assume tutti i rischi dell’esercizio dell’impresa ed
è responsabile per tutte le obbligazioni contratte a tal fine dal curatore, con l’aggiunta che i
crediti essendo sorti in costanza di procedura sono in prededuzione 60, come in modo quasi
pleonastico l’ultimo comma del nuovo art. 104, l.fall., precisa. In pratica, il c.d. rischio di
impresa incombe sulla procedura e quindi in via indiretta sui creditori concorsuali 61. L’esercizio
provvisorio potrà essere proficuamente utilizzato solo se il fallimento possiede la necessaria
liquidità per far fronte agli impegni che il curatore assume, evitando che i creditori pregressi si
trovino irrimediabilmente danneggiati da una certa massa di debiti prededucibili.
Nel secondo caso, invece, è l’affittuario-imprenditore ad assumersi rischi ed obblighi
derivanti dalla gestione dell’azienda 62 ed il fallimento rimane del tutto indenne da qualsivoglia
responsabilità correndo rischi assai più limitati 63.
E’ chiaro perciò che si tratta di istituti diversi, assoggettati a discipline espressamente
diverse, ma non sempre alternativi: la stessa azienda dopo essere stata oggetto di esercizio
provvisorio disposto con la sentenza dichiarativa di fallimento può infatti diventare oggetto di
affitto endoconcorsuale, anzi il primo strumento può essere funzionale ad una migliore
utilizzazione del secondo 64. Può, peraltro, verificarsi che un ramo del complesso aziendale
venga affittato e con la parte residuale la curatela continui una gestione provvisoria 65.
Di converso, esistono dei casi in cui l’esercizio provvisorio è inattuabile ed è necessario
utilizzare l’affitto, oppure casi in cui è l’affitto ad essere improponibile. Si pensi all’ipotesi
59
Invero una certa dottrina ha collegando strutturalmente l’ipotesi della continuazione dell’esercizio alla
salvaguardia dell’integrità del patrimonio aziendale e la sua cessazione alla liquidazione e, dunque, definitiva
ripartizione della massa attiva (A. VITALE, Fallimento, VIII, Custodia e amministrazione delle attività fallimentari
in Enc. giur., Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. XIII, Roma, 1990, par. 6). Si è sostenuto tuttavia che l’istituto
sarebbe disancorato dalla «liquidazione vera e propria» (in tal senso, I. ANDOLINA, Liquidazione dell’attivo cit., p.
181 ss.).
60 Debiti di massa a norma dell’art. 111, l. fall.,. Al pagamento delle spese e dei debiti contratti per la gestione
dell’impresa si provvede in prededuzione con le somme ricavate dalla liquidazione, in deroga alla par condicio
creditorum. Ovviamente, relativamente ai beni impiegati nell’esercizio dell’attività economica, la liquidazione resta
sospesa, tanto è vero che l’art. 86 n. 1, l. fall., comprende tra i beni non soggetti all’apposizione dei sigilli anche le
cose impiegate nella gestione.
61 Non può essere condivisa, infatti, la tesi di chi (L. MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano,
1942, p. 393 s.) ha sostenuto che in caso di affitto la qualifica di imprenditore commerciale spetta anche al locatore
oltre che all’affittuario. Contra: T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Milano, 1962, p. 355; M. CASANOVA,
Le imprese commerciali, Torino, 1955, p. 151; G. AULETTA, Dell’Azienda, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, p.
78; A. PAVONE LA ROSA, Affitto d’azienda e responsabilità per le obbligazioni contratte dall’affittuario
nell’esercizio dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1954, II, p. 351 s.; A. DE MARTINI, L’usufrutto cit., p. 301 s.).
62 Già Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, p. 2263, ha ritenuto non affetto da nullità il contratto
intervenuto tra fallito e terzo, in virtù del quale il terzo ha chiesto ed ottenuto dalla curatela l’affitto dell’azienda del
fallito, che a propria volta si è obbligato a rivalere l’altro, una volta tornato in bonis di tutte le obbligazioni assunte a
causa della gestione (nella specie era stato accertato che l’attività imprenditoriale era stata realmente esercitata dal
terzo affittuario).
63 L’eventuale perdita od affievolimento dell’avviamento, il mancato pagamento dei canoni di affitto, la potenziale
dispersione del capitale circolante e la generica possibilità che la liquidazione sia ostacolata.
64 In particolare G. GUGLIELMETTI, Il fallimento come pretesa causa di estinzione del diritto al marchio, in Riv. dir.
ind., 1962, II, p. 278, ritiene ammissibile l’affitto di azienda durante l’esercizio provvisorio.
65 In un’ipotesi del genere il divieto di concorrenza, di cui all’art. 2557 c.c., non si applicherebbe all’ufficio
fallimentare, che da una parte affitta un ramo dell’azienda e dall’altra continua l’esercizio di parte dell’attività
economica del fallito, in quanto la legge vieta di iniziare una nuova impresa, ma non di continuarne una già
esistente.
dell’azienda sopravvenuta al fallito in costanza di procedura o dell’azienda ancora integra
appartenente ad un imprenditore cessato, in tal caso è preclusa la possibilità di ricorrere
all’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito in quanto l’impresa non è più del fallito o non lo
è mai stata. Al contrario si pensi all’ipotesi in cui il fallito non era proprietario dell’azienda, ma
solo affittuario in virtù di un contratto con divieto di subaffitto (art. 1624 c.c.), ebbene in questo
caso sarà possibile ricorrere soltanto all’esercizio provvisorio.
E’ ovvio che in sede di programma di liquidazione, come sancisce espressamente il
nuovo art. 104 ter, comma 1 alla lettera a), l. fall., il curatore dovrà pronunciarsi sulla opportunità
di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell’art.
104, l. fall., ovvero l’opportunità di autorizzare l’affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi
dell’articolo 104 bis, l. fall.,. Si tenga conto che per le aziende, che abbiamo qualificato
socialmente rilevanti, scegliendo l’esercizio provvisorio ci si mette automaticamente fuori dal
procedimento di liquidazione dettato dal combinato disposto dell’art. 3 della legge 223 del 1991
e dell’art. 47 della legge 428 del 1990. Entrambe le disposizioni riguardano infatti ipotesi in cui
la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata.
5. La peculiarità dell’amministrazione dei beni oggetto dell’esecuzione fallimentare sta nel
fatto che il curatore è dotato di poteri negoziali che debbono esplicarsi secondo criteri di utilità
economica ed in modo da non contrastare con le esigenze di speditezza ed efficienza. Tali poteri
dispositivi non sono circoscritti alla mera attività liquidatoria e si concretizzano nella possibilità
di stipulare contratti per conto e nell’interesse della massa, purchè siano indirizzati alla
produzione di effetti accrescitivi o comunque non riduttivi della garanzia patrimoniale; effetti dei
quali non solo la massa, ma anche lo stesso fallito si gioverà in termini di più favorevole
definizione della procedura.
Il curatore fallimentare svolge quindi anche un’attività diretta alla conservazione dei beni
che costituiscono la garanzia del soddisfacimento dei creditori e nei limiti del possibile (e
dell’economico) al mantenimento in vita delle strutture organizzative economicamente rilevanti
al fine di riallocarle nel mercato attraverso l’eventuale trasferimento ad altri imprenditori.
Il limite del possibile è dato dall’esistenza stessa della struttura organizzativa al momento
della dichiarazione di fallimento, poichè, considerata la funzione conservativa della procedura, il
curatore non potrebbe ricostruire ciò che è stato distrutto, avventurandosi in operazioni di
riconversione o ristrutturazione aziendale, ma può recuperare l’economicità di ciò che esiste. Per
questa stessa ragione è inammissibile, anche a seguito della novella che l’esercizio provvisorio
possa avere funzioni di risanamento. Il limite dell’economico consiste invece nel divieto di deeconomicizzare la produzione cercando di mantenere in vita una struttura che abbia perso ogni
capacità di economica produzione.
In passato, quando mancava una disciplina espressa dell’affitto, si discuteva della natura
dell’atto rispetto alla qualificazione di ordinaria o straordinaria amministrazione, tradizionale
bipartizione con la quale si attribuisce rilevanza giuridica ad un fenomeno valutabile solo sul
piano economico 66. Il dibattito era evidentemente finalizzato a stabilire la competenza degli
organi nel procedimento di autorizzazione e di stipula del contratto di affitto ed a sostenere la
sottrazione alla disciplina rigorosa di cui al vecchio art. 90, l. fall.,.
66 Correttamente osservava G.C. RIVOLTA (L’affitto e la vendita cit., p. 37) che “a dimostrare la natura ordinaria
dell’affitto infranovennale d’azienda, stipulato in sede fallimentare, giova ancor meno il richiamo dell’art. 320, cod.
civ.. La circostanza che questa norma si limiti a subordinare ad autorizzazione del giudice tutelare le locazioni oltre
il novennio, non è probante, per le stesse ragioni con riguardo all’art. 1572. Senza poi contare che le diversissime
finalità specifiche dell’amministrazione fallimentare e di quella del patrimonio d’incapaci inducono ad escludere la
possibilità d’inferire la natura ordinaria o straordinaria agli atti inerenti alla prima, direttamente dalla qualifica che la
legge assegna loro nell’ambito della seconda. E’ sintomatico, invece, che l’art. 560, comma 2, cod. proc. civ.,- nel
vietare, al custode dell’immobile sottoposto ad espropriazione, di locarlo senza autorizzazione del giudice prescinda da qualsiasi distinzione alla durata del contratto”.
La riforma prevedendo espressamente che il giudice delegato autorizza su proposta del
curatore risolve ogni problema di configurazione, rendendo tuttavia meno agevole l’opzione
dell’affitto prevedendo (a differenza di quanto si verificava nella prassi) il previo e vincolante
parere del comitato dei creditori 67, come per l’esercizio provvisorio (art. 104, comma 1, l. fall.).
L’istituto, tuttavia al di là dell’autorizzazione esige, al fine di evitare che una gestione
fraudolenta, o comunque sciagurata, possa far perdere all’azienda ogni valore di avviamento e
deteriorarla nella sua struttura e nella sua funzionalità, che il contratto venga stipulato adottando
una serie di altre misure di sicurezza, sia nella scelta dell’affittuario sia nella previsione di
clausole, condizioni e regole contrattuali finalizzate ad una corretta e proficua utilizzazione
dell’istituto 68.
La necessità di disporre un procedimento di scelta che assicuri trasparenza e pluralità di
concorrenti, identiche alla vendita, e di prevedere clausole contrattuali idonee a garantire che
l’affitto endofallimentare sia giuridicamente ed economicamente compatibile con le finalità
liquidatorie della procedura, discende dal carattere comunque negoziale dell’istituto, che a
differenza della vendita fallimentare è pur sempre un contratto, diretto alla conservazione delle
attività della procedura cui non si applicano le regole coattive dell’esecuzione.
La giurisprudenza ha infatti avuto modo di affermare, con riferimento ad ipotesi in cui
veniva contestata la validità della disciplina pattizia, che “l’affitto di azienda anche nell’ipotesi in
cui venga utilizzato un sistema idoneo ad assicurare al fallimento la più ampia possibilità di
scelta del contraente, mediante adesione del partecipante alla gara alla proposta del curatore, non
può essere inquadrato nell’ambito delle regole dettate per il procedimento espropriativo ed, in
particolare, dell’inadempienza ai sensi dell’art. 587, codice di procedura civile, ma resta
disciplinato dalle disposizioni dettate in materia contrattuale. Pertanto mentre da un lato, la
successiva stipulazione del contratto non incide sul nucleo essenziale dell’accordo raggiunto con
l’adesione del miglior offerente e la pattuizione di ulteriori clausole inizialmente non previste,
attiene ad aspetti secondari e di garanzia per il fallimento locatore, dall’altro, in caso di
inadempimento dell’offerente, l’incameramento della cauzione prestata dall’offerente resta
assimilabile agli effetti della caparra confirmatoria e l’indagine del giudice resta ancorata
all’accertamento della gravità di tale inadempimento ed alla fondatezza dei rilievi sollevati sulla
validità ed efficacia della pattuizione” 69.
Il secondo comma dell’art. 104 bis, l. fall., sancisce che la scelta dell’affittuario è
effettuata dal curatore a norma dell’art. 107, l. fall., dettate per la vendita, sulla base di stima,
assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli
interessati. La scelta deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle
garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali,
avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali.
67 Nella pratica, già prima, spesso il giudice autorizzava il curatore a stipulare il contratto di affitto dell’azienda del
fallito dopo aver sentito anche il parere del comitato dei creditori, in applicazione della disposizione normativa
dell’art. 25, n. 3, legge fall., secondo cui il giudice delegato può convocare il comitato dei creditori nei casi previsti
dalla legge e quando lo ritiene opportuno (G. PELLEGRINO, La prassi fallimentare, Padova 1989, p. 172), da ultimo
Trib. Monza 14 febbraio 1992, cit., p. 521. Peraltro, la vendita di beni che il giudice delegato, con valutazione non
sindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto deteriorabili o deprezzabili, ha funzione meramente conservativa del
valore del bene ed un carattere di urgenza che la sottrae al regime processuale di cui all’art. 104, comma 1, l. fall.
(così Cass. 22 aprile 1989, n. 1925, in Giur. cost. e civ., 1989, I, p. 638).
68 I due principali eventi negativi, la dispersione dei beni (mediante cattivo utilizzo degli impianti, storno
mascherato della clientela, perdita irreversibile di avviamento) e la mancata ottemperanza degli obblighi adempitivi
(pagamento del canone, manutenzione ordinaria e, soprattutto, riconsegna in caso di mancata aggiudicazione, o
comunque, non acquisto definitivo) vanno attentamente scongiurati mediante idonee cautele appunto contrattuali che
la perizia degli organi concorsuali dovrà saper collocare nel patto con l’affittuario (così M. FERRO, Problemi e casi
nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall., 1999, I, p. 462).
69 Così Trib. Roma 5 gennaio 1996, in Fallimento, 1996, p. 402.
Per quanto riguarda l’individuazione dei tratti caratteristici del potenziale affittuario, questa
deve essere preceduta da un’accurata ricerca in modo da enucleare un tipo che dia agli organi del
fallimento maggiori garanzie di affidabilità in ordine all’osservanza degli obblighi tipicamente
connessi al contratto di affitto, alle disponibilità finanziarie ed alle capacità di esercitare la stessa
attività economica di cui era titolare il fallito al fine di salvaguardare avviamento, struttura e
funzionalità del complesso aziendale 70.
Ci pare rispondente al disegno normativo di propedeuticità alla vendita, pur in assenza di
una espressa previsione, che tra le condizioni da imporre nel bando agli eventuali offerenti venga
inserito l’obbligo di formulare una proposta irrevocabile di acquisto del complesso aziendale da
parte del potenziale affittuario, specie se aspirante prelazionario, con l’indicazione del
corrispettivo, delle condizioni offerte determinate in base al valore di stima indicato dai periti, e
di una eventuale ipotesi di accordo con i sindacati sul mantenimento anche parziale dei livelli
occupazionali 71 visto che la legge vi attribuisce una specifica rilevanza.
Il contratto di affitto deve prevedere la prestazione di idonee garanzie per le tutte le
obbligazioni dell’affittuario derivanti dal contratto e dalla legge (art. 104 bis comma 3), al fine di
evitare che il fallimento corra il rischio di non percepire i canoni pattuiti, di veder depauperati i
valori aziendali, anche immateriali, di veder danneggiate o non adeguatemente manutenute le
attrezzature, i macchinari 72, gli eventuali beni immobili 73 e di veder conservate le normali
dotazioni di merci e scorte. Anche se laddove è possibile è auspicabile vendere all’affittuario
scorte e merci depositate in magazzino (materie prime, semilavorati e prodotti finiti) che avendo
un valore di scambio e non un valore d’uso corrono notevoli rischi di dispersione e sottrazione.
Anche se l’art. 2561, c.c., ai commi 2 e 4, contempla il meccanismo di conservazione delle
normali dotazioni di scorte e di regolamento in danaro ed ai valori correnti della differenza tra
70 Spesso nella pratica il contratto di affitto viene stipulato con imprese concorrenti di quella fallita o con
cooperative di lavoratori già dipendenti della stessa, i quali sono in grado di portare a termine cicli produttivi e di far
funzionare gli impianti. Il favore del legislatore verso soluzioni di quest’ultimo tipo è evidente nella citata legge 27
febbraio 1985 n. 49 che riconosce, come si è visto, una serie di incentivi, oltre alla prelazione nell’acquisto, alle
cooperative di produzione e lavoro, che abbiano determinati requisiti stabiliti dal CIPI, incentivi erogati allo scopo
di affittare, gestire anche parzialmente, e acquisire aziende appartenenti ad imprese in crisi o cessate comprese
quelle assoggettate a procedure concorsuali.
71 Si è ritenuto che, in sede di stipula del contratto di affitto, il futuro prelazionario fosse tenuto a fare anche una
proposta irrevocabile di acquisto del complesso aziendale con l’indicazione del corrispettivo e delle condizioni
offerte sulla base del valore di stima indicato dai periti e dell’accordo previamente raggiunto con le rappresentanze
sindacali (così Trib. Monza 14 febbraio 1992, cit., p. 525; e nello stesso senso Trib. Milano 8 gennaio 1996, in Dir.
fall., 1996, II, p. 150).
72 Si è osservato che per le macchine, le attrezzature e gli impianti si pone il problema del rispetto della normativa
in tema di sicurezza sul lavoro, con particolare riferimento al rispetto degli obblighi introdotti dal D.lgs. n. 626 del
1994 e successive modificazioni ed integrazioni, che vieta la vendita, il noleggio, la concessione in uso e la
locazione finanziaria di macchine, attrezzature di lavoro e di impianti non rispondenti alla legislazione vigente.
