Lo spazio vitale. Polarità e storicità nel pensiero del primo Marcuse

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Lo spazio vitale. Polarità e storicità nel pensiero
del primo Marcuse
Vittorio d’Anna
Living space (Lebensraum) provides the junction point between an historical ontology and effective history. It is, in a sense, the space where speculative influences originating from Heidegger, Dilthey, and Marx mould
the background of Marcuse’s early thought. Generally speaking, living
space proves that events do not obey their own idealized logic, but always
participate in our own living experience. Thus, even when it gets reified, the
notion of living space preserves in itself an element of freedom. This notion,
that is more and more thought of in connection with work, becomes increasingly less pervasive, and eventually disappears from Marcuse’s works
after 1933. But the motives that led to its conception still remain, and shall
affect Marcuse’s later thought.
Keywords: Living space, radical action, work, history, ontology, Heidegger, Dilthey.
Marcuse, nei suoi primi scritti filosofici, si propone di caricare di concretezza l’idea heideggeriana di un’ontologia della storicità. Ad animare il suo
pensiero è l’intenzione di vedere incarnate le strutture di essere dell’esserci, fino al punto di scoprirle capaci di dare ragione delle cose, così che se ne
rinvenga un riscontro nella realtà sociale, specialmente in quella attuale. Essere e tempo va reinterpretato in un’ottica diltheyana, per cui l’essere nella
storicità deve introdurre a una comprensione della storia. L’esserci è l’uomo come ente storico non solo coinvolto ma anche impegnato nel mondo.
Allora, non si tratta solo di fare valere l’analitica esistenziale nella conoscenza ma anche nell’azione: in funzione di una trasformazione radicale del
contesto vitale di relazioni. Bisogna quindi esercitare la riflessione su ciò
che, a partire da condizioni date, apre all’irrompere del nuovo, affinché l’es-
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sere non sia lasciato nella presenza. In un intreccio di heideggerismo ed intenzione pratica, il futuro, dopo essere stato scoperto in via essenziale a capo del tempo, deve diventare effettivamente a capo del tempo. Vi sono cose da fare saltare ed altre da realizzare, perché l’esistenza dell’uomo è nel
fare saltare e nel realizzare. Al centro sta la vita; e si tratta di porre riparo al
fatto che essa è caduta nell’irrigidimento. Nei primi scritti marcusiani l’utopia prende il connotato dell’ansia di liberazione, in nome della prassi rivoluzionaria. Asse del discorso è la situazione, nella prospettiva di non sottostare all’esistente. Contestualmente, la riflessione trova il proprio luogo di
compimento nell’esercitare la denuncia della reificazione, nel quadro di
un’azione di promozione dell’esistenza dell’uomo. I poli autentico-inautentico, al di là del rappresentare le modalità in generale di essere dell’esserci, vengono da Marcuse riproposti in funzione di una critica della società capitalistica. Ma per quanto appaiano caricati del fatto storico-umano, restano connotati in senso heideggeriano, accennando rispettivamente all’apertura della cura e alla chiusura della deiezione. Che noi si sia enti nell’esistenza, comporta che il mondo in cui siamo gettati, e che incombe su di
noi con il suo peso, sia ciò nei cui confronti prendiamo posizione nella decisione. Ma se soltanto ci fossero i due estremi del sottostare passivo e del
disporci attivo, avremmo a che fare unicamente con una situazione esistenziale, che sempre ritorna come la stessa nel variare dei contenuti. Occorre
che essi, dopo essere stati messi in tensione, vengano a specificazione: presentandosi oggi, in forma storica, come reificazione capitalistica ed azione
rivoluzionaria. Solo così l’essere nella storicità si fa effettivamente consistente, riconnotandosi in modo tale da risultare pensato in un esercizio di trasformazione della realtà. In dipendenza da una condizione da cui emanciparci e di un progetto da realizzare, l’esistenza umana viene a caricarsi di
concretezza, per cui l’essere nella possibilità si traduce nella pratica di effettive possibilità. La storia consiste di cose che siamo noi a fare risultare,
anche quando ci si dispongono di fronte nella loro indipendenza. Il mondo
non cadrebbe nella deiezione se l’esperienza non fosse nella vita. E ciò riguarda l’esistenza in generale; eppure risulta ogni volta specificato nelle
molteplici concrezioni sociali. L’umanità è fatta di uomini che si impegnano, convivono e confliggono, interagiscono nel lavoro e stanno fra loro in
rapporti di dominio, ma sempre in base a condizioni date ed in un ambiente determinato. L’idea di uno spazio vitale, al centro dei primi scritti marcusiani, sta ad indicare proprio questa situazione dell’operare in contesti.
L’esperienza è in modalità essenziali, ma pure prende corpo dentro specifici orizzonti storici. Il realizzarsi nella vita e il perdersi nella deiezione, ri-
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spettivamente, l’esistenza autentica ed inautentica, ritornano nel nostro concreto essere di volta in volta. Lo spazio vitale è il luogo di raccordo di ontologia della storicità ed effettiva realtà storica.
1. L’azione radicale
Senza ricadere in una rideterminazione antropologica del discorso, l’esistenza che Marcuse mette al centro nei suoi primi scritti, è quella umana,
con il suo stare nel coinvolgimento e nell’affettività. Ancora in Nuove fonti per il materialismo storico del 1932, in funzione di un recupero dell’idea
marxiana di sensibilità, quando ormai l’ascendenza heideggeriana comincia a sfumare, all’esperienza resta assegnata una portata ontologica. Sulla
scorta dei Manoscritti economico-filosofici, in questo saggio viene messo
al centro del discorso il lavoro, come luogo tanto di acquisizione che di
perdita dell’umanità dell’uomo, per cui in sua funzione l’esistenza appare
attuata nella libertà o smarrita nell’assoggettamento. Al fondo si agitano i
bisogni e l’attività produttiva nel medio di soddisfacimento. Ma già negli
scritti precedenti – quelli nei quali con maggiore forza pesa l’ascendenza
di Essere e tempo – Marcuse pensa l’indagine filosofica non ristretta all’ambito del teoretico, ma dentro un orizzonte pratico di riferimento in
quanto, tendendo «alla conoscenza come rivelazione della verità»1, è volta non tanto alla formulazione di concetti veri quanto alla realizzazione di
possibilità. Nel quadro di una riflessione sull’esistenza, ciò che è vero ha
per termine di riferimento l’uomo, per cui la conoscenza non possiede portata soltanto concettuale, ma nondimeno, al fine com’è della realizzazione
di noi stessi, ci coinvolge. «Per colui che non ripete questo processo della
scoperta originaria con tutta la sua persona, la conoscenza diventa sapere
passivo, la verità cede il posto al ritenere-per-vero»2.
Destituita di ogni portata di oggettività – proprio per il suo porsi su di
un piano che è in via essenziale diverso da quello scientifico-naturale – la
verità non consiste di contenuti positivi, ma sta nell’apertura; corrispondentemente, si occulta quando l’esistenza cade nella chiusura. Il mondo si
può presentare come insieme di cose morte, soltanto incombenti, o come
ciò nei cui confronti ci disponiamo, nella riaffermazione del primato del no1
H. Marcuse, Sulla filosofia concreta (1929), in Marxismo e rivoluzione. Studi 192832, trad. it. di A. Solmi, Torino, Einaudi, 1975, p. 5.
2 Ivi, p. 6.
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stro essere personale. Allora la verità va sancita dal suo senso, dal fatto del
valere per noi. Essa è modalità di essere nell’esistenza, per cui è da praticare, piuttosto che semplicemente da contemplare. «Ogni filosofia autentica non si limita a conoscere, ma si sforza di fare in modo che l’Esserci
umano si appropri concretamente della verità»3. La riflessione ha in sé la
vocazione di uscire da sé, e passando per la trasformazione del mondo, essere medio di riappropriazione.
La pratica dell’azione è un esercitare la decisione, un liberarci dalla
condizione di assoggettamento alle cose. Siamo enti storici in quanto ci disponiamo verso il futuro o cadiamo sotto il peso del passato. E nell’azione radicale ne va del nostro essere autentico in un’esistenza che è nella
possibilità. In un mondo che è da fare – da chiuso – aperto, la storia va liberata dallo stare semplicemente nella fatticità. Nel comprenderla non possiamo saltare fuori da essa, per cui le categorie che la governano sono da
rideterminare, in funzione della realtà specifica dentro alla quale si fanno
valere. La deiezione e la cura sono da prendere nel contesto del loro presentarsi in un orizzonte determinato; e così oggi si configurano, rispettivamente, come mercificazione capitalistica e prassi rivoluzionaria. L’ontologia heideggeriana della storicità, già da completare con il senso storico di
Dilthey, deve essere resa concreta dal recupero di Marx. Il decidersi – o
non decidersi – per l’azione, si consuma dentro una dimensione intersoggettiva. L’esistenza non è semplicemente nell’apertura o nella chiusura, ma
nell’apertura o nella chiusura dentro una realtà economica e sociale e in
funzione di possibilità effettivamente praticabili. Essa va presa nella storia;
ed anche il suo retroterra, per così dire, naturale, è storico, rappresentando
lo spazio vitale dentro cui prende corpo la nostra esperienza. A decidere di
noi sono le cose quali si danno in contesti relazionali. Marcuse, mentre non
fa valere la riduzione come operazione logica trascendentale, pure dice che
vuole «seguire il metodo fenomenologico: per vedere e far parlare l’“oggetto stesso”, in tutta la sua concretezza»4. La parola spetta al mondo nel
suo essere storico. Ad esempio, la fabbrica mi si dispone davanti non già
come oggetto di percezione, ma quelli che sono i suoi connotati «hanno
come comune denominatore la storicità dell’oggetto fabbrica e la connessione del suo significato con quello dell’esistenza storica dell’uomo»5.
