Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia*

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itudi e documenti
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti
della storiografia*
Il testo che pubblichiamo è stato presentato dal gruppo centrale di ricerca del­
l’Istituto nazionale come relazione introduttiva al seminario su « Storiografia po­
litica e storiografia economica sull’Italia dal fascismo alla repubblica », tenutosi
ad Ariccia nel gennaio di quest’anno, di cui la rassegna ha dato notizia nel n. 114
del gennaio-marzo. Il testo ha subito qualche ritocco dovuto al necessario aggior­
namento e adattamento per la pubblicazione, mentre ne è stata soppressa la par­
te conclusiva in quanto, per il suo contenuto propositivo di ipotesi di ricerca, ave­
va un carattere maggiormente provvisorio e maggiormente « interno » al lavoro
del gruppo stesso.
Occorre qui richiamare, per intendere il significato e i limiti della relazione, sia
il modo con cui è nata e gli scopi che si proponeva, sia — in sintesi — il dibatti­
to cui ha dato luogo, che permette di coglierne meglio le aperture problematiche.
Le difficoltà intrinseche ad un lavoro di ricerca che voglia mantenere carattere di
collegialità pur sviluppandosi su piani e con approcci diversificati, hanno consi­
gliato al gruppo di procedere ad un primo bilancio comune della storiografia sul
periodo preso in esame, allo scopo di raggiungere una certa omogeneità di giudi­
zio attraverso questo confronto necessariamente preliminare. Nello stesso tempo
tale esame critico della storiografia intendeva porre le premesse per un dibattito
con studiosi anche esterni al gruppo e all’Istituto, nell’intento — tra gli altri —
di raccogliere tutte le indicazioni che un confronto « interdisciplinare » poteva
offrire allo sviluppo della ricerca. Il risultato di questo — per quanto sommario
e rapido — bilancio, può essere considerato, e viene in effetti proposto, come con­
tributo ad un primo approccio agli studi sul periodo, anche in considerazione del
crescente interesse da essi oggi suscitato.
*
Benché impostata e discussa collettivamente dal gruppo centrale di ricerca dell’Istituto
nazionale, questa rassegna è stata affidata, per quanto riguarda la redazione dei singoli para­
grafi, ad autori che conservano la responsabilità individuale dei giudizi espressi: N icola
G allerano, II contesto internazionale-, L uigi G anapini, I partiti politici-, M arcello F lores ,
I problemi politico-istituzionali-, G ianpasquale S antomassimo , Il dibattito economico-,
Mariuccia S alvati, Ricostruzione e disegno capitalistico-, C laudio D ellavalle , Il sindacato
e Lotte sociali nell'Italia settentrionale-, P aolo de M arco, Aspetti del problema del Mezzo­
giorno. Al dibattito collegiale hanno partecipato anche A ntonio G ib elli (che ha redatto la
presentazione della rassegna e ha collaborato alla parte sul sindacato) e M assim o L egnani,
come componenti del gruppo centrale.
4
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
La scelta del tema specifico del seminario, vale a dire il rapporto tra storiografia
« politica » e storiografia « economica », veniva dettata dalla constatazione larga­
mente comune di un insufficiente livello di compenetrazione dei due piani del di­
scorso, di modo che ai processi politico-istituzionali attraverso cui si viene attuan­
do il passaggio dall’Italia fascista a quella repubblicana, finiscono per mancare,
nel quadro tracciato dalla storiografia, i necessari riferimenti alla profondità della
crisi economico-sociale e al suo graduale ricomporsi, che pure costituisce il punto
nodale di verifica delle trasformazioni in atto nei paese. Da questo punto di vista
è facile comprendere colite le linee interpretative di quel periodo certamente cru­
ciale della storia contemporanea d’Italia e del movimento operaio, si siano sot­
tratte fino ad oggi alle tentazioni di un atteggiamento deterministico e giustificato­
rio da un lato, che vede nella ricostruzione e nel dopoguerra un seguito di passag­
gi obbligati dettati dal peso di fattori interni e internazionali; o di un soggetti­
vismo recriminatorio dall’altro, che si concentra sulle scelte delle forze politiche
attardandosi a lamentare le « occasioni perdute ».
