Uomini e lavoro alla Olivetti

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Uomini e lavoro alla Olivetti
A cura di Francesco Novara
Renato Rozzi, Roberta Garruccio
Con una postfazione di Giulio Sapelli
Bruno Mondadori
La ricerca che ha portato all’edizione
di questo volume è stata realizzata
grazie al coordinamento scientifico
del Centro per la Cultura d’Impresa
e grazie a un finanziamento
della Fondazione Adriano Olivetti.
© 2005, Paravia Bruno Mondadori Editori
È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso
interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata.
Le riproduzioni a uso differente da quello personale
potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore
al 15% del presente volume, solo a seguito di una specifica
autorizzazione rilasciata da aidro, via delle Erbe 2,
20121 Milano; posta elettronica: segreteria @ aidro.org
Progetto grafico: Massa & Marti, Milano.
Realizzazione editoriale: Sandra Holt (ForPublishers).
La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.
La foto di copertina è stata gentilmente concessa dall’Archivio Storico Olivetti.
www.brunomondadori.com
Indice
9
Prefazione
di Roberta Garruccio
19
Una guida ai temi e agli argomenti del volume
di Francesco Novara e Renato Rozzi
63
Nota al testo
65
Profili biografici dei testimoni
Testimonianze
71
73
103
125
1.
1.1
1.2
1.3
Le relazioni aziendali
Alberto Gobbi
Giannorio Neri
Sandro Sartor
147
149
165
183
209
2.
2.1
2.2
2.3
2.4
Le relazioni sindacali
Giovanni Avonto
Umberto Chapperon
Cleto Cossavella
Fiorenzo Grijuela
225
227
239
265
287
307
329
345
3.
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
3.6
3.7
La produzione
Dionisio Albertin
Alberto Berghino
Pier Carlo Bottino
Giuliano Bracco
Gianfranco Ferlito
Umberto Gribaudo
Massimo Levi
357
381
395
3.8 Ettore Morezzi
3.9 Luigi Pescarmona
3.10 Giovanni Truant
419
421
455
4. La Ricerca & Sviluppo
4.1 Gastone Garziera
4.2 Alessandro Graciotti
477
479
499
525
5.
5.1
5.2
5.3
551
553
6. L’Alta Direzione
6.1 Ottorino Beltrami
579
581
591
7. I servizi culturali e sociali
7.1 Adriano Bellotto
7.2 Cornelia Lombardo
607
Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettiana
di Giulio Sapelli
615
Cronologia
I servizi commerciali
Nicola Colangelo
Giovanni Maggio
Mario Torta
Questo libro è dedicato a tutti coloro
che hanno lavorato insieme nell’impresa di Adriano
Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice
dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante,
una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?
Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Pozzuoli,
inaugurazione dello stabilimento, 23 aprile 1955.
E voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non
abbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partito
militasse o ancora da quale regione d’Italia egli e la sua famiglia provenissero.
Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Ivrea,
per i sei anni di vita della fabbrica, 24 dicembre 1955.
Eh […] mi dicono che lei va a vedere le fabbriche.
Ma non va mica bene, sa, perché poi ci si affeziona…
Enrico Cuccia, citato in Edmondo Berselli,
Quel gran pezzo dell’Emilia, Mondadori, Milano 2004.
La réussite ne se joue pas sur les grandes stratégies, les financiements.
Elle se joue sur les personnes. C’est seulement en s’identifiant à
ses collaborateurs, en voyant en eux les véritables acteurs, les artisans
de son destin, que l’entreprise peut assurer son succès.
Pasquale Pistorio, citato in rh, les meilleurs entreprises du cac 40,
Editions d’Organisation, Paris 2004.
The Day After
Vasti spazi deserti, negli stabilimenti e nei palazzi. La celebre parete di vetro di
una fabbrica è coperta da ponteggi: si staccano pezzi. Sigillato l’esagono della
mensa, sgombro il Centro Studi. Polvere, chiazze, ruggine. Tombe vuote di un
lavoro scomparso (delle quali la celebrata bellezza impedice la demolizione). Per
salvare quella vita di lavoro dall’oblio, persone che hanno avuto il privilegio di
condividerla, in una varietà di ruoli aziendali, hanno inteso evocarla sulla traccia
delle loro traiettorie lavorative. Si sono affidati a mani capaci di disegnare l’ordito delle domande entro cui calare la trama delle loro risposte. Saranno i limiti di
questo microcosmo di testimonianze. Ne mancano alcune, impedite della morte
della persona (come di Pier Giorgio Perotto, entusiasta di questo impegno collettivo) e diviene evidente che questo compito non era dilazionabile. Il successo dell’impresa di Camillo e Adriano (e Roberto, cui si deve il perseverare nella conversione all’elettronica) e la sua decadenza sono sincroni con lo sviluppo e il dileguamento dell’Italia industriale (ossia della grande impresa, della sua prospettiva strategica e della sua capacità d’innovazione in settori di tecnologia avanzata). Agli imprenditori costruttori di futuro sono andati subentrando cacciatori di
valori azionari, speculatori del mercato borsistico, arraffatori di monopoli, artefici di partecipazioni incrociate e di piramidi societarie. A un mondo del lavoro
umiliato in una società lacerata e disorientata, succube delle vicende aleatorie di
un’economia finanziarizzata, si rivolge il coro di queste testimonianze. Esse ricordano il valore permanente delle ragioni di quel successo d’impresa: la responsabilità e capacità di costante innovazione e anticipazione, realistica e audace, razionale e immaginativa, votata all’eccellenza dei prodotti, alla qualità della vita
lavorativa, all’elevazione della vita sociale.
Francesco Novara
Torino, ottobre 2005
Prefazione
di Roberta Garruccio
Questo libro è nato da una sollecitazione di Francesco Novara e di Renato Rozzi, una sollecitazione rivolta a Giulio Sapelli e al Centro per la Cultura d’Impresa. Io, che da tempo collaboro con il Centro sui progetti relativi alla costruzione e archiviazione di fonti orali e che da subito sono
stata coinvolta nel progetto, vi ho partecipato prima realizzando le diverse interviste che ora lo costituiscono e poi trasformandole in testi scritti.
