Articolo pubblicato su Uomini & Business – Anno 17 Numero 4 – Aprile 2005 ___________________________________________________________________ L’economia italiana attraverso un secolo In questo paese cronicamente in clima pre-elettorale c'è chi non vuol sentir parlare di declino, nonostante i dati di fatto, e chi lo drammatizza a fini politici. Il declino c'è, è evidente, ma viene da lontano, non se ne può fare responsabile solo il governo in carica. Il declino economico di un paese matura negli anni, non in una legislatura, per quanto mediocremente condotta. Per l’economia italiana sono stati negativi gli ultimi decenni del secolo scorso, non solo gli anni più recenti. Sarà stato per la crisi petrolifera, per la baldanza sindacale, per la leggerezza con la quale ci siamo indebitati negli anni dell’Italia da bere, sta di fatto che è stata compromessa in quel periodo buona parte della ricchezza messa in piedi nell’ambito dell’economia industriale. L'industria italiana era nata circa un secolo prima, tra l’Unità e la prima guerra mondiale. Era nata l’industria elettrica, naturalmente, a cominciare dalla Edison; la siderurgia, con le Acciaierie di Terni, la Falck e il gruppo Orlando, che sarà poi anche nell'Ilva di Bagnoli; la metallurgia con la Franco Tosi di Legnano e le Officine Galileo di Firenze; la chimica con la Montecatini, la Carlo Erba, la Schiapparelli; l'industria tessile, della quale per fortuna rimangono realtà come Marzotto e Zegna; l'industria automobilistica con la FIAT e le sue concorrenti Lancia e Alfa Romeo ma anche Isotta Fraschini e altre; la Breda; l'Ansaldo; la Pirelli; l'Italcementi dei Pesenti; la Olivetti di Camillo, che aveva accompagnato in America Galileo Ferraris – che molto conoscono per il segnale orario – per incontrare Thomas Edison – che molti conoscono per le lampadine. Risalgono ad allora anche la nascita della CGIL e della Confindustria, della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano, con importanti quote di capitale tedesco. La rivoluzione industriale italiana si è fondata sullo spirito imprenditoriale, capace di cogliere le opportunità di un mondo che cambiava. Maffeo Pantaleoni considerava l’Italia il Paese europeo cresciuto più rapidamente, dal punto di vista economico, nei primi 10 anni del secolo, e ne attribuiva il merito all’iniziativa privata a fianco della quale tuttavia ha svolto un ruolo fondamentale anche l’intervento pubblico, per esempio nella siderurgia. La stessa rete ferroviaria è passata nel 1905 alla gestione statale in quanto il suo sviluppo era di interesse collettivo, secondo il Parlamento del tempo, e non poteva perciò seguire logiche di stampo esclusivamente privatistico (ragionamenti replicati a livello teorico nell’ultimo decennio per le telecomunicazioni). Il fascismo, nella ricostruzione post-bellica, accentuerà il ruolo pubblico, che si trasformerà in Partecipazioni Statali nella seconda ricostruzione postbellica. Da li, sempre da lontano, arriva anche il boom, auto-accreditato con qualche eccesso alla lungimiranza dei governi democristiani e dovuto anche ad una nuova imprenditoria e ad altre condizioni favorevoli. Negli ultimi 30 anni è successo che ci siamo accartocciati nell’ottica di breve termine, nell'assenza di visione prospettica, e poi nel gioco stupido della ricerca delle colpe, che ovviamente sono sempre altrui: i governi e la politica in genere; gli autunni caldi e i sindacati; gli imprenditori e la scuola; l'Euro; i cinesi; eccetera. In questa mediocre manfrina da comari ossessionate dalle necessità della comunicazione ogni episodio viene spacciato per simbolo di una fase storica, da un foulard contraffatto al rinnovo del contratto degli statali; da uno 0,1% di differenza nel PIL tendenziale alla trincea contro lo straniero che vorrebbe comprare, pagandole e rispettando le regole, banche italiane. Adesso che succede? Poco. Ci sono le 300 aziende individuate da De Rita come presupposto per l’ottimismo, ma cosa sono 300 aziende per la settima economia mondiale? Forse un modello, ma chi ci lavora attorno per farlo