Occorre peraltro dire che su questo punto sono stati di recente compiuti passi
avanti assai significativi, di cui la relazione ha cercato di tener conto adeguatamente. Ciò nel senso appunto di passare da una controversia astratta sulle « re­
sponsabilità » dei deludenti esiti del movimento di liberazione, quasi sempre fon­
data sul confronto tra aspirazioni ed attese a posteriori e l’evoluzione reale dei
fatti, ad un più maturo confronto tra livello dello scontro sociale e sbocchi poli­
tici, che tenta di delineare la dinamica effettiva e complessiva dei rapporti tra le
classi lungo l’arco di tempo che va almeno dal ’43 al ’48, per molti versi decisivo
ai fini dell’assestamento, non di breve durata, di tali rapporti. Ciò che si tenta
di fare oggi — in una direzione che appare senza dubbio proficua sia sul piano
dei suggerimenti interpretativi generali, sia su quello delle ricerche locali — è di
dare ragione della globalità dei processi in corso, cogliendo nell’assestamento po­
litico-istituzionale anche una risposta ed un tentativo di chiusura della crisi so­
ciale; e reciprocamente nell’evolversi dei rapporti di forza tra le classi sul terreno
più propriamente economico un momento e una premessa di quell’assestamento
moderato del quadro politico che sia compie sulle soglie degli anni cinquanta.
Questo nonostante le profondità delle lacerazioni prodottesi con l’entrata dell’Ita­
lia in guerra e la crisi del regime.
Come semplice rassegna storiografica, il testo non può che rimanere molto al di
qua di questa problematica. E tuttavia si è voluto almeno sommariamente richia­
marla in quanto implicitamente sottesa, pur con diverse accentuazioni, ai contri­
buti che compongono la relazione. L ’articolazione tematica in cui essi sono distri­
buiti, non intende dunque configurare una separazione rigida in settori, ché anzi
come si è detto l’angolazione da cui il gruppo di ricerca si pone è quella di una
critica e di un superamento di ogni approccio settoriale, e in particolare di ogni
separazione implicita o esplicita del momento internazionale da quello nazionale,
del momento economico e di quello politico.
Quanto alla discussione apertasi nel corso del seminario, di cui è stato dato un
ampio resoconto nel numero citato della rassegna, vale la pena di richiamarne al­
meno i punti fondamentali, quelli intorno a cui il dibattito ha sostanzialmente
ruotato.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
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Innanzitutto la questione della periodizzazione. E parso ad alcuni che la limita­
zione del discorso al periodo 1944/48 (particolarmente per quanto riguarda il
termine ad quem) fosse non solo riduttiva, ma quel che più conta funzionale ad
una accentuazione artificiosa degli elementi di arretramento e di sconfitta del mo­
vimento operaio assunti come connotazione centrale del periodo stesso. Ora è
senza dubbio vero che il discorso svolto intende dare a questo elemento il neces­
sario rilievo, anche a correzione di una prospettiva che, dislocando le valutazioni
sui tempi lunghi dei processi economici e politici, tende a mettere in ombra i bi­
lanci anche parziali e quindi la sottolineatura delle potenziali alternative. Tutta­
via, pur riconoscendo l’importanza di un orizzonte cronologicamente meno angu­
sto (che permetta di tornare a interrogarsi tanto sulle trasformazioni produttive
e sugli orientamenti culturali maturati negli anni trenta, quanto sulle possibilità
aperte ad un avanzamento del movimento operaio oltre il limite del ’48), è parso
che l’attenzione potesse e dovesse correttamente concentrarsi sugli anni in cui si
vengono definendo, a grandi linee, i connotati costituzionali del regime repubbli­
cano, la fisionomia delle forze politiche e i loro rapporti con la realtà sociale e
con lo stato, determinati equilibri e rapporti di forza tra classi di modo che, per
quanti siano gli elementi di continuità tra il prima e il dopo, una fase — quella
della ricerca di un nuovo assetto complessivo dei rapporti sociali dopo la rottura
dell’equilibrio proprio del regime fascista — può dirsi conclusa ed una nuova
aprirsi, le cui linee fondamentali si prolungano in qualche modo sino al presente.