L’ossatura del volume è costituita dalla narrazione a più voci della parabola che descrive le vicende e i protagonisti di una grande impresa multinazionale italiana, l’Olivetti, nelle sue trasformazioni di prodotti, di
mercati, di strategie e strutture, ma anche negli avvicendamenti di proprietà e controllo, stile di direzione e di relazioni industriali, di culture
aziendali. Olivetti infatti è un’impresa che nel corso del Novecento s’inserisce in diversi mercati internazionali e muta molte pelli: dalla meccanica di precisione (che l’aveva connotata sin dalla sua origine, nel 1908)
all’elettromeccanica, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, dall’elettronica all’informatica, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, dalla tecnologia dell’informazione a quella delle telecomunicazioni, tra gli anni ottanta e gli anni novanta; un passaggio, quest’ultimo, che ne segna la fine.
Si tratta di una parabola lunga se consideriamo che un terzo delle imprese elencate da “Fortune 500” nel 1970, dieci anni dopo non esistevano più. Olivetti, invece, non solo sopravvive ma sopravvive nel settore
delle macchine per ufficio in un torno di tempo che vede radicalmente
stravolgersi le proprie coordinate quanto a stabilità dei mercati e continuità tecnologiche.
A freddo, quella dell’Olivetti potrebbe anche apparire un’evoluzione
non sorprendente se, appoggiandoci ai calcoli di Leslie Hannah, considerassimo che «the average half-life of big companies—the time taken
to die by half of the firms in the world’s top 100 for market capitalization
in any five years—was 75 years during the 20th century». 1
Eppure, il drammatico declino e infine la dissoluzione di fatto dell’Olivetti industriale (di cui nel 2005 resta poco più che un ologramma: un
marchio) ha sollevato e solleva, in molti di coloro che hanno collettiva9
Uomini e lavoro all’Olivetti
mente contribuito alla sua più grande stagione, e non solo in loro, una legittima reazione di sdegno. Quell’esito rivela un senso di oltraggio per il
suo carattere non necessario, o meglio: non necessario dal punto di vista
degli assets interni e della capacità di mobilitarli, ma che dopo la morte
di Adriano Olivetti, nel 1960, sconta la mancata soluzione della “questione proprietaria” a livello dell’intero sistema capitalistico italiano. 2 E rivela al contempo una profonda privazione di senso, la percezione di una
menomazione nel proprio destino personale oltre che nel destino manifatturiero del Paese.
Nessuna impresa italiana, e nessuna istituzione comparabile, ha mobilitato la memoria dei suoi protagonisti tanto quanto ha fatto l’Olivetti. Si
sofferma approfonditamente su questo fenomeno la postfazione di Giulio Sapelli, a cui mi ricollego, ma qui vorrei semplicemente sottolineare
la mole della produzione editoriale di memorialistica olivettiana, più o
meno autobiografica, che si è registrata anche solo negli ultimi dieci anni (e che si è ulteriormente addensata in tempi più recenti, soprattutto
attorno al centenario della nascita di Adriano Olivetti). Memorie plurali, talvolta anche memorie in conflitto. 3
Questo nostro volume ha voluto tentare un’operazione diversa, non casuale e organica: una raccolta sistematica di testimonianze che costituiscono assai più un’etnografia che una storia dell’impresa. Tale raccolta
non è casuale, nel senso che le persone intervistate costituiscono una
“comunità di sentimento”, 4 una comunità che si percepisce trasformata
da forze esterne e che produce, innestando questo su una precisa formazione identitaria collettiva, una narrazione fluida, coerente e dotata di significato sociale, politico e affettivo. A parlare sono persone che spontaneamente condividono sguardi e giudizi sul passato che raccontano. Infatti, in molti casi, le loro diasporiche biografie olivettiane sono collegate e in qualche modo interdipendenti, come il lettore si accorgerà facilmente dai molti reciproci richiami delle diverse interviste. Organica questa collezione lo è nel senso che nel progettarla abbiamo inteso rappresentare percorsi differenziati (e quindi punti di vista altrettanto diversificati), sia anagraficamente sia per professionalità, sia per ruoli e posizioni ricoperte nella gerarchia aziendale, nella maggiore ampiezza di ventaglio che è stato possibile raggiungere. 5
Nel raccogliere queste narrazioni, a me è spettata la parte di una controfigura omerica: quella dell’aedo cieco che consente di far conoscere le
vicende della guerra di Troia presso la corte dei Feaci, mentre Ulisse, che
ne è stato protagonista, è presente in incognito e le riascolta, così come
gli olivettiani le rileggeranno. 6 L’aedo è cieco perché non è presente sulla scena sulla quale l’azione accade, e può vedere, con i suoi occhi ciechi,
solo la storia che risulta dalla memoria, una memoria che procede anche
dimenticando, selezionando, rielaborando e censurando, ma che non è
10
Prefazione
mai invenzione. Personalmente, considero l’intensa soggettività e la lunga spanna di tempo che molte volte contrassegna la distanza tra gli eventi descritti e il momento della narrazione come i punti di forza e di unicità di questo libro. 7 Le interviste, infatti, hanno sollecitato soprattutto
l’elemento autobiografico e hanno preso la forma di “storie di vita”.
Come recita il titolo che abbiamo scelto, qui si parla di uomini (e spiace
che si debba intendere l’espressione in senso letterale: siamo infatti riusciti a raggiungere e a interpellare una sola signora) e si parla di lavoro: si
parla più precisamente del senso che questi uomini hanno potuto trovare nel lavoro e nella disciplina del lavoro industriale. Una disciplina rigorosa, che in Olivetti veniva appoggiata alla responsabilità individuale e
alla cooperazione dei soggetti. Un lavoro degno della persona, come era
stato pensato e realizzato nelle condizioni volute dal fondatore Camillo e
portate all’eccellenza da suo figlio Adriano.