3
Ivi, p. 7.
Ivi, p. 11.
5 Ibid.
4
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Per il primo Marcuse le cose, per quanto abbiano nella fenomenologia
la via d’accesso, non risultano nell’epoché, ma nell’esperienza della vita,
per la portata pratica e sociale che hanno. Insorgendo nella cura, come meramente presenti sono soltanto nella deiezione. Praticare un’ontologia della storicità, vuol dire prendere le mosse dall’heideggeriano: «Più in alto della realtà si trova la possibilità»6. Tuttavia non in generale, ma dentro determinati contesti di riferimento, si fa valere il fatto che il mondo è nell’avvenire. L’effettiva realtà storica, mentre rende concreto l’essere, pure nello
stesso tempo viene fondata in un’ontologia della storicità. I suoi specifici
contenuti e le forze che la sottendono, non sono lì semplicemente dati, come se solo si ponesse il problema di intervenirvi sopra con un esercizio tecnico di disposizione; piuttosto stanno in un’esistenza che è nella prassi. Marcuse, nei suoi primi scritti, mette al centro della propria riflessione l’idea
che l’azione radicale apre gli spazi chiusi dell’esperienza. Ma egli non è
soltanto animato dal pathos rivoluzionario, come se a governare il suo pensiero fosse esclusivamente il momento dell’agire, quanto eminentemente
pensa che il mondo sia passibile di trasformazione, fino al punto di poter essere fatto di nuovo. L’essere è in-possibilità: al suo fondo serpeggia l’intenzione utopica della realizzazione del Sé. Marcuse coniuga Heidegger con
Bloch7. L’azione radicale sta ad indicare l’apertura dell’essere ma non solo, rimettendo essa le cose a posto, ha per fine il rendere l’esistenza degna
di essere vissuta. «Col suo accadere essa piega ed impiega il bisogno (wendet die Not), modifica qualche cosa che è diventato semplicemente insopportabile e mette al suo posto ciò che fa bisogno (das Not wendige selbst),
ciò che, soltanto, è in grado di togliere la insopportabilità»8.
6
M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. di P. Chiodi, nuova ed. riveduta da F.
Volpi, Milano, Longanesi, 20094, p. 58. La formula heideggeriana: «Più in alto della realtà
si trova la possibilità», informerebbe per H. Brunkhorst e G. Koch (Marcuse, trad. it. di L.
Garzone, Bolsena, Masari, 2002, p. 32) la riflessione di Marcuse non solo giovanile, ma anche nel suo insieme. In conseguenza, il marxismo va incontro ad una rilettura in senso esistenzialistico, per cui il soggetto non è la “storia universale”, ma il singolo nel suo essere
nell’esistenza.
7 Sull’operazione di Marcuse di coniugare Heidegger con Bloch, a partire dalla centralità della nozione di possibilità, si vedano, G. Palombella, Ragione e immaginazione: Herbert Marcuse: 1928-1955, Bari, De Donato, 1982, pp. 131-132, e G. Schmid Noerr, Tod und
todestrieb bei Herbert Marcuse. Ontologie vs. Ideologiekritik, in G. Flego, W. SchmiedKonwarzik (a cura di), Herbert Marcuse. Eros und Emanzipation, Atti del Marcuse-Symposion (Dubrovnik, 1988), Giessen, Germinal, 1989, p. 79.
8 H. Marcuse, Contributi ad una fenomenologia del materialismo storico (1928), in Fe-
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A spingere all’azione radicale è il senso che l’esistenza è caduta. Nell’infelicità. Ma se vogliamo recuperarne la pienezza, dobbiamo passare per
il fatto che essa, per quanto sia assolutamente individuale, è in una trama
intersoggettiva di relazioni. Alla fine a decidere della possibilità del suo
venire a realizzazione sono le iniziative che, con gli altri, intraprendiamo
nella storia. L’azione radicale è medio di emancipazione, non solo per ciò
a cui tende nella destinazione, ma già di per sé, nel suo solo esercitarsi. Essa è nell’apertura e, nello stesso tempo, introduce ad un mondo aperto: per
un verso, è prassi trasformatrice, per un altro riconverte le cose nella prassi, riportandole nell’esistenza. L’azione radicale, mentre ha portata ontologica e rappresenta un essere che è nella cura, introduce ad un piano pubblico di esperienza condivisa.
La decisione esistenziale non è mai un fatto, per così dire privato, ma,
investendo il nostro essere nel mondo, si consuma dentro un orizzonte storico, ed ha per suo orizzonte lo spazio vitale. Essa ha dietro di sé il fatto che
l’Erleben è realtà individuale, in una trama intersoggettiva di relazioni. Le
cose che insorgono nella vita, dopo essere state devitalizzate, devono venire recuperate alla vita. È il tempo – come essere temporale – a determinarne la natura: proprio perché è nella apertura, esso finisce con lo scadere nell’irrigidimento, per cui siamo chiamati a farlo di nuovo aperto, portando il passato ad esplodere e il futuro ad irrompere. Da una parte sta l’essere-divenuto della società borghese, da un’altra l’essere in divenire dell’esistenza. Corrispondentemente, l’esperienza può stare sotto il peso delle cose o nella vitalità. Il socialismo, in un certo senso, viene fatto coincidere con l’uscita dalla deiezione. Parafrasando Marx, si può dire che l’azione radicale consente di chiudere con la preistoria ed introduce alla storia.
L’appropriazione, da parte del proletariato, degli strumenti di produzione,
non è tanto un accadimento economico, quanto specialmente rappresenta
la condizione per portare fuori l’Erleben dalla situazione di estraneazione.
Seppure declinata in senso rivoluzionario, al fondo resta la contrapposizione di esistenza piena o smarrita. In un certo senso l’esperienza è nella
bidimensionalità, a seconda che sia nel potere delle cose su di noi o di noi
sulle cose9. Marcuse, leggendo Marx nella prospettiva di un essere che è
nomenologia ontologico esistenziale e dialettica materialistica. Tre studi 1928-36, trad. it.
di A. Marini, a cura di G. Casarico, Milano, Unicopli, 1980, p. 8.
9 L. Scafoglio (Forme della dialettica. Herbert Marcuse e l’idea di teoria critica, Roma,
Manifestolibri, 2009, pp. 57-58) vede la bidimensionalità in Marcuse concernere la ragione
stessa, fino al punto che essa porta alla prefigurazione di una logica alternativa a quella formale.
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nella cura, vede l’azione radicale non in dipendenza di qualcosa che c’è e
su cui intervenire, ma in funzione di fare saltare il meramente presente.
L’inautentico è un indulgere in situazioni fisse, mentre l’autentico consiste
in un essere nell’esistenza, in un fare l’esperienza – da passiva – attiva. Il
materialismo storico si configura come quel pensiero che dà consistenza all’agire radicale. Il problema della trasformazione del mondo si pone solo
subordinatamente in base a condizioni date, innanzitutto risulta nell’immanenza di un Erleben che è caduto nella cosalizzazione. L’ontologia heideggeriana ha bisogno del marxismo per farsi filosofia concreta, ma anche, corrispondentemente, il marxismo ha bisogno dell’ontologia heideggeriana, per strapparsi dall’oggettivismo scientifico.
2. Lo spazio vitale
Ciò che sta a capo deve venire ritrovato dentro, per cui l’ontologia della storicità, con il suo apparato categoriale, va inverata nella storia. L’analitica
esistenziale si fa medio di comprensione della realtà effettuale, in un certo senso, intrecciandosi con la Lebensphilosophie. La vita, con il suo stare
nell’apertura e cadere nella chiusura, resta al fondo: si afferma e si perde
di volta in volta, nel concreto dei molteplici universi di esperienza collettiva. E come tale pure deve stare a capo della conoscenza, liberando gli oggetti da come le scienze della natura li fanno risultare: nell’esteriorità e
semplicemente dati. Dilthey va seguito nella tesi che è la comprensione –
non già la spiegazione – a definire l’ambito di conoscenza dei fenomeni
storici10.
L’oggettivazione è tutt’altro che la cosalizzazione: è non già nella caduta
nella deiezione ma manifestazione dell’Erleben. Scoprire il mondo nel fatto umano dell’esperienza – in funzione del nostro volere, sentire e agire –
significa nello stesso tempo denunciarne la condizione di estraneazione
quando esso si insedia in se stesso, come se fosse dentro una sua propria
logica. In un certo senso si tratta di tornare al fatto che le cose sono nel-
10
Per M. Calloni (Dasein im technischen Zeitalter. Moral und Philosophie bei Herbert
Marcuse und Martin Heidegger, in G. Flego, W. Schmied-Konwarzik (a cura di), Herbert
Marcuse. Eros und Emanzipation, cit., p. 15), Marcuse, coniugando l’ontologia della storicità con il senso diltheyano della storia, fa suo un concetto di vita che sempre più lo porterà lontano da Heidegger. Così con il trovare l’irriducibilità di essenza ed esistenza dentro il
reale storico, nello stesso tempo introduce ad una teoria critica della società.
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l’esistenza. Per quanto estrinseci possano essere istituzioni e norme, così
come i processi e economici e le forme del diritto, essi sono conoscibili
solo per quanto insorgono nella vita; e fuori della vita stanno solo in seguito
ad un movimento di astrazione, che è poi estraneazione. Si può allora parlare di una scienza primitiva, in cui le cose sono prese per il loro essere intessute nell’esperienza, per cui partecipano di una stessa trama. L’esistenza si articola in un insieme di manifestazioni, ed il sapere che le è confacente deve scontare l’idea di totalità. Il mondo in cui siamo è un insieme,
e «diritto, morale, arte, scienza si offrono allo sguardo storico non come
ambiti astratti che stanno al di là dell’essere storico, ma come cresciuti da
e radicati nell’essere storico concreto di una società concreta»11. Fare parlare le cose stesse, vuol dire lasciare da parte ogni riflessione sul metodo,
per mettere al centro gli uomini, nell’insieme unitario delle loro relazioni.