Spesso infatti la procedura si trova ad affittare beni che non sono perfettamente a norma ed in tempi rapidi che non
consentono un’accurata verifica delle condizioni dei macchinari e degli impianti. Queste evenienze devono essere
regolate sul piano contrattuale, anche se va escluso che possa consentirsi un utilizzo temporaneo da parte
dell’affittuario di impianti e macchinari non a norma. Può invece ammettersi che macchinari ed impianti non
conformi siano affidati in custodia all’affittuario, con l’incarico di provvedere alla revisione ed alla messa a norma,
per essere successivamente reintegrati nell’azienda affittata, ma con espresso divieto di utilizzo ed impiego sino a
quel momento (L. PANZANI, Affitto d’azienda e procedure diverse dall’amministrazione straordinaria, in
Fallimento, 1998, p. 922).
73 Occorrerà inoltre volturare a nome dell’affittuario i contratti di somministrazione esistenti (gas, acqua, energia
elettrica, telefono, etc.) ed imporgli la stipula di un contratto di assicurazione dell’intero complesso per gli eventi
furto, incendio, danneggiamento ed atti vandalici. Quanto alle autorizzazioni amministrative, licenze o concessioni,
fermo restando che, prima della vendita spettano alla curatela, o rispettivamente all’affittuario tutti gli adempimenti
relativi al rinnovo e alla persistenza delle stesse, è noto e condivisibile l’orientamento giurisprudenziale per il quale
la cessione di autorizzazioni non può che intendersi come impegno a rinunciare alla titolarità delle stesse e a
consentire o a svolgere attività strumentali per far sì che le stesse vengano rilasciate a favore del subentrante.
consistenze d’inventario all’inizio ed al termine del rapporto 74 offre lo spunto per la previsione
di una specifica garanzia.
Il legislatore della riforma dopo aver contemplato il diritto di recesso del curatore dal
contratto che può essere esercitato, sentito il comitato dei creditori, con la corresponsione
all’affittuario di un giusto indennizzo da corrispondere ai sensi dell’articolo 111 n. 1, sancisce
genericamente che la durata dell’affitto deve essere compatibile con le esigenze della
liquidazione dei beni. Quest’ultimo concetto deve essere inteso nel senso della previsione di un
termine non eccessivamente lungo, al fine di evitare che la concessione del diritto di godimento a
terzi possa ostacolare la vendita e per l’effetto anche la chiusura del fallimento.
Tuttavia, a nostro avviso, questa formulazione generica che utilizza espressioni quali
“giusto indennizzo” e “compatibile con le esigenze della liquidazione” sarà foriera di questioni
interpretative e contenziose specie quando è prevista la prelazione legale o convenzionale.
Sarebbe stato preferibile contemplare la possibilità di prevedere clausole di scioglimento
anticipato in caso vendita o di recesso a favore del fallimento 75 con un congruo termine di
preavviso in contratti a tempo indeterminato.76. E’ comunque necessario che la procedura venga
garantita per il mancato rilascio con la previsione di penali 77.
Altra clausola da inserire è quella di scioglimento del contratto di affitto in caso di revoca
del fallimento al fine di temperarne gli effetti, ed evitare che l’imprenditore tornato in bonis si
trovi in pratica nell’impossibilità di disporre della propria azienda 78.
Quanto alla possibilità di prevedere nel contratto il diritto dell’affittuario ad essere
rimborsato di tutte le migliorie apportate e dei costi sostenuti per investimenti produttivi durante
il periodo di affitto, qualora l’azienda venga acquistata da altri, non ci pare che esistano motivi
per escludere una clausola di questo tipo, che anzi può avere la funzione di incentivare
l’affittuario ad investire nell’azienda invece di limitarsi alla mera conservazione. Ciò, tuttavia,
74 Quanto meno occorrerà prevedere che l’affittuario debba acquistare scorte e merci entro determinati termini e
con prestabilite modalità, assicurando con idonea garanzia l’adempimento dell’obbligazione. Nella prassi del
tribunale di Milano si trova spesso inserita nel contratto di affitto una clausola che prevede l’impegno dell’affittuario
ad acquisire, a fine locazione, i beni patrimoniali a valori prestabiliti (cfr. C. GOCINI - A. SOLIDORO, Il rilancio
dell’azienda in crisi: le scelte strategiche alternative, in Dir. fall., 1993, I, p. 314).
75 Una clausola di questo tipo è da ritenersi valida ai sensi dell’art. 1625, c.c., purchè le parti non abbiano fissato la
durata del contratto. Infatti, l’art. 7 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui prevede la nullità della
clausola di risoluzione del contratto in caso di alienazione, riguarda la locazione di immobile e non certo l’affitto di
azienda. Non v’è dubbio quindi che in tal caso possa inserirsi una clausola che dia facoltà al curatore di recedere
prima e in funzione della vendita, o all’acquirente di recedere a seguito della vendita (opzione più cara ad una certa
giurisprudenza, cfr. al riguardo Trib. Viterbo, 1 febbraio 1963, in Rassegna di giurisprudenza sul cod. civ. diretta da
Nicolò - Stella Richter, Milano, 1970, p. 654). Peraltro la Cassazione (Sez. unite, 20 gennaio 1994, n. 459) ha
ritenuto che la locazione di immobili concessa dagli organi fallimentari sia consentita dall’art. 560 c.p.c., che
prevede l’affitto di beni pignorati e che tuttavia tale facoltà del curatore non può travalicare i limiti temporali propri
della procedura esecutiva, nel cui ambito l’affitto è un mezzo di custodia del bene e deve pertanto cessare con la
vendita forzata.
76 Cfr. gli articoli 1603 e 1625, c.c.,. Secondo un certo orientamento, invece, (G. PELLEGRINO, La prassi, cit., p.
173) <<sarebbe una palese alterazione dell’economia contrattuale il privilegio riservato ad un contraente, il
fallimento, di poter sostituire a sé un altro soggetto in qualunque momento e di risolvere addirittura il vincolo
contratto a tempo determinato>>. E’ al contrario da ritenersi inopportuna, se non invalida una clausola
d’inalienabilità dell’azienda affittata, soprattutto se non contenuta in limiti temporali ridotti. Cass. 25 marzo 1961, n.
682, cit., ed App. Napoli 29 settembre 1959, cit., hanno, invece, ritenuto valida la clausola d’inalienabilità
dell’azienda affittata nel corso del fallimento per ben due anni. La valutazione di una clausola del genere andrebbe
in realtà fatta alla stregua di ragioni di opportunità e di convenienza, non di legittimità.
77 Per qualcuno, una volta affittata l’azienda il giudice potrà promuovere l’alienazione globale della stessa e non la
vendita separata dei beni di cui si compone, se tale vendita si risolve nella sua disintegrazione: questa darebbe luogo
infatti, ad inadempimento del contratto d’affitto con conseguente responsabilità della massa (G.C. RIVOLTA, L’affitto
e la vendita, cit., p. 45). Certamente nel modello speciale di liquidazione, una volta affittata l’azienda si deve
necessariamente venderla unitariamente e solo in caso di mancato acquisto, si potrà ipotizzare la parcellizzazione.
78 Salvo evidentemente che l’imprenditore non ritenga vantaggioso od opportuno proseguire il rapporto e subentrare
nella posizione del fallimento.
purché l’indennizzo sia ineccepibilmente motivato, analiticamente documentato, determinato in
base a meccanismi di valutazione obiettiva stabiliti già in sede contrattuale e portato
preventivamente a conoscenza degli interessati all’acquisto 79. In mancanza di pattuizione, gli
artt. 1615 e ss., c.c., non prevedono alcun indennizzo per l’affittuario e l’art. 1592, c.c., in tema
di locazione esclude ogni compenso.
E’ infine quasi superfluo sottolineare che l’affitto endofallimentare dell’azienda è sottratto
a qualsiasi regime vincolistico riguardante durata ed eventuali proroghe del contratto. Ciò
innanzitutto perché anche la circolazione volontaria di complessi aziendali non è assoggettata a
disposizioni di questo tipo; e, poi, perché essendo il contratto di affitto stipulato dal fallimento,
finalizzato al soddisfacimento di pubblicistiche esigenze processuali di amministrazione
giudiziaria, temporanee nel sistema stesso della legge, norme speciali di carattere vincolistico
sarebbero inapplicabili pur se esistessero 80.
L’art. 104 bis, l. fall., prevede inoltre che il contratto di affitto vada stipulato dal curatore
nelle forme previste dall’art. 2556, c.c., per il trasferimento volontario 81. In virtù della legge 12
agosto 1993, n. 310, che sancisce l’obbligo di stipulare a fini probatori i contratti di trasferimento
della proprietà di un’azienda o della sua concessione in godimento nella forma dell’atto pubblico
o della scrittura privata autenticata, il contratto di affitto endoconcorsuale stipulato tra il curatore,
79 Al riguardo è interessante rilevare che già la proposta di legge n. 1178 di iniziativa dei deputati Pallanti, Minucci,
Bassolino, Ghezzi ed altri, presentata il 22 luglio 1987, poi confluita insieme ad altre nella elaborazione della legge
n. 223 del 1991, sotto il titolo <<nuove norme in materia di integrazione salariale, eccedenze di personale e mobilità
dei lavoratori>>, prevedeva all’art. 11, che <<L’affittuario dell’azienda di imprenditore fallito, di sue parti o rami,
ha diritto di prelazione, a parità di condizioni, nell’acquisto. Ove l’acquisto venga eventualmente realizzato da altri
soggetti, l’affittuario ha comunque diritto di essere da questi ultimi rimborsato della somma impiegata per
investimenti produttivi durante il periodo di affittanza>>.
80 La Suprema Corte, infatti, ha statuito che <<l’affittuario di un fondo rustico (facente parte del patrimonio
fallimentare) in virtù di un contratto concluso con il curatore del fallimento, non può opporre al soggetto cui il bene
è stato venduto in sede fallimentare la proroga legale del contratto, in quanto tale affitto, essendo finalizzato al
soddisfacimento di pubblicistiche esigenze processuali di amministrazione giudiziaria, temporanee nel sistema
stesso della legge, non è soggetto alla normativa speciale, di carattere vincolistico sui contratti agrari>> (Cass. 20
ottobre 1994, n. 8589, in Dir. Fall., 1995, II, p. 612 s. ed in Fallimento, 1995, p. 717 s.). La Suprema Corte in
sostanza giudica preminenti gli interessi pubblicistici connessi all’attuazione della procedura fallimentare rispetto al
regime vincolistico dei contratti di affitto di fondo rustico stipulati dal curatore. La decisione si colloca in quel filone
giurisprudenziale secondo cui, laddove siano stati posti in essere rapporti negoziali destinati a perseguire esigenze di
amministrazione giudiziaria e quindi, limitati nel tempo, non possono trovare applicazione le regole dettate in via
generale per tali rapporti, ma quelle proprie dei procedimenti giudiziari (Cass. 15 marzo 1990, n. 2119, in Giust. civ.
mass., 1990, p. 472; Cass. 21 gennaio 1987, n. 253, in Giur. agr. it., 1989, II, p. 496). Analogamente, in tema di
locazione di immobili urbani, la Cassazione ha affermato che <<qualora venga disposto il sequestro giudiziario di
un immobile, su istanza di chi ne rivendichi la proprietà, e il custode, su autorizzazione del giudice, dia il bene in
locazione al convenuto, l’attore, che veda poi riconoscere il proprio diritto di proprietà, è legittimato ad agire contro
il convenuto medesimo, in qualità di conduttore del bene, per ottenere il rilascio, e la relativa domanda è proponibile
anche davanti al giudice adito per la rivendicazione e la convalida del sequestro, ove rientri nella sua competenza
per valore, tenendo conto che la domanda stessa esula dalla competenza per materia del pretore, di cui all’art. 8,
comma 2, n. 3, c.p.c., ed altresì non resta assoggettata alla normativa speciale in tema di locazione di immobili
urbani, perchè il contratto stipulato da quel custode, finalizzato ad esigenze pubblicistiche processuali di
amministrazione giudiziaria, e non suscettibile di scadenza successiva alla cessazione della misura cautelare, non
può rientrare nelle previsioni di detta normativa>> (Cass. 15 marzo 1990, n. 2119). Sempre in tema di prelazione
urbana si vedano: Cass. 30 maggio 1984, n. 3298, in Giust. civ., 1985, I, p. 831 con nota di PIERALINI, Brevi
notazioni sul carattere dell’istituto della prelazione, con riferimento alla vendita dell’immobile locato nel
fallimento; Cass. 13 gennaio 1981, n. 295, cit., p. 689; Cass. 14 gennaio 1994, n. 339, cit., p. 811. Con riferimento,
invece, al contratto stipulato anteriormente al fallimento, la dottrina ha sostenuto che la pattuizione di un’eventuale
clausola di scioglimento del rapporto in conseguenza dell’apertura di una procedura concorsuale non è opponibile
alle locazioni disciplinate dalla legge n. 392 del 1978 (L. GUGLIELMUCCI, Effetti sui rapporti giuridici preesistenti,
La legge fallimentare, a cura di Bricola, Galgano, Santini, Commentario Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1979,
sub art. 80 p. 360 s.).
81 Al riguardo per una disamina più ampia mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, Atti traslativi di azienda e
pubblicità, in Il registro europeo delle imprese, Padova 2003, p. 125 s.
come espressione del fallimento con la dovuta autorizzazione del giudice delegato, e l’affittuario,
va rogato o autenticato da un notaio che deve poi provvedere a curare l’adempimento delle
relative formalità pubblicitarie. Il notaio è chiamato a garantire non solo la legalità e l’autenticità
del contratto, ma anche l’adempimento di quelle formalità pubblicitarie che rendono conoscibili
e quindi trasparenti i contratti stessi, ivi compresa la comunicazione alla Questura competente
per territorio dei dati relativi alle parti contraenti o loro rappresentanti, all’individuazione
dell’esercizio e al prezzo della cessione.
La forma da osservare per la circolazione dei beni immobili e mobili registrati facenti parte
dell’azienda, viene dunque a coincidere con quella richiesta per conseguire l’iscrizione nel
registro di qualsiasi contratto sull’azienda anche se costituita di soli beni mobili. Anche se tale
coincidenza non comporta che la forma richiesta per l’iscrizione sia ad substantiam o meglio lo
sarà solo nei casi in cui essa è prescritta anche per la circolazione dei singoli beni 82.
Qualora l’effetto traslativo venga realizzato, invece, mediante un provvedimento giudiziale
(si pensi alla vendita fallimentare) allora riteniamo che la funzione del notaio, ed in particolare
quella diretta a conferire all’atto forma pubblica (o autenticata) per le relative formalità
pubblicitarie, venga svolta dal decreto di trasferimento possa essere utilizzato ai fini delle
formalità pubblicitarie di rito prescritte 83.
82 Pertanto, il contratto di trasferimento concluso in forma di semplice scrittura privata sarà comunque valido tra le
parti, mentre risulterà inopponibile ai terzi. Secondo il migliore orientamento la necessità dell’iscrizione nasce per
effetto della mera conclusione dell’atto traslativo, fissandosi il relativo obbligo in capo alle parti e la mancata
iscrizione determina l’applicazione nei loro confronti della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 2194, c.c., mentre
la forma notarile vale a costituire l’obbligo del notaio di procedere all’iscrizione (A.A. DOLMETTA, Sulla forma
notarile della cessione di azienda, in Aa.Vv., Cessione ed affitto d’azienda alla luce della più recente normativa,
Milano, 1995, p. 74).
83 Questa era la nostra impostazione anche prima della novella (F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione cit., p..
132). Di diverso avviso era invece V. SPARANO, Realismo e (preteso) garantismo nella vendita di azienda nel
fallimento, in Dir. fall., 1998, II, p. 624, secondo cui <<l’ordinanza di vendita quando ha per oggetto una azienda
commerciale, deve essere coordinata con la normativa introdotta nella modifica dell’art. 2556, c.c., come sostituito
dall’art. 6 legge 12 agosto 1993, n. 310. Tale legislazione, fatta per tutte altre finalità, in buona sostanza impone che
il trasferimento debba essere effettuato per atto notarile o scrittura privata autenticata e ciò per la successiva
iscrizione nel Registro delle Imprese. Escluso che il decreto di trasferimento possa sostituire la forma pubblica o la
scrittura privata, che nell’ottica del controllo di legge c.d. sul riciclaggio (norme per la trasparenza, etc.) ha interesse
alla precisa determinazione, non certo dell’organo fallimentare, ma soprattutto, se non esclusivamente, della parte
acquirente...>>. Peraltro secondo la migliore dottrina anche a seguito della legge 310 del 1993, la forma notarile si
palesa solo relativamente necessaria: l’intervento del notaio come pure la stessa sussistenza dell’obbligo di un
notaio, non può essere considerato requisito veramente costante e imprescindibile della fattispecie. E la Suprema
Corte ha, d’altra parte, rilevato che a norma dell’art. 2556, c.c., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda
mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità (Cass. civ., 4 giugno 1997, n. 4986). Con riferimento
all’iscrizione ad istanza di parte, è consentito ad una parte ottenere una sentenza di accertamento dell’esistenza
dell’atto traslativo dell’azienda (e qui opera la regola della forma ad probationem ex art. 2556, comma 1), e questo
per analogia con la norma dell’art. 2567 (così testualmente A.A. DOLMETTA, Sulla forma notarile cit., p. 80). E ciò
senza considerare che risulta comunque possibile la procedura d’ufficio a norma dell’art. 2190 in caso di
discontinuità delle iscrizioni (al riguardo E. BOCCHINI, Registro delle imprese, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988,
p. 517). Peraltro, è ritenuta, dalla prevalente dottrina, illegittima quella prassi diffusa che vede il giudice delegato
limitarsi all’emissione di un decreto di autorizzazione che contenga tutti gli elementi e condizioni della vendita, con
designazione contestuale di un notaio (davanti al quale si rimettono le parti, curatore ed acquirente) per la stipula di
un atto pubblico di vendita che riproduca quelle condizioni ed in base al quale procedere poi alle dovute
registrazioni e trascrizioni. Nè vale osservare in senso contrario che la vendita si concretizzerebbe in quel decreto, in
quanto avente natura, contenuto ed effetti propri del decreto ex art. 574, comma 1, c.p.c., onde la degradazione
dell’atto notarile suddetto a mero strumento di attuazione della vendita già perfetta, ad esclusivo scopo formale,
fiscale e d’opponibilità a terzi. Pur volendo ammettere che sin dal momento dell’aggiudicazione la vendita possa
considerarsi perfetta, occorrerebbe pur sempre tener presente che l’attuazione della vendita ai citati fini è, da quel
codice di rito le cui disposizioni in materia abbiamo detto essere inderogabili in sede fallimentare, affidata ad un
peculiare strumento, natura prettamente pubblicistica, quale il decreto di trasferimento ex art. 586 e non certo all’atto
notarile (così M. MONTANARI, I procedimenti di liquidazione e ripartizione dell’attivo fallimentare, p. 217; A.