Per questo abbiamo voluto concentrare il focus delle interviste sulla
politica del personale che ha caratterizzato la grande stagione (e la grande eccezione) dell’Olivetti, e i cui pilastri sono richiamati dall’articolata
introduzione tematica di Francesco Novara e Renato Rozzi: una politica
del “personale” che puntava alla gestione e allo sviluppo delle persone
più che a preoccuparsi delle tecnicalità e degli specialismi della funzione
oggi chiamata “risorse umane”.
Sempre per questo abbiamo chiesto a ciascuno degli intervistati di offrire la propria periodizzazione della storia Olivetti. È una storia epica,
che viene continuamente e spontaneamente raccontata e ri-raccontata da
ciascuno degli intervistati. 8 Ma se c’è una tesi forte che emerge trasversalmente al libro, questa sostiene che la decadenza di questa visione del
personale appare più come causa che come conseguenza del declino dell’impresa d’Ivrea. Quello che troviamo acutamente descritto è quando e
come la direzione del Personale (la direzione delle Relazioni Aziendali,
come si chiamavano in Olivetti quando alla sua testa c’erano personaggi
come Paolo Volponi) sia stata prima progressivamente allontanata, e alla fine definitivamente divaricata, dal management strategico dell’azienda, due “province” che invece Adriano Olivetti aveva immaginato e gestito come indivisibili, coerenti, allineate ai prodotti e ai mercati.
A essere descritti con particolare efficacia dalle voci di questo volume
sono un processo sussultorio e l’apertura di una faglia: una faglia che caratterizza oggi molte realtà organizzative. Non è raro, infatti, che la funzione dei professionisti delle risorse umane finisca con l’essere percepita,
in una caricatura non troppo lontana dalla realtà, in modo da essere assimilata alla funzione che ha il compito di sorvegliare acquisizione, standard e uniformità delle dotazioni interne di tecnologia dell’informazione: «The it folks bear responsibility for inventoring purchases of new
11
Uomini e lavoro all’Olivetti
hardware and software, delivering and installing new equipment (and
decommissioning equipment once it outlives its uselfulness), answering
specialized questions and providing forms of internal consulting, maintaining relations with hardware and software vendors, and assessing
business units to ensure that employees receive the ongoing training they
need to utilize the technology. To a large extent the traditional hr role
consists of doing comparable activities with respect to employees: promulgating hr standards that are uniform throughout the company; “installing” new employees (ensuring that they have been given the necessary orientation and training); helping to “de-install” employees when
they leave, voluntay or otherwise; mantaining an inventory of employees
and their skills; providing specialized assistance and internal consulting
(including helping to solve the hr equivalent of “bugs” and “crushes”);
maintaining relations with sources of labour supply; and providing various form of training». 9 E tutto questo quando la funzione del personale dovrebbe e potrebbe fare al contempo molto meno e molto di più: offrendo una guida strategica alla direzione d’impresa, ponendosi al fianco
del line management, garantendo profondità, spessore di visione e condizioni di riproducibilità nel tempo alle organizational capabilities.
Ma credo ci sia una cornice più ampia in cui possiamo collocare questo
libro. Credo che i suoi apporti di maggiore originalità riguardino il periodo della storia Olivetti che è meno conosciuto e indagato, quello che va
dagli anni settanta agli anni novanta, 10 quello che segue l’esaurimento
dell’isteresi adrianea e l’arrivo di Carlo De Benedetti alla proprietà e al
controllo dell’azienda fino alla sua cessione a Roberto Colaninno. Un arco temporale che non dispone al momento di altre fonti primarie aperte
alla ricerca, mentre trova nelle fonti orali qui raccolte uno speciale archivio di evidenza. Un arco temporale che registra, tra gli altri, un duplice
passaggio.
Si tratta del passaggio di questa particolare impresa dalla forma funzionale e unitaria, caratterizzata da un’elevata integrazione verticale e da
un’ampia stratificazione gerarchica, alla forma divisionale, con la riorganizzazione in consociate delle attività non ritenute strategiche, con scelte
di crescita esterna e di make or buy di volta in volta diverse a livello internazionale e con un’ampia politica di accordi e acquisizioni. 11 Questo
coincide a sua volta con il definitivo venir meno di quel monopolio tecnologico che aveva a lungo garantito all’azienda di amministrare prezzi
che soddisfacevano capitale e lavoro: 12 le inedite caratteristiche strutturali con cui l’Olivetti si confronta, tra gli anni settanta e ottanta, vedono
l’accelerazione dei processi innovativi nella microelettronica e la formazione di nuove fasce di domanda, e impongono una ristrutturazione finanziaria. 13
12
Prefazione
Ma si tratta anche del passaggio globale del capitalismo dalla forma
tecnocratica alla forma proprietaria. 14 Possiamo seguire tale passaggio
nelle pagine di questo volume. Gli intervistati appartengono a generazioni diverse (entrate in azienda tra l’inizio degli anni cinquanta e la fine degli anni sessanta), ma condividono l’esperienza di una stagione aziendale
unitaria: dirigenti e capi vantano con orgoglio l’eccellenza tecnocratica
propria dei rispettivi ruoli, consapevoli di avervi portato la propria particolare conoscenza e la propria particolare abilità, ma nella piena socializzazione di quella e di questa con i collaboratori. 15
Fino agli anni settanta, l’Olivetti è infatti un’azienda in cui il management svolge un ruolo di “broker onesto e neutrale” nell’allocazione delle
risorse tra gli stakeholders (pensiamo solo alla straordinaria ampiezza di
quello che s’intendeva per “responsabilità d’impresa” in Olivetti: dalla