«Famiglia, professione, sistema giuridico, moralità, la “connessione finale della vita che è volta al soddisfacimento”: tutti questi “stati” più o meno “durevoli”, nei quali ogni singolo uomo si vede iscritto, nei quali la sua
vita scorre e che poi dalle diverse scienze dello spirito vengono fatti separatamente oggetto di ricerca – hanno pure “nascita e nutrimento” solo “nel
terreno sociale comune del tutto della realtà storico-sociale”. Questa totalità della realtà storico-sociale sembra offrirsi quindi come l’oggetto dato
di una scienza fondamentale (Grundwissenschaft) che l’indaga»12.
La scienza fondamentale non rappresenta un momento di sintesi di molteplici saperi, piuttosto ha un ruolo, appunto, fondante: ha per oggetto
l’esperienza dell’uomo come un tutto, nel luogo in cui essa si realizza, la
società. Come tale allora essa si colloca a monte di quei contenuti che poi,
strappati dall’intreccio in cui stanno, vengono ricollocati nelle tante scienze dello spirito. Il terreno su cui la scienza fondamentale si impianta è quello della produzione, riproduzione, gestione – pratica e di senso – dell’esistenza. Il pensare per sé i sistemi economici, le istituzioni, le visioni del
mondo, le forme della morale e del diritto, è il risultato si di un’astrazione
dal concreto dell’Erleben. Innanzitutto sta un insieme intersoggettivi di relazioni, per cui gli uomini, nel lavoro, nell’azione politica, nelle credenze
e nella cultura entrano in rapporti di vario genere, collaborando e confliggendo fra loro. L’esperienza, allora, pur avendo a capo i bisogni e le modalità del loro soddisfacimento, non è determinata in senso propriamente
11
H. Marcuse, Contributi…, cit., p. 11.
H. Marcuse, Das Problem der geschichtlichen Wirklichkeit, «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und Politik», VIII (1931), p. 356.
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economico, ma passa per le molteplici articolazioni della vita collettiva.
Per quanto essa sia variegata, costituisce un ordito che laceriamo con il separare i fili. L’Erleben allora, destituito del suo essere un tutto, appare disarticolato in ambiti specifici. E se le scienze dello spirito non gli vengono ricondotte, nell’oblio dell’attingere tutte ad un’unica Grundwissenschaft, finiscono esse con il cadere nella cosalizzazione. Vi è una qualche
corrispondenza fra oggettivismo gnoseologico e reificazione sociale. La
denuncia marxiana della proprietà privata, deve essere sostenuta dall’idea
diltheyana che ogni universo storico è un tutto, per cui l’esperienza non è
decisa – né nel suo essere effettuale né nella conoscenza – dall’esterno. Rispetto al mondo della vita, il capitalismo rappresenta il massimo di perdita, ed il socialismo il tentativo di rimettere le cose a posto. Anche nella conoscenza dobbiamo esercitare un’azione di rimessa a posto, scontando il
fatto che l’esserci è nella cura. Viene prima di tutto il fatto che gli uomini
sono, in via essenziale, in rapporto gli uni con gli altri. Pensando la conoscenza in funzione di una struttura fondamentale che affonda nell’Erleben,
Marcuse non pretende di avere tovato una chiave che apra tutte le porte,
quasi che le molteplici forme disciplinari fossero riconducibili ad un’unica prospettiva; piuttosto vuole semplicemente recuperare il fatto che le cose sono nell’esperienza, per cui cadono in una situazione di pervertimento
quando le pensiamo per loro stesse soltanto. Non si tratta di fare valere un
insieme oggettivo sugli altri – privilegiando, ad esempio, il momento economico – ma di lasciarci alle spalle l’oggettivismo, non solo perché, sul
piano gnoseologico, è erroneo, ma anche ed innanzitutto per il fatto che, per
quanto vi schiacciamo sopra il vissuto dell’esperienza, esso ha per corrispettivo il fatto della reificazione. Si può dire che il recupero – o meno –
del mondo all’Erleben, fa autentica o inautentica l’esistenza. La storia ha
in sé l’una e l’altra modalità di essere, per cui di volta in volta ed in ogni
sua specifica configurazione siamo chiamati a prendere decisioni. La riflessione deve seguire un essere che è in concrezioni. Un’ontologia della
storicità implica il fatto che la conoscenza si impianta sulla storia. Il sapere non si può definire in base a un modello metodologico, ma esso stesso
ha portata storica e nella storia si riconnota ogni volta. La Grundstruktur
mentre si traduce in molteplici Grundstrukturen, nello stesso tempo, non
soggetta ai vincoli dell’oggettivismo, è animata dal senso che l’uomo è
quell’ente che non semplicemente c’è, ma si fa, nel coinvolgimento e nell’impegno. E questo vale in generale, ma specialmente per il nostro mondo: quello in cui siamo gettati e nel quale siamo chiamati a doverci districare. La decisione scandisce l’esistenza non solo sul terreno dell’azione, ma
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anche su quello della conoscenza; e va sempre assunta in un contesto determinato. «Il modo della realizzazione della vita intersoggettiva umana
nella società capitalistica è, ad esempio, un’attuazione assolutamente determinata delle strutture fondamentali della vita intersoggettiva in generale – non all’incirca di un certo tipo formale-astratto, ma di altamente concrete strutture fondamentali. Verità e falsità starebbero allora nelle relazioni delle attuazioni fattuali di tali strutture fondamentali: un ordine vitale
sarebbe vero, se le soddisfa, falso, se le occulta o perverte»13.
Per cogliere il senso della storia, ma specialmente per fare valere la superiorità della società socialista su quella capitalista, occorre un criterio
veritativo che, scontando un esserci che è nella cura, non può consistere in
un metodo. La nostra esperienza, già nelle sue strutture fondamentali, tende a riconnotarsi nel corso del tempo, per cui non è sotto condizioni da definire una volta per tutte. Essa sempre però resta nella contrapposizione di
esistenza autentica o inautentica. Sin dai primi scritti filosofici, Marcuse
mette la bidimensionalità al centro della sua riflessione, e ne fa il terreno
su cui costruire una teoria critica della società capitalistica. La reificazione può essere fatta saltare, perché le risulta contrapposta un’alternativa che,
se anche è rimasta inespressa, in via essenziale sta al fondo dell’esperienza. L’azione radicale implica un primato della soggettività, per cui le cose
stanno in un ordine loro proprio – quasi aderendo ad una seconda natura –
solo perché sono cadute nel pervertimento. Negli anni che vanno dal ’28 al
’33 Marcuse cerca di accedere tanto alla comprensione che alla critica della società attraverso la nozione di spazio vitale, che gli garantisce, insieme
con il senso di una storicità concreta, il recupero – nel riferimento all’Erleben – di un momento di autenticità. Si tratta del fatto che dietro le forme
obiettive di organizzazione della società stanno innanzitutto i bisogni degli uomini e le modalità del loro soddisfacimento. In conseguenza, gli ordini di volta in volta vigenti non stanno nella loro autosufficienza, ma sono altrettanti medi di gestione della vita. Il fatto umano dell’esperienza non
è né chiuso in se stesso né in dipendenza di realtà – materiali o d’altro genere – estrinseche, piuttosto ha per retroterra relazioni sociali date, per cui
«rilevante come “spazio vitale” appare sempre soltanto il mondo storico
come contesto significativo»14.
13
H. Marcuse, Zur Wahrheitsproblematik der soziologischen Methode, «Die Gesellschaft. Internationale Revue für Sozialismus und Politik», VI (1929), p. 369.
14 H. Marcuse, Contributi…, cit., p. 21.
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Le condizioni che sottendono il nostro agire sono variabili, dentro specifici orizzonti storici. E le realtà a cui esse mettono capo, sono diverse nel
contenuto di senso, a seconda delle molteplici prospettive di interesse. Ad
esempio, la fabbrica non è un dato obiettivo – così come non lo è il mercato, l’ufficio, il campo coltivato – ma si configura in modo specifico, entrando di volta in volta nella vita dell’imprenditore, dell’impiegato, dell’operaio. Lo spazio vitale ha a monte la cura, ed è il luogo del disporsi di
ciascuno nel suo proprio ambiente. Non c’è nulla di semplicemente dato:
tutto si dà nell’esperienza, in una dimensione intersoggettiva di esistenza.
Lo spazio vitale rappresenta l’orizzonte – appunto vitale – dentro cui ci
rapportiamo a noi stessi e agli altri. Esso è innanzitutto efficace nel nostro
attivo operare nel lavoro. «Qui la ricerca urta necessariamente nel problema della costituzione materiale della storicità, un passo che Heidegger non
compie in nessun luogo e al quale neppure accenna»15. Sarà piuttosto Marx
a farlo; e dentro l’orizzonte del suo pensiero, lo spazio vitale si verrà a presentare come l’ambiente sociale del quale ci prendiamo cura. Procurarlo significa «necessariamente modificare cose che sono alla mano (rendere utilizzabili forze naturali, cambiare condizioni naturali, cercare luoghi fertili, preparare e distribuire prodotti, commercio, ecc.)»16. Quel che della natura è da noi modificato ed i mezzi con cui lo modifichiamo, rappresenta
lo spazio vitale; che «appare innanzitutto come il confine dell’esserci concretamente storico, confine che determina la unità storica come società;
ciò appare nel modo più semplice e intuitivo nelle strutture storiche della
orda, della tribù, della comunità di villaggio e nelle antiche città-stato»17,
insomma in quelle che possiamo chiamare relazioni intersoggettive stabilizzate.