BONSIGNORI, La liquidazione dell’attivo e il riparto, in Le procedure concorsuali, Trattato diretto da RAGUSA
MAGGIORE e COSTA, vol. III, p. 486).
6. Passando ai rapporti giuridici pendenti deve essere escluso che normalmente l’affittuario
subentri in nei crediti 84 e nei debiti aziendali 85 con l’eccezione di quanto sancito dall’art. 2112,
c.c., per quanto concerne quelli scaturenti da rapporti di lavoro subordinato 86. L’art. 2560,
comma 2, non è applicabile ai contratti aventi ad oggetto il trasferimento del diritto di godimento
dell’azienda, quali usufrutto ed affitto, trattandosi di norma eccezionale e come tale inapplicabile
a ipotesi non espressamente previste 87.
Nell’affitto volontario, l’azienda, come in tutti i casi di trasferimento in godimento, resta a
far parte dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del cedente e quindi l’affittuario è
esposto all’azione espropriativa da parte dei creditori del locatore. In caso di fallimento, tale
responsabilità dell’affittuario nei limiti dell’espropriabilità dell’azienda ceduta, vale a dire la
normale possibilità che il creditore del cedente aggredisca l’azienda detenuta dal terzo, non può
sussistere. I creditori del cedente - fallito, infatti, non potrebbero aggredire con azioni esecutive
rivolte verso l’affittuario quell’azienda, o quei beni aziendali, che essi stessi non hanno potuto
aggredire in capo all’originario debitore per il sopravvenuto suo fallimento. La corresponsabilità
presuppone la libertà di azioni esecutive individuali di quei creditori verso il cedente 88.
In virtù dell’art. 2558, comma 3, c.c., invece, l’affittuario succede nella posizione di parte
dei rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’azienda, purchè si tratti di contratti non
personali, a prestazioni corrispettive e non completamente eseguiti da entrambe le parti 89. Tale
successione deve essere considerata un effetto naturale ed avviene indipendentemente dalla
conoscenza effettiva o potenziale che l’affittuario abbia della esistenza e del contenuto di tali
84 L’art. 2559, c.c., non contempla l’affitto ed anzi sancisce che le disposizioni dettate in ordine al trasferimento dei
crediti per l’alienazione d’azienda si applicano soltanto all’usufrutto. La mancata previsione dell’affitto
(contemplato invece nell’art. 2558) ed il fatto che, anche in caso di usufrutto, l’art. 2559 si applica soltanto se
l’usufrutto si estende ai crediti relativi all’azienda, fa sicuramente ritenere che non vi sia trasferimento dei crediti
come effetto naturale del contratto e che tutt’al più tale trasferimento può essere oggetto di espressa pattuizione.
Invero, parte della dottrina esclude anche il trasferimento convenzionale dei crediti pecuniari (F. FERRARA, La teoria
giuridica dell’azienda, cit., p. 423, G.C. RIVOLTA, op. ult. cit., p. 131; A. BASSI, Riflessioni sull’affitto di azienda
etc., cit., p. 344, quest’ultimo, tuttavia, non esclude il trasferimento endoconcorsuale dei crediti aziendali quando
abbiano ad oggetto una obbligazione non pecuniaria, come ad esempio la consegna o la restituzione di macchinari,
merci, etc.)
85 Sul tema cfr. ampiamente S. GRAZIOSI, Sulle responsabilità del titolare dell’azienda per i debiti contratti
dall’usufruttuario o dall’affittuario, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 323 s.
86 Ed a certe condizioni per i debiti fiscali concernenti quella specifica attività economica. L’art. 66 del D.p.r. n. 602
del 29 settembre 1973, stabilisce solo una responsabilità oggettiva, sui beni dell’azienda ceduta, per il recupero
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonchè relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per
l’anno o per l’esercizio in cui è avvenuta la cessione e per quello anteriore, da tutti i precedenti titolari se alla
formazione dell’imponibile accertato nei loro confronti hanno concorso i redditi derivanti dall’azienda ceduta (RM
15/4369, 27 ottobre 1977, in Direzione Generale Imposte). Tuttavia la disciplina del D.p.r. n. 602, concernente le
imposte dirette contempla solo l’ipotesi in cui a seguito del trasferimento d’azienda si producano effetti reali, e non
è applicabile all’affitto. Secondo l’orientamento prevalente è invece applicabile l’art. 19 della legge 7 gennaio 1929,
n. 4, che con riferimento alle imposte indirette, prevede una responsabilità solidale a carico del successore a
qualsiasi titolo per atto tra vivi in un’azienda commerciale o industriale (F. LONGO, I contratti di cessione e di affitto
di azienda: profili attuali e atteggiamento della prassi, in Giur. merito, 1998, IV, p. 1114). Al riguardo è stato
rilevato che l’espressione successore a qualsiasi titolo era già presente nell’art. 197, t.u. imp. dir., d.p.r. 29 gennaio
1958, n. 645 e la migliore dottrina allora affermava che nonostante le espressioni utilizzate, il concetto rimaneva
sempre lo stesso già enunciato nell’art. 63 del testo unico per l’imposta sui redditi di ricchezza mobile, r.d. 24 agosto
1877, n. 4021, ai sensi del quale allorquando un esercizio di industria o di commercio passa da un soggetto ad un
altro, il nuovo esercente è solidalmente responsabile dell’imposta.
87 In tal senso Cass. 3 luglio 1958, n. 2386, in Giust. civ., 1958, I, p. 1876.
88 A. BASSI, op. cit., p. 346.
89 F. Fimmanò, op. ult. cit., p. 71 s. ove ampi riferimenti, e P.F. Censoni, La sorte dei rapporti pendenti nel
fallimento nel caso di affitto di azienda, in Giur. Comm., I, 2003, p. 333 s.
contratti. Tuttavia proprio in quanto effetto soltanto naturale dell’affitto, salvo che per alcuni
contratti funzionalmente inscindibili dall’azienda, sarà legittimo, e specie in sede fallimentare
opportuno, inserire una clausola che limiti il subentro soltanto a quei rapporti contrattuali
risultanti dalla documentazione comunicata all’affittuario 90.
Durante l’esercizio provvisorio, la novella sancisce che i contratti pendenti proseguono,
salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli (art. 104, terz’ultimo
comma, l. fall.).
Nell’affitto endoconcorsuale invece non sono evidentemente oggetto di trasferimento i
contratti che si sono sciolti automaticamente per effetto del fallimento, o dai quali il curatore ha
ritenuto di sciogliersi ovvero che convenzionalmente le parti hanno deciso di escludere. Per
quanto riguarda, invece, i contratti sospesi per effetto della procedura, ai sensi dell’art. 72, l. fall.
che è una norma ritenuta espressione di un principio generale applicabile a tutti i rapporti per i
quali non è previsto espressamente lo scioglimento o la prosecuzione, si deve ritenere che
l’affitto e la mancanza di espresse determinazioni in senso contrario costituiscano
comportamento concludente del curatore, da cui si può derivare la volontà di subentrare nel
contratto che prosegue con l’affittuario.
7. Discorso a parte va fatto per i rapporti di lavoro subordinato e per i debiti derivanti
dagli stessi. Orbene, l’art. 2112, c.c. 91, sancisce che in caso di trasferimento d’azienda il
rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne
derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore
aveva al tempo del trasferimento, salva la liberazione del cedente in caso di ricorso alle
procedure di cui agli artt. 410 e 411, c.p.c.,. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti
economici e normativi previsti dai contratti collettivi, anche aziendali, vigenti alla data del
trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi
applicabili all’impresa del cessionario. E fuor di dubbio che la norma si applichi anche all’affitto
endoconcorsuale dell’azienda come a tutte le ipotesi di sostituzione nella titolarità dell’impresa
con qualunque modalità giuridica si realizzi 92.
90 Così Cass. 19 giugno 1996, n. 5636, in Notariato, 1997, p. 145 s.
91 Come modificato dall’art. 47, terzo comma, della legge 29 dicembre 1990 n. 428 e successive.
92 Invero già la giurisprudenza aveva fatto rientrare, con una interpretazione estensiva, nella fattispecie, ogni ipotesi
di sostituzione nella titolarità dell’impresa sempre che vi fosse un nesso di derivazione, e fermo restando
l’organizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio dell’attività e quindi immutati il suo oggetto e la sua
attività obiettiva (cfr. Cass. 23 luglio 2002, n. 10761, in Giur. comm., II, 2003, p. 297, con nota particolarmente
incisiva ed esaustiva di V. Buonocore, Il <<nuovo>> testo dell’art. 2112 del codice civile e il trasferimento di un
ramo di azienda, in Giur. comm., II, 2003, p. 316; ma per riferimenti alla gran mole di giurisprudenza edita mi
permetto di rinviare alla nota 132 di F. Fimmanò, Fallimento e circolazione, cit., p. 47). Poi il d.lgs. 2 febbraio 2001
n. 18, di attuazione della direttiva n. 80\50, all’art. 1, nel riformulare l’art. 2112 (ove non si fa più riferimento, non a
caso, alle figure di acquirente e di alienante ma a quelle generiche di cedente e di cessionario), sancisce che “… si
intende per trasferimento di azienda qualsiasi operazione che comporti un mutamento nella titolarità di una attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi,
preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia
negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto” (sul
decreto cfr. V. Buonocore, op. loc. ult. cit.,). La norma nella seconda parte dispone che l’art. 2112 si applica anche
“al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica
organizzata….preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. E ciò vale
a maggior ragione se si considera che, come è stato autorevolmente affermato in questi anni non v’è stato alcun reale
mutamento del concetto di trasferimento d’azienda ed in particolare non si è passati da una nozione di trasferimento
incentrata sulla circolazione del complesso aziendale ad una nozione incentrata sul mutamento di titolarità
dell’impresa. Nè esiste una diversa nozione di circolazione dell’azienda ai fini laburistici e commercialistici , e al di
là di una infedele attuazione della direttiva comunitaria n. 98\50 dovuta ad una disattenzione del legislatore del
decreto n. 18 del 2001, il trasferimento del complesso aziendale comporta pure il mutamento nella titolarità
dell’impresa, “tant’è che chi tiene alla correttezza espressiva e all’esatta individuazione degli istituti non parlerà mai
L’art. 47 della legge n. 428 del 1990, inoltre, al comma 5, ha stabilito che per le imprese
dotate dei requisiti dimensionali per accedere al trattamento di cassa integrazione straordinaria,
in caso di trasferimento d’azienda nelle ipotesi di fallimento, qualora nel corso delle
consultazioni previste dai primi due commi del medesimo articolo, sia stato raggiunto un
accordo relativo al mantenimento anche parziale dell’occupazione, nei confronti dei lavoratori il
cui rapporto continua con il cessionario, non trova applicazione l’art. 2112, c.c., salvo che
dall’accordo non risultino condizioni di miglior favore 93.
Dunque in caso di affitto endofallimentare, gli organi della procedura devono pervenire alla
stipula di un contratto che passa attraverso diverse fasi e cioè: bando, vaglio delle offerte (ed in
caso di aziende socialmente rilevanti informativa alle organizzazioni sindacali, consultazione ed
eventuale accordo sindacale sul mantenimento anche parziale della forza lavoro), autorizzazione
del giudice delegato (che eventualmente recepisce i risultati dell’accordo sindacale), stipula del
contratto, effettivo subentro nella gestione dell’affittuario. In mancanza dei requisiti dimensionali
o dell’accordo sindacale, la circolazione dell’azienda comporterà l’obbligo di applicazione dei
trattamenti economici e normativi vigenti alla data del trasferimento. La stessa procedura di
accordo sindacale, nei casi previsti dai requisiti dimensionali o laddove le parti lo ritengano,
andrà ripetuta quando il fallimento entrerà nella fase di vendita dell’azienda e laddove
l’aggiudicatario dell’azienda sia l’affittuario-prelazionario, l’accordo realizzato in sede di affitto
dovrà comunque essere ridiscusso in una nuova fase di consultazione, considerato che le
condizioni potrebbero essere nel frattempo mutate.
L’art. 105, comma 3, l. fall., prevede, infatti, anche per le aziende che non abbiano rilievo
sociale prevede che nell’ambito delle consultazioni sindacali relative alla cessione, “il curatore,
l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei
lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro
consentite dalle norme vigenti”.
A questo punto, ci resta da analizzare la sorte dei rapporti e dei debiti contratti
dall’affittuario alla scadenza dell’affitto, a seguito della restituzione dell’azienda al fallimento in
virtù del mancato acquisto o dell’eventuale recesso indennizzato 94.
Per i debiti va sicuramente esclusa ogni responsabilità del concedente 95 considerato che la
normativa, sia generale che speciale (art. 104 bis, ult. comma, l. fall.), esclude nell’ipotesi
inversa ogni responsabilità dell’affittuario per i debiti del fallito 96.
di trasferimento dell’impresa, come purtroppo è successo anche in un testo prestigioso come la Costituzione (art.
43) e come ha fatto il nostro legislatore addirittura nel titolo del decreto n. 18 del 2001, ma sempre di trasferimento
dell’azienda e, quando vi sia mutamento della titolatità, di successione nell’impresa” (sempre V. Buonocore,op. loc.
ult. cit.).
93 La deroga in esame, e le condizioni alle quali è ammessa, sono compatibili con l’ipotesi di affitto d’azienda
endofallimentare, considerato che peraltro l’art. 2112, c.c., riguarda espressamente anche questo tipo di circolazione.
E d’altra parte anche la legge 23 luglio 1991, n. 223, ha inteso chiaramente equiparare il trasferimento per affitto al
trasferimento per cessione definitiva, considerato che il secondo ed il quarto comma dell’art. 3, fanno espressamente
riferimento all’acquisizione della gestione a titolo di affitto. Vero è che l’art. 47, della legge n. 428, rispetto al
trasferimento d’azienda, parla sempre di alienante ed acquirente, tuttavia il termine acquirente è usato
impropriamente, altrimenti si dovrebbe dedurre che la norma si riferisce solo a casi di pregressa stipulazione di
cessioni d’azienda sottoposte a condizione risolutiva. Al contrario la norma va applicata ai casi di trasferimento
endofallimentare in genere ed il termine acquirente va inteso nel senso più proprio di offerente.
94 Il passaggio dell’azienda dall’affittuario al proprietario originario integra la fattispecie del trasferimento (Cass. 20
aprile 1985, n. 2644, in Rep. Foro it., 1985 voce Lavoro, n. 1878; Pret. Napoli 12 dicembre 1990, in Riv. giur. lav.,
1992, II, p. 245; sul tema cfr. ANGELINI, Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente è sempre
responsabile ex art. 2112 c.c., in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 589). La Cassazione ha peraltro configurato un’ipotesi
di utilizzazione indiretta del complesso aziendale da parte del proprietario attraverso la concessione dell’azienda a
più affittuari che si succedono l’uno all’altro senza soluzione di continuità. In tal caso la Suprema Corte ha
riconosciuto la responsabilità del titolare dell’azienda per i debiti relativi ad un rapporto di lavoro instauratosi con il
primo affittuario e proseguito con gli altri (Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, in Rep. Foro it., 1992, voce Lavoro, n.
1474).
Per i contratti, invece, secondo l’orientamento prevalente, e visto il mancato intervento
normativo, la disciplina dettata da artt. 2558 e 2112, c.c., si applica anche nell’ipotesi di
retrocessione dell’azienda 97, ancorchè non espressamente disciplinata dal legislatore 98. In
particolare per la Suprema Corte si realizza il subentro purchè si tratti di contratti non eccedenti
la potenzialità produttiva dell’azienda valutata al momento della conclusione del contratto di
affitto, o i poteri di gestione attribuiti pattiziamente all’affittuario, e purchè la restituzione
dell’azienda si colleghi direttamente alla volontà delle parti ovvero ad un fatto che queste
95 In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza che ha affermato che la cessazione dell’affitto dell’azienda
e la sua restituzione al proprietario concedente non comportano a carico di quest’ultimo, fuori dalle ipotesi
diversamente regolate dalla legge, la responsabilità ex art. 2560, c. c., per i debiti contratti dall’affittuario, non
essendo siffatta ipotesi riconducibile ad alcuna delle vicende traslative in relazione alle quali la norma è stata posta
(Cass. 8 maggio 1981, n. 3027, in Giur. it., 1982, I, 1, p. 281).
96 La retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i
debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile. Ai
rapporti pendenti al momento della retrocessione si applicano le disposizioni di cui alla Sezione IV del Capo III del
Titolo II (art. 104, bis, ultimo comma).