Per quanto riguarda l’ipotesi di un rapporto « solidale » tra le forze politiche nel
concorrere alla definizione di tale assetto sodale-politico, il dibattito -—■ pur sen­
za superare in definitiva la diversità di interpretazione in proposito — ha alme­
no chiarito che tale concetto non intende evocare una identità della « classe poli­
tica » o un appiattimento della dialettica politica, né ignorare gli elementi di con­
flittualità anche profonda che si determinano e si sviluppano tra partiti e schieramenti; quanto piuttosto cogliere i non secondari elementi di consenso tra essi nel­
la costruzione di un modello (democrazia delegata ed anche, sotto certi aspetti,
fortemente centralizzata) di sviluppo e di dispiegamento della dinamica sociale,
anche nella ipotesi di una sostanziale componibilità dei conflitti entro un quadro
di equilibrato sviluppo economico e politico. Ne consegue la necessità di guar­
dare con più attenzione di quanto non si sia in genere fatto, non solo ai rapporti
di incontro e scontro tra i partiti e gli schieramenti, quanto al rapporto tra il qua­
dro politico complessivo (che ha necessariamente una configurazione dialettica)
e le istanze emergenti nella realtà sociale, evitando di esaurire queste in quello,
e di trascurare i momenti di antagonismo e di contraddizione, sul piano delle esi­
genze materiali e di potere, che queste hanno rispetto a quello.
L ’attenzione della discussione si è soffermata anche sul peso, da taluni giudicato
troppo scarso, dato alla presenza dei ceti medi sulla scena politica italiana, e ai
problemi che vi sono connessi del qualunquismo e del potenziale reazionario che
condiziona l’intero sviluppo delle vicende. Quantunque tale fattore sia stato in
genere amplificato, anche a motivazione delle scelte prudenti compiute allora dal­
la sinistra sindacale e politica, nella preoccupazione di un precipitare della situa­
zione che vanificasse anche i risultati minimi del movimento di liberazione prima
che essi fossero consolidati in stabili conquiste, non vi è dubbio che il fenomeno
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II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
merita attenzione e approfondimento forse maggiori di quello che non si è volu­
to leggere nella storiografia, portando in primo piano l’antagonismo di classe ope­
raia e grande capitale. La preoccupazione dev’essere quella di riuscire a cogliere,
anche nella presenza di tali pericoli e spinte involutive, non tanto un dato scon­
tato e statico della situazione, quanto un aspetto della difficoltà e dei limiti regi­
strati dal movimento operaio nella costruzione di un blocco sociale capace di
esprimere un orientamento autonomo e alternativo rispetto alla restaurazione pa­
dronale. Il che significa in altre parole che il peso dei ceti medi va visto nel qua­
dro dell’evoluzione dei rapporti di forza complessivi, più che non come problema
a se stante, e soprattutto superando ogni tendenza ad un riferimento indifferen­
ziato ad essi, che ne trascuri le interne articolazioni ed i diversi rapporti con gli
altri protagonisti dello scontro sociale.