Lo spazio sociale è in buona misura definito, ma non esaurito dall’attività lavorativa. Esso si viene costituendo dentro la dinamica della nostra
esperienza, nel rapporto che gli uomini intrattengono gli uni con gli altri.
E questo non solo nel mondo della “orda”, della “tribù”, della “comunità
di villaggio”, della “antica città-stato”, ma nondimeno anche ed innanzitutto nella società capitalistica. Il proletariato lo possiamo pensare solo in
senso lato come una classe; piuttosto è un insieme di individui accomunati da un campo motivazionale. Siamo accomunati – o separati – non da
15
Ivi, p. 22.
Ivi, p. 37.
17 Ivi, p. 35.
16
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strutture (economico-sociali) che stanno dietro a noi, per così dire, alle nostre spalle ma, guardando in avanti, dalla decisione di gettarci – o di non
gettarci – nell’azione radicale. Ciascuno sta sotto il peso del cosa fare di se
stesso, per cui è chiamato a prendere posizione nel mondo, coinvolgendosi attivamente o estraniandosi passivamente. Kierkegaard, per Marcuse, ha
avuto il merito di avere messo l’accento sulla natura personale della decisione esistenziale. Il nostro prendere posizione, però, nei confronti di noi
stessi non avviene nel vuoto, ma dentro un contesto di relazioni. «L’individuo esiste come individuo solo in una determinata situazione dell’ambiente, in una determinata situazione dell’essere sociale»18. Lo spazio vitale è il filo di cui si intesse la trama delle relazioni intersoggettive. Esso
non ha nulla della realtà fisica e naturale, perché l’Erleben che lo percorre
è nella produzione e riproduzione dell’esistenza. L’esperienza non ha dietro di sé entità retrostanti; tanto meno sta sotto concetti universali: appartiene a chi la viene vivendo ed è sempre di un individuo. E nel «porsi la domanda: come posso, concretamente, avere accesso a questo singolo? Forse che il singolo individuo non esiste sempre nella situazione storica della
contemporaneità?»19.
È rispetto alla reificazione capitalistica che l’uomo moderno è chiamato a prendere posizione. Ne va dell’uscita dalla situazione di infelicità nella quale egli versa, attraverso l’azione radicale. Oggi la storia dà voce ad
una istanza di autenticità che scorgiamo innanzitutto in negativo, in quanto conculcata. Il fatto è che «nella società capitalistica tutti i valori personali sono andati perduti, o sono posti al servizio della “obiettività” tecnica
o razionale»20.
Un certo qual senso dell’interiorità sta al fondo della critica di Marcuse alla società capitalistica. Contro il fatto che l’individuo è «in balia di
questo mondo al punto che le sue decisioni gli sono prescritte da esso»21,
va recuperato il momento della dimensione personale e di valore dell’esperienza. Come tale esso è qualcosa di metastorico che, mentre sottende la storia e si agita al suo fondo, oggi si impone nell’urgenza dell’adempimento. L’azione radicale, tanto nel suo esercitarsi che in ciò a cui mira,
appartiene all’individuo. Essa sconta come premessa quel suo essere nel-
18
H. Marcuse, Sulla filosofia concreta…, cit., pp. 25-26.
Ivi, pp. 24-25.
20 Ivi, p. 17.
21 Ivi, p. 25.
19
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l’esistenza che, mentre più di tutto ci riguarda, oggi è isterilito, in quanto
schiacciato sull’estrinseco del ruolo e dello status. «I modi della convivenza sociale sono svuotati di ogni contenuto essenziale, e regolati dall’esterno secondo leggi “estranee”: gli uomini che vivono insieme sono anzitutto soggetti economici, o piuttosto oggetti, colleghi di lavoro, cittadini,
membri di una stessa “società”; le relazioni essenziali dell’amicizia, dell’amore, ogni autentica comunità delle persone restano limitate al piccolo
margine vitale che è ancora libero dagli interessi economici»22.
È in base al recupero di un nucleo originario di vita, che sul capitalismo
viene a cadere la scure della condanna. La dimensione del valore e la profondità delle relazioni fra gli uomini sono contrapposti alla reificazione.
Ma essi non possono restare dentro l’intimità dell’esperienza, come se rappresentassero soltanto un ambito privato, sempre più residuale, di libertà,
in un mondo che è nell’illibertà; piuttosto devono trasporsi nella società, segnare la vita degli individui nel loro insieme. È nel lavoro che l’uomo si
perde e si riconquista. La cura non è soltanto azione radicale, ma anche
prendersi cura delle cose, produzione di oggetti, intervento sul mondo circostante. E sono queste attività a definire lo spazio vitale, che «non è una
“forma dell’intuizione”, e neppure una vuota spazialità-naturale, ma è riempito dalle maneggiabilità dell’esserci che lo procura e da tutto ciò di cui
questi abbisogna e a cui ricorre per i propri bisogni; da esso gli vengono incontro gli oggetti della sua paura, speranza e credenza; da esso riceve l’impulso per ogni agire»23.
Lo spazio vitale è il luogo nel quale risultano le cose, nell’effettivo del
loro essere storico. Esso, che pure è il medio del nostro esistere, finisce
con il distaccarsi da noi e cadere nella deiezione, quasi che fosse sotto un
destino. È che «il procurare quotidiano riferito allo spazio vitale, spinge
necessariamente l’esserci a cadere nel mondo circostante da lui stesso curato, lo ipostatizza in un rigido mondo di cose che tiene chiuso l’esserci
con l’ineluttabilità di una legge di natura e gli prescrive la sua posizione»24.
La vita, in un certo senso, venendo a manifestazione, è condannata a
perdersi, per cui la storia si consuma in un crescente processo di estraneazione, fino al punto di arrivo della situazione nella quale oggi ci troviamo.
Nel mondo capitalistico, tutte le sfere sono state coinvolte in una dinami-
22
Ivi, p. 15.
H. Marcuse, Contributi…, cit., pp. 34-35.
24 Ivi, p. 39.
23
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ca di reificazione «che ha staccato dalla persona dell’uomo quelle forme
concrete di vita e unità di senso che le erano un tempo congiunte, e ha creato un potere situato fra le persone e al di sopra di esse, e che, una volta prodotto, ha assoggettato a sé, per forza propria, tutte le forme e i valori della
persona e della comunità»25. Con ciò la convivenza sociale è svuotata del
suo carattere essenziale, quello dell’innestarsi sull’Erleben. La logica per
cui le cose sono ridotte a merce, non solo schiaccia su di sé l’attività lavorativa, depauperandola, ma nondimeno finisce con il permeare i rapporti fra
gli uomini e toglie loro portata di valore. Così, mentre l’individualismo si
fa esasperato, «la singola persona è privata della sua “attività”, che le viene “imposta”, ed è svolta senza consentire di realizzare effettivamente la
sua propria personalità»26.
L’essere personale si è fatto ora una dimensione del profondo dell’esperienza, quale risulta in ambiti sempre più angusti e confinati nella
sfera in buona misura privata oppure residuale delle relazioni di “amicizia”, di “amore” e di “ogni autentica comunità”; eppure è da ritrovare nella vita collettiva, in contrapposizione alle forme estrinseche di esistenza, per
cui innanzitutto consiste di un valore che, conculcato nella storia, aspetta
nella storia di venire a realizzazione. Lo spazio vitale dentro cui esso si
presenta, è un luogo che, lungi dall’essere neutro, appare segnato da vincoli di dominio e da intenzioni di liberazione. La vita deve riportare a sé
quei contenuti obiettivi che, sorti da essa, si sono fatti del tutto indipendenti. La filosofia dell’esistenza, recuperandola, manifesta una istanza di
emancipazione. Essa, in nome del senso della storicità dell’essere, intrecciandosi con la Lebensphilosophie, porta a coniugare il primato dell’Erleben con l’intenzione di una trasformazione del mondo. La possibilità dell’emancipazione sta nel fatto che lo spazio vitale cade nella reificazione
proprio perché esso ha le sue radici nella cura. Non si tratta, naturalmente,
di ritornare ad un che di originario che è stato smarrito, ma di definire i poli lungo cui corre l’essere storico e quindi, corrispondentemente, l’essere
per la vita contro l’essere per la morte27.
25
H. Marcuse, Sulla filosofia concreta…, cit., p. 15.
Ibid.
27 G. Vaccaro (Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 24) vede come Marcuse, intrecciando Heidegger con Marx, pensi l’autenticità in funzione non di un essere per la morte, ma di un essere per la vita: come “immanente” e non come “qualcosa di destinale”.
26
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Lo spazio vitale non solo affonda in un senso autentico dell’esistenza,
ma pure è realtà concreta, e con il suo essere in dipendenza di relazioni sociali è il luogo dentro cui e su cui si esercita l’azione trasformatrice. Esso,
proprio per la sua portata conoscitiva, rappresentando una denuncia dell’oggettivismo – nella riaffermazione del primato della struttura fondamentale – ha per caratteristica sua propria di introdurre al senso che la storia è nell’apertura, ed il capitalismo non è un eterno presente. Si può dire
che lo spazio vitale è il luogo in cui il divenire si viene a configurare, non
già in termini di momenti in successione, ma per il dischiudersi dell’avvenire. Nondimeno esso è fatto di contenuti oggettivi – di volta in volta diversi – dai quali ed in relazione ai quali viene ad irrompere il nuovo. Ad essere recuperata da parte di Marcuse è l’Aufhebung hegeliana, per cui quel
che è stato, nella sua positività, è a capo di quel che sarà, ma solo nella misura in cui è fatto saltare dall’interno e, negato, finisce alle spalle. Il divenire altro passa, certamente, per condizioni retrostanti, ma pure ha in sé il
connotato della discontinuità, per cui il passato non è che sia dato in una
successione seriale, bensì viene a precipitare, facendo posto al futuro.