97 Cass. 20 dicembre 1991, n. 13762 (conferma di App. Venezia 30 settembre 1988) in Nuova giur. civ. comm.,
1993, I, p. 1 s. con nota di G. VERDIRAME, Successione nei contratti e divieto di concorrenza al termine dell’affitto
di azienda; Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Riv. dir. comm., 1982, II, p. 145, in Foro it., 1979, I, c. 1818, in Giust.
civ., 1979, I p. 488; Cass. 14 febbraio 1979, n. 969, in Rep. Foro it., 1979 voce azienda; Trib. Milano 19 dicembre
1974, in Giur. comm., 1976, II, p. 123. Per la Cassazione il concetto di trasferimento presente nella normativa di cui
agli artt. 2557 ss., c.c., definisce prima ancora che un fenomeno successorio di origine negoziale, la sostituzione di
un imprenditore ad un altro nell’esercizio dell’impresa, il cui grado di astrattezza si misura tutto nella indifferenza
verso la ragione giustificatrice dell’evento traslativo: in tale ottica, l’affitto costituisce un atto di circolazione, sia
pure temporaneo, dell’azienda, così come la retrocessione costituisce il suo esatto contrario, un atto di circolazione
invertita dell’azienda medesima (Cass. 20 dicembre 1991 n. 13762, cit.). Da qui l’estensione anche della tutela
predisposta dall’art. 2557, c.c., al proprietario dell’azienda retrocessa per l’attività concorrente realizzata dal cessato
affittuario e dell’art. 2558 per i contratti (Cass. 20 dicembre 1991 cit.; Trib. Catania 18 settembre 1964 in Giur. it.,
1965, I, 2, p. 414; App. Firenze 3 aprile 1965, in Riv. dir. ind., 1966, II, p. 361; in dottrina per tutti FERRARI, Affitto
d’azienda e divieto di concorrenza a carico dell’ex affittuario, in Riv. dir. ind., 1966, II, p. 361).
98 L. PANZANI, Affitto d’azienda e procedure diverse dall’amministrazione straordinaria, in Fallimento, 1988, p.
925; A. CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, cit., p. 32 s.; A. DE MARTINI, L’usufrutto
d’azienda, cit., p. 440. Secondo A. BASSI, op. cit., p. 349, invece per i contratti stipulati ex novo dall’affittuario è da
ipotizzare più che il subentro puro e semplice del fallimento, che potrebbe essere molto gravoso per la massa, un
sistema analogo a quello previsto dagli artt. 72 e ss., l. fall., relativi ai rapporti giuridici preesistenti, sistema che
consente al curatore di effettuare scelte più opportune e, nei casi non previsti, l’applicazione della regola della
sospensione. Retrocedono invece tutti i rapporti contrattuali preesistenti e sopravvissuti al fallimento nei quali
l’affittuario è succeduto.
abbiano espressamente previsto 99. Si tratta evidentemente di limiti direttamente connessi agli
obblighi legali dell’affittuario di non alterare le caratteristiche fondamentali dell’azienda 100.
Tuttavia, mentre per le fattispecie disciplinate dall’art. 2558, è consentito il patto contrario
in modo da escludere convenzionalmente il subentro del fallimento nei contratti in corso, che
potrebbero essere onerosi o pregiudizievoli per la procedura, per i rapporti di lavoro subordinato
la prosecuzione col concedente, in caso di retrocessione, è indirettamente sancita da una norma
imperativa nell’interesse del lavoratore, per cui la pattuizione contraria sarebbe inopponibile al
terzo 101. In caso di scadenza, risoluzione del contratto di affitto o recesso dell’affittuario o
comunque di mancata acquisizione dell’azienda da parte di quest’ultimo, i rapporti di lavoro, per
effetto della retrocessione, si ritrasferiscono al locatore fallimento in quanto inerenti all’azienda
102 e poi eventualmente ad un nuovo affittuario, o all’aggiudicatario.
La fattispecie regolata dall’art. 2112, c.c., infatti, ricorre anche nell’ipotesi di restituzione
dell’azienda al concedente purchè rimangano immutati l’organizzazione dei beni aziendali e lo
svolgimento della medesima attività 103.
99 Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Riv. dir. comm., 1982, II, p. 145 e in Foro it., 1979, I, c. 1818 e in Giust. civ.,
1979, I, p. 488. Nello stesso senso, seppur con riferimento ai rapporti di lavoro, la Cassazione (Cass. 20 aprile 1985,
n. 2644; Cass. 17 aprile 1990 n. 3167; Cass. 13 giugno 1990, n. 5739; In particolare Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, in
Giur. it., 1993, I, 1 p. 70 s. ed in Dir. prat. lav., 1992, p. 3235), ha rilevato che poichè la disciplina dettata dall’art.
2112 deve essere applicata anche all’ipotesi di restituzione dell’azienda dal concessionario al concedente, purchè
quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’esercizio dell’attività di cui gli stessi sono strumento, l’ipotesi prevista
dal suddetto articolo di legge si realizza (ove si accerti che l’organizzazione dei beni, che costituisce l’oggetto
dell’attività imprenditoriale rimanga immutata e che venga svolta la medesima attività) anche se il concedente,
anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dal concessionario, sostituisca a quest’ultimo,
senza soluzione di continuità, un altro soggetto pure in qualità di concessionario, dovendosi in tal caso ritenere una
indiretta utilizzazione dei beni da parte del concedente a mezzo del nuovo concessionario, proprio in funzione di
quella determinata attività di cui l’azienda è strumento. Già, App. Bologna 8 luglio 1959, in Riv. dir. lav., 1961, II,
p. 261 (con nota adesiva di G. COTTINO, Restituzione dell’azienda al locatore nuova concessione in affitto e
responsabilità per i debiti di lavoro), osservava che in generale, il fatto che si contempli espressamente il solo
passaggio di proprietà dal venditore all’acquirente, cioè ipotesi normale, non dovrebbe escludere che nella parola
trasferimento possa ricomprendersi il caso di un ritorno della proprietà dell’acquirente al venditore per risoluzione
ad esempio. La ratio della norma non muta: il silenzio del legislatore non dovrebbe aver altro significato che non sia
quello di ottenere la regolamentazione di un’ipotesi anomala, ricavabile però dalla disciplina della legge.
100 I limiti fissati pattiziamente non possono essere invocati con riferimento all’art. 2112, c.c., ed è in verità assai
dubbio che possano esserlo quelli derivanti in qualche modo dagli obblighi di legge, considerato il carattere
imperativo della norma a tutela del lavoratore.
101) Così giustamente L. PANZANI, Affitto d’azienda cit., p. 925. Sul punto anche R. ROMEI, Il rapporto di lavoro
nel trasferimento d’azienda, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano 1993, p. 45 s.
In una fattispecie concreta la Cassazione ha escluso il subentro in virtù di accordi intervenuti tra le parti (cfr. Cass.
26 febbraio 1994, n. 1975, in Mass. giur. lav., 1994, p. 255).
102 Al riguardo A. MINERVINI, Imprese cooperative e trasferimento d’azienda, Milano, 1994, p. 18; R. ROMEI, Il
rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano
1993, p. 45 s.; P. LICCARDO, Fallimento e metodologie di acquisizione dell’azienda affittata, cit., p. 663.
103 Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, cit., p. 70 s. e in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 589 con nota di A. ANGELINI,
Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente è sempre responsabile ex art. 2112, cod. civ.; Cass. 19
agosto 1991, n. 8907, in Riv. giur. lav., 1992, p. 502 con nota di M. MC BRITTON. Si è in particolare osservato che la
fattispecie del trasferimento d’azienda regolata dall’art. 2112 c.c. ricorre anche nell’ipotesi di restituzione
dell’azienda dall’affittuario della stessa al suo concedente, purchè quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’attività
di cui gli stessi sono strumento; la disciplina prevista da detta norma trova pertanto applicazione - ove rimanga
immutata l’organizzazione dei beni aziendali, con lo svolgimento della medesima attività - qualora il concedente,
anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dall’affittuario, sostituisca a questi senza
soluzione di continuità un altro soggetto nella stessa posizione, configurandosi in tal caso un’indiretta utilizzazione
del complesso aziendale da parte del concedente a mezzo dell’affittuario - nella fattispecie, in attuazione del
disposto dell’art. 2112 c.c., il pretore, mentre ha affermato l’esistenza di una responsabilità solidale tra il precedente
affittuario, il concedente e il nuovo affittuario per i crediti maturati dai lavoratori alle dipendenze del primo
affittuario, ha ordinato al nuovo affittuario la reintegrazione dei lavoratori nel loro posto di lavoro sul rilievo della
continuazione con tale soggetto del rapporto di lavoro intercorso con il precedente affittuario (Pret. Siracusa, 7
agosto 1995, in Riv. Critica Dir. Lav., 1996, p. 447). E ciò ancorchè l’obbligazione retributiva dell’affittuario non
Non può essere perciò condivisa la tesi di chi ha sostenuto che i rapporti di lavoro non
potrebbero essere ritrasmessi alla curatela, in quanto nell’ipotesi di retrocessione funzionerebbe
la deroga, visto che altrimenti la procedura dovrebbe procedere al licenziamento dei dipendenti
con conseguente responsabilità per l’erogazione dell’indennità di preavviso e diverrebbe
comunque solidalmente responsabile per i debiti, per retribuzioni maturate in costanza di affitto e
per trattamento di fine rapporto 104. In realtà, a parte il fatto che una ipotetica deroga
funzionerebbe solo per effetto di un poco probabile nuovo accordo sindacale, il diritto al
mantenimento del rapporto di lavoro, anche a seguito del trasferimento dell’azienda,
espressamente affermato dall’art. 2112 c.c., ha natura pubblicistica e tende a prevalere
sull’interesse, anch’esso pubblicistico, dei creditori 105. Il legislatore ha inteso incentivare, con la
deroga di cui all’art. 47 della legge 428 del 1990, la circolazione endoconcorsuale per favorire la
conservazione di posti di lavoro, mentre in caso di retrocessione questa motivazione di fondo
non c’è, atteso che la conservazione dei posti di lavoro sarà legata esclusivamente alla possibilità
di cedere o affittare l’azienda ad un nuovo imprenditore.
Inoltre, vero è che il subentro della procedura potrebbe potenzialmente danneggiare la
massa, tuttavia il curatore in concreto dispone di strumenti che impediscono la maturazione di
oneri passivi. Infatti, quale successore nel rapporto di lavoro dipendente, potrà provvedere a
richiedere l’intervento di integrazione salariale straordinaria, a collocare in mobilità il personale
eccedente rispetto alla potenzialità produttiva del complesso o addirittura a licenziare laddove sia
impossibile salvaguardare i livelli occupazionali, sempre previo esperimento delle eventuali
procedure richieste dalle dimensioni dell’azienda.
La procedura, in tal caso, si troverebbe d’altra parte nella stessa situazione in cui
normalmente versa all’apertura del fallimento laddove l’impresa ha dipendenti ancora in carico
106.
8. Al di fuori dell’ipotesi previste dalle leggi speciali per aziende in crisi socialmente
rilevanti, si riteneva in passato inammissibile l’inserimento nel contratto di affitto di una clausola
di prelazione a favore dell’affittuario o di un patto che comunque contemplasse a suo favore una
qualche forma di preferenza, quale ad esempio un’opzione 107. Ciò in quanto avrebbe
condizionato preventivamente la fase di liquidazione, violato il principio generale in materia di
espropriazione forzata della parità di trattamento, ma soprattutto creato a favore dell’affittuario
risulti dalle scritture contabili, posto che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., l’obbligazione solidale sorge per il solo fatto del
trasferimento dell’azienda (Pret. Milano, 30 aprile 1997, in Lavoro nella Giur., 1997, p. 768, in Orient. Giur. Lav.,
1997, p. 416). Sul tema cfr. anche C. BONCI, Ritorno dell’azienda al locatore: successione ope legis nei rapporti di
lavoro e intervento dell’affittuario nel procedimento d’urgenza, in Riv. giur. lav., 1992, p. 254. Contra: R. ROMEI, Il
rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Il codice civile, Commentario diretto da P. Shlesinger, Milano,
1993, p. 16 s.
104 A. CAIAFA, I rapporti di lavoro nelle procedure concorsuali, Padova, 1994, p. 40, il quale evidenzia il pericolo
che tali oneri gravino sulla massa a prescindere dalla questione se i crediti sorti successivamente all’apertura della
procedura, debbano o meno essere considerati prededucibili. Per M. GUERNELLI, La cessione di azienda nel
fallimento, in Dir. fall., 1997, I, p. 1188, invece, in caso di cessazione del rapporto di affitto in corso di procedura
con soluzione di continuità rispetto ad una successiva eventuale cessione, il fallimento non risponde dei debiti
neppure di lavoro, stipulati dall’affittuario e inerenti l’esercizio dell’impresa, in quanto non si verifica la sostituzione
di un imprenditore con un altro, neppure a ritroso. Il terzo acquirente subentra nei contratti in corso dell’affittuario
solo qualora vi sia passaggio diretto tra l’una gestione e l’altra.
105 Secondo L. PANZANI, Affitto d’azienda cit., p. 925, nella fattispecie non v’è alcuna norma o principio che
consenta di risolvere il conflitto di interessi a favore dei creditori.
106 In tal senso M. MASTROGIACOMO, L’affitto d’azienda nel fallimento, in Fallimento, 1996, p. 946.
107 App. Napoli 29 settembre 1959, cit., p.982, ha ritenuto illegittimo un contratto di affitto in sede fallimentare che
contemplasse un patto d’opzione d’acquisto a favore dell’affittuario, in quanto la clausola avrebbe impedito
all’ufficio fallimentare di alienare l’azienda per tutto il tempo attribuito all’affittuario per l’esercizio di tale diritto
potestativo.
una situazione di privilegio pregiudizievole per gli interessi della massa dei creditori, considerato
che la presenza di una prelazione ha il naturale effetto di allontanare potenziali interessati
all’acquisizione piuttosto che invogliarli a concorrere nell’aggiudicazione.
Ipotesi completamente diversa era quella prevista per le aziende socialmente rilevanti, ove,
come detto, è riconosciuto all’affittuario un diritto di prelazione (art. 3 comma 4, l. 223 del
1991), in quanto la legge ha creato una situazione di privilegio per soggetti dotati di peculiari
requisiti di meritevolezza, in presenza di una serie di condizioni. Situazione di privilegio che, al
contrario, gli organi del fallimento non avevano motivo di prevedere convenzionalmente ed in
assenza di giustificazioni di carattere sociale non essendo legittimati a creare categorie
privilegiate 108.
Il legislatore della riforma risolve definitivamente la questione sancendo che “il diritto di
prelazione a favore dell’affittuario può essere concesso convenzionalmente, previa espressa
autorizzazione del giudice delegato e previo parere favorevole del comitato dei creditori. In tal
caso, esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, o del
singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica all’affittuario, il quale può esercitare il
diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione” (art. 104 bis,
comma 5).
E chiaro che l’espresso e specifico parere vincolante favorevole del comitato dei creditori,
che si aggiunge a quello generale risolve il problema della tutela dei relativi interessi.
Resta la questione della compatibilità strutturale. In sede fallimentare, infatti, e più in
generale in tutte le ipotesi di vendita coattiva, si è sempre posto il problema dell’opponibilità
all’aggiudicatario delle diverse figure di prelazione conosciute dalla normativa civilistica e più in
generale della compatibilità strutturale e funzionale delle stesse con la procedura 109.
La verità è che non c’è un problema di incompatibilità astratta, di tipo tecnico, tra l’istituto
della prelazione e la procedura concorsuale, ma un problema di compatibilità concreta delle
singole figure di prelazione e delle situazioni giuridiche cui esse afferiscono con il sistema delle
liquidazioni coattive. D’altra parte le prelazioni sono ormai strumenti multiformi non
riconducibili, in termini rigorosi, ad un sistema unitario dotato di organicità 110.
L’innesto nel procedimento di vendita del diritto ad essere preferito dà luogo sicuramente
a difficoltà, le quali sono tuttavia componibili in molti casi in un quadro armonico. Già
l’applicazione dell’art. 3, comma 4, della legge n. 223, ha confermato che ben può immaginarsi
che il prezzo di vendita venga determinato secondo le forme proprie dell’alienazione coatta e che
soltanto al termine di tale procedimento il titolare della prelazione possa essere chiamato a
dichiarare se intende o meno esercitarla.
Piuttosto è la compressione dei diritti dei creditori, che inevitabilmente discende da scelte
favorevoli al titolare della prelazione, ad esigere che l’istituto scaturisca da inequivoche
disposizioni normative o comunque da una identità di ratio tra le fattispecie dubbie e quelle in
108 Sulle ragioni della prelazione legale mi permetto di rinviare a F. Fimmanò, Fallimento e circolazione cit., p.143
s.).
109 Si è osservato che la prelazione non va intesa come una sorta di punizione dell’autonomia privata, ma come un
limite funzionale alla protezione di certi interessi, che incide sul momento della scelta del partner contrattuale: e,
sotto questo aspetto, il carattere forzato della vendita, mentre per un verso non esclude la rilevanza di quegli
interessi, per altro verso costituisce un fenomeno che, già implicando in se stesso il superamento dell’infungibilità
del volere privato nella scelta dell’acquirente, sembra non tanto ostacolare, quanto piuttosto rendere agevole ed
indolore l’innesto della prelazione (G. BORRÈ, Vendite forzate e prelazione del conduttore urbano, in Foro it., 1981,
I, p. 690).