qualità dei servizi aziendali per i dipendenti alle attenzioni per le condizioni di lavoro e dei livelli di occupazione, allo stile condiviso nei rapporti con i sindacati, al permanere dell’attenzione al territorio e al paesaggio). 16 Questo meccanismo s’interrompe – affermano molti tra gli intervistati – quando, mutato profondamente lo scenario economico e tecnologico mondiale, anche in Olivetti appaiono per la prima volta sistemi di
compensazione “per obiettivi”, si stringono i criteri di efficienza e d’individuazione di centri di costo e di profitto, s’instaura una struttura di prezzi interni di trasferimento. 17
Nel decennio successivo, il perimetro dell’autonomia manageriale che
preesisteva all’avvento del moderno capitalismo finanziario (ora sostenuto a livello teoretico dal nuovo paradigma dell’agency theory e dei property rights, paradigma incarnato a Ivrea dalla figura di Carlo De Benedetti), cambia la sua geometria. 18 Il management Olivetti subisce un drastico ricambio, non sempre volontario. Con l’avvicendamento proprietario, molti lasciano l’azienda. Per chi resta mutano radicalmente e rapidamente i criteri di Bildung e di self-selection. Con l’estendersi delle pratiche d’incentivazione attraverso lo strumento delle stock-options, muta il
quadro intellettuale che definisce l’impresa e i suoi attori. «What is most
important […], is not corporate greed. After all, top managers have always had the incentive, and for the most part the opportunity to pay
themselves quite well. I doubt that executives became more greedy in
the 1980s and 1990s than before, or suddenly woke up to the fact that
they were self-interested. What had to change in compensation to change was the intellectual framework defining the firm». 19
Anche in Olivetti il manager di fine secolo non è più un neutrale portatore di eccellenza socio-tecnica che risponde a tutti i portatori d’interesse, ma è un partigiano dello shareholder; anche in Olivetti il credo manageriale degli anni novanta non è più un credo socio-tecnocratico ma il
nuovo credo proprietario, perché i manager stessi sono trasformati dai
13
Uomini e lavoro all’Olivetti
sistemi d’incentivazione in una speciale categoria di shareholders. È questo il fenomeno che molti dei testimoni interpretano come un vero e proprio tradimento del management, un tradimento che appare tale soprattutto nei confronti dell’ideale processivo che era stato dell’Olivetti di
Adriano.
Ringraziamenti
Devo – unendomi in questo a Francesco Novara e a Renato Rozzi – uno
speciale ringraziamento all’ingegner Alfredo Tradardi, che ci ha affiancato per il primo tratto di strada di questo progetto e soprattutto ci ha generosamente affidato i risultati del suo minuzioso lavoro di ricerca presso l’Archivio Storico Olivetti, e in particolare dello spoglio sistematico
dei promemoria organizzativi dell’Ing. C. Olivetti & C. Spa per gli anni
1952-1993. Le informazioni da lui raccolte, in merito alle nomine dei dirigenti e dei direttori centrali e alle dimissioni, hanno permesso la maggior parte delle verifiche da noi realizzate sui testi delle interviste e la
conseguente notazione.
Un ulteriore ringraziamento va a Cinzia Colapinto, che ha messo a nostra disposizione una serie importante di dati di bilancio relativi al periodo 1978-2003, in particolare relativi alle spese per la Ricerca & Sviluppo,
ai risultati economici e all’indebitamento del Gruppo (e ora contenuti
nella “Cronologia”).
Personalmente ringrazio Fabio Lavista per il suo essenziale appoggio
durante tutte le interviste nel Canavese, e Barbara Biagini e Sara Roncaglia per il loro aiuto nella lunga fase di revisione dei testi.
Ultimo, ma non ultimo affatto, un grazie di cuore da parte dei tre curatori va a coloro che hanno reso possibile realizzarlo: a tutti gli intervistati che vi hanno aderito con disponibilità di tempo e di attenzione; al Centro per la Cultura d’Impresa che ne ha curato l’organizzazione; alla Fondazione Adriano Olivetti che l’ha appoggiato e finanziato, e in modo particolare a Laura Olivetti.
14
Prefazione
Note
1
The Business of Survival. What’s the Sense of Corporate Longevity, in “The Economist”, 18 dicembre 2004.
2
Uso l’espressione “questione proprietaria” in senso lato, mutuandola da P.
Bianchi, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’Unità nazionale all’unificazione europea, il Mulino, Bologna 2002, pp. 297 ss.
3
Ricordiamo innanzi tutto, senza poterle elencare, le testimonianze raccolte al
convegno “Adriano Olivetti e la Comunità del Canavese”, convegno organizzato
per il ventesimo anniversario della morte di Adriano Olivetti (1901-1960), di cui
successivamente sono stati pubblicati gli atti in F. Giuntella, A. Zucconi (a c. di),
Fabbrica, comunità, democrazia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti,
Roma 1984; M. Bellisario, Donna & Top Manager. La mia storia, Rizzoli, Milano
1987; M. Caglieris, Olivetti, addio, edizione fuori commercio in 250 esemplari
numerati, s.l. 1991; P. G. Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassionante mai raccontata, Sperling & Kupfer, Milano 1995;
A. Pizzorno, Seconda Università o primi passi nella realtà?, nota autobiografica
posta come postfazione a D. Della Porta, M. Greco, A. Szakolczai (a c. di), Identità, riconoscimento e scambio, Laterza, Roma-Bari 2000; G. Soavi, Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana, Rizzoli, Milano 2001; F. Ferrarotti, Un imprenditore
di idee. Una testimonianza su Adriano Olivetti, a cura di G. Gemelli, Edizioni di
Comunità, Torino 2001; L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri, Torino 2001; O. Beltrami, Sul ponte di comando, dalla Marina militare alla Olivetti, a cura di A. De Macchi, G. Maggia, Mursia, Milano 2004; S. Sartor, Via Jervis n. 11. Alla ricerca della Olivetti perduta, Manni,
Lecce 2003; M. Bolognani, Bit Generation. La fine della Olivetti e il declino dell’informatica italiana, con un’introduzione di M. Vitale, Editori Riuniti, Roma
2004; G. Casaglia, Olivetti leader tecnologico, Pino Partecipazioni Spa, Milano
2004; E. Piol, Il sogno di un’impresa. Dall’Olivetti al venture capital: una vita nell’information technology, prefazione di L. Gallino, Il Sole-24Ore, Milano 2004;
infine vorrei ricordare le brevi note olivettiane di A. Projettis, P. Rebaudengo, E.