3. La storia fra avanzamento ed utopia
L’esperienza, caduta nell’irrigidimento, va recuperata alla vitalità: non solo nel pensiero ma, innanzitutto, effettivamente, con l’azione radicale, che
porta la filosofia a realizzazione. La vita che fa da fondamento, con il suo
presentarsi come una prassi di trasformazione, non ha né portata di generalità né di fatticità, ma rappresenta il prepredicativo essere nella storia da
parte dell’uomo. Proprio perché sta prima dei contenuti obiettivi ed è nell’apertura al futuro, essa ha innanzitutto valenza emancipativa e, riattivata,
è alternativa alla cosalizzazione. Marcuse riprende la Lebensphilosophie
in un’ottica heideggeriana, la corregge con il marxismo, declinandola nel
senso di una filosofia della rivoluzione. Innanzitutto non si può parlare in
generale di un essere nella vita, ma di un essere nella vita che risulta in negativo, nello scadere nella deiezione. La storicità diltheyana resta astratta,
perché, non uscendo dalla condizione di rappresentare una teoria della conoscenza storica, è volta al passato; e non prende le mosse dal mondo – capitalistico – in cui siamo gettati, quindi non fa i conti con l’effettivo divenire storico, per cui finisce con l’equiparare le molteplici forme sociali di
relazione, senza discriminare ciò che è nella chiusura del dominio, da ciò
che va nel senso della liberazione. Di contro, «la teoria materialistica su-
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pera il relativismo storico, collegandosi con quelle forze sociali che si distinguono attraverso la situazione storica come progressive e “universali”»28.
In ogni tipo di collettività ritroviamo – variamente declinata – la figura
hegeliana del servo e del padrone. La vita è non già in una connessione
strutturale soltanto, ma in una connessione strutturale segnata da rapporti
di dominio. La reificazione è immanente all’essere storico, ritorna in ogni
figura della Fenomenologia dello spirito, e la dialettica, enfatizzando il momento della soggettività, ce la mostra nel suo essere concretamente nell’autotrascendenza. Il primato spetta all’uomo che, insediato nell’azione, è
ente storico in via essenziale, nel senso che non tanto ha storia quanto è storia. Così la realtà sociale non è in una sua propria logica, come non è in una
sua propria logica il sistema economico – o lo è soltanto in una situazione
di pervertimento – con il lavoro come variabile dipendente al suo interno.
L’idea che non siamo noi al servizio delle cose, ma le cose sono al nostro
servizio, variamente modulata, accompagnerà tutto il pensiero di Marcuse
e ne rappresenterà il motivo ricorrente. Nei primi scritti i contenuti obiettivi sono visti stare nell’esperienza, per cui ci risultano ostili quando ne
escono fuori, e si fa pressante il compito di recuperarli, che può essere assolto soltanto con l’azione. La dialettica non è uno schema che dà ragione
dello stare le cose in successione; essa segue la dinamica della vita, ed è
percorsa da un’istanza di riappropriazione. Tesi ed Antitesi stanno ad indicare le tensioni immanenti della vicenda umana, rappresentando lo stesso
fatto nel suo essere, in positivo, dato e, in negativo, nel venire a saltare.
Sostenuta da un recupero del pensiero di Hegel, l’azione radicale non si
presenta soltanto nel pathos della tensione rivoluzionaria; in quanto è volta alla trasformazione della società, apre a positive forma di vita: piega la
realtà vigente, scontandola ed in qualche misura anche facendola valere.
Ancora, negli scritti più tardi, da Marcuse viene sostenuta l’idea che solo
un grande sviluppo della tecnica, quello che il capitalismo maturo ha garantito, consente il passaggio ad un mondo che non sta più nel segno dell’oppressione. È che i valori personali, per affermarsi, devono passare per
rigidità da sciogliere (deiezione), contesti dati (capitalismo e sviluppo tecnico) e soluzioni da dare (socialismo). Si può parlare di dinamica di sviluppo solo nel senso che il futuro, nel suo essere altro, sconta il passato: non
ne deriva, come se fosse una sua semplice conseguenza, ma lo ha come
28
H. Marcuse, Sul concetto di essenza (1936), in Fenomenologia ontologico esistenziale
e dialettica materialistica, cit., p. 122.
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condizione, dalla quale pure saltare fuori. Il momento oggettivo è mantenuto come referente – dal quale prendere le mosse – ma al fondo resta che
«solamente un essere che abbia il modo di essere del soggetto (per il quale l’essente è un essere per esso, e che ha un sapere di sé e dell’essente, e
un “sé”) può essere essenzialmente storico»29.
L’uomo, può arrivare a se stesso per mezzo dell’azione radicale, per cui
non è lecito domandarsi se quel mondo, per il quale pure egli deve passare, possa giungere ad un punto di compimento. Per il pensiero di Marcuse,
di questi anni come di quelli successivi, non si può parlare di un divenire
che si consuma in un avvicendarsi relativistico, ma neppure, sul versante
opposto, di un termine ultimo della storia. Si tratta piuttosto di seguire
l’esperienza che, inadeguata, si viene facendo più o meno adeguata. Fin
nei suoi ultimi scritti, Marcuse tende a pensare l’utopia, non solo per il suo
animare la vicenda umana nel mondo, ma pure per il poter essa venire a realizzazione, anche se mai del tutto e pienamente. Al fondo sta una fame che,
anche se non può essere in ultima istanza soddisfatta, nondimeno non resta confinata nell’improduttivo della tensione soltanto: spinge ad una pratica di soddisfacimento, fino al punto di farci distinguere il meglio in rapporto al peggio. In altre parole, essa non rappresenta soltanto il termine di
riferimento di un pensiero negativo, ma innanzitutto un’istanza positiva
che dà ragione della possibilità di un movimento di avanzamento. La soggettività – hegeliana – dell’essere nella realizzazione, non soltanto sta nell’oggettivarsi ma è fatta anche di momenti oggettivi, per cui non la possiamo pensare – con Adorno – come soltanto presente nell’assenza. Come nei
primi scritti, per così dire, heideggeriani, per Marcuse il socialismo va perseguito contro il capitalismo, così in Eros e civiltà una società che sia nel
segno del piacere, va perseguita contro quella nella quale viviamo, che sottostà alla della logica della prestazione. E se la condizione di infelicità in
cui l’uomo versa, non può essere del tutto riparata, pure deve venire in
qualche misura minimizzata, per cui, come enti storici, siamo chiamati all’impegno nel mondo. Già nell’idea di spazio vitale la nostra azione viene
ad essere pensata in limiti, da spostare in avanti. Ci troviamo dentro un
contesto naturale dato, ma sempre storicamente connotato, per cui siamo
nella condizione di rideterminarlo di volta in volta: non però incondizionatamente, ma dentro margini di movimento definiti. Un certo spazio vi29
H. Marcuse, Sul problema della dialettica. Contributo alla questione circa le fonti della dialettica marxiana in Hegel (parte I, 1930), ora in Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialistica, cit., p. 53.
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tale può fare da sfondo a diverse forme sociali, non tutte equivalenti; in
questo senso che sta nell’apertura, ma secondo un angolo determinato. E
come possiamo prendere posizione nei confronti della reificazione, sempre
però dentro condizioni date, così pure l’istanza di liberazione non può venire soddisfatta assolutamente e senza restrizioni. È Hegel ad avere colto
che, per quanto noi si possa pensare la vita nel suo farsi piena, essa mantiene sempre un che di manchevole al suo interno. «La coscienza è possibile solo di fronte ad un “altro” essere che le sta contro. Una fusione senza residui di coscienza ed oggetto annullerebbe quindi, con il concetto di
oggettività (Gegen-standlichkeit) anche lo stesso concetto di coscienza»30.
Il soggetto si fa valere dentro una dinamica di acquisizione per cui l’oggetto
non è mai del tutto acquisito e, riproponendosi nella sua indipendenza, ci
si dispone di fronte come una potenza estranea, da conquistare e riconquistare ogni volta di nuovo. In fin dei conti si può dire che la liberazione consiste in un allargamento dello spazio di libertà, per cui la cosalizzazione, destituita della pretesa di esaustività, viene sempre più ricacciata indietro,
senza che possa essere mai del tutto eliminata. Nella sua più tarda riflessione, Marcuse sollecita l’uomo a dare la parola all’eros, ma pure riconosce che thanatos è un principio e non può venire tolto. Il mondo storico
rappresenta lo spazio, in un certo senso intermedio, della lotta e del conflitto; e a noi spetta il compito di accostarlo all’un polo (della libertà), discostandolo dall’altro (dell’illibertà).
Negli scritti, per così dire, heideggeriani, Marcuse pensa la “necessità
della vita” come lo spazio intermedio dentro il quale l’esperienza, come
eminentemente storica, entra in tensione. Essa «sta nel “mediare” il mondo del suo immediato esserci con la sua essenza, di superare il suo essere
altro e di unirlo al suo essere autentico»31. Il movimento di interiorizzazione dell’esteriore passa per un lungo giro. La vita che si appropria di sé
nella storia, è fatta di momenti in scansione, l’uno in rapporto all’altro; in
questo senso è attività razionale. Marcuse, dopo averla pensata su di una linea diltheyana, la rilegge in chiave hegeliana nello stesso tempo rideterminandola attraverso un apparato categoriale marxiano, in funzione della
riaffermazione di un’intenzione pratica – prima che teoretica – di acquisizione di sé.
30
H. Marcuse, Sul problema della dialettica. Contributo alla questione circa le fonti della dialettica marxiana in Hegel (parte II, 1931), ora in Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialistica, cit., p. 68.