Un ultimo punto di dibattito ha riguardato il ruolo e la fisionomia della Demo­
crazia cristiana. È stato giustamente osservato che accentuando l’interesse per i
protagonisti in qualche modo, almeno nel breve periodo, soccombenti, si trascu­
ra talvolta di approfondire l’indagine sulle motivazioni, i modi, le forme, i tipi
di consensi attraverso cui la Democrazia cristiana, sostituendosi perentoriamen­
te alle tradizionali forze liberali, viene a conquistare l’egemonia e il controllo del­
lo stato, esprimendo un blocco di potere destinato a conservarsi a lungo nel tem­
po. Una domanda posta nel dibattito — alla quale la storiografia non ha dato an­
cora risposte sufficientemente articolate e soddisfacenti — è quella se la DC deb­
ba essere considerata e si muova fin dall’inizio come forza organicamente e coe­
rentemente conservatrice e restauratrice, ovvero se si possano cogliere elementi
di una sua evoluzione in funzione dell’area elettorale e politica che tende a co­
prire, i cui connotati sono essi stessi in evoluzione.
Al di là di questi richiami al dibattito in corso, che accentuano se possibile il ca­
rattere problematico ed in certo senso provvisorio del testo, giova ripetere in con­
clusione che esso vuole essere innnanzitutto proposto come strumento di lavoro
offerto a quanti, in numero sempre crescente, vedono nel periodo post-bellico
una fase cruciale della recente storia italiana, oggi tanto più degno di essere stu­
diato quando gli equilibri da esso scaturiti sembrano essere messi profondamen­
te in discussione.
Il contesto internazionale
Un punto di partenza per l’analisi del contesto internazionale può essere l’osser­
vazione che Gastone Manacorda fece qualche anno fa a proposito delle origini e
dei caratteri della « democrazia progressiva ». Secondo Manacorda, quella strate­
gia si fondava sull’ipotesi « che l’Italia si sarebbe ricostruita con le sole proprie
forze, che le risorse mondiali sarebbero state scarse, che ad esse l’Italia come pae­
se vinto non avrebbe potuto accedere se non in scarsissima misura. La “ democra­
zia progressiva” dipendeva strettamente da questa ipotesi: cadendo l’una, cadeva
necessariamente anche l’altra. Non, dunque, la mancata educazione delle coscien­
ze al socialismo, non un difetto di propaganda, ma piuttosto una sottovalutazione
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
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della forza del capitalismo mondiale, cioè in pratica degli Stati Uniti, è all’origine
del fallimento della democrazia progressiva »
L ’indicazione che proviene da un tale giudizio rinvia pertanto a una valutazione
del ruolo degli Stati Uniti e della coscienza che la classe dirigente americana ebbe
delle possibilità espansive del capitalismo americano nel dopoguerra. Allo stesso
tempo, risulta di grande importanza stabilire quale fu, viceversa, la valutazione
che di questo stesso problema venne data dall’URSS. Si tratta, in sostanza, di ana­
lizzare il carattere della « Grande Alleanza » antifascista fra stati costituitasi nel
corso della guerra, distinguendo le tendenze profonde, connesse alle caratteristi­
che strutturali dei due principali paesi che la formarono, dalle manifestazioni po­
litiche che non meccanicamente vi corrispondono. Una volta definito sommaria­
mente questo problema, sarà anche più agevole arrivare ad un giudizio sulla mi­
sura del condizionamento a cui venne sottoposta l’Italia.
La letteratura esistente, o per lo meno quella di cui si è potuto prendere visione,
mentre è assai ricca di titoli circa le linee della politica estera americana e, ma so­
lo di riflesso e come contrappunto, su quella sovietica, non consente di definire
in modo soddisfacente le modificazioni apportate dalla guerra alle società ameri­
cana e sovietica.