Renzi, T. Savi, M. Torta, G. Dallolio, D. Gentili, M. Pacifico, G.C. Vaccari, tutte raccolte in M. La Rosa, P. Rebaudengo, C. Ricciardelli (a c. di), Storia e storie
delle risorse umane in Olivetti, Franco Angeli, Milano 2004.
4
Mutuo la definizione da A. Appadurai, Practices of the Self, in C.A. Lutz, L.
Abu-Lughod (a c. di), Language and the Politics of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 1990; definizione poi ripresa in Idem, Modernità in polvere. Espressioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Milano 2001 (ed. orig.
1996), p. 22.
15
Uomini e lavoro all’Olivetti
5
Rimando alla “Nota al testo”, infra, per ulteriori precisazioni di metodo.
Il riferimento a questa metafora, e al paradosso che richiama, è tratto da A.
Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 27 ss. Per una riflessione fondamentale sulla funzione sociale e culturale dello story-telling, cfr. J.D. Niles, Homo Narrans. The Poetics
and Anthropology of Oral Literature, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1999. Per ulteriori considerazioni sul valore euristico delle fonti orali nella ricerca storica, e sulle cautele metodologiche che implica la costruzione e utilizzazione di questa evidenza, rimando invece a R. Garruccio, Memoria: una fonte per
la mano sinistra. Letteratura ed esperienze di ricerca su fonti e archivi orali, in “Imprese e storia”, n. 29, gennaio-giugno 2004, pp. 101-146.
7
Come lo è per tanti libri suscitati da progetti di oral history; pensiamo, ad
esempio, ai contributi che negli anni settanta hanno dato alla storiografia americana le ricerche di Studs Terkel sul mondo del lavoro e sulla grande depressione.
8
«L’epica nega il tragico […]. L’epopea tende all’eroico, se con questo termine s’intende l’esaltazione di un super-io collettivo. Si è potuto osservare che essa
trova il suo terreno più favorevole nelle regioni di frontiera, dove regna un’ostilità prolungata tra due razze o due culture, nessuna delle quali domina nettamente l’altra. Il canto epico cristallizza l’ostilità e compensa l’incertezza della lotta; annunzia che tutto finirà bene o almerno che noi abbiamo la ragione dalla parte nostra. In questo modo l’epica incita potentemente all’azione», P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, il Milano, Bologna 1984 (ed. orig.
1983), p. 133.
9
Questo fenomeno di avvicinamento tra human resources e information technology e il parallelo divorzio tra hr e general management è così descritto e stigmatizzato da J.N. Baron, D.M. Kreps, Strategic Human Resources. Frameworks
for General Managers, Wiley, New York 1999, p. 504.
10
Anche la recentissima e puntuale ricostruzione di Paolo Bricco – Olivetti,
prima e dopo Adriano. Industria cultura, estetica, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005 – si ferma alla fine degli anni settanta.
11
Cfr. G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, in M. Regini, F. Sabel (a c. di),
Strategie di riaggiustamento industriale, il Mulino, Bologna 1989, pp. 158-169.
12
L’Olivetti è la prima impresa innovatrice in Italia, nel decennio 1963-1972
(138 brevetti); resta la terza nei due decenni successivi registrando rispettivamente 265 brevetti nei decenni 1973-1982 e 1983-1992, mentre non la si ritrova neppure tra le prima dieci nel periodo 1993-1999; cfr. R. Giannetti, M. Vasta, Storia
dell’impresa industriale italiana, il Mulino, Bologna 2005, p. 138.
13
G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, cit. p. 135.
14
E. Englander, A. Kaufman, The End of Managerial Ideology: From a Corporate Social Responsibility to Corporate Indifference, in “Enterprise and Society”,
vol. 5, no. 3, September 2004, pp. 404-450.
15
G. Sapelli, Gli organizzatori della produzione. Tra struttura d’impresa e modelli culturali, in Storia d’Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino
1981, poi ripreso in Idem, Economia, tecnologia e direzione d’impresa, Einaudi,
Torino 1994, p. 267.
16
L. Gallino, L’impresa responsabile, cit.
17
G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, cit., p. 136, i quali precisano che
6
16
Prefazione
«il sistema d’incentivi [per il management] coinvolge anche il sesto e il settimo livello impiegatizio e poco burocratico, in quanto aumenti e riduzioni possono
avere entità notevole».
18
Come “l’ora dei manager” era rintoccata con le tesi di Adolf Bearle e Gardiner Means negli anni trenta, e quelle di James Burnham all’apertura degli anni
quaranta, così il paradigma di agency inaugura gli anni ottanta con i contributi
seminali di Eugene Fama: E.F. Fama, Agency Problems and the Theory of the
Firm, in “Journal of Political Economy”, no. 88, April 1980; E.F. Fama, M.C.
Jensen, The Separation of Ownership and Control, in “Journal of Law and Economics”, no. 26, June 1983. Per un’ottima stilizzazione, cfr. J. Roberts, The Modern Firm. Organizational Design for Performance and Growth, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 126-135; per una prospettiva storica, cfr. invece J.
Barron Baskin, P. Miranti, A History of Corporate Finance, Cambridge University Press, Cambridge (uk) 1997 (trad. it. 1999) pp. 258-303.
19
K. Lipartito, Business History from the Perspective of a Cutting Edge Journal,
dattiloscritto presentato agli “Incontri di storia dell’impresa”, Università Bocconi, maggio 2005, p. 12, a commento del lavoro di E. Englander, A. Kaufman, The
End of Managerial Ideology, cit.
17
Postfazione.