31 Ivi, p. 69.
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Si tratta di fare umano il mondo dell’uomo, scontando la premessa che
quel che è posto e ci sta di fronte, l’io non lo lascia nella sua indipendenza ma lo acquisisce a sé. Occorre mettere l’accento sul servo, il quale «“lavora” le cose, supera la forma della loro pura oggettività (la loro pura negatività e alterità rispetto alla coscienza vivente); la cosa già lavorata non
è più di fronte all’autocoscienza vivente come il suo assolutamente altro e
negativo, bensì come appartenente ad essa, disponibile per il “godimento”
e il possesso»32. Essa resta: non sta più lì per essere semplicemente divorata, e mentre ci sta di fronte, nello stesso tempo è termine di appropriazione. Il fatto di una realtà estrinseca resta, ma pure è ciò nei cui confronti sempre di nuovo ci disponiamo in un’intenzione di interiorizzazione; e
proprio per il non venire mai eliminato, esso è medio di avanzamento della storia, nell’irruzione del nuovo.
4. Il recupero dell’oggetto e della sensibilità
Quella storicità della vita, che Hegel ha scoperto, ma pure smarrito, irrigidendola nello spirito, sarebbe Marx a fare compiutamente valere, con l’affermazione del primato della dimensione sociale «come modo di essere
proprio dell’esistenza umana. E nel metodo dialettico ha ritrovato la via
d’accesso a questo essere. Il metodo dialettico ha come solo principio a
priori la storia, intesa come essere della stessa esistenza umana»33.
Benché sia definita un metodo, la dialettica non lo è in senso proprio,
dal momento che non consiste di un apparato categoriale con il quale il divenire viene scandito ed i fatti, altrimenti indeterminati, vengono determinati; piuttosto essa aderisce alla dinamica interna della storia, e sta lì innanzitutto ad attestare una dimensione alternativa all’oggettivismo delle
scienze naturali. L’essere è nel venire ad essere e, contestualmente, l’esistenza non è nella presenza ma nel trascendersi, per cui il mondo non è né
nel significato né nell’assenza di significato, piuttosto si fa di significato.
La nostra esperienza è nella storicità e, in quanto insieme nell’apertura della cura e nella chiusura della cosalizzazione, è percorsa da tensioni interne e si viene dipanando lungo una dinamica, al cui centro sta il momento
soggettivo dell’azione radicale. Non è che la realtà sia ben definita nei suoi
32
33
Ivi, p. 80.
H. Marcuse, Marxismo trascendentale (1930), in Marxismo e rivoluzione, cit., p. 56.
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contenuti, con la conseguenza che la dialettica non avrebbe altra funzione
che mostrarcela in una successione ordinata di momenti, piuttosto essa, facendosi, viene avanti nella discontinuità e passa per situazioni di rottura, per
cui quel che è nella positività della determinazione, ogni volta è di nuovo
fatto saltare. Solo irrigidendolo possiamo pensare l’essere semplicemente
nell’unità degli opposti, come se fosse in una struttura fissa che ne definisce la dinamica, per cui la dialettica – con un proprio oggettivismo – sarebbe da schiacciare sullo schema tesi-antitesi-sintesi. Essa piuttosto, per
Marcuse, ha le seguenti caratteristiche: a) di non rappresentare un metodo;
b) di non valere per tutti gli enti, ma soltanto per quelli che si danno nell’esistenza; c) di non riguardare il contrasto fra l’io e un essere già dato; d)
di fondarsi sulla storicità e di non essere essa stessa a fondare la storicità;
e) di rappresentare un medio critico, per cui il passato viene preso non per
sé ma in dipendenza dell’irrompere del futuro. In fondo, la dialettica è caratterizzata dal fatto di insediarsi sul terreno «di un determinato compito
storico in una determinata situazione storica»34; essa il dato non lo assume
in quanto consolidato e positivamente compiuto, ma con al proprio interno quell’alterità che lo porterà all’Aufhebung. Così la dialettica ci dà la cosa stessa nell’uscita da sé. Se quella hegeliana si riferisce allo spirito e corre il rischio – in effetti eluso nella Fenomenologia dello spirito – di tradursi in uno schema, nella versione marxiana essa perde ogni pretesa di
assolutezza e assume una portata di praticabilità, introducendo al compito
al quale – attraverso l’azione radicale – in questo mondo capitalistico siamo chiamati.
La storia, se la vediamo in quella immanente conflittualità espressa dalla dialettica e quindi nel segno del nesso signoria-servitù, assume sempre
più un connotato economico-sociale, per cui al suo centro innanzitutto starebbero i rapporti e le forze che sovrintendono i processi di produzione e
riproduzione dell’esistenza. La cura, in grazie alla quale la filosofia è vista
inverarsi nel superamento di se stessa, che nei Contributi era fatto coincidere con l’azione radicale, viene cambiando progressivamente di connotato: nella seconda parte del saggio Sul problema della dialettica del 1931,
in Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico del 1932 e specialmente nello scritto del ’33 Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, essa si presenta come attività lavorativa. In
conseguenza si ha uno spostamento dell’asse del discorso. Il bene prodot34
H. Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico (1932), in Marxismo e rivoluzione, cit., p. 96.
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to viene messo al centro della riflessione: è non soltanto qualcosa di più che
un mero dato, che risulta nel “godimento” e “possesso”, ma anche ed innanzitutto rappresenta il medio attraverso cui l’uomo realizza la propria
umanità. La reificazione è il farsi a noi estraneo di ciò che propriamente ci
appartiene, per cui il lavoro, assimilato alle cose a cui mette capo, si trasforma esso stesso in merce e viene destituito di umanità. Commentando
la pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marcuse rileva che «dominio e servitù non sono, qui, concetti che indicano determinate forme di scambio, rapporto di produzione ecc. (precapitalistici, o propri del capitalismo), ma indicano invece, in generale, la situazione sociale
dell’uomo nelle condizioni del lavoro alienato»35. Dietro al momento della relazione sociale vi è, come qualcosa di essenziale, la perdita di sé. A decidere dell’uomo è l’esperienza che fa come ente che lavora. Non si tratta
allora soltanto del fatto che il mondo capitalistico appare sprofondato nel
passato ed è il socialismo ad aprire al futuro, ma anche che si è rinvenuto
un punto di massima tensione, nel quale libertà e dominio vengono a farsi
valere insieme l’uno per l’altro e l’uno contro l’altro, per cui la storia, proprio in quanto antropologicamente fondata, mentre si consuma nel dominio, è sottesa da un’istanza ultima di liberazione.
Marcuse segue Marx nell’idea che, se non è il pensiero il luogo della
perdita di sé da parte dell’uomo, neppure la coscienza sarà il medio della
riappropriazione. Lungo la linea della lettura dei Manoscritti economicofilosofici, egli dà una formulazione in senso materialistico dell’esperienza,
lasciandosi alle spalle la Lebensphilosophie diltheyana e ridefinendo la nozione di spazio vitale. A partire dalla premessa che è il lavoro a rappresentare la possibilità della libertà dell’uomo, l’ontologia della storicità viene ripensata in funzione di un rimodulazione dell’esistenza. Resta però
l’idea che la storia, ancorché sia nel segno di relazioni sociali di dominio,
non è passibile di una lettura sociologica. Ancora Marcuse la pensa come
un tutto, nel senso che «alienazione ed estraneazione del lavoro non appartengono solo alla sfera dei rapporti economici, ma colpiscono l’essenza e la realtà dell’uomo “come uomo”, e solo per questo la perdita dell’oggetto del lavoro può acquistare un’importanza centrale»36.
Ad essere espropriati, ancora prima del bene, sono il lavoro e la sua gestione. Riaffermandone il primato, Marcuse va, contestualmente, nel sen-
35
36
Ivi, p. 100.
Ivi, pp. 71-72.
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so di un recupero dei bisogni. A farsi valere è il momento della sensibilità,
così che sia evitato di bloccare – con Hegel – l’esperienza nel sistema. Occorre impedire che l’ontologia della storicità degeneri in una filosofia universale della storia, perdendo di concretezza. Non si tratta, però, tanto di incurvare in senso materialistico il divenire, quanto di trovare una via che
faccia accedere alla condizione dell’esistenza dell’uomo moderno. Termine di riferimento è ancora la situazione, come luogo decisionale, e il nostro
disporci al suo interno; in misura maggiore che nei precedenti scritti, viene ora fatta valere l’intenzione di dare una fondazione all’azione radicale
nella realtà sociale, in riferimento allo sviluppo dei processi di produzione. L’esigenza da soddisfare è sempre quella di portare il mondo a trasformazione, ma con il supporto del referente oggettivo. Vi sono condizioni a
cui sottostare e contenuti da realizzare, per cui l’esperienza viene caricata
di positività. Il lavoro non è esattamente la stessa cosa della cura: non soltanto tende a scadere nella deiezione – come pure già nei precedenti scritti marcusiani – quanto ha in sé inerente un momento di deiezione; le cose
che porta ad essere si fanno indipendenti, e sono destinate ad insediarsi in
una logica loro propria. Da una parte esso è connotato in termini di oggettività, da un’altra il metterlo al centro della riflessione sulla storia, sconta
come presupposto una curvatura in senso antropologico dell’ontologia.
L’impostazione heideggeriana del discorso appare ridimensionata, ma non
è ancora lasciata cadere37. Resta come antidoto ad una caduta nell’oggettivismo.
Si tratta di prendere le mosse dal quel che di originale Marx ha introdotto nella riflessione: la riduzione, nella società capitalistica, dell’operaio a merce. L’abolizione allora della proprietà privata non introduce tanto
ad un ordine economico alternativo, ma all’appropriazione di sé da parte
dell’uomo. Il lavoro come luogo di esistenza autentica o inautentica, deve
essere inteso “come una categoria filosofica”38. D’altra parte esso introduce all’idea – e qui sta l’elemento di novità di Nuove fonti rispetto agli scritti marcusiani precedenti – della natura sensibile della nostra esperienza.
