La doppia diagnosi
Diagnosi psichiatrica e doppia diagnosi
Se si vogliono tracciare e descrivere i fenomeni dell’alienazione mentale,
ovvero di qualunque lesione nelle facoltà intellettuali e affettive, se ne ricava solo confusione e disordine; si colgono solo degli aspetti fuggevoli, che
ci illuminano per un momento e ci lasciano poi in una profonda oscurità, se
non si assume come solido punto di partenza l’analisi delle funzioni
dell’intelletto umano… Spesso mi mancavano i termini adeguati per esporre fedelmente certi fatti e per descrivere in tutte le loro sfumature le diverse
lesioni delle facoltà intellettuali o affettive […]. Philippe Pinel
Non c’è niente di più pratico che partire da una buona teoria. Kurt Lewin
Philippe Pinel, considerato a buon diritto il fondatore della psichiatria moderna (XIX secolo), sembra riproporre la tensione del momento diagnostico, che nella psicopatologia dell’Ottocento si organizzava attorno a due
matrici costitutive, che la clinica cercava instancabilmente di collegare e
armonizzare: da un lato la percezione diretta, empirica, del folle, e dall’altro l’iscrizione della condotta alienata (parole, deliri, posture, mimica, gesti, comportamenti) entro le maglie di una concettualizzazione nosografica,
da sempre di difficile formalizzazione.
Pubblicato nel 1800, il trattato2 di Pinel è un’opera bifronte con un’apertura al futuro, espressa dall’esigenza di andare al di là di una pura descrizione dei fatti psicopatologici per cogliere ciò che segretamente li organizza, e un legame con il passato che emerge dal fatto che, sul piano clinico-descrittivo e nosografico, Pinel è ancora profondamente condizionato
dalle categorie e dallo stile generale della psicopatologia antica. Opera che
segna un attraversamento discriminante da una psicopatologia antica esclusivamente descrittiva a una psicopatologia moderna che scopre la dimensione
strutturale della malattia psichica, il dischiudersi della dimensione strutturale
comporterà un enorme arricchimento della conoscenza psicopatologica, ma
anche la graduale frammentazione del paradigma comune in orientamenti e
programmi di ricerca divergenti, la cui soluzione, nel bene e nel male, è oggi
2
Pinel, Ph., La mania. Trattato medico-filosofico sull'alienazione mentale, (1800), Basso, F.
F., Moravia, S., (a cura di), Venezia, Marsilio, 1987.
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rappresentata dalle varie edizioni del DSM, espressione, o pretesa, di un ritorno a un punto di vista ateoretico e meramente descrittivo.
La conoscenza psicopatologica possiede indubbiamente un valore insito,
se non altro per i contributi che reca alla comprensione della natura umana;
ma non è fine a se stessa, avendo tra gli altri scopi quello di essere utilizzata in rapporto a tutti gli obiettivi della pratica clinica, a cominciare dalla diagnosi. È ovvio, infatti, che per diagnosticare un disturbo psichico è necessario disporre di conoscenze psicopatologiche.
Prima di passare alla questione della diagnosi in psichiatria e della doppia diagnosi in particolare è necessario definire il campo di indagine della
psicopatologia, ma ci accorgeremo, da subito, che non è una cosa semplice.
Nonostante nella letteratura tale campo venga circoscritto con criteri e in
modi diversi, la maggioranza degli autori individua tre principali aree: i sintomi psichici, le malattie psichiche, la nosografia (o nosologia) delle malattie psichiche, vale a dire la loro classificazione.
Proviamo a partire dal compito nosografico della psicopatologia, vale a
dire il dover
individuare dei criteri efficaci per differenziare e classificare le differenti
patologie. La questione nosografica riveste grande importanza sia sul piano
teorico che su quello pratico. Si tenga presente che la diagnosi differenziale
delle malattie mentali si imbatte sistematicamente in problemi di estrema
complessità ed è sempre difficile. Non sorprende, dunque, che anche in questo campo le opinioni divergano notevolmente. È logico, d’altra parte, che
la scelta dei criteri classificatori dipenda largamente dalle prime due aree
del campo di indagine della psicopatologia, ossia come vengono concepiti i
sintomi e le malattie.3
Passiamo, quindi, a definire il concetto di malattia psichica (o mentale),
e ci accorgiamo che qui le cose si complicano ulteriormente. Il modello generale di malattia – tuttora applicato – prevede tre aspetti: l’eziologia, ovvero le cause che la producono (per esempio un batterio); le alterazioni anatomiche e fisiologiche che ne conseguono; la storia del quadro sintomatologico. Questo modello, chiamato anatomo-clinico, venne fatto proprio in
linea di principio anche dalla psichiatria della seconda metà del XIX seco3
Civita, A., Psicopatologia, Roma, Carrocci Editore, 1999, p. 13.
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lo. Vista la grande influenza di questo modello nella ricerca attuale, nella
clinica e nelle elaborazioni teoriche di alcune scuole, che si presenta molte
volte con le spoglie dell’unico metodo scientificamente valido, ritengo opportuno soffermarmi sulle problematiche così come si presentarono al
grande psichiatra tedesco Emil Kraepelin, colui che ha dominato la scena
della psichiatria internazionale per diversi decenni a cavallo tra la fine del
vecchio e l’inizio del nuovo secolo, e il cui insegnamento esercita grande
influenza nell’ambito della psicopatologia e della psichiatria moderna. Organicista convinto, Kraepelin fu anche un convinto assertore dell’applicazione alla psichiatria del modello anatomo-clinico, che assunse con un atteggiamento scientifico estremamente razionale. Presi in esame il criterio
eziologico, quello anatomico e quello sintomatologico, ovvero gli elementi
costitutivi del modello generale di malattia, egli dovette scartarli tutti e tre
con argomenti che meriterebbero ancora oggi di essere meditati, per scegliere di indirizzare la sua ricerca verso uno studio prolungato e meticoloso,
fino all’ossessività, della sintomatologia dei diversi quadri morbosi, al fine
di individuare una classificazione razionale ed efficace dei disturbi psichici.
Egli scrive, nell’introduzione al secondo volume della settima edizione:
Il primo oggetto della conoscenza medica dei disturbi psichici deve essere
naturalmente la determinazione del concetto e dei limiti delle forme morbose [...]. Sembrerebbe a prima vista, specialmente riferendoci alle esperienze
forniteci dalla medicina interna, che la base più sicura per la suddivisione
delle forme morbose psichiche dovesse essere fornita dall’anatomia patologica. Purtroppo però la speranza di reperti anatomici caratteristici è, per la
maggior parte dei disturbi psichici, ancora molto lontana dal realizzarsi.
Anche là dove noi possiamo già riscontrare grossolane alterazioni cerebrali,
manchiamo assolutamente della conoscenza precisa dei rapporti tra i fatti
anatomici e le manifestazioni cliniche, in modo che solo eccezionalmente
possiamo osare di pronunciare al tavolo anatomico una probabile congettura
sullo stato psichico durante la vita. A causa della insufficienza dei nostri
mezzi d’esame e delle nostre cognizioni anatomo-patologiche, come anche
per la difficoltà di collegare i processi somatici a quelli psichici, tutti i tentativi fatti finora per una classificazione anatomo-patologica delle alterazioni
psichiche hanno naufragato.
Obiezioni poco meno gravi si possono addurre contro il tentativo di una
classificazione delle psicosi a seconda delle cause, classificazione che recentemente è stata presentata come la sola che avesse valore. Certo noi conosciamo già oggi alcune cause, l’influenza delle quali si manifesta con ca-
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ratteri clinici ben determinati, sicché quelle possono da queste venir dedotte.
Ci riferiamo qui specialmente alla varie forme di avvelenamento, ad alcune
malattie somatiche, a lesioni del capo, forse anche ad alcune violente emozioni e infine alle forme gravi della degenerazione ereditaria, l’essenza e il
meccanismo d’azione della quale non ci sono, nell’immensa maggioranza
dei casi, ancora ben noti. Per contro le cause della pazzia sono completamente oscure per noi, come l’apprezzamento sincero dell’esperienza giornaliera ci fa senz’altro confessare. Ciò non dipende solo da circostanze esterne, dalla difficoltà ad es. di ottenere schiarimenti sull’anamnesi; ma ha la
sua ragion d’essere nella natura stessa dei disturbi psichici. Per solito noi
abbiamo da fare con malattie di cui le cause essenziali risiedono nella predisposizione o in sconosciuti stati interni dell’individuo; e disgraziatamente
appunto l’investigazione e l’analisi della personalità psichica e somatica sono ancora all’inizio. Si deve infine tener conto che le cause delle alterazioni
psichiche agiscono associate le une con le altre [...].
Molto più frequentemente le alterazioni psichiche sono classificate a seconda dei loro caratteri clinici, giacché appunto i sintomi della pazzia colpiscono più che ogni altra cosa gli occhi dell’osservatore. Questo modo di
procedere conduce dapprima, con una certa necessità, a un eccessivo apprezzamento dei singoli sintomi, alla tendenza a raccogliere in una forma
tutti i casi morbosi, ai quali è comune una qualsiasi marcata alterazione. Così ha avuto origine la maggior parte dei nostri concetti clinici abituali. Fu
dato il nome di malinconia a tutti gli stati d’animo tristi o angosciosi; di
mania agli stati di eccitazione, di paranoia alle malattie che presentavano
deliri e disturbi psico-sensoriali, e via di seguito. Ma certo doveva a poco a
poco mostrarsi la differenza intima tra le alterazioni psichiche, che pur di
tempo in tempo offrono gli stessi caratteri clinici. Si vide inoltre che nel decorso dello stesso caso si presentavano successivamente sintomi i quali differivano di molto gli uni dagli altri e sembravano anzi formare addirittura
un’antitesi.