In particolare, mentre esistono numerosi studi sull’imperialismo americano degli
anni recenti, manca una bibliografia anche solo iniziale sulle caratteristiche nuove
che esso assume proprio con la seconda guerra mondiale e nell’immediato secon­
do dopoguerra. La storiografia marxista e comunista ha infatti evitato di impe­
gnarsi su questo tema forse proprio in ragione della ambiguità e delle contraddi­
zioni politiche che nascono dal giudizio contrastante dato del ruolo degli USA
durante e dopo il conflitto mondiale. La storiografia democratica americana, ap­
partenente al filone cosiddetto « revisionista » 12, che pure ha avuto il merito di
smascherare il contenuto ideologico delle interpretazioni della guerra fredda co­
me unicamente provocata dall’espansionismo e dall’aggressività sovietiche, non
contempla tuttavia neppure l’uso della categoria dell’imperialismo e si sofferma
sugli errori se non sulla « tragedia » della politica estera americana postbellica3*il.
1
G astone M anacorda, II socialismo nella storia d’Italia, Bari, 1966, p. 770
1
Sulla storiografia « revisionista », cfr. l’ampia rassegna di E lena A ga R o ssi , Recenti
orientamenti della storiografia americana sulle origini della guerra fredda: l'interpretazione
« revisionista », in Storia contemporanea, IV, 1973, pp. 143-166.
3
II titolo del volume dell’autore che ha dato inizio al filone « revisionista », W illiam
A. W il lia m s , suona appunto The Tragedy of American Diplomacy, New York, 1959. Nel
corso della nostra analisi abbiamo utilizzato altresì i seguenti volumi: D ienna F. F leming ,
The Cold War and its Origins, New York, 1961 (trad. it. Storia della guerra fredda, Milano,
1964), G ar A lperovitz , Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam. The Use of the
Atomic Bomb and the American Confrontation with Soviet Power, New York, 1965 (trad,
it. L'asso nella manica. La diplomazia atomica americana: Potsdam e Hiroschima, Torino,
1966). Su una linea che nasce dentro il filone « revisionista » ma se ne distacca in molti
punti significativi anche di natura metodologica, cfr. G abriel K olko, The Politics of War.
Allied Diplomacy and War Crisis of 1943-1945, London, 1969 (ed. ingl. di The Politics of
■ War. The World und United States Foreign Policy, New York 1968). Per una bibliografia
più ampia, cfr. la rassegna citata di A ga R o ssi e la bibliografia in appendice al volume di
A lperovitz , L ’asso nella manica, cit. Fra le opere « revisioniste » può invece essere collocato
il volume dell’inglese J ames P. Warburg, The United States in the Post-War-World,
London, 1966.
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II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Qualche spunto può al contrario ricavarsi paradossalmente proprio dal filone « or­
todosso », almeno nella misura in cui fornisce i connotati soggettivi e l’ideologia
della classe dirigente americana4.
Ancor meno è dato conoscere della società sovietica negli anni di guerra, al di
fuori del classico, ma insufficiente, Stalin di Deutscher, e di qualche reportage
giornalistico occidentale, a tacere della mancanza di fonti dirette sovietiche sul­
l’argomento 5.
L ’avere accertato le carenze e le lacune profonde della letteratura disponibile ob­
bliga pertanto a proporre soltanto alcuni spunti e ipotesi di lavoro.
Per quanto riguarda l’Unione sovietica, ad eccezione della storiografia « ortodos­
sa », c’è concordanza nel sottolineare l’entità delle rovine apportate dalla guerra
all’economia e alla società sovietiche e quindi la debolezza estrema dell’apparato
produttivo uscito dalla guerra stessa. A ciò fa da contrappunto l’esaltazione del
« miracolo », non a caso sottovalutato dal filone « revisionista », compiuto dalla
società sovietica con l’intensificazione della produzione bellica mediante il trasfe­
rimento degli impianti industriali al di là degli Urali, nonostante la perdita enor­
me, in termini di materiali e di attrezzature industriali, rappresentata dalla con­
quista nazista dei territori occidentali dell’URSS. Un altro elemento largamente
sottolineato è lo sforzo di coesione nazionale esercitato da Stalin e dal gruppo diri­
gente sovietico per il successo, appunto, della « grande guerra patriottica ». È
nota l’accentuazione russa assunta da questa politica e, per altro verso, il gonfia­
mento del Partito comunista sovietico durante la guerra (attuato con la riduzio-*
*
Pensiamo in particolare modo al volume di Walt W. R ostow, The United States in
the World Arena, New York, 1960 (trad. it. Gli Stati Uniti nell'arena mondiale, Bologna,
1964), che riassume i risultati di un lavoro di équipe da lui diretto e offre una sistemazione
ufficiale e in qualche modo dignitosa, anche se entro un quadro fortemente apologetico,
delle tesi, assai più rozze e semplicistiche, apparse negli anni precedenti. Su una linea più
equilibrata cfr. H erbert G. F e is , Churchill, Roosevelt, Stalin. The World they waged and
the Peace they thought, Princeton, 1957; Idem, Between War and Peace. The Potsdam
Conference, Princeton. 1960.