Lo “scandalo” della memoria olivettiana
di Giulio Sapelli
Non si tratta [...] di una autobiografia. Questo non avrebbe per me alcuna importanza. Ciò che invece mi sta a cuore è il tentativo di una mitobiografia. Con
questo intendo fare affiorare alla luce il mitologema che sta alla base del destino del singolo. La biografia personale ha qui interesse soltanto in funzione del
mitologema; serve alla conoscenza di quest’ultimo, della sua forma e della sua
natura, e viene considerata esclusivamente da questo punto di vista [...] Il concetto di mitologema verrà [...] lasciato nel vago e usato come denominazione
comune di contenuti diversi: componenti della coscienza e dell’inconscio collettivo, motivi di famiglia, di stirpe, di civiltà e di razza, cosiddetti fenomeni
karmici, ecc... in breve, fattori psichici che provengono da una radice non personale [...]. Praticamente, il quesito fondamentale d’una mitobiografia si pone così: in quale corrente “mitologica” sta il singolo e in quale punto di essa. 1
Questa citazione è tratta dall’unico testo che Ernst Bernhard abbia lasciato dietro di sé, grazie alla devota cura della sua allieva prediletta; è
un testo che riassume il dramma di una vita – l’ebreo che sopravvive allo sterminio programmato – e di una vocazione – quella dello psicoanalista junghiano. Questo brano non può non venire alla mente di coloro i
quali, ripensando ad Adriano Olivetti, ricordano anche il suo percorso
di vita, la sua intima spiritualità, la sua fede e il suo sacrificio: Ernst Bernhard infatti fu la figura forse più importante per consentire ad Adriano di
convivere e di coevolvere con l’ombra junghiana e quindi con i motivi
profondi del proprio operare.
Ricordare l’intreccio tra biografia personale e destino collettivo incarnato nell’ambiente di vita e di lavoro, e quindi nella produzione mitologica che esso talvolta genera, è indispensabile allorché si voglia inserire
in una cornice culturale la lettura e la meditazione delle storie di vita che
in questo volume sono raccolte. In primo luogo, perché non v’è stata entità storica industriale e culturale insieme, in Italia e nel mondo, in grado di produrre mitologia come Adriano e l’Olivetti. Ciò è accaduto con
tanta forza e con tanta ambiguità, tipica di tutte le vite associate nell’economia monetaria e nel potere, da divenire, quella mitologia, non tanto un
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Uomini e lavoro all’Olivetti
mitologema junghiano, quanto invece un indistinto linguaggio meta-archetipale a cui chiunque può attingere purché lo voglia. Questione essenziale, come è noto a chi si occupi intellettualmente di questi temi, per
la creazione di una memoria sociale. 2 E per quanto riguarda l’Olivetti si
tratta di una memoria sociale che, in questo caso, è sorretta da veri e propri siti e riferimenti fisici della memoria: 3 gli stabilimenti d’Ivrea, i prodotti più celebri, i negozi Olivetti, il logo e il brand. Questi ultimi sono
esistiti sino a quando i nuovi protagonisti del capitalismo senza morale di
sostegno non li hanno sradicati dalla Borsa e dal tessuto della comunicazione industriale. Ma gli stabilimenti rimarranno e saranno sempre fonte
di memoria sociale.
Per questo la lettura delle storie di vita degli uomini del personale Olivetti è tanto importante: queste storie di vita sono importanti in sé, ossia
singolarmente intese, ma sono importanti anche perché consentono la
verifica – à la Halbwachs – di quanto siano potenti le sovrapposizioni tra
memoria autobiografica, memoria storica e memoria collettiva. 4 E, come è noto dai tempi dello strutturalismo russo e della morfologia della
fiaba di Propp, 5 esistono strutture di riferimento mentale, landscapes 6
affettivi e cognitivi che riannodano la rimemorazione degli eventi e li collocano in un universo mitologico. Certo parliamo di processi secolari. Il
caso Olivetti non produce archetipi di tal fatta. Ma qualcosa si è pur determinato.
Si è determinata una sorta di mitologia olivettiana che è divenuta terreno di coltura per improvvisati attori del palcoscenico dell’industria culturale e dell’identità di piccoli gruppi di un’industria della comunicazione che è ormai insensibile ai valori profondi del messaggio (perché solo
il codice comunicativo, à la Barthes, 7 ha valore). Olivetti, quindi, può essere di moda proprio quando il sistema industriale senz’anima trova i
suoi cantori: 8 e si scopre che molti di quei cantori si autodefiniscono olivettiani senza esserlo... È un segno della negoziazione e della destrutturazione dello stesso universo mitologico. Ora esso non appartiene più al
sacro: appartiene al profano della lotta per la vita e quindi per il potere.
Da un lato troviamo un libro come questo, che testimonia, nelle interviste, i mondi vitali autentici della fedeltà ai valori fondativi olivettiani
che sono enucleati nell’introduzione di Francesco Novara e Renato Rozzi e che riassumerei in questa citazione: «Se in altre aziende il lavoratore
si confondeva in una massa indifferenziata, in Olivetti egli era una persona con una vita lavorativa ben individuata». 9
Dall’altro, troviamo che quegli stessi valori (richiamati dalla frase appena citata) nella quotidiana vita associata sono sottratti all’universo intimo e sacro delle persone e sono scagliati invece nel mondo dei miti d’oggi. 10 In tal modo divengono il prodotto di un’alterazione desacralizzata
del mito, dove le persone divengono personaggi che perseguono una
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Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettiana
propria strategia di sopravvivenza nell’industria comunicativa e dell’immaginario collettivo. In questo odierno scenario, essere olivettiani senza
nulla condividere dei valori olivettiani non solo è possibile: è un dover
essere per essere à la page; almeno finché conviene nel modo dell’economia dello scambio monetario e simbolico... Magari, tra breve, le ragioni
dello scambio muteranno, e allora si ritornerà ad essere anti-olivettiani
per eccellenza, com’era d’obbligo tra gli anni cinquanta e ottanta del Novecento... Come successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunse
Carlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto di
essi dissemino fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ragione. Per aver esatta contezza di ciò, senza pregiudizi di sorta ma nella
serena ricordanza, si rilegga qui tanto l’intervista in cui si rimembra la visita del papa agli stabilimenti nel 1990 (e l’assunto comunicativo falsificante e mortifero in cui si disegnò quell’atto, incarnazione del mito reificato nella storia) quanto quella in cui si connota nel ricordo l’arrivo di
Carlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio di
mancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere internazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il contagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo in
vuoto di fedeltà zelante di ossequio.