Da ciò derivò la necessità, riconosciuta chiaramente da Kahlbaum, di distinguere le sindromi dalle forme morbose. Le prime possono ritrovarsi uguali, o almeno molto simili, nelle più diverse forme di malattie. Una diagnosi scientifica non deve però mai limitarsi a caratterizzare la sindrome,
ma deve stabilire la malattia alla quale il quadro sintomatico appartiene.4
Ritorniamo ora alla questione dalla quale siamo partiti, ovvero provare a
definire il concetto di malattia psichica (o mentale) e, riprendendo il modello generale di malattia – l’eziologia, le alterazioni anatomiche e fisiologiche
4
Kraepelin, E., Trattato di psichiatria, (1907), Tamburini, A., (a cura di), Milano, Vallardi,
Vol. II, 1962, pp. 1-4
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che ne conseguono, la storia del quadro sintomatologico – proviamo a fare
qualche passo in avanti con l’aiuto di questo eminente psichiatra tedesco.
In rapporto al criterio anatomico Kraepelin non si limita a lamentare
l’arretratezza delle conoscenze anatomo-patologiche, ma solleva anche il
problema generale ed epistemologico della correlazione tra i processi somatici e quelli psichici; non meno interessanti sono le obiezioni contro il criterio eziologico. Anche in questo caso Kraepelin non si accontenta di far notare che, allo stato delle conoscenze, “le cause della pazzia sono completamente oscure”, ma attribuisce questo stato di cose non solo e non tanto a
“circostanze esterne”, quanto alla “natura stessa dei disturbi psichici”. Le
cause essenziali di questi disturbi risiedono nella predisposizione, nella personalità, in “sconosciuti stati interni dell’individuo”. Si aggiunga, inoltre,
che le malattie psichiche sono provocate da più cause che agiscono in associazione. Si può ben dire che sull’eziologia, come sull’anatomia patologica,
Kraepelin dimostri un lucido scetticismo che la psichiatria successiva ha
dovuto pienamente ribadire.
Vi chiedo ancora di seguirmi e di provare a fare un salto nel tempo per
vedere cosa potrebbe dire sulla questione della malattia psichica uno psichiatra a noi contemporaneo; ho scelto le parole di Massimo Biondi:
Esistono persone che stanno male e mostrano un insieme di sintomi sul piano del comportamento e intrapsichico, riferiscono in genere (anche se non
tutti) uno stato di sofferenza, spesso hanno la loro vita interpersonale e di
lavoro compromessa, ma non sarà possibile trovare (tranne che nelle cosiddette sindromi psicorganiche, oggi dette patologie psichiatriche secondarie a
cause mediche) corrispondenti alterazioni o lesioni del cervello così come
ne trovi per altre malattie (per esempio, infarto, polmonite ecc.) che danno
invece corrispondenti riscontri all’esame degli organi, dei tessuti. In altri
termini, non troveremo alterazioni evidenti a livello di organi, e ai sintomi
non corrisponde un segno oggettivo: in psichiatria questo tipo di corrispondenza in genere non si dà. Si cerca da decenni, ed è una storia di ripetute illusioni e delusioni. […] In sintesi, in psichiatria le diagnosi sono sindromiche e non eziologiche: in psichiatria la diagnosi la faccio per raggruppamenti di sintomi che osservo, ricorrenti insieme in gruppi tipici in alcuni malati
(un depresso è triste, piange, non mangia, dorme male, è stanco, ha ridotto i
suoi interessi ecc.) piuttosto che per identificazione di cause. La medicina
invece ha diagnosi anche per eziologia e/o per patogenesi: rintraccia il microbo, l’agente patogeno, il tipo di alterazione di organi o tessuti. Le polmoniti le classifica secondo l’agente causale: batterico, virale, fungino ecc.,
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e molte altre malattie in medicina sono classificate secondo il processo (patogenesi) che caratterizza una certa condizione di malattia e con cui essa tipicamente si presenta. La classificazione della anatomia patologica e della
patologia medica è molto ricca di esempi di questo tipo.5
Siamo così giunti a un punto cruciale del sapere psicopatologico, vale a
dire che il concetto che più si avvicina a poter definire che cosa è una malattia psichica è, ancora oggi, quello di sindrome, che a essere rigorosi non
individua una malattia, essendone le cause sconosciute. In effetti per sindrome (da sin e dromos: correre insieme) si intende un complesso di sintomi che compaiono contemporaneamente, costituendo un quadro clinico caratteristico alla cui base, peraltro, possono stare cause diverse o sconosciute; si contrappone alla malattia o morbo, la quale clinicamente è caratterizzata da un complesso di sintomi ed è definita da una causa unica e ben precisa, da cui di solito dipende, insieme al decorso clinico, la classificazione.
Resta da trattare la questione di che cosa è un sintomo e, da quanto detto
finora, ci è subito chiaro che la cosa non si presenterà meno problematica.
Propongo di partire dalla definizione che deriva dal modello generale di
malattia, per poi tentare di saperne un po’ di più grazie all’aiuto che ci hanno offerto alcuni grandi psichiatri del XIX e del XX secolo, per arrivare a
dire qualcosa sulle problematiche del processo diagnostico in psichiatria e
sul testo nosografico più diffuso al mondo, ovvero sul Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).
La più semplice definizione di sintomo è “ogni manifestazione di malattia”.6 La parola “sintomo” deriva infatti da due termini greci: syn (insieme)
e pìptein (cadere), cose che “accadono insieme”, ovviamente alla malattia.
Ai fini della diagnosi, i sintomi si distinguono in patognomonici, caratteristici e generici: i primi consentono senz’altro la diagnosi, in quanto rivelatori del male, essendo esclusivi di una sola affezione; i secondi circoscrivono la ricerca tra poche malattie, da ognuna delle quali il sintomo caratteristico può essere prodotto; gli ultimi non consentono alcun orientamento
diagnostico, perché comuni a troppe affezioni. Obiettivi, poi, sono detti i
sintomi rilevabili dal medico che visita (aumento della temperatura corpo5
Biondi, M., “Stati mentali e stati psicopatologici”, AA.VV., Filosofia della medicina. La
malattia che si cura da sé, Roma, Manifestolibri, 2001, pp. 11-38.
6
Devoto, G., Oli, G., Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2001.
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rea, colorazione particolare della cute, deformità locali di varia natura e origine, soffi del cuore, ronchi, rantoli e altri rumori patologici del polmone,
ingrossamento del fegato e della milza, ecc.); soggettivi sono quelli che il
solo paziente è in grado di avvertire (dolori, ecc.). Il concetto base, intuitivo
per tutti, è che il sintomo rappresenta il modo attraverso il quale la malattia
si rende evidente alla persona malata e quindi agli altri: uno o più sintomi
rappresentano in genere l’esordio di una patologia, o ne consentono la diagnosi o la stadiazione. La malattia è un’entità astratta di cui i sintomi sono
la manifestazione visibile, percepibile, valutabile: risalendo alla causa del
sintomo si affronta e si cura la patologia. Si evince, però, già dalla prima di
queste definizione – “Sintomo: ogni manifestazione di malattia”– che seguendo con rigore il modello generale di malattia, ovvero non potendo individuarne le cause, non è possibile definire una malattia, e quindi tanto
meno individuarne qualcosa come le sue manifestazioni sintomatiche; in
psichiatria ciò che, di solito, chiamiamo sintomi, non sono altro che epifenomeni del modello di riferimento, quindi costrutti derivanti da scelte al fine di orientarci in un terreno che sotto molti aspetti resiste alla conoscenza.
L’esame della questione del sintomo ci riconduce, per esempio, nel cuore della psicopatologia kraepeliniana; nel discorso di Kraepelin si coglie infatti con piena chiarezza l’esigenza di portare la ricerca psicopatologica da
un livello descrittivo a uno strutturale. L’approccio descrittivo, consistente
nel definire i concetti psicopatologici in base al mero accertamento dei sintomi così come appaiono, si imbatte in due decisive e opposte difficoltà che
si presentano quotidianamente nell’indagine clinica: la prima è che gli stessi sintomi possono presentarsi in patologie differenti; la seconda è che in
uno stesso caso clinico – e quindi in una stessa patologia – possono presentarsi sintomi differenti. Per superare questo modo di procedere che sfocia
fatalmente in concetti confusi, come appaiono confusi i classici concetti
della tradizione psicopatologica, è indispensabile riuscire a distinguere ciò
che è necessario da quanto è solo contingente: i sintomi caratteristici, che
ineriscono alla natura essenziale del processo morboso, dai sintomi generali, che non sono specifici di una determinata patologia e sui quali pertanto
non si può fare assegnamento.
Ma come operare questa cruciale discriminazione tra il necessario e il
contingente? Kraepelin fornisce alcune importanti indicazioni; la prima è
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che i sintomi devono essere “giustamente interpretati”. Vorrei sottolineare
che il passaggio dal riconoscimento all’interpretazione, seppur giustamente,7 sposta la questione dal piano della descrizione al piano della modellizzazione, o delle teorie della malattia mentale, lasciando una porta aperta più
di quanto la psichiatria classica abbia intenzione di riconoscere.