37 Per H. Brunkhorst (Die authentische Revolution. Marxismus als Existenzialismus
beim frühen Marcuse, in G. Flego, W. Schmied-Konwarzik (a cura di), Herbert Marcuse.
Eros und Emanzipation, cit., p. 47), Marcuse nel ripensare l’alienazione sulla linea dei Manoscritti economico-filosofici, si mantiene dentro un’impostazione heideggeriana del discorso, evitando nel contempo la deriva antropologica, nel senso che «interpreta l’ontologia marxiana del lavoro come ontologia esistenziale dell’essere-nel-mondo» (Ibid.).
38 H. Marcuse, Nuove fonti…, cit., p. 73.
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L’uomo non è più tanto nel disporsi nei propri confronti, esercitando la decisione esistenziale, quanto nel disporsi nei confronti di qualcosa di dato,
e la sua attività consiste eminentemente nella produzione ed acquisizione
di beni. E poi, conducendo la sua vita innanzitutto nel lavoro, è definito
dal fatto di essere un ente naturale percorso da bisogni materiali, per cui
«egli è “posto” attraverso oggetti, e fa proprio, nell’atto di conoscere, questo suo presupposto; in quanto essere sensibile è un essere ricettivo, passivo, che subisce le impressioni esterne»39.
Il pensiero di Marcuse va incontro ad una svolta, nel senso che ora
l’apertura non soltanto si fa valere per se stessa quanto in funzione del raggiungimento di qualcosa. Non è che i precendenti assunti heideggeriani
vengano semplicemente lasciati cadere, solo si cerca di conciliarli con il
Marx feuerbachiano dei Manoscritti. A stemperare il momento materialistico è il fatto che l’uomo, esercitando l’attività produttiva, non solo si
emancipa dalla condizione animale, solo reattiva, ma pure partecipa in
qualche misura dello spirito, fino al punto di trovarsi nella condizione di potere espletare la propria attività, portandola nella stessa logica che governa l’arte. «Egli può “contrapporsi” ad ogni oggetto, e sfruttare e rendere attuali e operanti le sue possibilità interne, col lavoro; può produrre “secondo le leggi della bellezza”, e non solo secondo il criterio dei propri bisogni»40.
Ad aprirsi è lo spazio della sensibilità, che – dopo un articolato itinerario – porterà alla tematizzazione dell’eros, nel senso che si viene prefigurando una dimensione posta al fondo dell’esperienza che, rimasta conculcata, mentre da una parte si coniuga con la produzione di beni, da un’altra,
caricandosi del sentimento del piacere, rivela portata estetica, ed alla fine
tenderà a realizzarsi nel gioco. Ad aprirsi è una nuova contrapposizione,
quella che intercorre fra un’attività in sé incentrata ed un’altra in funzione
di cose. Certamente, il lavoro come fatto umano può essere coniugato con
il senso artistico, ma pure deve essere praticato dentro una dinamica di “superamento della realtà data e presupposta”41. È pesante ma, in quanto risulta
rideterminato dall’interno – per le relazione sociali in cui si iscrive – e dall’esterno – dalla tecnica – è passibile pure di alleggerimento. Anche così riformulato, esso mantiene, ineliminabile, un margine di forza oppressiva;
39
Ivi, p. 80.
Ivi, p. 78.
41 Ivi, p. 86.
40
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per fortuna, però, non esaurisce l’esperienza, le si fa valere accanto, in un
certo senso in alternativa, un momento di libera disposizione, svincolata
dal coattivo del referente esterno. Per quanto, in nome di una produzione
nel bello, ridimensioniamo il principio di prestazione, scopriamo che il passato può essere negato, e non sta lì, incombente, a decidere del futuro. Si
apre la strada ad una riflessione critica sulla società. Così Marcuse comincia ad articolare il proprio discorso intorno a quei punti saldi che ora, appena abbozzati, e peraltro assai parzialmente, in Eros e civiltà si connoteranno come: principio di prestazione, thanatos, repressione addizionale,
desublimazione e, in alternativo principio del piacere, gioco, eros, sublimazione.
5. Da un’ontologia della storicità ad un’ontologia del lavoro
L’uscita da parte di Marcuse dall’orizzonte problematico heideggeriano,
in conseguenza del riconoscimento che il mondo è fatto di oggetti, si compie nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica del 193342. Essa ha per premessa che il lavoro, come luogo
dell’esperienza umana, ha propri connotati positivi e non lo si può schiacciare sulla cura; piuttosto è pesante, ma pure può venire alleggerito dalle relazioni sociali dentro cui si consuma, e comunque mantiene al fondo un
nucleo di assoggettamento alla necessità. L’illibertà che lo segna, può farsi relativa, perdere di cogenza, non però venire eliminata. A contrapporlesi è una libertà incondizionata, quella del gioco, nel quale le cose sono, per
così dire, sciolte nella nostra attività, non ci si stagliano di fronte, insediandosi in una loro logica. E qui siamo signori in casa nostra. «Giocando,
l’uomo non si conforma agli oggetti, alla loro regolarità, per così dire, immanente (data cioè dalla loro oggettività specifica), né a ciò che richiede il
loro “contenuto oggettivo” (mentre il lavoro nel trattare, utilizzare, dar forma al suo oggetto, deve conformarsi al contenuto oggettivo di esso); al contrario il gioco sopprime, nei limiti del possibile, questo contenuto e rego-
42
Condividiamo con Brunkorst (Die autentische Revolution, cit., pp. 51-52), l’idea che
Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica chiude il periodo
heideggeriano di Marcuse, in quanto, in riferimento alla prassi, il lavoro prende il posto
dell’azione rivoluzionaria. Il saggio ha due versioni che hanno, rispettivamente, al centro,
la contrapposizione di cosalizzazione ed oggettivazione ed un concetto preindustriale di lavoro produttivo-creativo (cfr. ivi, p. 54).
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larità “oggettivi” degli oggetti, per mettere al loro posto una regolarità diversa, creata dall’uomo stesso, a cui chi gioca si lega liberamente per volontà propria: le regole del gioco»43.
In via essenziale il gioco, però, non lo si può pensare per sé; ha piuttosto per fondamento il lavoro, a partire dal quale si ritaglia il proprio spazio.
Con il suo essere in qualche modo un contraltare, mostra portata alternativa ad un’attività, in un certo senso, primaria, la quale consiste nel sobbarcarsi il peso delle cose. La produzione di beni utili, vincolata com’è ai bisogni, in via essenziale non può stare nella libertà; anche se i legami di necessità dentro i quali viene esercitato, possono risultare – a seconda delle
relazioni sociali – in diverse misure stringenti. Il gioco, però, non è in una
posizione di subalternità; è insediato in una sua propria logica, e se ha il lavoro come antecedente, pure sta con esso in una relazione di contrapposizione-correlazione. Le modalità in generale del nostro disporci nel mondo
sono due, entrambe, per così dire, strutturali; e per quanto esse si manifestino – diversamente e di volta in volta – nella storia, hanno un che di metastorico. Lavoro e gioco, indipendentemente dall’effettivo concretizzarsi
nei molteplici universi sociali, rappresentano ciò su cui l’esperienza dell’uomo si scandisce. Marcuse li viene contrapponendo, proprio pensandoli correlativamente: a) per la durata, in quanto l’uno coinvolge l’esistenza
e l’altro riguarda solo momenti privilegiati; b) per la permanenza, per cui
portano alla costituzione di qualcosa di duraturo, che resta nel tempo, oppure, per così dire, di effimero, che si consuma nel momento della sua realizzazione; c) per la natura dell’esperienza che li sottende, nel senso che sono nella pesantezza o nella leggerezza, rispettivamente, nella necessità o
nella libertà. Resta che il lavoro costringe sempre all’assoggettamento a
regole estranee; ha al suo interno un margine di alienazione, che può risultare massimizzato o minimizzato e spostato indietro, ma mai azzerato.
Comunque il gioco rappresenta una situazione limite, occupando uno
spazio, in un certo senso, incontaminato, e che si ritrae nella sua propria separatezza. È il lavoro ad esserne premessa, come luogo di conservazione
dell’esistenza; in generale si può dire che esso, se pure finisce con il cadere nella reificazione, rappresenta nondimeno il medio di manifestazione
dell’umanità dell’uomo nella storia. E poi anche, in un allargamento dello
43
H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica (1933), in Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, trad. it. di F. Cerutti, Torino, Einaudi, 1969, p. 155.
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spazio della sua portata, per quanto riveli al proprio interno un ineliminabile momento costrittivo, è medio di promozione della vita, per cui esso è
sotteso al fondo da un nucleo propulsivo. Il fatto è che il lavoro non è soltanto adempimento di una mancanza, non unicamente mezzo della soddisfazione dei bisogni: innanzitutto affonda «in una sovrabbondanza essenziale dell’esistenza umana rispetto ad ogni possibile situazione di se stessa e del mondo»44. Prima di trasporsi – oggettivandosi – in beni prodotti,
esso è attività di produzione, per cui sta nella vitalità. Per il fatto che è il
luogo tanto della realizzazione che della perdita di sé, il lavoro sarebbe a
capo di “un’ontologia dell’uomo”. Marcuse, però, solo intravede una strada, ma non la segue e dice che, se la percorresse, sarebbe costretto a uscire dai limiti del saggio. Ma il punto essenziale è che egli ormai tende a portare il proprio pensiero fuori dall’orizzonte heideggeriano, destituendolo
di portata ontologica. È come se – in seguito all’avvento del nazismo – con
il precipitare di un mondo, fosse spinto a volgere la sua riflessione tanto sul
positivo della ricerca di alternative che sul negativo della formulazione di
una teoria critica. Con uno spostamento d’asse rispetto agli scritti precedenti, progressivamente abbandonando il riferimento al vuoto della cura,
Marcuse mette al centro del suo discorso «il rapporto tra lavoro ed oggettività, cioè l’oggettivazione della vita nel lavoro». E aggiunge che la direzione lungo cui egli si muove, «consegue dal carattere di “cosalità” del lavoro, che è già emerso nel primo tentativo di circoscrivere questo fenomeno»45.