E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento
di decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi – espressa tra gli altri da Ottorino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioè
immediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiungere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori in
azienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo De
Benedetti non fu altro che il definitivo suggello a un processo di dilapidazione avviato già da tempo. Ma contestualmente a ciò, per rimarcare
la differenza tra storia accaduta e memoria e immaginario collettivi, 11 il
mito non si spegne, anzi si carica di nuovi significati che non sono più
quelli delle persone e delle coscienze infelici, ma dei personaggi di un
mondo del mito che alle persone viventi in quegli accadimenti più non
appartiene.
È in questo contesto che occorre tener presente (“tenere a mente”,
vien da dire) il significato metodologico straordinario di questo corpus
d’interviste. È in tal modo che lo si comprende, quel significato. Esso
rende manifesto il fatto che la memoria può divenire, rispetto alla storia
accaduta, anche uno strumento di negoziazione di un’identità 12 singola
che è a sua volta il frutto di una negoziazione con l’identità collettiva che
ci si vuole imporre, costi quel che costi, ossia sia avvenuto ciò che è avvenuto. Ha ben compreso questo problema un filone interpretativo molto interessante della cultura postmoderna in antropologia culturale. Per
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Uomini e lavoro all’Olivetti
esso, le norme durkheimiane non sono più intaccabili universi politeisti
ma sono, piuttosto, degli dèi scesi in terra, che rendono possibile la loro
stessa destrutturazione nella riformulazione di nuove autosignificazioni
culturali:
What is theoretically innovative, and politically crucial, is the need to think
beyond narratives of originary and initial subjectivities and to focus on those
moments or processes that are produced in the articulation of cultural differences. These ‘in-between’ spaces provide the terrain for elaborating strategies
of selfhood-singular or comunal - that initiate new signs of identity, and innovative sites of collaboration, and contestation, in the act of defining the idea of
society itself. It is in the emergence of the interstices - the overlap and displacement of domain of difference - that the intersubjective and collective experiences of nationess, community interest, or cultural value, are negotiated. 13
È questo spazio di sottrazione alla realtà mercificata e reificata che queste
interviste occupano, nella relazione intersoggettiva che struttura i nostri
mondi vitali. Si sottraggono al mondo e nel contempo a esso completamente appartengono, ma per via della soggettività e non della sua negazione, come accade continuamente nella comunicazione odierna. È questo il valore della riconferma della tradizione orale nel mondo contemporaneo: essa riconduce all’essere prima della mercificazione e della reificazione e lo ridona ai soggetti da cui scaturisce. Abbiamo necessità della comunicazione scritta per la stessa strutturazione del mondo ma, una volta
costituita e compresa nelle forme non orali della comunicazione rese possibili dall’economia monetaria, essa tende a disperdere il valore della relazionalità personale. E quando non lo fa è per consegnarla – quella relazionalità – agli dèi del profitto e della falsificazione ideologica. Péguy
l’aveva ben compreso quando rifletteva sul denaro e sulla cristianità che
voleva salvare e reinverare nella modernizzazione: «Ainsi, dans ce monde
moderne tout entier tendu a l’argent, tout à la tension de l’argent, cette
tension de l’argent contaminant le monde chrétien même lui fait sacrifier
sa foi et ses moeurs au mantien de sa paix économique et sociale». 14
È lo stesso monito che Marcel Henaff, in un articolo – da cui cito 15 –
e altresì in un testo fondamentale, 16 ha lanciato recentemente: «Vingtcinq siècles après le conflit qui a opposé Platon aux sophistes, et selon
une autre perspective, il faut se demander: le savoir a-t-il un prix? Les
idées peuvent-elles se vendre?».
Così, leggendo queste interviste, noi dobbiamo riformulare quella stessa domanda: ha, la memoria, un prezzo? E il prezzo non è quello che si
paga per scambiarla con il silenzio, ma quello che si paga per non omologarla al senso comune e alla falsa coscienza e per conservare l’integrità
della persona che può esistere con essa e in essa. Io credo che – grazie alla fiducia creatasi tra gli intervistati, l’intervistatrice e i due mentori del
processo di costruzione di questa prosopografia orale ora consegnata al610
Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettiana
le stampe – quel prezzo non sia stato pagato. E credo che la memoria che
ora leggiamo – leggere la memoria, ecco un altro tema di straordinario
interesse – ci riconsegni la soggettività e l’individuazione delle persone
che ricordano. Che ricordano ora, insieme a noi lettori, e che ricordano
mentre noi ricordiamo e apprendiamo con loro, attraverso la lettura.
Grazie al rapporto che stabiliamo con e nella lettura, riscattiamo la memoria dal silenzio e dall’introspezione, ma non precipitiamo nel rumore
del glamour olivettiano di maniera che in questi anni abbiamo udito attorno a noi, nel frastuono della società dell’immagine e della comunicazione reificata.
Di una prosopografia, ossia di un’antropologia storiografica fondata su
una biografia collettiva, s’intravede qui – per la verità – soltanto l’inizio.
Ciò che ci si presenta alla lettura è una «connecting biography», fenomeno reso possibile dal fatto che: «Individual and collective memory
come together in the stories of individual lives». 17 E vanno insieme allorché chi muove alla ricerca della relazione sociale che vuol ricostruire
con le storie di vita, ne individua i potenziali affabulatori rimembranti in
un cluster, in un insieme di soggettività le quali, sia che siano disperse dalla vita oppure ancora unite da essa, sono in ogni caso disponibili a ricordare insieme, collettivamente o individualmente. L’essenziale è il ricordare, consapevoli di un progetto che dal loro racconto scaturirà. È grazie
alla consapevolezza dei soggetti narratori di essere attori di un processo
di ricostruzione di una memoria che tale memoria diviene sociale. Sociale perché fondata dal loro volontario associarsi nel progetto. Ecco il significato della caduta degli dèi: non siamo più dinnanzi a norme sociali
che imprigionano la memoria, ma a contenuti espressivi e significati dell’essere che dal soggetto scaturiscono e a esso soltanto, nella libertà, appartengono.