Potremmo ricercare una conferma di ciò nel fatto che quello che si presentava come sintomatico agli occhi, alla clinica, dei grandi psichiatri del
XIX e del XX secolo, dipendeva strettamente dalla concezione che si erano
formati della malattia mentale, o, per meglio dire, dalla teoria della malattia
mentale a cui aderivano o, più frequentemente, che avevano contribuito a
sviluppare. Vediamo, a titolo di esempio, che per Jackson8 il sintomatico
non poteva che essere in stretta relazione, e da essa definito, con la teoria
dei livelli di organizzazione; che per Freud il sintomatico non poteva che
essere in stretta relazione con la caratteristica distinzione nell’apparato9 psichico, da lui operata, di una formazione superiore o coscienza e da una inferiore o inconscio; che per Jaspers il sintomatico non poteva che essere in
stretta relazione con la distinzione tra i concetti di comprensione e spiegazione; che per Minkowski il sintomatico non poteva che essere in stretta dipendenza con la relazione tra i concetti di intuizione e tempo; che per Binswanger il sintomatico non poteva che essere in stretta relazione con un
modo particolare di esprimersi ed essere al mondo.
Abbiamo detto che il campo di indagine della psicopatologia è formato
da sintomi, dalle malattie psichiche, dai criteri classificatori. Ora appare e7
A tale scopo essi devono essere valutati nel «quadro complessivo del caso clinico (...) dal
principio alla fine»; il che significa: anamnesi, esordio, decorso sintomatologico, esito. In
tutto ciò ha grande importanza soprattutto la considerazione dello stato terminale di una
malattia non guarita; qui “i segni caratteristici del processo morboso debbono apparire nella
maniera più chiara”. L'ultima indicazione riguarda la metodologia da seguire per raggiungere questo scopo. Diamo nuovamente la parola a Kraepelin che a tale proposito è
molto chiaro: “Per raggiungere questo scopo è necessaria una continua e accurata
osservazione dei singoli casi, la quale deve estendersi segnatamente anche sulla sorte futura
[la catamnesi o, come diremmo oggi, il follow-up] dei pazienti” (Kraepelin, E., op. cit., p.
6). Nelle sue ricerche Kraepelin ha rigorosamente applicato questi principi, per cui si può
ben dire che con lui prende avvio su larga scala una nuova dimensione della psichiatria:
l'indagine statistica (Civita, A., op. cit., pp. 80-84).
8
Il pensiero di John Hughungs Jackson è riportato nel testo di Carmela Morabito Modelli
della mente, modelli del cervello; l’opera completa ha assunto il titolo Selected Writings of
John Hughlings Jackson.
9
Temporalmente orientato e sessualmente costituito.
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vidente, anche se è un’evidenza raramente esplicitata, che per produrre un
sapere da mettere in gioco in queste tre aree la psicopatologia deve aver risposto, prima di addentrarsi nei particolari, alle seguenti domande: che
cos’è un sintomo psichico? Che cos’è una malattia psichica? In base a quali
ragioni si adotta questo o quel criterio di classificazione?
Queste tre domande rappresentano un momento fondamentale e decisivo
nella costruzione della conoscenza psicopatologica. In rapporto alla risposta, la ricerca psicopatologica, e la pratica clinica da essa derivante, si orienterà in una determinata direzione o in un’altra radicalmente diversa.
L’attuale ricerca psicopatologica mostra d’altra parte
che questi concetti si prestano a essere determinati in modi diversi, e ciò significa che determinarli equivale, in ultima analisi, a costruirli sulla base di
una scelta.10
Dopo quanto detto, c’è da chiedersi come, in linea di principio, il DSM
si possa costituire come una nosografia ateoretica; ma rimandiamo per un
attimo questo quesito, e proviamo a definire adesso, come a tentare un effetto après-coup che possa rilanciare la questione, il concetto di diagnosi.
Dal Dizionario di psicologia curato da Umberto Galimberti:
Diagnosi – (ingl. Diagnosis; ted. Diagnosi; fr. Diagnostic). Parola di origine
greca (δ ιά γν ω σι ς ) già utilizzata nella medicina antica con il significato di
‘riconoscimento’. Con la diagnosi si tratta infatti di riconoscere dei segni,
assunti come indizi per la valutazione di facoltà specifiche o del quadro
globale della personalità (diagnosi psicologica), oppure dei sintomi di funzioni alterate riconducibili a entità nosologiche di cui si conoscono a grandi
linee il decorso e l’esito (diagnosi psichiatrica). (…) diagnosi psichiatrica
che, a differenza di quella medica dove la causa delle forme cliniche è generalmente nota, è di tipo sindromico, dove per sindrome non si intende una
malattia, ma un insieme caratteristico di sintomi che solo raramente possono
essere ricondotti a una causa unica, nota e identificabile.11
Continuiamo a seguire il discorso di Galimberti:
10
11
Civita, A., Psicopatologia, op. cit.
Galimberti, U., (a cura di), Dizionario di psicologia, Torino, UTET, 1992.
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Alla domanda “Che cosa diagnostichiamo?” nel corso del tempo è stato risposto con la denominazione dei singoli sintomi, di relazioni particolari, di
complessi sintomatici, di relazioni causali, e così via, finché l’idea
dell’unità morbosa ha dato alla diagnostica il suo proprio senso, grandioso
ma irrealizzabile insieme. La diagnosi deve cogliere un processo morboso
che inglobi tutto quello che ha colpito l’uomo e che sta come un’unità determinata, accanto ad altre unità determinate.
Sulla problematicità dello schema diagnostico e sui suoi limiti c’è una
celebre pagina di Karl Jaspers che ne prefigura la sostanziale insuperabilità
dovuta alla natura stessa del disturbo psicotico, che sembra sovrapporsi a
quanto oggi scritto da Galimberti, non senza un certo effetto perturbante:
Noi conosciamo in dettaglio solo determinate manifestazioni, relazioni causali, rapporti di senso, e così via, ma le forme delle unità morbose sono come un
tessuto infinito, sterminato, che non possiamo comporre. Non troviamo le
singole forme di malattia come piante che ordiniamo in un erbaio. Piuttosto
riesce spesso incerto sapere che cosa sia una “pianta” – malattia.12
Prima di passare alle questioni che concernono il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), che inizierei a definire come uno
dei possibili modi di articolare la teoria, sempre presente nella pratica clinica, con le prassi individuate per i diversi trattamenti a cui può essere sottoposto un soggetto, vorrei solo segnalare che nella definizione di diagnosi è
presente il termine riconoscimento, che per ciò che concerne la diagnosi in
psichiatria avevamo problematizzato accostandolo al termine interpretazione (vedi anche Kraepelin), ma serberei di trattare questo argomento quando
saremo avanzati ancora di più sull’argomento.
Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, nel Novecento il sapere
psicopatologico e psichiatrico si è frammentato in una pluralità di orientamenti diversi, ciascuno con i suoi assunti di base, le sue teorie, il suo linguaggio, la sua nosografia. L’obiettivo fondamentale del DSM era, ed è tuttora, quello di far fronte a questo stato di confusione, di babele linguistica,
realizzando una classificazione dei disturbi mentali che per le sue caratteristiche, che più avanti prenderemo in esame, potesse essere accettata dalle
diverse posizioni in campo, configurandosi come un linguaggio psicopato12
Jaspers, K., Psicopatologia generale, (1913), Roma, Il Pensiero Scientifico, 1964, p. 648.
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logico di base, mediante il quale ricercatori e clinici delle differenti scuole
comunichino tra loro senza fraintendimenti; ciò nondimeno di poter rispondere alle pressioni economiche e alle esigenze di accountability, sia
dell’ambito assicurativo che clinico, strutture e servizi efficaci ma anche efficienti, con
maggiore verifica dei risultati a breve termine, dove si potesse raggiungere
un più facile accordo su quali pazienti modificare, che risultati visibili raggiungere, e con interventi che fossero facilmente replicabili.13
Il DSM non nasce, però, né fisiologicamente ateoretico né strutturalmente costituito da un set di criteri diagnostici per ogni quadro clinico;
scelta di ordine operazionale che ne determinerà l’enorme diffusione, tali
caratteristiche verranno introdotte, insieme all’organizzazione multiassiale,
solo a partire dal 1980 con la pubblicazione della terza edizione.
Il DSM è un prodotto della psichiatria americana, in particolare dell’American Psychiatric Association (APA), e nasce come prima pubblicazione
nel 1952,14 subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando negli Stati
Uniti esistevano ben quattro diversi sistemi “ufficiali” di nosografia psichiatrica: la Nomenclatura Standard dell’Associazione Medica Americana;
la classificazione dell’Esercito degli Stati Uniti; la classificazione della Marina degli Stati Uniti; il Sistema dell’Amministrazione dei Reduci.
La prima edizione del DSM risente fortemente dell’influenza dello psichiatra svizzero A. Meyer. Seguace di H. Jackson e antagonista di Kraepelin, Meyer concepiva i disturbi mentali come reazioni inadeguate a eventi o
situazioni critiche di natura psicologica, sociale o biologica. Il concetto di
reazione domina la nosografia del DSM-I, la quale è peraltro nettamente in
contrasto con quella proposta dall’ICD-6. La seconda edizione esce nel
1968; il DSM-II non è più centrato sul concetto di reazione, e, inoltre, presenta importanti somiglianze con l’ottava edizione, uscita nel 1966,
dell’ICD. La principale suddivisione del DSM-II è tra psicosi da un lato e
13
Migone, P., “La diagnosi descrittiva: i DSM dell'American Psychiatric Association”,
Terapia psicoanalitica, Milano, Franco Angeli, 1995, cap. 12, pp. 256-290.
14
Nel 1946 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) incluse per la prima volta nella
sesta edizione della Classificazione internazionale delle malattie (International Classification
of Diseases, in sigla ICD) una sezione dedicata alle patologie mentali.