I saac D eutscher , Stalin. A. Political Biography, London, 1949 (trad. it. Stalin, Mila­
no, 1951), Russia: what next?, New York, 1950. Idem, The Great contest, London, 1960.
Sono poi da vedere i due volumi di A lexander W erth , Russia at War, London, 1961 e
Russia: the Post-War Years, London, 1971 (trad, it., L'Unione sovietica nel dopoguerra.
1945-1948 Torino, 1973). Alquanto deludente sul periodo in questione il volume di A R oy
M edvedev, Let History judge, The Origins and Consequences of Stalinism, pubblicato in in­
glese dall’originale russo da Alfred A. Knopf, New York, 1971 (trad. it. Lo stalinismo, Milano,
1972), che contiene una critica dell’atteggiamento « duro » di Stalin nei confronti degli occiden­
tali^ negli anni 1947-48, ma offre qualche indicazione sulla stretta cui fu sottoposta la società
sovietica nel dopoguerra (incremento della quota di capitali trasferita forzatamente dall’agricol­
tura all’industria, blocco dell’inurbanamento e del lavoro artigianale nelle campagne, diminuzio­
ne dei salari reali della classe operaia). Sulla situazione economica dell’URSS si può ancora ve­
dere il volume di M aurice D obb, Storia dell’economia sovietica, Roma, 1957, mentre una utile
raccolta di dati è contenuta in N ikolai A. V orneslensky , L'economia dell’URSS durante
la seconda guerra mondiale, Mosca, 1948. Qualche spunto interessante in P ierre Sorlin ,
Breve storia della società sovietica, Bari, 1966. Sulla politica estera dell’URSS l’unica fonte
sovietica apparsa in occidente è Documents on Foreign Policy during the Great Patriotic War,
London, 1950, oltre al carteggio di Stalin con i suoi partners occidentali. Per una storia della
politica estera vedi, di parte occidentale, A dam B. U lam , Expansion and Coexistence: the
History of Soviet Foreign Policy, 1917-1967, New York, 1968 (trad. it. Storia della politica
estera sovietica, 1917-1967, Milano, 1970).
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
9
ne del periodo di « candidatura » e l’ingresso massiccio dei soldati al fronte);
mentre esecrazione e provvedimenti repressivi vengono riservati non solo alle
popolazioni o ai gruppi accusati di collaborazione con i nazisti, ma anche a coloro
che si sono arresi ai tedeschi. Dalla storiografia « revisionista » viene inoltre sot­
tolineato quali conseguenze tutto ciò abbia avuto al livello di indicazioni fornite
ai partiti comunisti, nel senso di agire come elemento di coesione nazionale e non
di rivoluzione sociale: di cui sono esempio non solo lo scioglimento dell’Interna­
zionale del maggio del 1943, ma anche e soprattutto le pressioni esercitate nei
confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, da una parte, e nei con­
fronti di Tito e di Mao dall’altra (per non parlare della vicenda greca).