Non si tratta più di una modalità di essere e del suo degenerare – per cui
l’esperienza, che pure originariamente sta nell’apertura, è destinata a cadere
nella chiusura – ma di condizioni date contrapposte. L’idea che vi è una dimensione di vita in sé in qualche misura coattiva, apre una strada che porterà Marcuse – molti anni dopo – alla formulazione del principio di prestazione, al quale contrapporre un altro principio, quello di piacere, alla
base del gioco. Il lavoro non può essere liberato da un momento immanente di alienazione, non tanto per avere come condizione i bisogni quanto, specialmente, per il fatto di generare cose che poi sono destinate ad insediarsi in una logica autonoma. Prodotti e mezzi di produzione perdono
di connotato umano. In generale non solo i beni, destituiti di portata qualitativa e spersonalizzati, diventano merci – fra le quali sta anche l’attività
44
45
Ivi, p. 167.
Ibid.
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del lavoratore –, ma anche i luoghi e le istituzioni finiscono con l’essere deprivati del fatto di stare nella vita: la fabbrica funzionante, la miniera aperta, il campo coltivato, il mercato frequentato e anche la legge promulgata
o l’amministrazione operante, sono semplicemente dati: «Tutti questi fatti oggettivi hanno allora una propria “storia”, che non coincide mai con la
storia dell’esistenza in questa o quell’epoca, né si può mai del tutto far derivare da essa; tutti questi fatti hanno un accadere che segue leggi proprie»46. E così l’esperienza cade fuori dall’esistenza. Solo non si tratta più
tanto di recuperarla alla cura, tornando a fare aperto quel che è scivolato
nella chiusura, quanto piuttosto di prendere atto del fatto che vi è una realtà, la quale, sorta da noi, ci si dispone di fronte, imponendosi per se stessa. Una duplicità viene a darsi nelle cose stesse, per cui tra il fare dell’uomo ed il mondo fatto si apre uno iato. Le due realtà possono assolutamente divergere oppure essere spinte ad accostarsi, ma mai coincideranno del
tutto. Ed alla fine vi è non solo una distinzione, ma una vera e propria contrapposizione, fra il lavoro come sovrabbondanza di vita e i suoi prodotti,
ormai devitalizzati. La divisione del lavoro è per Marcuse – sulla linea del
giovane Marx – la radice dell’alienazione. In un certo senso, in dipendenza com’è dal bisogno, essa sta nelle cose stesse, per cui la nostra esistenza, proprio facendosi consistente, finisce con il risultare manchevole. Il lavoro è il medio dell’umanizzazione e insieme della disumanizzazione del
mondo.
Lungo la linea di una tradizione fenomenologica – che si tiene sul primato dell’interiorità – occorre, per Marcuse, recuperare il momento della
vita, facendolo prevalente sulla dimensione puramente cosale. Non si tratta di mettere in commistione istanze opposte – in un certo senso umanizzando il capitalismo – ma proprio all’opposto, separandole, occorre dare
il massimo spazio all’una a discapito dell’altra. Un certo grado di deiezione è nelle cose, ma può essere esasperato oppure ridimensionato. Così come il lavoro, in quanto tale pesante, può pervadere l’esistenza o restare ai suoi margini. Ma pure nello stesso tempo è nella vitalità. È allora
su di esso che va esercitata la riflessione, per farlo medio di umanizzazione invece che di disumanizzazione. La contrapposizione libertà-illibertà ne ha dietro di sé un’altra, quella in qualche modo rappresentata dai
concetti aristotelici di ¢nagca‹a e cal£, indicanti rispettivamente ciò
che assicura la conservazione della vita oppure il suo accrescimento; da
46
Ivi, p. 169.
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una parte sta la soddisfazione dei bisogni, da un’altra l’incremento di possibilità. Di tanto la prima istanza è soddisfatta, di altrettanto viene a farsi
valere con rafforzata legittimità la seconda. Una volta che l’esistenza è
stata assicurata, si danno le condizioni per la sua promozione. Se lo sviluppo della tecnica toglie cogenza alla divisione del lavoro, si aprono spazi all’approfondimento e potenziamento dell’esperienza; dipende dall’uomo praticarli. È questo il compito a cui siamo chiamati: del realizzare in un contesto dato il massimo di libertà. Ogni universo sociale ha il proprio il margine di possibilità praticate o conculcate. Sullo sfondo sta lo
spazio vitale, che torna a farsi valere, ma riformulato in una prospettiva
che è molto più marxiana e molto meno diltheyana. Esso rappresenta
l’orizzonte storico di riferimento dentro cui l’uomo soddisfa i propri bisogni. «Quale sia a sua volta l’esistenza che il mondo preesistente ha ricevuto dal suo tempo e a cui è da attribuire l’organizzazione ed il riempimento dello spazio vitale: tutto questo deve essere determinato solo sulla
base della situazione nei diversi periodi»47.
È in dipendenza della particolare connotazione dello spazio vitale –
per cui si può parlare di società specifiche, con specifiche forze e relazioni produttive – che si pone il problema della possibilità di una prassi non
soggetta, o soggetta in misura minima, al vincolo della necessità. A decidere della valorizzazione o della rimozione del momento di libertà che
inerisce al lavoro, è quel retroterra di vita, che è appunto lo spazio vitale.
È esso, con il suo portare nel mondo storico le differenze di genere, di attitudine, di costituzione fisica e mentale, a rappresentare il luogo mediano in cui la soddisfazione dei bisogni si intreccia con i vicoli sociali di
volta in volta vigenti.
In un orizzonte fortemente connotato dai rapporti sociali di produzione,
il lavoro viene caricato di portata fondante, in quanto esprime, in via essenziale prima ancora che di fatto, tanto la condizione di oppressione che
la possibilità di emancipazione. Per il fatto che i suoi prodotti sono in un
ordine loro proprio, esso è in quanto tale nella coazione, ma pure, senza
avere la libertà del gioco, è medio di manifestazione di potenzialità. Marcuse non lo pensa tanto, o soltanto, per sé, in considerazione della sua propria natura essenziale, quanto specialmente con lo sguardo volto alla condizione di esistenza dell’uomo moderno. I suoi due connotati, ¢nagca‹a
e cal£, hanno sì validità in generale, ma specialmente si fanno enfatica-
47
Ivi, p. 168.
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mente valere nel capitalismo avanzato. Ciò a cui la storia fa capo rappresenta la condizione sia della sua comprensione che della sua trasformazione; e a tal punto da risultare esso stesso storicizzato. Definendo le strutture categoriali in grazie alle quali è possibile pensare il nostro intervento
sulle cose, Marcuse dà al proprio pensiero una valenza propositiva, destinandolo alla ricerca di vie di uscita dalla condizione di estraniazione conseguente all’affermazione di quella che più tardi definirà, la logica di prestazione.
Lo spazio vitale rappresenta il medio di incarnazione delle categorie che
governano la storia. Esso, mentre affonda in un’ontologia della storicità, ha
il compito di rappresentare le coordinate dell’effettivo divenire dell’uomo
sulla terra. Ha a capo l’Erleben, in Contributi ad una fenomenologia del
materialismo storico, e il lavoro in Sui fondamenti filosofici del concetto di
lavoro nella scienza economica; sempre comunque è il luogo della messa
in tensione di poli alternativi: rispettivamente, cura e cosalizzazzione, lavoro libero e coatto. In generale si può dire che lo spazio vitale rappresenta l’orizzonte dentro cui prende corpo la condizione di pervertimento di un
nucleo originario di esperienza autentica. Ma se solo lo pensiamo per i termini contrapposti che gli si fanno valere dentro, non ne scorgiamo la specificità, che consiste nel fatto che esso è il luogo in cui, effettivamente e di
volta in volta, si consuma l’esistenza dell’uomo. Ma poi anche, esso sta lì
ad attestare che le cose sono solo subordinatamente, ed in una situazione
di deiezione, in una logica loro propria, perché originariamente stanno in
noi che ne facciamo esperienza.
Lo spazio vitale, con il venir connotato da Marcuse sempre più in dipendenza del lavoro, va incontro ad un restringimento di portata. Resta
però che è al suo interno che portiamo il mondo a trasformazione. Anche quando la sua originaria coloritura heideggeriana e diltheyana finirà con lo sfumare, esso manterrà la funzione di fare concreta l’idea che
la nostra esperienza ha in sé la possibilità di emancipazione. In quanto
definisce il terreno su cui l’esistenza si costruisce, lo spazio vitale rappresenta il punto di intreccio in cui reificazione e trasformazione della
società si fanno realtà effettivamente operanti, nel molteplice delle situazioni storiche. È esso, con il suo affondare nell’Erleben, nei primi
scritti di Marcuse, e nel lavoro, in quelli immediatamente successivi, a
definire il contesto in cui la condizione di oppressione appare nella possibilità di venire – almeno parzialmente – a superamento. E quando, in
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seguito, sarà lasciato cadere come termine problematico di riferimento,
ancora continueranno a farsi valere le esigenze che hanno portato alla
sua formulazione48.
[email protected]
48 Condividiamo con G. Vaccaro (Antropologia e utopia, cit., p. 45) la tesi per la quale
«il pensiero maturo di Marcuse è uno sviluppo ed un approfondimento di quanto da lui pensato negli anni Trenta» (Ibid.). Le istanze al fondo resterebbero le stesse, ed un elemento di
continuità si fa valere anche nelle forme categoriali della loro gestione.
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