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nevrosi e disturbi di personalità dall’altro; come ha scritto Kendler, fu in tal
modo adottata “una prospettiva kraepeliniana per le psicosi ‘funzionali’,
mentre una prospettiva freudiana dominò nel campo delle neurosi”.15
Nonostante queste novità di contenuto, l’impianto generale dei primi
due DSM resta invariato; ambedue fanno proprio un modello nosografico
tradizionale: ordinano i disturbi psichici, ne forniscono la descrizione clinica, inseriscono sovente informazioni eziologiche, informazioni ipotizzate,
ovvero che generalmente possono essere solo derivate dalla dimensione
clinico-strutturale della concezione della malattia psichica che ha guidato la
stesura del manuale in esame.
La nascita del DSM-III sancisce anche un’importante rivoluzione epistemologica: il lavoro nosografico non viene dunque più affidato all’autorevolezza di grandi personalità della psichiatria, come era sempre accaduto,
bensì al consenso degli esperti; l’opera è il risultato di un imponente lavoro
collettivo realizzato dalla cosiddetta Task Force. La messa a punto del
DSM-III fu commissionata, per esempio, a R. Spitzer, il quale si servì di
centinaia di collaboratori e consulenti; la stessa cosa è accaduta con le due
successive edizioni, l’ultima delle quali è stata coordinata da A. Frances.
Dalla terza edizione, infine, il DSM è reso compatibile con le concomitanti
edizioni dell’ICD.
Poiché gli elementi di novità del DSM-III sono presenti anche nelle successive edizioni, li illustreremo facendo riferimento all’edizione del DSMIV, uscita nel 1994. Cominciamo dai criteri diagnostici.
Per ogni disturbo, il DSM fornisce una serie di sintomi di inclusione o di
esclusione sulla base dei quali formulare la diagnosi. Anche se esistono alcune differenze nel dispositivo diagnostico, in entrambi i casi la diagnosi
deve essere formulata se si è in presenza di un determinato numero minimo
dei sintomi inclusi nella lista (per esempio: almeno due su cinque per la
schizofrenia, almeno cinque su nove per il disturbo borderline).
Per la maggior parte delle diagnosi, il DSM-IV prevede delle liste politetiche di criteri diagnostici; ciò significa che per fare la diagnosi è sufficiente accertare un determinato numero minimo dei sintomi presenti nella
lista, indipendentemente da quali siano tali sintomi. Non si prevedono dun15
Kendler, K. S., “Toward a scientific psychiatric nosology: strengths and limitations”,
Arch. Gen. Psychiatry, 47, 1990, pp. 969-973.
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que segni o sintomi patognomonici che debbano necessariamente essere
presenti per diagnosticare il disturbo; come scrive Migone
ciò dà al sistema maggiore flessibilità, anche se al prezzo di un’eterogeneità
a volte eccessiva (a esempio, si pensi che vi sono ben 93 modi diversi di
soddisfare i criteri del disturbo borderline del DSM-III, e che due pazienti
possono ricevere diagnosi di disturbo schizotipico senza avere in comune
alcun criterio diagnostico).16
L’impostazione politetica è in consonanza, d’altra parte, sia con la visione sindromica del disturbo mentale abbracciata dal DSM, sia con la sua tendenza a incoraggiare le diagnosi multiple.
Gran parte dei disturbi DSM rappresenta raggruppamenti di sintomi collegati tra loro a un livello ‘sindromico’ di astrazione, e cioè a un livello intermedio tra malattia e sintomi. Una sindrome corrisponde a un gruppo o a
un particolare andamento di sintomi, affetti, pensieri e comportamenti che
hanno la tendenza a comparire insieme nei quadri clinici [...]. In alternativa,
molte altre classificazioni storicamente hanno enfatizzato il singolo sintomo
come entità concettuale fondamentale17 [...]. Il principale svantaggio delle
classificazioni sindromiche è la tendenza a ‘reificare’ le sindromi definite
descrittivamente, e a trattarle come se rappresentassero realmente delle entità nosologiche indipendenti. Pertanto, è importante che l’utilizzazione di
una classificazione sindromica tenga presente che i raggruppamenti sindromici riflettono sempre il grado di comprensione che era disponibile all’epoca della stesura di quella versione della classificazione [...]. Sebbene le
diagnosi multiple possano risultare ingombranti nella pratica clinica, la possibilità di fare diagnosi multiple [...] significa che le informazioni non vengono sprecate, che aumenta l’affidabilità, e che si può evitare di postulare
priorità e causalità, che sono così difficili da individuare nella pratica clinica
e che spesso non sono supportate dall’evidenza empirica.18
Il DSM, come nuovo metodo di classificazione e nuovo glossario, si attiene, quindi, a criteri esclusivamente descrittivi, che vengono ordinati secondo una valutazione multiassiale che prevede cinque assi:
16
Migone, P., “Alcuni problemi della diagnosi in psichiatria”, Il Ruolo Terapeutico, 70, 2,
1995, pp. 8-31.
17
Il DSM-III prende qui posizione contro le concezioni del disturbo psichico che in questo
capitolo abbiamo definito clinico-strutturali (Kraepelin, Bleuler, Schneider, Ey, Huber).
18
First, M. B., Frances, A., Pincus, H.A., Guida al DSM-IV, Milano, Masson. 1997.
- 33 -
Raffaele Bruno
1. Disturbi Clinici - Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica: classificazione di tutte le sindromi di interesse psichiatrico che implicano uno stato di sofferenza per il soggetto o di
menomazione del suo funzionamento psichico;
2. Disturbi di Personalità - Ritardo Mentale: registrazione dei disturbi
della personalità e di quelli specifici dello sviluppo;
3. Condizioni Mediche Generali: classificazione dei disturbi somatici che
possono essere alla base o semplicemente concomitanti ai disturbi psichici;
4. Problemi Psicosociali ed Ambientali: registrazione e graduazione di
eventuali fattori psicosociali e di stress;
5. Valutazione Globale del Funzionamento: indicazione del livello di
funzionamento adattivo raggiunto dal paziente in ordine alle relazioni sociali, alla prestazione lavorativa e all’impiego del tempo libero.
Per ciò che concerne l’atteggiamento ateoretico adottato dalla terza edizione del DSM in poi, ecco come Frances, First e Pincus lo caratterizzano:
Il DSM-III fu concepito al fine di fornire descrizioni complete delle manifestazioni dei disturbi, con esclusione delle eziologie, se si eccettuano quei disturbi che comportano un inquadramento eziologico come parte della loro
definizione (per es. i disturbi mentali organici, i disturbi dell’adattamento, il
disturbo post-traumatico da stress, la psicosi reattiva breve). Questo tipo di
approccio aveva lo scopo di consentire l’utilizzazione del DSM-III attraverso tutti gli orientamenti teorici, e ha avuto il merito di conquistare al DSMIII una vasta accettazione da parte degli operatori psichiatrici di varie estrazioni professionali e culturali. Sebbene un terapeuta orientato biologicamente e un terapeuta cognitivo possano avere concezioni diverse del meccanismo eziologico sottostante a un attacco di panico (cioè l’iperattività dei neuroni del locus coeruleus piuttosto che un’attenzione eccessiva verso le sensazioni fisiche propriocettive), entrambi possono trovarsi d’accordo sulle
caratteristiche descrittive di un attacco di panico.19
La concezione sindromica del disturbo mentale, e in particolare la neutralità rispetto all’eziologia, sembrerebbe qualificare la nosografia del
DSM, che come abbiamo avuto modo di vedere è solo uno degli elementi
19
Ibidem, p. 10.
- 34 -
La doppia diagnosi
del più ampio ambito che costituisce la psicopatologia, in senso strettamente ateoretico e descrittivo, rinviando, quindi, sul versante dell’utilizzatore di
questo strumento la detenzione del restante sapere psichiatrico; sapere che
è la condizione necessaria all’utilizzo di qualsiasi strumento. Ed è altresì
importante sottolineare che nel caso particolare del sapere sull’eziologia
nella patologia psichiatrica, al di là del linguaggio utilizzato (organicista,
cognitivista, sistemico, psicoanalitico, ecc), si compie sempre, o quasi sempre (tranne che nelle cosiddette “sindromi psicorganiche”, oggi dette “patologie psichiatriche secondarie a cause mediche”), un salto nella direzione
della concezione clinico-strutturalista della malattia mentale.
La questione dell’importanza di un prerequisito di sapere per l’operatore psi che aspiri, o sia tenuto, a utilizzare il DSM è ben esplicitato proprio
nell’Introduzione al DSM-IV; si legge testualmente:
Il DSM-IV è una classificazione dei disturbi mentali formulata per essere
usata in setting clinici, di training, e di ricerca. Le categorie e i criteri diagnostici, e le descrizioni nel testo, devono essere utilizzati da individui che
abbiano già un appropriato training clinico ed esperienza nella diagnosi. È
importante che il DSM-IV non sia applicato meccanicamente da individui
inesperti. Gli specifici criteri diagnostici inclusi nel DSM-IV devono servire
come linee guida per il giudizio clinico e non per essere usati come ricette
di cucina. Ad esempio, l’esercizio del giudizio clinico può giustificare una
determinata diagnosi per un individuo anche se la presentazione clinica non
riesce a soddisfare tutti i criteri diagnostici purché i sintomi presenti siano
gravi e persistenti.20
Proverei, in conclusione, a ridefinire la questione della problematicità
dell’uso del DSM proprio nella direzione della non esplicitazione del sapere mancante al manuale, ma necessario per il suo impiego al fine di interpretare giustamente i sintomi ed effettuare diagnosi adeguate. Non esplicitazione di sapere che non è tipica della epistemologia psichiatrica,
che è un sapere che procede sulle modalità del sapere medico, è un sapere
su ciò che si sa. É un sapere certo anche se eventualmente limitato,21
20
American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders, Fourth Edition (DSM-IV), Washington DC, APA, 1994, p. xxiii.