110 A.M. MARCHIO, Prelazione del conduttore e vendita fallimentare, in Fallimento, 1987, p. 561. Infatti pur
essendo l’istituto ontologicamente unitario, l’ordinamento appronta una disciplina non coincidente per le varie
figure, talché il panorama legislativo - non solo italiano - autorizza a ritenere che, con riferimento al fenomeno, sia
più proprio parlare di <<sistema di prelazioni>> (F.D. BUSNELLI, La prelazione nell’impresa familiare, in Riv. not.,
1981, p. 811).
cui la prelazione in ambito coattivo è espressamente contemplata 111. Ciò che infatti interessa alla
massa dei creditori non è il soggetto che si rende assegnatario di determinate attività nel
fallimento, ma unicamente il risultato delle operazioni di vendita e cioè l’acquisizione del
maggior ricavato possibile con cui procedere alla successiva fase di liquidazione dell’attivo 112.
Così nell’affitto di azienda, che è un fenomeno completamente diverso dalla locazione di
immobili, il problema resta che l’esistenza della prelazione dell’affittuario-gestore rappresenta
normalmente un oggettivo ostacolo al migliore realizzo possibile, in quanto costituisce
evidentemente un disincentivo alla partecipazione alla gara o all’asta dei soggetti potenzialmente
interessati all’acquisto. E questa è la stessa ragione per la quale il legislatore ha escluso nel
fallimento l’operatività della prelazione agraria che comporterebbe per il beneficiario la
possibilità addirittura di presentare domanda di mutuo e ritardare fino ad un anno il pagamento,
deprimendo così certamente una eventuale pluralità di aspirazioni all’acquisto 113. Si consideri in
particolare che l’affitto di una res funzionalmente organizzata per essere produttiva e per
produrre reddito, essendo stipulato in relazione all’esercizio dell’attività economica è
completamente diverso dalla locazione di un qualsiasi altro bene di agevole valutazione anche
dall’esterno. Nel caso specifico, invece, solo l’affittuario è in grado di conoscere l’intrinseco ed
effettivo valore aziendale e soprattutto, entro certi limiti, è in grado di comprimerlo rispetto ai
valori di perizia al fine di rendere la stessa meno appetibile a potenziali interessati.
E sono proprio questi i veri problemi che dovrà valutare il comitato dei creditori
nell’esprimere il proprio parere.
9. Nonostante l’assenza di espliciti riferimenti positivi, la vendita unitaria dell’azienda, per
le ragioni descritte nel primo paragrafo, sempre stata ritenuta ammissibile per la compatibilità
logica e sistematica di tale figura, enucleata dalla prassi, con il processo fallimentare ed anche
per l’innegabile opportunità che l’operazione permette di cogliere sul piano della efficienza e
della funzionalità della procedura, anche in termini di attenuazione degli scompensi prodotti sul
sistema socio-economico dal dissesto dell’impresa 114.
Ora però esiste il pieno riferimento normativo. Innanzitutto l’art. 104 ter dispone che il
programma di liquidazione “deve indicare le modalità e i termini previsti per la realizzazione
dell’attivo, specificando…. d) le possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami , di
beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco”. Il nuovo art. 105 (Vendita dell’azienda, di
rami, di beni e rapporti in blocco), sancisce poi che “La liquidazione dei singoli beni ai sensi
degli articoli seguenti del presente Capo è disposta quando risulta prevedibile che la vendita
dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco
non consente una maggiore soddisfazione dei creditori”.
Tutto ciò, ovviamente, non significa che nel fallimento la liquidazione unitaria sia sempre
la migliore soluzione, nè che essa abbia come unica alternativa l’alienazione parcellizzata delle
singole componenti, potendo invece, ad esempio, anche prospettarsi una forma di vendita di
taluni beni previamente scorporati con la cessione in blocco del residuo patrimonio aziendale,
oppure la vendita di rami autonomi o ancora l’alienazione di uno o più gruppi omogenei di beni
111 M.C. VANZ, Prelazione legale e procedure espropriative: un problema ancora aperto, in Riv. dir. proc., 1995,
p. 920.
112 E. CAPUTO, Prelazione legale e vendita fallimentare cit., p. 1787.
113 Art. 8, comma 7, legge n. 590 del 1965.
114 Talora poi la vendita unitaria consente di perseguire obiettivi altrimenti irrangiungibili, come il subentro
dell’aggiudicatario nella locazione dell’immobile aziendale, o in altri contratti imprescindibili, rispetto all’attività
economica, l’utilizzo di segni distintivi dell’impresa, il mantenimento di licenze, autorizzazioni o concessioni
amministrative, la conservazione dei posti di lavoro, etc. (G. SCANZANO, Vendita fallimentare dell’azienda, in Atti
del convegno S.I.S.CO. su Gestione e alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1991, p. 154).
come macchinari, crediti, semilavorati, materie prime. Non a caso l’art. 105, penultimo cpv.,
prevede che “il curatore può procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o
più società, eventualmente di nuova costituzione, dell’azienda o di rami della stessa, ovvero di
beni o crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la responsabilità dell’alienante
ai sensi dell’art. 2560 del codice civile…”.
Il criterio che deve guidare la scelta tra le differenti soluzioni è normalmente quello della
convenienza economica, da apprezzare avendo riguardo alla presumibile entità del realizzo al
netto delle spese di conservazione e di vendita. Questa regola è attenuata solo nel sistema
speciale di liquidazione di aziende socialmente rilevanti, ove il criterio viene temperato
dall’esigenza di conservazione dell’azienda in funzione del mantenimento dei livelli
occupazionali. Infatti in questo caso la circolazione viene necessariamente condizionata
dall’accordo sindacale previsto dalla legge n. 428 del 1990. Nella sostanza, occorre valutare in
funzione della maggiore soddisfazione dei creditori, se la cessione dei singoli beni consenta di
realizzare un ricavo pari o superiore a quello realizzabile mediante la vendita unitaria del
complesso aziendale, ove il collegamento funzionale può determinare un plusvalore rispetto al
valore delle singole componenti 115.
E’ chiaro che la convenienza talora non è semplicisticamente identificata in una mera
differenza di prezzo ma può accadere che vada considerata nei più ampi termini del contesto in
cui la procedura fallimentare si colloca e con essa l’interesse dei creditori concorsuali. Ad
esempio, la posizione dei lavoratori, portatori di due diversi interessi, quello al soddisfacimento
del proprio credito e quello al mantenimento del posto di lavoro, può assumere particolare
importanza nel caso di trasferimento: soprattutto per le aziende socialmente rilevanti in cui i
lavoratori, per effetto dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, sono divenuti soggetti attivi dello
stesso trasferimento, potendo incidere, in virtù dell’eventuale accordo trilatero assunto con
alienante ed acquirente, sul prezzo di vendita 116.
Non a caso il nuovo articolo 105, al terzo comma, l. fall., dispone in modo apparentemente
pleonastico che “Nell’ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d’azienda, il
curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo
parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di
lavoro consentite dalle norme vigenti”.
E d’altra parte, già in passato, una certa giurisprudenza ha sostenuto che ai fini della
valutazione comparativa delle offerte in sede di vendita di beni dell’impresa fallita, l’impegno ad
assumere un certo numero di lavoratori costituiva legittimo elemento di preferenza 117.
In un’altra occasione, poi, la Suprema Corte ha ritenuto che ai fini della valutazione della
maggior convenienza, a parità di offerte economiche, ben può essere presa in considerazione
l’incertezza circa la situazione giuridica che, per effetto di una delle scelte alternativamente
possibili si determinerebbe 118. In sostanza la Cassazione ha ritenuto legittimo il provvedimento
115 Trib. Roma 2 aprile, 1994, in Dir. fall., 1994, II, p. 1204-1205, con riferimento ad un concordato preventivo con
cessione, ha affermato che <<l’intero complesso industriale dovrà essere venduto in uno o più lotti privilegiandosi, a
parità di condizioni, la preservazione dell’unità della struttura industriale. In alternativa, e ove la vendita
dell’azienda si dimostrasse economicamente impraticabile ed il mantenimento dell’attività minima di produzione,
necessario per preservare il valore aziendale, importasse oneri negativi sulla procedura, si procederà alla vendita dei
singoli beni anche smembrando l'unità aziendale>>.
116 Infatti, l’art. 47, commi 5 e 6, sancisce che per evitare l’accollo dei debiti pregressi derivanti dai rapporti di
lavoro ed il trasferimento dei dipendenti all’acquirente o all’affittuario dell’azienda appartenente all’impresa fallita
con più di quindici dipendenti, deve essere seguita una procedura di consultazione sindacale che si concluda con un
accordo sul mantenimento anche parziale dell’occupazione.
117 Cfr. Trib. Savona 19 ottobre 1978, soc. Artistico Vetraria di Altare, in Giur. comm., 1979, II, p. 250.
118 Cass. 3 marzo 1997, n. 1850, in Fallimento, 1997, p. 1100 s., che, peraltro rileva che il provvedimento del
giudice delegato che disponeva la vendita non conteneva riferimento al diritto di prelazione e che solo in sede di
aggiudicazione, ed a fini cautelativi, fu inserita questa clausola di salvezza. E tenuto conto che, comunque il diritto
con il quale il giudice delegato ha preferito aggiudicare l’azienda del fallito all’affittuario
endoconcorsuale, non per motivi di prelazione, ma perché l’aggiudicazione a chi già ne aveva il
possesso eliminava le sicure dispute ed il conseguente contenzioso, garantiva la ottimale custodia
e conservazione del complesso dei beni prima del loro definitivo trasferimento e consentiva una
migliore identificazione dei beni oggetto della vendita evitando contestazioni in ordine a
possibili differenze tra i beni offerti e quelli effettivamente consegnati (ad esempio per
dispersioni o danneggiamenti) 119. Ebbene in un caso come questo la convenienza è stata
individuata nella più agevole soluzione dei problemi che potenzialmente potevano scaturire dalla
liquidazione e nella possibilità di evitare ogni possibile strascico.
In ogni caso il legislatore ha sciolto il vecchio nodo delle forme processuali della vendita unitaria
del compendio aziendale, eventualmente comprensivo di cespiti immobiliari 120, rispetto alle
quali lungamente si era dibattuto e che per quanto ci riguarda ci aveva portato ad individuare
nella vendita senza incanto la formula più idonea sul piano interpretativo. Il secondo comma
dell’art. 105 dispone che “la vendita del complesso aziendale o di rami dello stesso è effettuata
con le modalità di cui all’art. 107, in conformità a quanto disposto dall’articolo 2556 del codice
civile”. L’art. 107 a sua volta prevede che “le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati
dal curatore, tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base
di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti,
assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli
interessati. Per i beni immobili, prima del completamento delle operazioni di vendita, è data
notizia mediante notificazione da parte del curatore, a ciascuno dei creditori ipotecari o
comunque muniti di privilegio”.
Il trasferimento dell’azienda stipulato dal curatore sarà soggetto alle forme di cui all’art.
2556, c.c., ed in virtù della legge 12 agosto 1993, n. 310, a fini probatori, come per l’affitto,
dovrà assumere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con l’intervento
del notaio che deve poi provvedere a curare l’adempimento delle relative formalità pubblicitarie,
compresa l’iscrizione nel registro delle imprese.
10. Il nuovo sistema di vendite fallimentari, applicato anche all’azienda rende molto più
agevole il funzionamento procedimentale dell’eventuale diritto di prelazione all’acquisto. Una
certa giurisprudenza ha ritenuto in passato che il diritto di prelazione legale per le aziende
socialmente rilevanti addirittura incompatibile con alcune forme di vendita, considerato che, in
particolare, nell’ipotesi di incanto la possibilità di dilatare i tempi per la formazione del prezzo di
aggiudicazione, per effetto dell’aumento del sesto, non era coordinabile “con il meccanismo
piuttosto rigido sul piano della consecutio temporum, previsto per l’esercizio della prelazione da
parte dell’affittuario”.
di prelazione non spettava all’affittuario, di fronte ad offerte omogenee è legittimo che il giudice delegato abbia
preferito la soluzione che comportava meno problemi e che quindi garantiva meglio l’interesse dei creditori.
119 Trib. Aosta 7 febbraio 1994, in Dir. fall., 1995, II, p. 892 s., con nota di D. DI GRAVIO, La vendita fallimentare
dell’azienda con identiche offerte contrapposte. In particolare il tribunale ha ritenuto, senza entrare nel merito della
pretesa esistenza del diritto di prelazione ai sensi dell’art. 3 comma 4 legge n. 223 del 1991, che l’aggiudicazione ad
una società diversa da quella che aveva in affitto l’azienda avrebbe quasi certamente comportato l’insorgenza di un
contenzioso conseguente al probabile reclamo, ex art. 26 legge fallim., da parte della stessa affittuaria; e tale
contenzioso avrebbe potuto pregiudicare il tempestivo e regolare pagamento del corrispettivo da parte
dell’aggiudicataria che avrebbe potuto lamentare di aver appreso solo in sede di gara o dopo di essa che uno dei
concorrenti vantava un diritto di prelazione sui beni. L’aggiudicazione alla società affittuaria, a parità di termini
economici, garantisce, sotto ogni profilo, la migliore custodia e conservazione del notevole compendio di beni
alienati prima del loro definitivo trasferimento all’acquirente: ciò che ragionevolmente non avrebbe potuto accadere
in caso di aggiudicazione a soggetto diverso.
120 Così Cass. 23 aprile 1998, in Fallimento, 1999, p. 177.
Infatti, secondo il precetto legale, speciale (ed adesso anche generale) l’autorità che
procede alla liquidazione provvede a comunicare entro dieci giorni il prezzo così stabilito
all’imprenditore cui sia riconosciuto il diritto di prelazione. Tale diritto deve essere esercitato
entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione. Come è agevole notare la legge
introduce in tal modo una ulteriore forma di aggiudicazione provvisoria, tale essendo quella
disposta a favore del maggiore offerente, una volta attribuito all’affittuario il potere di caducarla
nei quindici giorni successivi attraverso un proprio atto di volontà inteso all’esercizio positivo
del diritto di prelazione. Ebbene per la citata giurisprudenza non sarebbe stato ammissibile che
ad un’aggiudicazione provvisoria (quella del maggior offerente per il periodo in cui possono
pervenire offerte in aumento di sesto) se ne aggiungesse anche un’altra (per tutto il successivo
periodo in cui l’affittuario può esprimere la prelazione) 121.
In verità, pur ritenendo che l’esercizio del diritto di prelazione meglio si combinava con la
vendita senza incanto, non condividevamo i risultati di questa giurisprudenza, anche perché tutte
le argomentazioni venivano comunque superate prevedendo che la comunicazione all’affittuario
del prezzo definitivo avvenisse solo dopo la decorrenza del termine per l’aumento del sesto 122.
Nelle ipotesi in cui il fallimento abbia stipulato un contratto di affitto di azienda con
prelazione legale o convenzionale, gli organi concorsuali, a nostro avviso, vedranno limitata la
propria discrezionalità rispetto alla vendita, nel senso che non potranno scegliere forme di
liquidazione che si risolvano nella disgregazione del complesso aziendale e quindi nella
vanificazione del diritto di prelazione dell’affittuario. O meglio, potranno porre in vendita i
singoli beni in modo frazionato solo dopo aver esperito inutilmente il tentativo di vendere
l’azienda in blocco e dopo che quindi l’affittuario abbia perso, per mancato esercizio, il suo
diritto di prelazione all’acquisto. Ciò risulta chiaro dalla semplice lettura della norma, ove la
speciale previsione di una particolare procedura da seguire, riduce i margini decisionali che la
legge normalmente attribuisce agli organi del fallimento. Il contratto di affitto assume in questa
ottica funzione liquidatoria ed è la risultante di una scelta definitiva sul trasferimento unitario e
complessivo dell’azienda.
A norma dell’art. 104 bis, “esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di
vendita dell’azienda, o del singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica 123
121 Così Trib. Monza 19 aprile 1992, cit., p.156. Inoltre come si è giustamente rilevato (M. MASTROGIACOMO,
Vendita all’incanto di azienda nel fallimento, in Giur. comm., 1994, p. 160, nota al provvedimento in esame), nel
nostro ordinamento non si può affermare una generale incompatibilità tra diritto di prelazione e vendita all’incanto,
infatti tra l’altro, <<il chiaro disposto dell’art. 2480, secondo e terzo comma, prevede che in ipotesi di quote di
società a responsabilità limitata, per statuto intrasferibili, acquisite nella massa attiva fallimentare, la relativa vendita
debba farsi con incanto, e la società entro dieci giorni dall’aggiudicazione possa proporre un terzo che acquisti le
quote allo stesso prezzo, rendendo l’aggiudicazione priva di effetto. Si vede pertanto che un diritto di preferenza è
nel nostro sistema compatibile con la vendita all’incanto per specifica disposizione di legge>> (sull’argomento: C.
MANDRIOLI, Misure cautelari ed esecutive su quote di società a responsabilità limitata, in Foro it., 1948, I, c. 448;
A. BONSIGNORI, Espropriazione su quote di società a responsabilità limitata Milano, 1961; G. VILLANACCI,
Sequestro giudiziario di quote di società a responsabilità limitata, Padova, 1995). A prescindere dal tipo di
procedura, ci pare opportuno se non addirittura indispensabile che nell’avviso di vendita dell’azienda data in affitto
endofallimentare sia espressamente detto che sul bene esiste un diritto di prelazione e che conseguentemente, fino a
che non decorre il termine per l’esercizio di questo diritto, l’aggiudicazione è da considerarsi provvisoria (in questo
senso anche D. DI GRAVIO, La prelazione degli affittuari nelle vendite fallimentari, in Temi romani, 1991, p. 299).