Ed è per quella consapevolezza che iniziative scientifiche come quella che si presenta in questo libro possono avere un grande significato.
Siamo dinnanzi a una costruzione della memoria che non ha come proposito il fondare identità, come accadde e accade in molti studi di grande ampiezza. Si pensi al lavoro immenso e pionieristico che portò Thomas e Znaniecki a ricostruire l’epopea dell’immigrazione polacca negli
usa dall’inizio del Novecento alla fine della prima guerra mondiale, grazie all’uso delle lettere e delle testimonianze di prima mano. 18 Qui non
si tratta neppure di un lavoro diretto a rifondare identità sociali di classi
e ceti subalterni 19 o di un lavoro diretto a ricostruire l’operatività di élites che hanno contribuito all’inveramento di processi di trasformazione
sociale o scientifica. 20
Siamo dinnanzi invece, in questo caso, al riconoscimento reciproco,
transitivo, di una condivisione che nel passato fu possibile, in tempi storici diversi ma non così lontani da impedire un legame tra generazioni ed
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Uomini e lavoro all’Olivetti
esperienze professionali differenti. Il legame tra i soggetti narranti, infatti, non è semplicemente cognitivo. Per definirlo non si può ricorrere ad
altro che al concetto di razionalità romantica magistralmente descritto
da Larmore:
Non riusciremo a cogliere l’originalità del tema romantico dell’appartenenza
se partiamo dal presupposto che si riferisca semplicemente all’influenza che le
forme comuni di vita effettivamente esercitano sulla mente dell’individuo. In
gioco è invece il genere di comprensione di noi stessi che dovremmo avere, tale da farci considerare gli impegni più vincolanti non come oggetti (soltanto)
di una scelta autonoma, ma come espressione della nostra appartenenza a una
data forma di vita. Una simile comprensione di noi stessi è normativa, proprio
perché dipende essenzialmente da un’idea di ragione. Invece di esigere da noi
l’assunzione di una distanza critica dal nostro modo di vita nel suo complesso,
come se l’obiettivo ultimo fosse vedere il mondo sub specie aeternitatis, la ragione dovrebbe essere interessata agli obiettivi a cui tendiamo nelle condizioni in cui si svolge la nostra vita. 21
È questa idea di ragione romantica portatrice di senso all’essere che unisce i narratori; ed è questa unione romantica nel suo senso più alto e deviante rispetto all’esistente che costruisce la trama di un insieme di vite
che ora si ri-pongono in relazione attorno a quell’obiettivo con tanta frugalità liberatrice reso manifesto da Novara e da Rozzi, da me ripreso all’inizio e che di nuovo voglio ricordare: «Se in altre aziende il lavoratore
si confondeva in una massa indifferenziata, in Olivetti egli era una persona con una vita lavorativa ben individuata». 22
Ecco che l’individuazione delle personalità diviene – insieme – scopo
di una vita e cifra emblematica di un progetto che ha unito e ancora unisce più vite. E quindi è stato ed è ancora progetto di trasformazione sociale a partire dall’integrità personale transitiva: essenza dello scandalo
olivettiano che questo lavoro finalmente restituisce intatto e integro alla
storia, e quindi al presente e al futuro.
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Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettiana
Note
1
E. Bernhard, Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot, traduzione di G.
Bemporad, Adelphi, Milano 1992, pp. 189-190.
2
M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, postfazione di G. Namer,
Albin Michel, Paris 1925 (trad. it., Ipermedium, Napoli 1996).
3
J. Attfield, Wild Things: The Material Culture of Everyday Life, Berg, New
York 2000.
4
Bello il riferimento cognitivo a questa triade, richiamato in J. J. Climo, M.G.
Cattel (a c. di), Social Memory and History. Anthropological Perspectives, Altamira Press, Walnut Creek 2002, p. 4.
5
V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fiabe, Boringhieri, Torino 1985.
6
A. Appadurai, Disjuncture and Difference in the Global Cultural Economy, in
“Public Culture”, 1990, no. 2, pp. 1-24.
7
R. Barthes, Le bruissement de la langue, Editions du Seuil, Paris 1993.
8
C. Corduas, G. Sapelli, Reificazione e managerialismo nell’impresa del nuovo
secolo, di prossima pubblicazione in “Aut Aut”.
9
F. Novara, R. Rozzi, “Una guida agli argomenti e ai temi del volume”, p. 21.
10
R. Barthes, Mitologies, Editions du Seuil, Paris 1970.
11
P. Nora, La loi de la memoire, in “Le Débat”, janvier-février 1994, n. 78, pp.
187-191.
12
Per me, il riferimento all’insidioso concetto d’identità è sempre mediato dalla riflessione di C. Lévi-Strauss, in Idem (sous la direction de), L’identité, puf,
Paris 1983.
13
H. K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London-New York
1994, p. 2.
14
C. Péguy, Notre jeunesse, in Oeuvres en prose 1908-1914, Gallimard-Pléiade, Paris 1992, p. 604.
15
M. Henaff, L’argent et le hors-de-prix, in “Esprit”, février 2002, p. 166.
16
Idem, Prix de la verité. Le don, l’argent, la philosophie, Editions du Seuil, Paris 2002.
17
J. J. Climo, M.G. Cattel (a c. di), Social Memory, cit, p. 22.
18
W. I. Thomas, F. Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America, University of Chicago Press, Chicago 1918-1920 (trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1968).
19
Si pensi, per esempio, al lavoro pionieristico di Y. Lequin, J. Metral, A la
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Uomini e lavoro all’Olivetti
recherche d’une memoire collective: les métallurgistes retraités de Givors, in “Annales esc”, janvier-février 1980, pp. 149-166.
20
Come dimostrò P. Connerton, How Societies Remember, Cambridge University Press, Cambridge (uk) 1989.
21
C. Larmore, L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 70-71.
22
F. Novara, R. Rozzi, “Una guida agli argomenti e ai temi del volume”, cit., p.
21.
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