21
Di Ciaccia, A., “La questione borderline. Il punto di vista di Lacan e dei lacaniani”,
Agalma. Rivista di ricerca psicoanalitica, 6, 1991, pp. 85-100.
- 35 -
Raffaele Bruno
e che può indurre in errore l’operatore del Manuale sia nel cedere a una
logica che veda il
sintomo (…) soltanto dal punto di vista quantitativo, in quanto numero di una
somma che solo a partire da un certo risultato produce l’effetto-diagnosi,22
ovvero la lista della spesa per le citate “ricette di cucina”, sia nello
scambiare il manuale-strumento per un manuale di psichiatria, errore favorito in Italia dalla mancanza di una forte tradizione psichiatrica.
C’è da chiedersi, poi, se questa parte del sapere indispensabile a fare diagnosi, ovvero a interpretare i sintomi al fine di un trattamento – valutazione, indennizzo, psicofarmacologico, psicoterapeutico, psicoanalitico o non
trattamento, che non può che essere di un livello clinico-strutturale – può
veramente essere rinviato tout-court sul versante dell’utilizzatore del Manuale e non essere, in qualche modo, già presente, ancor più che sul versante glossario, nella struttura stessa della nosografia in esso contenuta.
Vorrei anche aggiungere che il trattamento, o i trattamenti, quando la
teoria di riferimento ne rende possibili più di uno nella prassi, che temporalmente seguono l’atto diagnostico, in realtà logicamente lo anticipino e
concorrano a determinarne il fine e i confini.
Vorrei infine concludere questa parte della trattazione con una ipotesi:
all’attuale stato dell’arte, non è più possibile definire l’ambito della psicopatologia con i classici tre elementi costituiti dai concetti di malattia psichica,
nosografia, sintomi, ma è necessario considerare sempre un quarto elemento
che, come il quarto anello di un nodo borromeo, seppur non immediatamente
visibile, è ciò che ne tiene insieme la struttura (di sapere): il trattamento.
Cos’è la doppia diagnosi
Il termine dual diagnosis è stato coniato, intorno alla fine degli anni Ottanta
del secolo scorso, dalla psichiatria statunitense23 per indicare appunto la co22
Marone, F., (1996). “Borderline”, conferenza nel Seminario su Formazioni dell’inconscio
e nuove forme del sintomo, Clinica Psichiatrica Centrale di Casvegno-Mendrisio, Svizzera,
29 febbraio 1996.
- 36 -
La doppia diagnosi
esistenza di un grave disturbo mentale (soprattutto di tipo psicotico) e di un
disturbo da abuso-dipendenza da sostanze stupefacenti, e/o da alcool.
Il concetto di doppia diagnosi nasce, quindi, come espressione di una
precisa concezione nosologica categoriale, in auge soprattutto negli Stati
Uniti, che considera del tutto separati i due fenomeni concorrenti, e ne fa
un uso restrittivo, riservandolo solo alle sindromi di Asse I di notevole gravità (soprattutto di tipo psicotico), seppur in contraddizione con la letteratura più avanzata. La semplicità scientifica di una diagnosi che si dovrebbe
presentare come una chiara e incontrovertibile definizione di una condizione patologica mostra, però, sin da subito alcune difficoltà.
Bignamini e collaboratori pongono in evidenza che
il termine presenta un’ambiguità di fondo dovuta alla complessità diagnostica dei soggetti che presentano una quadro comorbile (nella maggior parte
dei casi, non esistono due diagnosi separate, bensì condizioni che s’influenzano reciprocamente e quadri molto complessi in cui la dipendenza
sembra essere il sintomo di una psicopatia definita).24
Il termine “comorbidità”, preferito soprattutto da autori europei, che indica la concorrenza di due o più disturbi senza che venga definita alcuna
priorità basata sulla gravità o sulla prognosi, sembra porre l’attenzione sulla
co-evenienza, sottolineando l’aspetto di relazionalità complessa e concausale, ma solleva anch’esso problemi di difficile soluzione;
ci deve essere la concorrenza esclusiva di sindromi psicopatologiche ben distinte, diagnosticate in un preciso tempo di osservazione, mentre in psichiatria i sintomi si sovrappongono e numerosi clinici (moltissimi nel campo
delle dipendenze e della psichiatria) formulano diagnosi sulla base dei sintomi, anziché di sindromi.25
23
De Leon, G., “Psychopathology and substance abuse and psychiatric disorders: what is
being learned from research in therapeutic community”, Journal of Psychoactive Drugs, 21,
1989, pp. 177-188; Solomon, J., “Doppia diagnosi”, Personalità/Dipendenze, 2, 1996, pp.
279-289; Fioritti, A., Solomon, J., Doppia diagnosi. Epidemiologia, clinica e trattamento,
Milano, Franco Angeli, 2002.
24
Bignamini, E., Cortese, M., Garau, S., Sansebastiano, S., Dipendenza da sostanze e
patologia psichiatrica. Bologna, EDITEAM, 2002, p.7.
25
Rigliano, P., Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia., Milano, Raffaello
Cortina, 2004, p. IX.
- 37 -
Raffaele Bruno
D’altronde, i criteri diagnostici non sono seguiti univocamente, le procedure
diagnostiche sono differenti e le popolazioni a cui si applicano sono spesso
eterogenee. Anche il termine comorbidità, dunque risulta inattendibile, perché le condizioni cui si riferisce si rilevano un artefatto diagnostico.26
Un tentativo di orientarsi nella fenomenica
della doppia diagnosi
Un modello proposto al fine di orientarsi all’interno della problematica della
prevalenza all’interno della doppia diagnosi tra diagnosi psichiatrica e diagnosi tossicomanica è quello proposto da First e Gladis,27 che hanno discriminato tra pazienti con disturbo psichiatrico primario e dipendenza secondaria, pazienti con tossicomania primaria e disturbi psichiatrici secondari, pazienti con disturbi psichiatrici e tossicodipendenza entrambi primari.
Il Disturbo psichiatrico primario con tossicodipendenza secondaria (MICA: Mental Illness with Chemical Abuse) è rilevato attraverso una serie di
indizi e criteri che aiutano a stabilire la primarietà del disturbo psichiatrico:
- criterio temporale: il disturbo psichiatrico precede chiaramente l’inizio
dell’uso di sostanze e può persino essere diagnosticato precedentemente
con chiarezza;
- criterio di causalità: il tipo di sostanza, il sistema sociale di riferimento,
la storia di assunzione (dosi, ritmo, frequenza, contesto di assunzione,
funzionalità ricercata) e il significato attribuito dalla persona aiutano a
definire il rapporto che può intercorrere, ad esempio, tra un vissuto depressivo primario, un trauma, una storia di comportamenti ipomaniacali
e l’uso di alcool o di eroina, oppure tra una personalità schizoide o francamente psicotica e l’assunzione di stimolanti;
- criterio di autonomia: il disturbo psichiatrico si manifesta in periodi di
astinenza dalla sostanza;
26
Vella, G., Aragona, M., “La comorbidità psichiatrica”, Noos, 1, 1998, pp. 37-62.
First, M.B., Gladis, M..M., “Diagnosis and differential diagnosis of psychiatric and
substance use disorder”, Solomon, J., Zimberg, E., Shollar, H. (Eds.), Dual Diagnosis:
Evaluation, Treatment, Training and Program Development, .New York, Plenum Publishing
Co., 1993, pp. 22-38.
27
- 38 -
La doppia diagnosi
- criterio della rilevanza clinica: è prevalente uno dei due disturbi, mentre
l’altro può essere ritenuto, all’atto della valutazione, secondario, perché
non costituisce un’emergenza, perché non esige interventi urgenti, perché solo complicanza, perché in fase di quiescenza di base;
- criterio dell’espressività sintomatologia: può esser fatta diagnosi di disturbo psichico pur in presenza di assunzione di sostanze, in base al fatto che le allucinazioni possono essere comunque evidenziate, un vissuto
paranoico può emergere al di là dell’eroina, tipiche dinamiche oscillatorie tra euforia e depressione possono essere individuate, trovando un
corrispettivo nelle modalità e nel dosaggio di assunzione della sostanza;
- criterio della familiarità: può essere presente una storia familiare positiva per disturbi psichiatrici.
Per non rimanere meramente astratti, tutti questi criteri devono poter essere applicati nell’ambito di un rapporto che possa consentire una reale conoscenza del paziente; altrimenti tutto viene derubricato nella confusa storia del paziente, nell’impossibilità di ricostruirne l’anamnesi e di definire i
passaggi psicologicamente significativi che hanno segnato l’evoluzione del
paziente. Le ipotesi avanzate per tener conto di questo rapporto sono:
- l’ipotesi della self medication di Khantzian:28 la sostanza verrebbe usata
per sedare angosce psicotiche e stati di vuoto depressivo (alcool ed eroina), per annullare la confusione e la percezione di frammentazione o per
incrementare lo stato di euforia (cocaina ed anfetamine);
- l’ipotesi del lenitivo (variante “leggera” della self medication) efficace
nei confronti di più generici stati di disagio psichico, come ansia, noia,
disforia, solitudine o effetti collaterali di farmaci;
28
Khantzian, EJ., “The self-medication hyphotesis of addictive disorders: Focus on heroin
and cocaine dependence”, Archives of General Psychiatry, 142, 1985, pp. 1259-1264.