122 F. FIMMANÒ, op. loc. ult. cit. Era sufficiente che il giudice delegato stabilisse nell’ordinanza di vendita un
termine, per il versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario, non superiore ai sessanta giorni come previsto
dall’art. 576, n. 7, c.p.c., tale da evitare che maturi prima che sia decorso il minor termine fissato dalla legge a
favore dell’affittuario per l’esercizio della prelazione. Laddove l’affittuario eserciti poi la prelazione il giudice
delegato ne darà atto e farà luogo alla vendita a favore dell’affittuario
123 La forma della comunicazione deve evidentemente essere quella scritta, tenuto conto che si innesta in un
procedimento di vendita forzata. Per la prelazione agraria in sede di alienazione volontaria, la Suprema Corte ha
invece ritenuto che il diritto di prelazione previsto dall’art. 8, della legge n. 590 del 1965, diventa attuale e concreto
nel momento in cui il proprietario concedente comunica ai soggetti indicati in detto articolo, in qualunque modo (e
perciò anche verbalmente), la sua volontà di alienare il fondo a titolo oneroso, non avendo carattere cogente ed
all’affittuario, il quale può esercitare il diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento
della comunicazione” (penultimo cpv, parte seconda). Tale diritto ad essere preferito può essere
esercitato solo dopo che sia completamente terminato il procedimento di aggiudicazione, in
quanto condizione essenziale dell’operazione è comunque la vendita al miglior prezzo possibile.
Nell’ordinanza che dispone la vendita deve essere espressamente detto che l’azienda è stata
concessa in affitto nel corso della procedura e che quindi è oggetto di prelazione a favore
dell’affittuario; ciò al fine soprattutto di dare una corretta informazione agli eventuali interessati
e determinarne una giusta formazione della volontà di partecipare alla vendita.
D’altra parte, l’espressa indicazione nell’ordinanza di vendita della presenza della
prelazione non ha alcun valore di giudicato né comporta un accertamento incontrovertibile della
sua esistenza. Il provvedimento del giudice delegato non è, infatti, espressione di giurisdizione di
cognizione ma viene reso nell’ambito della vendita dei beni come espressione di giurisdizione
esecutiva e non ha attitudine a divenire cosa giudicata.
La comunicazione del prezzo al prelazionario, secondo un certo orientamento,
costituirebbe una proposta contrattuale e la relativa accettazione comporterebbe l’automatica
conclusione del contratto 124. Al contrario, in base a una diversa impostazione, la denuntiatio
sarebbe un mero atto non negoziale di interpello inserito nell’ambito di quella più ampia vicenda
acquisitiva di tipo legale rappresentata dalla prelazione 125. Secondo un ulteriore orientamento,
infine, essa costituirebbe solo espressione di adempimento di un obbligo legale di informativa,
volto a porre il prelazionario nella condizione di esercitare il proprio diritto potestativo.
Invero, a noi pare, in linea con sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione 126, che la
comunicazione al prelazionario abbia natura di “atto di interpello non negoziale, anche se
presenta oggettivamente il contenuto di una proposta attraverso l’indicazione delle condizioni del
trasferimento e costituisca al tempo stesso, in quanto atto dovuto, oggetto di uno specifico
obbligo legale” 127. L’adesione del titolare del diritto di prelazione, oltre a non costituire
accettazione di una proposta produttiva come tale di effetti traslativi, non costituisce neppure
l’esercizio di un diritto potestativo, ma gli consente solo di acquistare il diritto alla successiva
conclusione del contratto. In buona sostanza, a seguito dell’aggiudicazione al terzo, mancando il
diritto di riscatto, la facoltà di esercitare la prelazione si tramuta in opzione a vantaggio
dell’affittuario.
D’altra parte, la prelazione, è chiaramente una vicenda acquisitiva di tipo legale, non
negoziale, caratterizzata da passaggi graduali, scanditi da norme specifiche, operante come
limitazione alla libertà negoziale del soggetto tenuto a rispettare l’altrui diritto ad essere preferito
ed al cui interno si collocano avvisi e comunicazioni. In particolare tale vicenda è contrassegnata
da due dati fortemente caratteristici: un complesso meccanismo preordinato alla determinazione
del prezzo, e la natura del soggetto tenuto ad operare la denuntiatio, portatore istituzionali di
interessi superindividuali 128.
La denuntiatio all’affittuario, titolare del diritto di prelazione, va fatta soltanto dopo la
formulazione di offerte impegnative da parte dei potenziali acquirenti e l’individuazione della
maggiore, in quanto la legge parla di “definitiva determinazione del prezzo”, e non potrebbe
inderogabile il procedimento notificatorio previsto dall’art. 8 (Cass. 27 gennaio 1999, n. 723, in Vita not., 1999, p.
89 s. con nota di R. TRIOLA, Osservazioni in tema di prelazione agraria e forma della denuntiatio).
124 In tal senso per tutte cfr. Cass. 24 ottobre 1983, n. 6256, in Foro it., 1983, I,1, c. 3004; Cass. 1 aprile 1987, n.
3124.
125 Cass. 11 marzo 1946, n. 252; Cass. 10 aprile 1986, n. 2521, Cass. 17 aprile 1986, n. 2726.
126 Cass. Sez. unite, 4 dicembre 1989, numeri 5357 e 5359.
127 C. DE MARTINI, La prelazione dell’affittuario di azienda nel corso delle procedure concorsuali, in Dir fall.,
1993, I, p. 257. E d’altra parte la configurazione proposta però in via generale da una parte della dottrina, cfr. tra gli
altri G. FURGIUELE, Contributo allo studio della struttura delle prelazioni legali, Milano, 1984; G. VETTORI,
Efficacia ed opponibilità del patto di preferenza, Milano, 1988.
128 C. DE MARTINI, La prelazione dell’affittuario di azienda nel corso delle procedure concorsuali, cit, p. 259.
essere in nessun caso ritenuto tale il valore indicato dal giudice nel provvedimento che fissa le
modalità di vendita basato sulla stima peritale dei beni 129, la quale costituisce soltanto una mera
ed astratta valutazione tecnica di quel minimo realizzo che condiziona i poteri liquidativi degli
organi del fallimento 130. Peraltro, il provvedimento di nomina dell’esperto è un atto meramente
preparatorio della vendita e le osservazioni che il debitore può fare in ordine alle conclusioni
dell’esperto sulla stima non danno luogo in alcun caso ad una opposizione in senso tecnico 131.
Il valore di stima è un valore teorico meramente programmatico, laddove il prezzo è invece
l’incontro di volontà tra acquirente ed alienante riguardante il valore da attribuire ad una certa
cosa e perciò non può essere che il corrispettivo offerto, in modo definitivo, per l’acquisto
dell’azienda 132.
Per individuare la definitiva determinazione del prezzo, bisogna evidentemente fare
riferimento al procedimento previsto nella ordinanza del giudice delegato che il nuovo art. 107,
disciplina in modo abbastanza elastico lasciando le specificazioni procedimentali alla
discrezionalità degli organi fallimentari.
C’è da chiedersi se in questo procedimento il giudice possa concepire una ulteriore gara
ristretta tra aggiudicatario provvisorio e prelazionario, visto che l’obiettivo principale della
procedura fallimentare, essenzialmente liquidatoria, è quello di realizzare il massimo del ricavato
possibile dalla vendita dell’attivo, ed in questa ottica l’ulteriore incanto tra aggiudicatario e
prelazionario garantirebbe il raggiungimento dell’obiettivo prioritario della procedura.
Tuttavia nel sistema, la massimizzazione di questa finalità sembra cedere il passo alle
esigenze della riallocazione dei valori aziendali, sui cui il comitato dei creditori si esprime a
monte. Un sistema di questo tipo, è meno virtuoso rispetto ai normali principi dell’offerta e della
domanda nella determinazione dei valori di mercato ed agli obiettivi normali del fallimento,
tuttavia genera minori distorsioni, dando luogo alla formazione di prezzi forse talvolta inferiori a
quelli potenzialmente raggiungibili, ma meno esposti a speculazioni di tipo parassitarie.
Peraltro, macroscopiche distorsioni potrebbero trovare comunque correzione nella generale
applicazione dell’art. 108, l. fall., che deve essere tenuto presente dal giudice delegato o dal
tribunale in sede di reclamo, anche dopo l’aggiudicazione ed il versamento del prezzo con
l’unico limite nel decreto di trasferimento della proprietà del bene 133.
129 In tal senso anche E. NORELLI, La prelazione dell’affittuario nella l. n. 223 del 1991: aspetti processuali, in Dir.
fall., 1993, I, p. 239; A. CAIAFA, L’impresa in crisi: esigenze, cit., p. 232; F. SEVERINI, Il diritto di prelazione
concorsuale, cit., p. 233; M. MASTROGIACOMO, Il diritto di prelazione, cit., p. 268. Il generico riferimento che la
norma fa ad una non meglio identificata <<procedura di definitiva determinazione del prezzo>>, è molto
probabilmente legato all’esigenza di contemplare anche quelle particolari modalità di liquidazione dei beni previste
in procedure diverse dal fallimento, quali ad esempio la vendita senza incanto dei complessi aziendali prevista
dall'art. 6 bis, della legge n. 95 del 1979, sull’Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, o i modi di
liquidazione previsti nella sentenza di omologazione del concordato preventivo o rimessi al commissario liquidatore.
130 Nello stesso senso anche Cass. 27 ottobre, 1994, n. 8861, in Fallimento, 1995, p. 616 s., la quale, escludendo la
legittimazione al reclamo da parte del prelazionario in ordine al provvedimento del giudice di fissazione delle sole
modalità di vendita, nega implicitamente che il prezzo di cui all’art. 3, comma 4, legge 223 del 1991, possa
considerarsi determinato sulla base della sola perizia di stima.
131 Cass. 12 aprile 1975, n. 1691, in Giust. civ., 1975, I, p. 1074 s.
132 Si è affermato (M. MASTROGIACOMO, Novità in tema etc., cit., p. 526) che caratteristica tipica della prelazione
nel suo significato giuridico, è la presenza di una fase di trattativa svolta con i terzi attraverso la quale viene
determinato un prezzo su cui viene successivamente esercitata la prelazione. Vero è che nel caso delle locazioni
urbane la denunciatio, secondo la migliore impostazione, può prescindere da offerte di acquisto da parte di terzi e
costituire un’autonoma determinazione del proprietario, diretta a segnalare le condizioni alle quali il diritto di
prelazione può essere esercitato, tuttavia il trasferimento al terzo contattato dopo la denunciatio è possibile solo alle
condizioni in precedenza comunicate al locatario. In questo senso deve essere intesa la presenza del terzo contraente.
Ciò significa che pure nell’ipotesi di vendita fallimentare, la trattativa con il terzo, anche a mezzo di incanto, non
potrà concludersi a condizioni diverse da quelle comunicate dall’affittuario di azienda.
133 Cfr. per tutte Cass. 18 gennaio 1991 n. 486, in Fallimento, 1991, p. 685; Cass., 31 marzo 1989, n. 1580, ivi,
1989, p. 892; Trib. Milano 8 gennaio 1996, in Dir. fall., 1996, II, p. 344.
E’ opportuno, infine, ricordare che secondo un altro orientamento, formatosi tuttavia con
riferimento alla prelazione legale per aziende socialmente rilevanti, il diritto di prelazione,
istituito a favore degli affittuari di aziende assoggettate a fallimento, sarebbe un diritto
immediato e preclusivo, da consumare, una tantum, appena terminate le procedure per la
determinazione del prezzo di vendita. In pratica, l’azienda, prima ancora che ne venga fissata la
vendita con incanto o senza incanto o nelle altre forme consentite, andrebbe offerta
all’affittuario; il quale, in caso di mancato esercizio del diritto di prelazione, non potrebbe più
reclamare, nel corso ulteriore delle operazioni, questa sua posizione privilegiata 134. Secondo tale
orientamento, l’interpello di prelazione andrebbe fatto in linea diretta dal curatore all’affittuario
ed in caso di rifiuto o silenzio, il curatore dovrebbe senza indugio provvedere alla vendita
dell’azienda ad altri, chiedendo che nell’ordinanza di vendita <<il giudice inserisca la nota che
c’è stato l’interpello sulla prelazione dell’affittuario, che questi non l’ha esercitata e che dunque
l’azienda viene venduta libera, ovviamente con il subentro dell’acquirente nel contratto di
affitto>> 135.
Questa impostazione, non condivisibile 136, nell’attribuire un diritto di precedenza e non di
mera preferenza all’affittuario, è potenzialmente idonea ad eliminare quella pluralità di
aspirazioni che è condizione essenziale per la vendita forzata in quanto funzionale al
raggiungimento del migliore risultato economico possibile. Un diritto di prelazione così
concepito, non si limiterebbe a sminuire l’ampiezza della gara, ma in pratica finirebbe con
l’eliminarla con grave pregiudizio del ceto creditorio. Evidentemente, la tutela dell’interesse
134 In tal senso D. DI GRAVIO, La prelazione degli affittuari, cit., p. 910 s., per il quale <<se così non fosse,
l’affittuario verrebbe a polverizzare le possibilità di realizzo dell’attivo fallimentare nel senso che potrebbe, in ogni
caso, sovrapporre il suo diritto di prelazione all’offerta dei terzi candidati all’acquisto, venendo così a mettere in atto
una specie di sciacallaggio legalizzato, nel senso che proprio in virtù della sua posizione, l’affittuario avrebbe la
possibilità di <<rovistare fra le macerie>> e portare a proprio vantaggio una situazione capace di disintegrare e
distruggere la possibilità di attribuire e di conservare alla liquidazione concorsuale la finalità dell’osservanza del
rispetto della par condicio, secondo le linee fondamentali tracciate dagli artt. 2740 e 2741 cod. civ.>>. Nello stesso
senso A. FERRETTI, Prelazione e affitto di azienda con immobili, in Dir. fall., 1993, p. 247 s., secondo cui il giudice
delegato ha <<l’obbligo di preventivo interpello dell’affittuario al quale dovrà essere riconosciuto il diritto
all’acquisto dell’azienda al valore di stima>>, e ciò concretizzerebbe una deroga all’art. 108 l.fall. in quanto <<la
deroga alla vendita con l’incanto consiste nell’adozione della forma di vendita a trattativa privata e non
nell’adozione delle forme previste dalla fattispecie di cui agli artt. 570 segg. cod. proc. civ.>>.
135 Analoga posizione assume qualcun altro (così V. SPARANO, Il trasferimento di azienda, affitto e cessione, nelle
procedure concorsuali, in Dir. fall., II, p. 1202, nota a Trib. Roma 2 aprile 1994) secondo cui il giudice delegato
dovrebbe in questo caso tener presente non il miglior prezzo realizzabile, cioè quella finalità che entra nel sistema
degli incanti con un prezzo base ed eventuali aumenti o diminuzioni, cioè il prezzo del mercato, ma dovrebbe invece
individuare un prezzo di vendita dell’azienda in correlazione alla prospettiva di cessione dell’azienda stessa o di sue
parti, tenendo conto dei riflessi che tale cessione può avere sull’occupazione aziendale, essendo questo il parametro
specifico individuato nel comma 2 dell’art. 3. E che <<una volta che si è aperta l’ipotesi di salvaguardia, anche
parziale, dei livelli di occupazione tramite la cessione, cambiano i parametri di riferimento della determinazione del
prezzo di vendita e ciò perchè non è tanto l’ipotesi che si realizzi la prelazione e quindi avvenga la cessione su detti
presupposti, ma il contrario, che deve essere tenuto in considerazione. Se infatti, l’affittuario esercita il diritto di
prelazione, la procedura realizza il valore dell’azienda e la collettività il mantenimento, seppure parziale, dei posti
di lavoro. All’inverso, il pericolo da valutare a monte, sta nell’ipotesi che il prezzo sia tanto poco competitivo
nell’interesse dell’acquirente eventuale, da non indurlo a tramutare la gestione di affitto in gestione finale con
l’acquisto dell’azienda. In tal caso l’affitto avrà il suo esaurimento naturale, opportunamente preordinato, ma la
C.I.G. non potrà essere prorogata e secondo l’interpretazione rigoristica, il fallimento, avendo già negato per
presupposto la continuazione dell’attività, non può porre più in vendita l’azienda e quindi è costretto al rispetto della
liquidazione fallimentare con la vendita dei singoli comparti dell’azienda>>.
136 Del nostro stesso parere è la Cassazione (27 ottobre 1994, n. 8861, cit. , p. 616 - 617) secondo cui <<il titolare
di un diritto di prelazione ha motivo di doglianza solo quando venga omessa ogni comunicazione del prezzo di
vendita in concreto realizzato con il contestuale invito ad esercitare il suo diritto di rendersi acquirente dell’azienda
alle medesime condizioni, ma non ha alcun diritto a dolersi della fissazione delle modalità della vendita, non
essendo ipotizzabile un diritto di prelazione che possa esercitarsi prima della determinazione del prezzo, salva
restando, in caso di contestazione, ogni questione relativa alla titolarità del diritto di prelazione ed alla sua
sopravvivenza dopo la cessazione del rapporto di affitto>>.
oggettivo dell’impresa e del lavoro non può mai giustificare la violazione di un principio chiave
del sistema delle vendite fallimentari e della procedura in genere.
Una soluzione diversa sarebbe paradossalmente in grado di generare distorsioni
diametralmente opposte. Infatti nei casi in cui il valore di stima fissato nel provvedimento di
vendita fosse particolarmente basso, il prelazionario sarebbe messo nella ingiusta condizione di
fare un acquisto vantaggiosissimo senza dover subire alcun rilancio ed in violazione dei
fondamentali principi economici dell’offerta e della domanda. Al contrario in caso di perizia
notevolmente superiore al prezzo di mercato, l’affittuario per esercitare il proprio diritto di
prelazione dovrebbe accettare di pagare un inaccettabile prezzo imposto non determinato
attraverso l’offerta di terzi, rinunciando altrimenti ad ogni situazione di privilegio rispetto ad altri
concorrenti.