diventare un modello di sviluppo per tutto il Paese? Di intervento pubblico se ne parla quasi di nascosto, malvolentieri. Molte delle aziende create negli anni buoni sono diventate un'altra cosa o del tutto sparite. L’economia industriale si è ridotta o trasformata senza quasi ruolo italiano. E’ stato e sarebbe ancora il momento di settori quali la grande distribuzione, l'economia digitale, le biotecnologie, l'economia della conoscenza, della salute, del tempo libero e del bello, che include natura, arte e turismo. Però non si vede molto di italiano in giro, oltre lo sfruttamento più o meno tradizionale delle eredità. Autogrill che compra in Spagna è un'eccezione, non la regola. Come compagnie aeree siamo messi male, grandi catene alberghiere non ne abbiamo più e quanto alla conoscenza non si può certo dire che esportiamo modelli culturali. Abbiamo il design, certo, ma comincio a temere che anche quello si stia compattando nel talento di alcuni invece di espandersi come scuola a livello internazionale. Da un secolo all'altro è cambiato tutto, l'Italia e gli italiani; la classe dirigente e la società; soprattutto si è passati da un clima di fiducia e costruzione a quello depresso e pessimista attuale che ci sarebbe stato comunque, con o senza Berlusconi. Lui semmai aggrava la situazione intignandosi nell'ottimismo di facciata, nel volere fare vedere una realtà fasulla, virtuale, raccontata a mezzo stampa o via etere dalla sua corte di fans, servitori e beneficiati. Non pochi, peraltro, i beneficiati a danno del paese. Il problema del declino è reale, come dimostrano i dati sulle esportazioni, l’andamento del PIL e anche i de profundis per alcune compiante aziende. Ne ha scritto uno recentemente Elserino Piol ("Il sogno di un'impresa") per celebrare l'Olivetti che non c'è più (per colpa dei politici, secondo una recentissima intervista). Conosco e stimo Piol, uno che ha tutt'ora intuizioni non comuni e che vede il business prima di molti altri. Talvolta anche dove non c'è, ma questo è inevitabile. Piol dice però dell'Olivetti anche cose difficili da condividere, nel complesso. Oppure non le dice. Possibile che nel drastico ridimensionamento dell'Olivetti non siano quasi ravvisabili cause endogene, dico innanzi tutto errori e a volte inadeguatezza manageriale, prodotti e strategie sbagliate o mal applicate? E non ha influito sul destino dell’Olivetti anche l’avventura belga di de Benedetti? Come la FIAT: non andava bene, poi quando c’era Ghidella si è ripresa producendo vetture di successo; allontanato Ghidella la FIAT è tornata a fare auto di minore successo. Forse è stata una coincidenza, ma può anche darsi che Romiti e i suoi dirigenti hanno commesso qualche errore. O no? Anche per la FIAT si è sentito dire che però lo Stato avrebbe dovuto…. Perché cercare colpe sempre e solo all’esterno? Ma quale Stato! Perché in Italia, in generale, se va male un'azienda piccola è colpa del costo del lavoro e se ne va male una grande è colpa dello Stato? Stato, per inciso, tradizionalmente grande, fedele e poco esigente cliente tanto dell’Olivetti quanto della FIAT. Se adesso è più difficile, se lo Stato può meno, se l'Euro esclude la mossa della svalutazione per restare competitivi, se i lavoratori italiani non accettano condizioni di lavoro cinesi e non li si può obbligare con un Bava Beccaris, che vogliamo fare? Non è una domanda retorica. E’ una domanda. Per i devoluzionisti senza senso dello Stato; per il cardinalizio Antonio Fazio; per quelli che eliminerebbero i giudici comunisti; per i sindacalisti che “le lotte operaie” e per gli imprenditori che evadere è necessario e anche giusto; per il ministro Siniscalco, uno dei credibili, e per tutti i politici che credibili non lo sono affatto, specialmente in economia. Una domanda semplice: adesso che siamo nell’economia post-industriale, che ci sono l’Euro, l’Europa, i cinesi, gli immigrati eccetera, che facciamo? Qual è il modello di sviluppo che vogliamo ipotizzare per questo Paese? Non occorre che sia geniale. Basta che sia ragionevole e credibile. Massimo Biondi