Khantzian, EJ., “Psychotherapeutic intervention with substance abusers: the clinical
contest”, Journal of Substance Abuse Treatment, 2(2), 1985, pp. 83-88. Khantzian, EJ.,
“Self-regulation and self-medication factors in alcoholism and the addictions: similarities
and differences”, Recent Developments in Alcoholism, 8, 1990, pp. 255-271. Khantzian, EJ.,
“The self-medication hypothesis of substance use disorders: a reconsideration and recent
applications”, Harvard Review of Psychiatry, 4, 1997, pp. 231-244.
- 39 -
Raffaele Bruno
- l’ipotesi dell’ipersensibilizzazione: la vulnerabilità, su base genetica o
traumatica precoce, esporrebbe la persona alle pressioni dell’ambiente e
la porterebbe a sviluppare un disturbo psichico, che si manifesterebbe in
modo conclamato con l’uso di sostanze. Né sarebbero da trascurare altre
dinamiche: l’uso di marijuana o nuove droghe, per esempio, sarebbe il
tentativo di affiliazione da parte di giovani schizofrenici, magari volto a
costruirsi un’identità di tossicomane o di deviante, preferita a quella di
malato mentale.
Il Disturbo da uso di sostanze primario con disturbo psichiatrico secondario (CAMI: Chemical Abuse with Mental Illness) rappresenta una condizione in cui ricadono differenti situazioni che si possono raggruppare
schematicamente come segue:
- le conseguenze psichiatriche dell’intossicazione acuta;
- le conseguenze dell’astinenza, come le alterazioni dell’attenzione e
della memoria nell’intossicazione da oppiacei o l’irritabilità nell’astinenza da cocaina;
- nuove sindromi che giustificano una diagnosi specifica aggiuntiva, come un disturbo depressivo durante l’astinenza da cocaina o da alcool;
- le conseguenze psichiatriche dell’uso cronico e grave, che può produrre
danni cerebrali irreversibili, come nel caso della demenza alcolica o dei
disturbi organici da anfetamine.
Il DSM IV definisce specifiche categorie per diagnosticare tali disturbi
psichiatrici, distinguendo infatti tra Disturbi da Uso di Sostanze (Abuso e
Dipendenza) e Disturbi Indotti da Sostanze (Intossicazione, Astinenza, Delirium, Demenza Persistente, Disturbo Amnestico Persistente, Disturbo Psicotico, Disturbo dell’Umore, Disturbo d’Ansia, Disfunzione Sessuale, Disturbo del Sonno).
La spiccata entità dei sintomi definisce una sindrome specifica, mentre
l’entità modesta o moderata delle manifestazioni sintomatologiche aiuta a
individuare solo lo stato di semplice intossicazione o astinenza. Va comunque sottolineata, ancora una volta, la specificità di ogni situazione singola,
in quanto, come si evince dalla pratica clinica, ogni soggetto può presentare
- 40 -
La doppia diagnosi
una propria storia di tossicomania. Spesso, infatti, ci si trova di fronte a
persone che nel corso della loro vita hanno iniziato con l’uso dei cannabbinoidi, fino ad arrivare all’eroina e alla cocaina, magari “passando” per
l’ecstasy, le anfetamine e la chetamina. Tali sostanze, assunte per quindicivent’anni quotidianamente e contemporaneamente, hanno un effetto imponderabile sul sistema nervoso centrale, sulla personalità e sulla salute generale della persona che ne abusa.
La condizione di comorbilità CAMI, dunque, viene definita dalla concomitanza di due situazioni:
- l’uso di sostanze deve essere antecedente alla comparsa della sintomatologia psichiatrica;
- l’esistenza di un rapporto di congruità causale clinico-tossicologica tra
assunzione di sostanze e manifestazioni psichiatriche, in ordine al tipo
di sostanza ed alle modalità di assunzione (dosi, frequenza, cronicità).
Di solito la sospensione dell’utilizzo della sostanza produce una riduzione graduale dei sintomi fino alla remissione completa. Questo, però, non
si verifica quando si producono danni permanenti, che si instaurano gradualmente nel corso di mesi o anni di continua assunzione; non sempre,
quindi, ci si può attendere la riduzione spontanea della sintomatologia psichiatrica dopo la sospensione delle sostanze. Possono infatti scatenarsi stati
di eccitamento, di agitazione psicomotoria, sindromi paranoiche in seguito
alla sospensione della cocaina; possono scatenarsi sindromi deliranti ed esperienze di depersonalizzazione provocate da svariati prodotti anfetaminici
o da LSD, così come sindromi depressive causate da uno stato di astinenza
da oppiacei, da cocaina o da alcool. Tutte queste emergenze impongono un
intervento appropriato per evitare sia la strutturazione di uno stato psicotico, che può tendere a cronicizzarsi, sia la messa in atto di comportamenti
altamente pericolosi, non solo per la persona stessa.
Il Disturbo psichiatrico primario con tossicomania primaria (Doppia
Diagnosi Primaria29) rappresenta una categoria che:
29
Fioritti, A., Solomon, J., Doppia diagnosi. Epidemiologia, clinica e trattamento. Milano,
Franco Angeli, 2002.
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Raffaele Bruno
1. si costituisce per esclusione delle due condizioni cliniche precedenti,
e lo psichiatra stabilisce la loro reciproca indipendenza, anche se, tuttavia, esse possono interagire alleviandosi o esacerbandosi a vicenda;
2. lo psichiatra non riesce a stabilire una relazione clinica tra la problematica psichiatrica e l’abuso di sostanze stupefacenti;
3. le indicazioni apportate dalla storia familiare risultano variabili e
discontinue.
Queste tre dimensioni cliniche vanno lette partendo, anche, dal presupposto che le tossicodipendenze e le situazioni di comorbilità vanno interpretate all’interno di un modello bio-psico-sociale30 in cui fattori di diverso
livello concorrono, in proporzioni e modi differenti nelle specifiche situazioni, all’instaurarsi e al mantenimento dei fenomeni clinici. Sono stati, infatti, proposti alcuni modelli di comorbilità, di seguito esposti.
- il modello della causa primaria, secondo il quale un disturbo-indice
causa o favorisce, più o meno fortemente, l’insorgere del disturbo in associazione, per cui la presenza dell’uno è la precondizione necessaria
per l’espressione dell’altro. Per esempio, il disturbo antisociale di personalità sarebbe la causa dell’abuso di cocaina oppure l’uso di eroina sarebbe la causa del disturbo antisociale di personalità;
- il modello della shared etiology (o modello del fattore comune), per cui
i due disturbi sarebbero la manifestazione degli stessi fattori etiologici
sottostanti: per esempio, un difetto geneticamente trasmissibile, che si
manifesterebbe in una vulnerabilità a livello dei neuromediatori, sarebbe
all’origine sia della tossicodipendenza sia del disturbo psichico;
- il modello della sostanza “trigger”, invece, ipotizza che l’uso di alcool
e sostanze stupefacenti possa far precipitare la manifestazione del disturbo psicopatologico: l’alcool favorirebbe l’insorgere di un disturbo
30
Fioritti A., Solomon J., op. cit. Carrà, G., Dal Canton, E, Restami, L., Scigli, R., Barale, F.
“Disturbi correlati a sostanze in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura: studio
descrittivo di prevalenza su pattern di abuso e profili diagnostici”, Rivista di Psichiatria, 06,
2003, pp. 16-322. Mosti, A., Clerici, M., (a cura di), Lungo il confine. Tossicodipendenze e
comorbidità, Milano, Franco Angeli, 2003.
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La doppia diagnosi
depressivo, così come la cocaina favorirebbe l’emergere di una sindrome paranoica.
Si evince, dunque, che si è ancora ben lontani dall’aver raggiunto un’interpretazione condivisa in merito alla primarietà dell’una o dell’altra patologia. Su questo tema è aperto il dibattito tra chi ritiene possibile la ricerca
di una linearità temporale, causale ed esplicativa, oltre che indicativa per il
trattamento, e chi, invece, ritiene che, ammesso che sia possibile stabilirla,
priorità temporale non voglia dire priorità etiologica.
Il processo diagnostico per i pazienti con doppia diagnosi è, quindi, difficile e impervio, richiede osservazioni prolungate e disponibilità del clinico a rivedere costantemente le proprie conclusioni. È la realtà stessa delle
situazioni di comorbilità a porre dei seri problemi per la diagnosi, dato che,
virtualmente, ogni sostanza può “mimare” segni e sintomi di malattie psichiatriche e viceversa. Inoltre le relazioni temporali e causali tra i disturbi
psichiatrici e gli effetti delle sostanza sono i più vari, andando da stretti rapporti causali a una semplice concomitanza senza apparente collegamento.
Dalla teoria alla diagnosi nell’Unità Operativa
di Doppia Diagnosi Giano: fenomenologia,
stati di coscienza e sequenze di transizione
Il Centro diurno Giano nasce da un progetto dell’ASL Napoli 3, circa quattro anni fa, con un finanziamento regionale del Fondo nazionale per la lotta
alla droga. Sita nella periferia nord di Napoli,31 questa struttura, adibita al
trattamento integrato di casi di doppia diagnosi, svolge la sua attività su
due fronti: conduce un'attività ambulatoriale, soprattutto di mattina, e funziona come centro diurno per un discreto numero di pazienti (circa venti).
Quest’unità operativa per la comorbilità psichiatrica si trova, dunque, a ricevere pazienti, o a dare consulenze, sia ai Ser.T. sia ai DSM dislocati nel territorio circostante, e non solo. Il Centro Giano, infatti, è in tutt’Italia il primo,
31
Ci troviamo nel cuore di un territorio con centinaia di migliaia di abitanti, zone in
espansione, industrie dismesse e cantieri abusivi. Un panorama fatto di strade, raccordi,
imbocchi di tangenziali e sopraelevate. Luoghi straziati da una cruenta battaglia tra clan
camorristici per il controllo del mercato degli stupefacenti.