Nel termine di cinque giorni dalla comunicazione, dunque, l’affittuario può dunque
esercitare il suo diritto di prelazione mediante presentazione nella cancelleria di una
dichiarazione contenente l’indicazione del prezzo, del tempo e delle modalità di pagamento
come già definitivamente e preventivamente determinate dall’aggiudicatario. Tale dichiarazione
di esercizio della prelazione riteniamo debba essere accompagnata dal deposito di una cauzione
nella misura fissata nell’ordinanza di vendita dal giudice delegato. In concreto la somma da
depositare è più un acconto che una cauzione, considerato che, secondo la nostra impostazione,
l’esercizio della prelazione non comporta la partecipazione ad una ulteriore gara ma configura la
manifestazione di una definitiva volontà contrattuale che sostanzialmente conclude il
procedimento. La dichiarazione di esercizio del diritto di prelazione contiene, infatti, una vera e
propria offerta di acquisto, assoggettata alla relativa disciplina legislativa, per cui il prelazionario
sarà tenuto a versare il prezzo di acquisto, scomputata la cauzione, nei modi e nei termini fissati
dal giudice delegato.
Un problema di non agevole soluzione si pone qualora al prelazionario non venga fatta
alcuna denunciatio e la procedura di vendita dell’azienda dia esito positivo, o qualora il giudice
delegato proceda all’emanazione del decreto di trasferimento a vantaggio dell’aggiudicatario in
pendenza del termine per l’esercizio del diritto di prelazione o addirittura nonostante l’avvenuto
e regolare esercizio dello stesso.
Innanzitutto, occorre chiedersi, in tal caso, se l’affittuario abbia quel diritto di riscatto nei
confronti del terzo acquirente che spesso segue ed assiste il diritto di prelazione 137 o se al
contrario conservi solo la facoltà di agire per danni nei confronti degli organi della procedura, o
verso la procedura stessa, per la mancata comunicazione 138.
Normalmente il diritto di sequela accede proprio a quelle prelazioni che, mirano a tutelare
interessi generali o comunque superindividuali (prelazione agraria, prelazione c.d. urbana,
prelazione dello Stato per l’acquisto di beni di particolare interesse artistico, culturale, storico, ex
artt. 31,32 e 61, legge 1 giugno 1939, n. 1089), estendendosi talvolta a ipotesi riguardanti
interessi marcatamente privatistici (si pensi al retratto successorio ex art. 732 cod. civ.).
137 Nelle altre ipotesi di prelazione legale (agraria, urbana, successoria, etc.) il legislatore ha sempre previsto il
diritto di riscatto salvo casi particolari, quale ad esempio la prelazione del concedente nell’acquisto dei prodotti del
fondo mezzadrile ex artt. 2157 c.c. e 4 legge 15 settembre 1964, n. 756, in cui l’esclusione dello ius retractionis è
dovuta alla particolare natura del bene oggetto del diritto. Ciò ha portato qualcuno (L. MOSCARINI, voce Prelazione,
in Enc. dir., cit., p. 981 s.) a sostenere che il diritto di riscatto sia elemento indefettibile delle prelazioni legali. E
così, si è riconosciuto al prelazionario il diritto di riscatto dell’azienda venduta nell’ambito di procedure concorsuali
con riferimento alla prelazione ex art. 14 legge 27 febbraio 1985 n. 49 (cfr. A. PANDOLFO, Nuove leggi civili
commentate, cit., p. 522).
138 Non può escludersi, in casi specifici, una responsabilità in proprio del giudice delegato o del curatore qualora se
ne ravvisino gli estremi. La Cassazione (13 gennaio 1981, n. 295, in Foro it., 1981, I, p. 689) ha ritenuto
ammissibile il ricorso per Cass., ex art. 111 Cost., contro il decreto del tribunale fallimentare di rigetto del reclamo
avverso l’ordinanza del giudice delegato che, disponendo la vendita di un immobile, negava al reclamante,
conduttore dell’immobile in questione, il diritto alla prelazione nell’acquisto invocato ai sensi dell’art. 38 legge 392
del 1978.
Ciò deve sicuramente farci propendere per l’inapplicabilità di questo rimedio 139. Ciò, in
quanto il diritto di prelazione di cui discutiamo è sicuramente un diritto soggettivo, ma farlo
accompagnare da un diritto di seguito vorrebbe dire riconoscerne automaticamente la valenza
giuridica di diritto reale e cioè di diritto che può essere fatto valere non solo verso la procedura
ma erga omnes. Quanto alle prelazioni convenzionali, tende a prevalere la tesi che attribuisce
loro un’efficacia obbligatoria 140 a causa dell’impossibilità per il contratto di estendere i suoi
effetti oltre la sfera delle parti contraenti, ancorchè non mancano voci che vanno nel senso
opposto 141. Al contrario è abbastanza diffusa l’opinione che la prelazione legale abbia sempre
effetti reali, anche se a nostro parere tale opinione deriva, non da un’attenta valutazione della
struttura e natura della fattispecie, ma proprio dal fatto che alle prelazioni legali è quasi sempre
collegato ex lege un diritto di seguito 142. La conferma di questa impressione è data dalla
disposizione di cui all’art. 69, legge 27 luglio 1978, n. 392, ove è prevista la prelazione del
conduttore per la conclusione di un successivo contratto di locazione. Ebbene in caso di
violazione di tale prelazione legale, il conduttore può soltanto chiedere un particolare tipo di
risarcimento dei danni rappresentato da un compenso per la perdita dell’avviamento
commerciale. La scelta del legislatore di non riconoscere all’affittuario il diritto di riscattare
l’azienda in caso di mancata comunicazione, attribuendogli solo una tutela obbligatoria delle
proprie ragioni, deriva, a nostro parere, dalla particolarissima natura del soggetto tenuto ad
operare la denuntiatio, rappresentato da un ufficio giudiziario portatore di interessi pubblici.
11. Sul piano degli effetti della vendita fallimentare dell’azienda, in passato si è sostenuto
che dando luogo il procedimento concorsuale a trasferimenti di carattere coattivo, non dovrebbe
soffrire l’assoggettamento a disposizioni dettate per la circolazione negoziale 143, in quanto solo
la cessione volontaria è fondata su un atto di disposizione da parte del titolare del diritto
139 Nello stesso senso M. FERRO, Problemi e casi nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall.,1999,I, p. 466.
140 In dottrina A. CATRICALÀ, Funzioni e tecniche della prelazione convenzionale, in Riv. dir. civ., 1978, II, p. 546
s.; SANTORO PASSARELLI, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim dir. proc. civ., 1981, p.
697. Analogamente in giurisprudenza cfr. Cass. 13 maggio 1982, n. 3009; Cass. 30 marzo 1963 n. 794; Cass. 26
aprile 1968 n. 1270. In particolare Cass., 1 aprile 1987, n. 3124 ha affermato, in tema di prelazione convenzionale
immobiliare, che a differenza del contratto preliminare, che comporta l’immediata e definitiva assunzione
dell’obbligazione di prestare il consenso per il contratto definitivo, il patto di prelazione genera soltanto obbligazioni
della controparte: una negativa consistente nel non vendere ad altri se non dopo aver offerto la prelazione, e l’altra
positiva di vendere, ove si assuma la decisione in tal senso, al titolare del diritto di prelazione che abbia manifestato
intenzione di acquistare a seguito di comunicazione.
141 La Cassazione (26 febbraio 1988, n. 2045; e 30 marzo 1963, n. 794) ha addirittura affermato che al patto
convenzionale di prelazione può darsi esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932 c.c. In un’altra pronuncia
(20 giugno 1986, n. 4116), invece, la Suprema Corte, pur sostenendo che il patto di prelazione realizza un contratto
preliminare unilaterale sospensivamente condizionato, ha affermato che l’inadempimento da parte del promittente
dell’obbligo di preferire un determinato contraente non autorizza il titolare del diritto di prelazione ad ottenere
l’esecuzione in forma specifica ai sensi del 2932, c.c.,. Sulla realtà della prelazione convenzionale si veda pure G.
COTTINO, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, in Commentario del cod. civ. a cura di ScialojaBranca, Bologna Roma, 1970.
142 Il carattere della realità nei confronti di terzi e del connesso diritto di retratto può trovare fondamento, secondo
una certa impostazione, solo nella legge a causa dell’impossibilità per i contratti di estendere i loro effetti oltre la
sfera delle parti contraenti (art. 1372, c.c.) e la differenza tra le due prelazioni andrebbe appunto colta
nell’assorbente circostanza che in quella volontaria la tutela è data esclusivamente nei confronti del preferito, mentre
in quella legale, l’esercizio del potere di retratto, incide anche sulla posizione del terzo acquirente (G. FURGIUELE,
Contributo allo studio delle prelazioni legali, cit., p. 95).
143 In tal senso G. RAGUSA MAGGIORE, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, p. 662; A. COLASURDO, Vendita
dell’azienda in sede fallimentare e diritto di credito del prestatore d’opera, in Mass. giur. lav., 1970, p. 166. Al
contrario, D. PETTITI, op. cit., p. 105, ritiene che la normativa dettata in tema di circolazione volontaria dell’azienda,
data la sua generalità e gli interessi che tende a tutelare, deve ritenersi applicabile ad ogni fattispecie, salvo poi
accertare caso per caso la specifica compatibilità con la disciplina della procedura concorsuale.
trasmesso 144. Le vendite fallimentari non essendo il risultato di un incontro di due volontà
negoziali, ma di una volontà negoziale e di una disposizione coattiva, non hanno natura
contrattuale 145, e vanno configurate come vendite coattive giudiziarie, anche quando sono
effettuate a trattativa privata 146.
In realtà, in nessun dato positivo è ravvisabile una volontà del legislatore diretta a
distinguere il tipo di circolazione dell’azienda ai fini della disciplina applicabile. Nè dalle
espressioni in genere utilizzate nelle norme di cui agli artt. 2557-2560, c.c., e delle altre leggi
speciali, si ravvisa una discriminazione legislativa tra cessione negoziale e cessione giudiziale,
mancando qualsiasi accenno nelle diverse disposizioni all’elemento volontaristico. Peraltro,
anche sul piano della natura giuridica, il trasferimento coattivo pur essendo espressione di un
potere giurisdizionale, non rompe il nesso che caratterizza l’acquisto a titolo derivativo,
traducendosi comunque nella trasmissione dello stesso diritto del fallito 147.
La Cassazione ha giustamente rilevato che nella vendita forzata, pur non essendo
ravvisabile un incontro di consensi - tra l’offerente ed il giudice - produttivo dell’effetto
traslativo, essendo l’atto di autonomia privata incompatibile con la funzione giurisdizionale,
l’offerta di acquisto del partecipante alla gara costituisce pur sempre il presupposto negoziale
dell’atto giurisdizionale di vendita. E proprio tale elemento negoziale comporta, secondo i
giudici di legittimità, l’applicabilità delle norme del contratto di vendita compatibili con la natura
dell’espropriazione forzata 148.
Si tratta dunque di verificare la compatibilità con la liquidazione fallimentare delle norme
dettate dal legislatore specie in tema di circolazione dei crediti, debiti e contratti aziendali
sinallagmatici, partendo dal presupposto che tali rapporti non possono essere configurati come
beni dell’azienda e che il loro contestuale trasferimento è solo un effetto naturale della
fattispecie, fatte salve ipotesi eccezionali in cui taluni contratti sono funzionalmente inscindibili
dal complesso produttivo.
Innanzitutto, è da ritenere applicabile alla liquidazione concorsuale l’art. 2558, c.c, nei
limiti, per le ragioni e con gli effetti già ampiamente descritti per l’affitto.
Passando al tema dei crediti, l’art. 2559, c.c., dispone che “la cessione dei crediti relativi
all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore e di sua accettazione, ha effetto nei
confronti dei terzi, dal momento della iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese.
Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante”. La norma, che riguarda
i crediti di natura extracontrattuale, ovvero derivanti da contratti a prestazioni corrispettive già
eseguite da una delle parti o a prestazioni unilaterali, è compatibile con la disciplina della
liquidazione fallimentare, anche per quanto riguarda il regime pubblicitario cui è connessa
l’efficacia della cessione nei confronti dei terzi 149.
144 Al riguardo: R. NICOLÒ, Successione nei diritti, in Noviss. dig. Ital., vol. XVIII, Torino, 1971, p.10; S.
PUGLIATTI, Teoria dei trasferimenti coattivi, Messina, 1931, p. 152 s.; G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita
dell’azienda nel fallimento, cit. p. 131 s.; G.E. COLOMBO, L’azienda e il mercato, cit., p. 294; A. FONTANA, La
successione dell’imprenditore nel rapporto di lavoro, cit., p. 133 s., per il quale solo mediante un’interpretazione
atecnica e meramente descrittiva delle espressioni acquirente ed alienante si può riferirle sia ai trasferimenti
volontari che a quelli coattivi.
145 Cfr. tra gli altri A. BONSIGNORI, Liquidazione dell’attivo, cit., p. 70; ed in giurisprudenza Cass. 5 aprile 1977, n.
1299, in Giust. civ., 1977, I, p. 1169 con nota di ALVINO, Effetto traslativo della vendita forzata e questioni relative.
146 S. SATTA, L’esecuzione forzata, cit., p. 75.
147 In tal senso Cass. 9 novembre 1982, n. 5888, in Fallimento, 1983, p. 485; Cass. 5 aprile 1977, n. 1299, in Giust.
civ., 1977, I, p. 1169; Cass. 21 luglio 1969 n. 2724, in Mass. Giust. civ., 1969, p. 1401.
148 Cass. 17 febbraio 1995, n. 1730, in Fallimento, 1995, p. 1013, con nota di A. PATTI, Effetto traslativo nella
vendita immobiliare ed obbligo di custodia. Al riguardo cfr. A. SILVESTRINI, La liquidazione dell’attivo, in Dir. fall.,
1997, I, p. 903 s.
149 D’altra parte è ammissibile anche la vendita fallimentare in massa dei crediti, in quanto se per i mobili, tra cui
vanno annoverati i crediti a norma dell’art. 813, c.c., è prevista dalla legge la vendita in massa, la stessa non può non
estendersi anche ai crediti, se non negando in ogni caso, e non se ne vede ragione, all’Ufficio fallimentare il potere
In ogni caso, specie in sede fallimentare, si deve ritenere che il passaggio dei crediti
all’acquirente dell’azienda non avvenga automaticamente 150, ma solo in virtù di un apposito
patto con il quale le parti possono anche limitare la cessione ad alcuni crediti soltanto,
singolarmente individuati o per categorie, e precisare se la cessione avviene pro soluto oppure
pro solvendo, operando in assenza di specifica previsione l’art. 1267, c.c., 151.
Ed infatti il sesto comma del nuovo art. 105, l. fall., dispone che “la cessione dei crediti
relativi alle aziende cedute, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha
effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle
imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente”.
La questione più rilevante, ai fini della liquidazione concorsuale, resta (o meglio restava)
però quella della compatibilità dell’art. 2560, c.c., , che regola in via generale 152 la sorte dei
di alienare i crediti (G. BOZZA, op. cit., p. 31). Originariamente in senso contrario A. BONSIGNORI (Profilo
sistematico etc., cit., p. 149) che negava l’ammissibilità della vendita in massa sulla base della formulazione dell’art.
799 del vecchio codice di commercio che prevedeva espressamente la fattispecie, e l’ammetteva solo per singoli
crediti; successivamente l’autore ha cambiato opinione (La liquidazione dell’attivo, cit., p. 109 nota 2). In realtà, la
mancata menzione dei crediti nel secondo comma dell’art. 106, l. fall., a differenza dell’art. 799, del vecchio codice
di commercio, è irrilevante, anzi la menzione sarebbe stata superflua, sia perchè la norma di cui all’art. 106, comma
2, fa riferimento alle attività mobiliari, utilizzando una espressione più ampia di beni mobili e, perciò, ancor più
significativamente indicativa della comprensione dei crediti, sia perchè l’attuale sistema della vendita in massa, non
richiedendo più, come nel vigore del codice di commercio, il preventivo tentativo di esperimenti infruttuosi per
l’esazione dei crediti e di vendita singolare per gli altri beni, non ha necessità di menzionare i crediti accanto ai beni
mobili (G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita, cit., p. 64).
150 La giurisprudenza prevalente, invece, sul presupposto non condivisibile, che i crediti fanno parte dell’azienda
sostiene che la cessione degli stessi sia automatica con la possibilità di pattuirne l’esclusione (cfr. tra le altre, Cass.
11 luglio 1973, n. 2031, in Giust. civ. mass., 1973, p. 1081; Cass. 22 gennaio 1972, n. 171, in Giur. it., 1973, I, 1, c.
262; Cass. 9 dicembre 1974, n. 4140, in Giust. civ. rep., voce azienda, n. 11; Cass. 4 marzo 1978, n. 707, in Giust.
civ., 1969, I, p. 156 ed in Giur. it., 1969 I, 1, c. 116; Cass. 25 luglio 1978, n. 3723, in Giust. civ. mass., 1978, p.
1534; Cass. 15 febbraio 1979, n. 1001, in Giust. civ. rep., 1979, voce azienda, n. 29; Cass. 5 maggio 1995, n. 4873,
in Mass. giur. lav., 1995, p. 731). Nello stesso senso in dottrina (F. FERRARA JR., op. cit., p. 130; G.C. RIVOLTA, op.
cit., p. 30; M. GHIDINI, La disciplina giuridica dell’impresa, cit., p. 182; F. GALGANO, L’imprenditore cit., p. 85) ma
sui diversi presupposti della contrapposizione tra il primo e secondo comma dell’art. 2559, dell’equiparazione della
notifica della cessione dei crediti all’iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento dell’azienda,
dell’esigenza di attribuire all’acquirente una contropartita dei debiti aziendali di cui egli diviene corresponsabile e
della connessione economica dei crediti all’azienda. A tali argomentazioni altra parte della dottrina ha opposto: che
il termine cessione usato nel primo comma dell’art. 2559, c.c., è equivoco in quanto oltre ad indicare la fattispecie
causante il trasferimento, può essere riferito anche al trasferimento come effetto giuridico; che la prevista iscrizione
del trasferimento, riguardando l’atto traslativo e le sue clausole e non il fatto del trasferimento, richiede per il
passaggio dei crediti l’iscrizione di un contratto traslativo con la clausola cessione dei crediti; che la ratio della
norma non è costituita dall’esigenza di una contropartita per i debiti aziendali ma dall’esigenza di semplificare le
formalità normalmente necessarie per rendere la cessione efficace di fronte a terzi e che la connessione economica
dei crediti dell’azienda è meramente eventuale (cfr. tra gli altri D. PETTITI, op. cit., p. 78; A. DE MARTINI,
L’usufrutto di azienda cit., p. 113; G.U. TEDESCHI, op. cit., p. 51; G.E. COLOMBO, op. cit., p. 117 s.).
151 G. BOZZA, op. cit., p. 105. In mancanza di pattuizione perciò i crediti rimangono all’alienante, ad eccezione di
quelli aventi ad oggetto il godimento futuro di beni, di cui l’alienante abbia già pagato l’intero canone, o ai crediti di
consegna di un impianto già pagato, o aventi ad oggetto la prestazione di beni essenziali all’organizzazione
aziendale che non avrebbero alcuna utilità per l’alienante.
152 La sorte dei debiti aziendali, a seguito di trasferimento, è regolata oltre che dall’art. 2560 c.c., da disposizioni
particolari riguardanti: i debiti di lavoro (art. 2112 c.c.) di cui parleremo diffusamente nei paragrafi successivi, i
debiti previdenziali (art. 54 legge 7 marzo 1938) ed i debiti tributari. In particolare per questi ultimi esiste una
disciplina, introdotta dall’art.66 del D.p.r. 29 settembre 1973 n. 602 di riforma del sistema tributario, diversa da
quella generale. Il legislatore ha infatti escluso, in caso di trasferimento d’azienda, la responsabilità solidale del
cessionario, sancendo solo una responsabilità oggettiva sui beni mobili ai fini del recupero dell’Irpef, dell’Irpeg,
dell’Ilor etc., e delle relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per l’anno o l’esercizio in cui è avvenuta
la cessione o per quello anteriore. Evidentemente il contenuto della norma e la sua collocazione, accompagnate alla
mancanza di una disposizione che sancisce la responsabilità del cessionario, fanno dedurre che la responsabilità
oggettiva si traduce in un diritto di seguito, che quindi viene meno per effetto della purgazione a seguito della
vendita fallimentare. Quanto ai debiti IVA, i quali non rientrano nella citata norma, esiste una disciplina
sostanzialmente analoga a quella generale prevista dall’art. 2560. Si è affermato in particolare che l’art. 66 del D.p.r.
debiti relativi all’azienda ceduta, in quanto l’applicazione di questa disposizione può incidere in
modo decisivo sulla commerciabilità del complesso aziendale in sede fallimentare e sul
funzionamento stesso del sistema di liquidazione speciale. Per i debiti derivanti da rapporti di
lavoro subordinato, che trova una regolamentazione speciale nell’art. 2112, c.c., e nella
disciplina introdotta dalla legge n. 428 del 1990, si è già detto in tema di affitto, visto che la
norma si applica indifferentemente ad ogni ipotesi di circolazione 153.
L’art. 2560, c.c., sancisce, come noto, al primo comma, che l’alienante non è liberato dai
debiti aziendali anteriori al trasferimento se non risulta che i creditori vi abbiano consentito, ed al
secondo comma aggiunge che dei debiti aziendali, risultanti dai libri contabili obbligatori 154,
risponde anche l’acquirente dell’azienda 155 creando una fattispecie di accollo ex lege a. In realtài
n. 602, non prevede in presenza di circolazione di azienda, una responsabilità solidale del cessionario, ma stabilisce
solo una responsabilità oggettiva, sui beni dell’azienda ceduta, per il recupero dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche, nonchè relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per l’anno o per l’esercizio in cui è avvenuta
la cessione e per quello anteriore, da tutti i precedenti titolari se alla formazione dell’imponibile accertato nei loro
confronti hanno concorso i redditi derivanti dall’azienda ceduta. L’art. 66 limita detta responsabilità alla sola parte
di imposta relativa ai redditi d’impresa con la conseguenza che, per quanto concerne le ritenute d’acconto, non
sussiste alcuna possibilità di agire contro il cessionario (R.M. 15/4369, 27 ottobre 1977, in Direzione Generale
Imposte; sul tema si veda G. BOZZA, op. cit., p. 119-120; G. CARAMAZZA, Gli aspetti fiscali delle vendite nelle
procedure concorsuali, in Fallimento, 1987, p. 251 s.).
153 La Corte di Appello di Milano (23 settembre 1969, in Foro it.., 1970, I, c. 2000 s.) ha affermato che il
cessionario di azienda, appartenente a impresa fallita, non risponde dei debiti verso i lavoratori ai sensi dell’art.
2112, c.c., poichè altrimenti la natura giurisdizionale e definitiva dello stato passivo verrebbe alterata, visto che si
dovrebbe poi riconoscergli il diritto di dedurre dal prezzo l’importo dei debiti passati a suo carico. Peraltro, ciò
comporterebbe il sovvertimento del principio della statuizione definitiva del rango di prelazione, in quanto si
verrebbe a riconoscere ai prestatori di lavoro un diritto alla prededuzione che le norme della sezione V, del libro VI,
espressamente escludono (nello stesso senso Trib. Milano 27 giugno 1974, in Giur. it., 1976, I, 2, c. 86). Si è
rilevato che l’affermazione del carattere definitivo dello stato passivo non esclude che il creditore insinuato possa
agire nei confronti di un condebitore solidale in bonis, quale verrebbe ad essere l’acquirente dell’azienda. E’
presumibile che questi, in presenza di debiti di cui dovrà rispondere, decurti il prezzo dell’importo corrispondente,
ma il principio della par condicio non può essere invocato in contrasto con la sua ratio, che è quella di vietare che
un creditore attinga al patrimonio fallimentare in misura più ampia rispetto agli altri, allo scopo di impedire
l’adempimento di una obbligazione del fallito da parte di un soggetto diverso dallo stesso. In sostanza, non si può
parlare della violazione della par condicio per i creditori - tra cui tutti quelli che risultano dai libri contabili, e non
solo dipendenti - che trovano soddisfazione dal terzo acquirente, ma, eventualmente, per gli altri creditori, qualora,
per la decurtazione del prezzo dell’azienda, non trovassero capienza; ma questa è una questione di fatto da accertare
volta per volta, che non può valere come discriminante per l’inapplicabilità, in via assoluta, dell’art. 2560, c.c., (G.
BOZZA, op. cit., p. 108).
154 Pertanto, qualora le scritture non esistano o siano tenute irregolarmente, il cessionario non assume responsabilità
per i debiti, visto che la volontà del legislatore è evidentemente quella di dargli certezza (A. GRAZIANI, L’impresa
etc., cit., p. 174; A. DE MARTINO, op. cit., p. 275; G.E. COLOMBO, op. cit., p. 145 s.; D. PETTITI, op. cit., p. 93, per il
quale la responsabilità dell’acquirente sussisterebbe solo in caso di dimostrata malafede). La soluzione opposta
renderebbe impraticabile il trasferimento, in quanto il cessionario dovrebbe assumersi l’onere di fare l’investigatore
privato col rischio comunque di non venire a conoscenza dell’esistenza di tutti debiti, di cui dovrebbe in ogni caso
rispondere (per la responsabilità del cessionario per i debiti aziendali non risultanti dai libri ma dei quali si è venuti a
conoscenza in altro modo, propendono: G.C. RIVOLTA, Il trasferimento etc., cit., p. 37; V. PANUCCIO, La natura
giuridica delle registrazioni contabili, Napoli, 1964, p. 98-99; G.U. TEDESCHI, op. cit., p. 831).
155 La risultanza dai libri contabili obbligatori dei debiti aziendali, al momento del trasferimento, è ritenuta dalla
giurisprudenza circostanza imprescindibile della responsabilità del cessionario a norma dell’art. 2560, comma 2,
c.c.,. Per la Suprema Corte l’iscrizione nei libri contabili obbligatori dell’azienda è un elemento costitutivo
essenziale della responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti ad essa inerenti. Pertanto chi voglia far valere
i corrispondenti crediti contro l’acquirente dell’azienda ha l’onere di provare fra gli elementi costitutivi del proprio
diritto anche detta iscrizione, e se il giudice non può effettuare d’ufficio l’indagine sull’esistenza o meno
dell’iscrizione medesima ben può l’ufficio rilevare il fatto che quest’ultima, quale elemento essenziale della
responsabilità del convenuto, non sia stata provata (cfr. da ultima Cass. 20 giugno 1998, n. 6173, in Gius, 1998, p.
2567 s.; conformi: Cass. 20 maggio 1963, in Mass. Foro it., 1963 c. 386 s.; Cass. 29 maggio 1972, n. 1726, in Dir.
fall., 1973, II, p.80; Cass. 17 maggio 1971, n. 1454, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 1971; Cass. 13 gennaio 1975 n. 113, in
Giust. civ. mass., p.65; App. Milano 22 gennaio 1980, in Arch. civ., 1980, p. 297; Trib. Roma 26 gennaio 1980, in
Giur. merito, 1981, p. 949; Trib. Napoli 29 aprile 1974, in Dir. e giur., 1976, p.769). Recentemente ha in particolare
debiti, come i crediti, non sono elementi costitutivi della res azienda e l’art. 2560, c.c., non
contempla una forma di successione automatica dell’acquirente, regolando solamente gli effetti
dell’evento traslativo nei confronti dei creditori.
Già prima della riforma si poteva affermare che l’art. 2560, c.c., non fosse applicabile
all’alienazione fallimentare, innanzitutto per la evidente incompatibilità con la funzione della
procedura ed in particolare con il tipico effetto purgativo che la vendita forzata produce. E’
chiaro che l’obiettivo perseguito dal legislatore nella liquidazione concorsuale è quello di dare
all’acquirente un bene libero da ogni peso o gravame, in modo da attribuirgli non solo la
disponibilità giuridica della cosa ma anche quella materiale ed effettiva 156. D’altra parte la
naturale estinzione dei privilegi gravanti sul bene 157, ivi compreso il diritto di ritenzione o di
pegno, conseguente alla vendita fallimentare ed il fatto che il decreto di trasferimento emesso dal
giudice delegato da un lato dispone la cancellazione delle ipoteche eventualmente gravanti
sull’immobile e dall’altro costituisce, ex art. 586, c.p.c., titolo esecutivo per il rilascio nei
confronti del debitore o di chiunque lo occupi 158, evidenziano la chiara scelta legislativa.
In secondo luogo, l’applicazione della norma genererebbe in concreto, più che
un’alterazione della par condicio creditorum, un effetto indirettamente e potenzialmente
pregiudizievole per la massa. Infatti, vero è che i creditori aziendali si soddisferebbero su un
patrimonio diverso da quello su cui si è aperto il concorso, ma è altrettanto certo che
verosimilmente l’acquirente pagherebbe l’azienda un prezzo minore, decurtato dell’importo dei
debiti trasferiti, con oggettiva alterazione delle pretese satisfattorie dei creditori non aziendali, i
quali avrebbero avuto in proporzione possibilità di migliore recupero seppur in concorso con
quelli aziendali. Ciò a meno che la decurtazione del prezzo dell’azienda 159 non fosse
esattamente pari all’importo presumibilmente distribuibile ai creditori ceduti alla fine della
procedura: ipotesi evidentemente inverosimile e concretamente realizzabile solo ex post e non
certo in fase di liquidazione dell’attivo 160. Laddove poi esistessero solo creditori aziendali,
l’applicazione del 2560, c.c., finirebbe col trasformare l’acquirente in un assuntore del
fallimento.
Il legislatore della riforma risolve espressamente la questione sancendo che “salva diversa
convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle
aziende cedute, sorti prima del trasferimento” e che “il curatore può procedere altresì alla
affermato che in materia di cessione d’azienda, l’esistenza dei libri contabili, dovuta a qualsiasi ragione, compresa la
loro non obbligatorietà per lo specifico tipo di impresa, rende impossibile l’elemento costitutivo della responsabilità
del cessionario per i debiti relativi all’azienda e conseguentemente preclude il sorgere della medesima responsabilità
(Cass. 20 febbraio 1999, n. 1429, in Gius, 1999, p. 1140; nello stesso senso Cass. 29 maggio 1972, n. 1726, in Dir.
fall., 1973, II, p. 80 e in Riv. not., 1973, I, p. 878). La Cassazione ha escluso, poi, ai fini di cui all’art. 2560 c.c.,
l’equiparazione dei libri e dei Registri I.v.a. ai libri e registri contabili previsti dal codice all’art. 2214, cui l’art. 2560
si riferisce (Cass. 3 marzo 1994, n. 2108, in Fisco, 1994, p. 9126, in Boll. trib. inf., 1995, p. 712).
156 Cass. 25 novembre 1959, n. 3443, in Giust. civ., 1960, I, p. 259 s.; Cass. 10 giugno 1968, n. 1787, in Dir. fall.,
1968 II, p. 972 s.
157 Cass. 10 giugno 1968, n. 1787, cit., p. 973.
158 Cass. 6 maggio 1986, n. 3024, in Fallimento, 1986, p. 1207.
159 Secondo una certa impostazione il principio della par condicio verrebbe violato qualora non venisse decurtato il
prezzo di acquisto e si riconoscesse all’acquirente il regresso nei confronti del fallimento per quanto sborsato per i
debiti aziendali e di lavoro (G. C. RIVOLTA, op. cit., p. 134). Si è opposto che questo credito non grava sulla massa
per il solo fatto che trae origine da un rapporto extraconcorsuale. Il debito della massa può sussistere per una
responsabilità in ordine all’atto compiuto, ma non per gli effetti legali dello stesso, che consistono, nella fattispecie,
nell’obbligo di adempiere debiti concorsuali, per cui l’acquirente che paga tali debiti non fa altro che surrogarsi, a
norma dell’art. 1203, n. 3, c.c., nella posizione dell’originario creditore.
160 I pochi precedenti giurisprudenziali come visto riguardano i debiti verso i lavoratori dipendenti, i quali, tuttavia,
anche per effetto dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, hanno una regolamentazione specifica completamente
diversa. In una vecchia pronuncia della Suprema Corte si legge, però, come affermazione del tutto incidentale, che la
responsabilità del cessionario dell’azienda commerciale per i debiti ad essa relativi sussiste solo nel caso di cessione
mediante atto negoziale (Cass. 17 aprile 1959, n. 1145, in Dir. fall., 1959, II, p. 197).
cessione delle attività e delle passività dell’azienda o dei suoi rami, nonché di beni o rapporti
giuridici individuabili in blocco, esclusa comunque la responsabilità dell’alienante prevista
dall’art. 2560 del codice civile” (art. 105, commi 4 e 5, l. fall.).
Quanto, infine, alla possibilità di un accollo dei debiti aziendali di tipo convenzionale, non
vi sono mai state ragioni per escluderlo 161, tuttavia è evidente che si doveva trattare di accollo
cumulativo, a meno che tutti i creditori interessati non acconsentano espressamente alla
liberazione del fallimento 162, altrimenti si porrebbero problemi analoghi a quelli visti per
l’accollo legale in ordine agli effetti per la massa. D’altra parte questa impostazione è confermata
dall’art. 508, del codice di procedura civile, secondo cui l’aggiudicatario può concordare col
creditore, pignoratizio o ipotecario, l’assunzione del debito con le garanzie ad esso inerenti e
dall’art. 61, del R. D. 16 luglio 105, n. 646, per gli immobili gravati da ipoteca a garanzia di un
mutuo fondiario, con riferimento all’esecuzione forzata.
Ed infatti l’ultimo comma dell’art. 105, l. fall., contempla espressamente che “il pagamento
del prezzo può essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell’acquirente solo se non
viene alterata la graduazione dei crediti”.
161 Per qualcuno l’accollo può riguardare solo i debiti di massa perchè solo in questo caso non vi sarebbe violazione
della par condicio creditorum (G.C. RIVOLTA, op. cit., p. 137). Tuttavia, si è rilevato che ciò non è sempre vero:
secondo la Cassazione infatti nell’ipotesi di concorso di creditori ipotecari e pignoratizi con crediti verso la massa
ammessi in prededuzione, i primi debbono essere soddisfatti sul ricavato della vendita dei beni vincolati alla loro
garanzia, detratte le spese per la loro conservazione e amministrazione, con precedenza rispetto ai secondi (Cass. 19
ottobre 1977, n. 4474, in Dir. fall., 1978, II, p. 278). Di contro non è sempre vero che si abbia violazione della par
condicio con la cessione dei crediti concorsuali ipotecari o pignoratizi, dato che, per il combinato disposto degli
articoli 2748 e 2777, c.c., i primi sono posposti solo ai privilegi speciali sugli immobili ed i secondi solo ai privilegi
per spese di giustizia. Per cui la cessione dei debiti, con espressa pattuizione, è possibile ogni qualvolta l’attivo
fallimentare faccia, con sicurezza, ritenere che l’accollo da parte dell’acquirente non pregiudichi i diritti dei creditori
di grado anteriore (così G. BOZZA, op. cit., p. 113).
(162) Una parte della dottrina sostiene che il consenso dei creditori debba essere riferito al trasferimento
dell’azienda e non alla specifica liberazione rispetto a ciascun debito (G.E. COLOMBO, op. cit., p. 156; G.C.
RIVOLTA, op. cit., p. 36 s.; G. AULETTA, Azienda cit., p. 66).