- 43 -
Raffaele Bruno
non so se ancora l’unico, Servizio pubblico integrato per il trattamento della
doppia diagnosi; si propone come terreno coltivato ad hoc per la presa in carico e il trattamento farmacologico, psicoterapeutico e riabilitativo di tutte
quelle situazioni definite di confine, tra tossicodipendenza e psichiatria.
La filosofia di base che caratterizza quest’unità operativa è quella propria del trattamento integrato, ossia un'unica équipe specializzata prende in
considerazione la persona col suo disagio e tende a integrare, piuttosto che
a scorporare, i due disturbi, cioè quello psichiatrico e quello tossicomanico.
Tale integrazione si dipana a partire da riferimenti teorici e clinici di orientamento fenomenologico: entrambe le problematiche, infatti, vengono continuamente inserite e ricondotte all’interno del peculiare orizzonte di senso,
addotto dal singolo paziente, alla propria esperienza vissuta, più o meno
coartata, più o meno alienata, ma comunque da comprendere, operando una
considerazione del paziente nella sua totalità di individuo, di uomo con il
proprio modo di essere nel mondo, e, contestualmente, la risposta clinica si
propone come struttura portante l’incontro autentico ed empatico tra operatore e paziente. Secondo quest’ottica, solo assumendo una prospettiva più
umana ed empatica si può tentare di dipanare e vedere il vero disagio che si
cela dietro ciò che viene identificato come doppia diagnosi. Per il paziente,
infatti, quelli che sono i propri disturbi psichici e le manifestazioni psicopatologiche, causate o slatentizzate dalla sostanza d’abuso, costituiscono un
mondo proprio, una personalissima rete di significati all’interno della quale
collocare gli eventi, interni ed esterni. Lo sguardo fenomenologico rivolto
all’uomo, alla presenza (Dasein), può aiutare, quindi, a storicizzare i sintomi con cui il clinico si trova a impattare, in prima battuta. Provare a comprendere i vissuti interni del paziente, prima di tutto ascoltandolo e dedicandogli del tempo, aiuta a inserire l’attuale problematica, da questi avvertita, in
una storia di vita, in un contesto familiare e sociale. È da qui, quindi, conoscendo le problematiche e le peculiarità caratteriali del paziente, che poi si
potrà approntare un piano d’intervento riabilitativo personalizzato.32
A partire da tale orientamento è stata strutturata la permanenza dei pazienti in carico al Centro Diurno, permanenza che va dalle ore 9.00 alle
32
Cangiano, A., Doppia diagnosi e trattamento integrato: l’approccio fenomenologico in un
centro diurno, Facolta’ di Psicologia dell'Università degli Studi di Padova, A.A. 2005-2006,
tesi di laurea.
- 44 -
La doppia diagnosi
17.00 dal lunedì al venerdì. Nel corso della giornata essi svolgono una serie
di attività riabilitative incentrate su laboratori esperienziali: artisticoespressivo, ricerca-lettura-scrittura, cineforum, ludico-ricreativo, psicomotorio, musicale. Alle 12,30 è previsto il consumo del pasto tutti insieme, utenti e operatori. Il fulcro centrale dell'attività clinica è costituito da una terapia di gruppo settimanale di tipo fenomenologico condotta dal Direttore
della struttura, centrata sull’espressione dei vissuti emozionali e sul contatto corporeo. Essa vede la partecipazione di utenti e operatori in qualità di
persone accomunate dal desiderio di vivere liberamente la vicinanza emotiva-gruppale come strumento che consenta di sostenere il dolore dell'animo
umano, con lo scopo di esserci nel mondo.33 Ogni utente è seguito farmacologicamente e, per ciò che è possibile in relazione alle disponibilità dell'unico psicologo "strutturato" (seppur con una borsa di studio di 12 ore settimanali), dei volontari e dei tirocinanti psicologi, seguito con colloqui psicologici individuali monosettimanali. Su ogni utente si lavora intensivamente
alla convergenza dei tre vettori portanti che costituiscono il modello di intervento e la filosofia della struttura: psicopatologia e psichiatria clinica,
psicoterapia individuale e di gruppo, trattamento socio-riabilitativo. Il tutto
in un clima di integrazione e risonanza di un’intera équipe che vive quotidianamente l’esperienza di stare-con nel faticoso percorso di ricerca di senso e di stabilizzazione dell’utente, percorso che questi, in quanto persona,
compie insieme all’operatore, in quanto persona. Si cerca di vitalizzare, soprattutto attraverso il lavoro di gruppo centrato sull’elicitazione degli strati
più emozionali dell’esperienza, le parti morte, di recuperare la memoria, il
progetto, l’identità della persona; si consente ai pazienti di interagire tra di loro in maniera aperta e diretta, in un’atmosfera calda ed empatica, dove possano sentirsi valorizzati per ciò che essi ancora sono, per ciò che essi possono
ancora essere e non commiserati per ciò che essi non sono più. Viene inoltre
praticata una psicofarmacoterapia che mira al contenimento e allo spianamento dei sintomi maggiormente disturbanti, avendo cura che la lucidità e la
consapevolezza del soggetto non vengano intaccate. La psicosi che esordisce
nel campo di coscienza tossicomane è considerata una psicosi non più tipica,
a volte una psicosi senza sintomi francamente psicotici, caratterizzata tuttavia
33
Di Petta, G., Gruppoanalisi dell'esserci. Tossicomania e terapia delle emozioni condivise,
Milano, Franco Angeli, 2006.
- 45 -
Raffaele Bruno
da una psicotizzazione di tutta l’esperienza interna, che risulta bloccata su
esperienze fenomeniche disturbate e disturbanti di livello intermedio.
La doppia diagnosi si pone, dunque, come entità clinica complessa e polimorfa. Diventa quindi difficile approntare un’identificazione e una classificazione chiara e definita delle manifestazioni sintomatologiche mostrate da
questo tipo di pazienti; il disturbo psichiatrico e quello tossicomanico, infatti,
si combinano insieme in modi particolari e peculiari a ogni singolo paziente,
dando vita, alla fine, a una sola problematica, per quanto articolata, che si estende sui confini, comprendendoli al suo interno, di entrambi i disturbi.
Ciò che è certo è che i nostri sistemi diagnostici risultano inadeguati a descrivere le forme di passaggio e forse ancor più la dinamicità intrinseca ai
quadri clinici. Il fatto è che i quadri che la clinica ci offre non sono entità
cristallizzate, fisse ed invarianti; un’osservazione protratta nel tempo consente invece di osservare ampie oscillazioni e significative variazioni. […]
É necessario tenere presente il ruolo dei cosiddetti “disorganizzatori nosografici” che ci ricordano il significato fecondo delle discordanze e il fatto
che – come ci ricorda Minkowski (1966) – un’oscurità naturale vale spesso
più di una chiarezza artificiale. Bisogna in tutti i modi evitare che alla dinamicità e alla intrinseca evolutività dei quadri clinici subentri il rigor mortis di una nosografia irrigidita.34
I casi di doppia diagnosi possono essere definiti, in quest’ottica, come
disorganizzatori nosografici, cioè quadri clinici che impongono all’attenzione dello psichiatra la propria essenza cangiante e polimorfa, e che quindi
richiedono una flessibilità e una apertura verso un lavoro di osservazione in
fieri, mai concluso definitivamente. La doppia diagnosi, infatti, assume i
connotati di un’entità clinica difficilmente incasellabile all’interno di parametri nosografici fissi e rigidi.
Nel tossicomane, di fatto, la e/o le sostanze sono in grado di curvare profondamente la patomorfosi e la pervasività del disturbo psichiatrico conclamato (sia esso primario o secondario) allacciandolo, a corda doppia, con
il problema psicobiologico della dipendenza. Del pari, la compliance di un
paziente primitivamente psichiatrico che, non istituzionalizzato, assume le
sostanze che il mercato di volta in volta offre con un’abbondanza e una va34
Rossi Monti, M., “Le psicosi: un’area in trasformazione”, Psicoterapia e Scienze Umane,
4, 1995.
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La doppia diagnosi
rietà in crescita esponenziale, si altera drammaticamente sotto l’effetto delle
sostanze stesse.35
Indipendentemente dunque dalla genesi della doppia diagnosi, ciò che si
viene a formare è un’evidenza clinica particolare e mai uguale a se stessa.
Le sostanze psicoattive, relativamente alla loro specifica struttura chimica e
alla costituzione vulnerabile della personalità del soggetto, possono:
- indurre, slatentizzare e sostenere l’attivazione di un processo psicopatologico specifico;
- contenere, mascherare, imbrigliare e favorire l’incistamento dello stesso
processo.
A seconda di quale di queste due eventualità prevalga possono darsi, allora, i due casi più tipici:
- l’assunzione acuta e/o protratta della o delle sostanze d’abuso precipita
in una condizione psicopatologica, molto spesso di marca psicotica (disturbo psichiatrico indotto da sostanze);
- la sospensione, forzata o volontaria, della sostanza, o la disassuefazione
dalla stessa scatena nel paziente quei disturbi psicopatologici che l’assunzione della sostanza d’abuso mascherava e rendeva silenti (disturbo
psichiatrico mascherato dalle sostanze).
In entrambi i casi quello che ne viene fuori è un’esperienza psicotica che
ha caratteristiche più sfumate e meno acute rispetto alla psicosi naive, ma
che sembra, proprio per questo, avere un decorso più sfavorevole, più pervasivo, sostenuto, tra l’altro, e punteggiato dalle recidive tossicomani. In un
certo senso, questa sorta di psicosi basale è come se tendesse a un paradosso: l’ibernazione, l’imbalsamazione, la cronicizzazione dell’acuto, ovvero
della psicosi statu nascendi. È come se il tossicomane psicotico fosse uno
che appare stare sempre sul filo di rompersi, sul rompersi in quel momento,
e questo eterno presente, questo accadere privo di tempo decontestualizza la
35
Di Petta, G., op.cit., p. 94.
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Raffaele Bruno
sua malattia psicotica e la priva di una storia, anche di una storia clinica, di
un decorso, di un esito, di una crisi e di una lisi.36
Anche le fasi di remissione, dunque, che generalmente caratterizzano il
decorso psicotico classico, tradizionale, puro, non inquinato da sostanze, in
questi casi vengono a mancare:
Il terreno costitutivo della psicosi tossica è talmente rovesciato e smottante
che si verifica una compresenza di elementi tradizionalmente distinti e distanti, come quelli umorali, quelli ideativi e quelli cognitivi. (…) A fronte di
una mancata produzione di sintomatologia marcatamente positiva, il paziente si stabilizza in una condizione pseudodepressiva, sostenuta da gravi alterazioni dell’esperienza interna. I sintomi di base sono alterazioni elementari
aspecifiche dell’esperienza interna del soggetto, che, benché trascurate
dall’osservatore esterno, costituiscono quel quid novi che segna l’accesso
allo spettro psicopatologico di segno psicotico.37
Il concetto di sintomo di base è un costrutto epistemologico-clinico sui
generis, poiché si propone di cogliere il disturbo psicopatologico alla sua
radice, nel suo fondamento, e quindi in quello stadio di soglia o di sottosoglia che viene definito per l’appunto di base. La ricerca psicopatologica sui
sintomi di base di Huber38 ha evidenziato delle sequenze di transizione39
che porterebbero dai sintomi di base ai sintomi manifesti, cioè dai fenomeni
iniziali ai fenomeni intermedi e ai fenomeni finali. Tali sequenze di transizione sono di seguito riportate.
36
Ibidem, p. 92.
Ibidem, p. 94.
38
Le sue ricerche sui sintomi di base della schizofrenia hanno avuto un'ampia risonanza
internazionale e lo strumento elaborato per la valutazione di detti sintomi (Bonn Scale for
the Assessment of Basic Symptons) è stato tradotto in spagnolo, giapponese, italiano e
inglese, e utilizzato in numerosi centri di ricerca. Studi introdotti in Italia da Maggini e da
Luche nel 1992, e diffusi dalla scuola psicopatologica fiorentina.
39
Klosterkötter, J., “Cosa hanno a che fare i sintomi di base con i sintomi schizofrenici?”,
Stanghellini, G., (a cura di), Verso la schizofrenia. Napoli, Idealson Liviana, 1992.
37
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La doppia diagnosi
Fenomeni finali
Fenomeni intermedi
Fenomeni iniziali
Fenomeni finali
Fenomeni intermedi
Fenomeni iniziali
Percezioni deliranti completamente
realizzate
×
Percezioni deliranti non ancora
completamente realizzate
×
Umore predelirante
×
Depersonalizzazione allopsichica
(derealizzazione)
×
Complessi di lamentele relativi a
disturbi percettivi e/o
del linguaggio recettivo
Esperienze di influenzamento
somatico completamente
concretizzate
×
Esperienze di influenzamento
somatico non ancora completamente
concretizzate
×
Depersonalizzazione
somatopsichica
×
Complessi di lamentele
relativi a cenestesie
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Raffaele Bruno
Fenomeni finali
Fenomeni intermedi
Fenomeni iniziali
Fenomeni
finali
Fenomeni
intermedi
Fenomeni
iniziali
Esperienze di influenzamento della volontà
completamente concretizzate
×
Esperienze di influenzamento della volontà
non ancora completamente concretizzate
×
Depersonalizzazione autopsichica
(relative alle proprie azioni)
×
Disturbi cognitivi delle
azioni (movimenti)
Fonemi imperativi,
Esperienze
commentanti e dialoganti
concretizzate di
inserzione, furto e
diffusione del
pensiero
×
×
Pensieri uditi, disturbo nella
Depersonalizzazione
discriminazione tra
autopsichica
rappresentazioni uditive e
(relativa ai propri
acustiche
pensieri)
×
×
Pressione dei pensieri, disturbo della discriminazione
tra rappresentazioni uditive ed acustiche
×
×
Interferenza dei pensieri, blocco soggettivo,
perseverazioni ossessivoforme
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La doppia diagnosi
La regressione dalle sequenze finali a quelle intermedie può essere ancora
possibile con la terapia farmacologica, quello che sembrerebbe difficile nella psicosi insorta sul terreno tossicomane, è la regressione dai fenomeni intermedi a quelli iniziali e poi alla condizione di esame di realtà limpido.
Purtroppo la permanenza in una condizione intermedia richiamante lo stato
sballato della coscienza sembra essere una sorta di trappola dove regna la
nostalgia dell’essere fatti.40
Questi stadi di base, dunque, rappresentano delle condizioni psicopatologiche subsindromiche caratterizzate da un insieme di esperienze disturbanti, cioè da un insieme di sintomi di base, che possono precedere la
psicosi immediatamente, come stati di base prodromici o pre-psicotici, o
possono precederla di molto, anche di anni, come nel caso delle sindromi
d’avamposto. Gli stadi di base, inoltre, possono caratterizzare il fondo
dell’esperienza psicotica in fase attiva, intra-psicotica, o seguirla in modo
cronicamente stabile dopo che la fase acuta è passata; in questo caso si definiscono stadi di base post-psicotici.
L’abuso di sostanze psicoattive, di conseguenza, può intercorrere in ciascuna delle fasi sopradescritte ed essere un fattore di frenaggio o di precipitazione della transizione tra fenomeni di base iniziali e fenomeni finali, ovvero fenomeni della psicosi conclamata. Uno strumento utile per rilevare i
sintomi di base è l’FBF (Frankfurter Beschwerde Fragebogen), questionario di valutazione psicopatologica di matrice tedesca, risalente, come panorama concettuale, alla scuola di Heidelberg e all’impostazione fenomenologica di Karl Jaspers41 e Kurt Schneider;42 il questionario è stato elaborato
da Lilo Sullwod e curato, per l’edizione italiana, da Stanghellini, Strik e
Cabras.43 Questo strumento è fondato esclusivamente su quanto gli stessi pazienti sono in grado di riferire, all’intervistatore, circa la propria esperienza
vissuta di se stessi, degli altri, del mondo circostante. È composto da novantotto item, a cui bisogna, semplicemente, rispondere “sì” o “no”. Può essere
autosomministrato; meglio, tuttavia, se viene somministrato da un operatore
preparato. Le insidiose alterazioni della esperienza soggettiva del paziente
40
Di Petta, op. cit., p. 92
Jaspers, K., Psicopatologia generale, (1913), Roma, Il Pensiero Scientifico, 1964.
42
Schneider, K., Psicopatologia clinica, (1959), Roma, Città Nuova, 1983.
43
Stanghellini, G., Ricca, V., Quercioli, L., Cabras, P., F.B.F. Questionario dei sintomi di
base, Firenze, Organizzazioni Speciali, 1991.
41
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Raffaele Bruno
non sono, ancora, visibili all’esterno come sintomi o comportamenti; caratterizzano, però, un cambiamento, percepito come disturbante e non ordinario dal paziente stesso. La presenza dei sintomi di base è di per sé indicativa di patologia, in quanto essi non sono rilevabili in soggetti normali o con
disturbi di personalità, neanche in periodi di stress. I novantotto item concernono complessi fenomeni patologici di tipo affettivo, percettivo e cognitivo, da intendere come indicatori di sintomi di base. Le aree fenomeniche
indagate dal questionario sono le seguenti:
1. perdita del controllo (padronanza di sé);
2. percezione (semplice, irritazione sensoriale);
3. percezione (complessa, più organizzata);
4. linguaggio (espressivo e recettivo);
5. pensiero;
6. memoria;
7. motricità;
8. perdita degli automatismi;
9. anedonia e ansia (depressività);
10. sovrabbondanza di stimoli.
Il punteggio, calcolato dalla somma delle risposte affermative (presenza
dei sintomi di base), viene dato sia parzialmente, per ogni insieme fenomenico, sia nel totale, relativamente al tetto di novantotto. L’FBF consente di rilevare la sintomatologia sottosoglia, che è proprio quella più pericolosa perché
può essere mascherata e medicata dalla sostanza d’abuso.
É per questo che lo strumento maggiormente utilizzato al fine di cogliere le sfumature dell’esperienza “altra” di tali pazienti è la Scala di Francoforte F.B.F. per la valutazione dei Sintomi di Base (S-B). Si tratta di un
procedimento standardizzato per il rilievo e la registrazione degli aspetti
psicopatologici e fenomenologici dei pazienti nei quali, essendo o meno
certa la diagnosi di schizofrenia, si può ipotizzare la presenza di un Prodromo psicotico, di una Sindrome d’avamposto o di uno Stadio di Base
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La doppia diagnosi
Post Psicotico.44 Un’eventuale diagnosi, in ogni caso, non si baserà esclusivamente sul questionario FBF, ma sarà necessariamente accompagnata da
un’accurata ricognizione della storia di vita del paziente e da un adeguato
esame psichico.
44
Di Petta, G., et Al., “La presa in carico integrata, polimodale e diurna: follow up a sei
mesi con l'FBF di 14 casi di doppia diagnosi”, relazione per il Congresso “Psicopatologia
delle dipendenze” della FeDerSerD, Torino, 28/29 aprile 2005.
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