Se tuttavia su questi elementi concorda una larga parte della produzione storio­
grafica esistente, essi vengono utilizzati a fini interpretativi assai diversi e spesso
radicalmente contrastanti. Per alcuni (è il caso soprattutto di Fleming, di Werth
e di una larga parte della storiografia « revisionista ») il fatto che l’Unione sovie­
tica fosse giunta stremata alla conclusione della guerra, l’accentuazione nazionale,
gli aspetti non « ideologici » della stessa politica estera sovietica non sono che
conferme dell’interesse sovietico a una « coesistenza pacifica » con il capitalismo
occidentale, a un lungo periodo di pace che avrebbe consentito al paese di risol­
levare le proprie condizioni materiali di esistenza (tanto più gravi in quanto nel
’46 l’URSS dovette lamentare i danni gravissimi di una carestia senza preceden­
ti). Di ciò costituirebbero una prova la disponibilità e l’interesse di Stalin a un
prestito americano di sei o sette miliardi di dollari, ancora nel ’46 e nel ’47, e la
stessa indecisione manifestata inizialmente a proposito del piano Marshall. In que­
sta prospettiva, l’« espansionismo » sovietico in Europa centrale viene giustifi­
cato, da una parte, come risultato necessario e inattaccabile del modo in cui ven­
ne combattuta la guerra (fu l’Unione sovietica a sopportare il peso principale del­
la pressione nazista e ad occupare da sola i territori in questione); dall’altra, si
mette in evidenza (si vedano in particolare le pagine di Kolko) il ritardo relativo
o comunque il carattere di ritorsione assunto dal processo di « sovietizzazione »
dei paesi dell’Oriente europeo (con l’unica eccezione della Polonia) e in ogni caso
se ne rintracciano le ragioni in motivi di « sicurezza » che non avrebbero neces­
sariamente comportato l’instaurazione di regimi socialisti, essendo sufficiente
l’esistenza di governi amici dell’Unione sovietica. Fleming elenca al riguardo le
condizioni che avrebbero consentito di mantenere nell’Europa orientale una serie
di Finlandie o di Cecoslovacchie pre-colpo di stato: provvedimenti economici in
grado di realizzare riforme agrarie e nazionalizzazioni onde consentire l’elimina­
zione delle vecchie caste reazionarie colpevoli di mire aggressive o comunque
suscettibili di essere utilizzate in funzione anti-sovietica; riduzione del potere del­
la Chiesa cattolica, potente baluardo di quelle stesse classi sociali; disponibilità
a un flusso commerciale orientatelo prevalentemente verso l’URSS.
Per altri, al contrario — e lasciamo da parte le interpretazioni da « crociata » fio­
rite in Occidente dopo lo scoppio della guerra fredda — , quegli stessi elementi
servono a proporre conclusioni di altro genere. Per Ulam, che pure non sottova­
luta le responsabilità occidentali nello scatenamento della guerra fredda, l’abban­
dono da parte sovietica del tono conciliante nei confronti degli Stati Uniti e l’ir­
rigidimento del controllo sui paesi dell’Europa orientale si spiegano prevalente­
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II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
mente con considerazioni di politica interna. La debolezza estrema del paese, i
sacrifici inenarrabili sopportati durante la guerra (20 milioni i morti, di cui solo
6 e mezzo rappresentati da soldati, condizioni di vita drammatiche) che prolun­
gavano, accentuandole, le conseguenze dei piani quinquennali prebellici, le ten­
denze centrifughe manifestatesi durante la guerra in alcune nazionalità di confine,
lo scontento delle masse contadine rappresentavano un potenziale di tensione so­
ciale che non poteva consentire una liberalizzazione del regime. Al contrario, nuo­
vi sacrifici dovevano essere richiesti al popolo sovietico, come provò il nuovo
piano quinquennale varato nel ’46 — Dobb afferma che in esso venne confermata
la prevalenza data allo sviluppo dell’industria pesante e in generale dei beni stru­
mentali rispetto alle previsioni di incremento della produzione di beni di consu­
mo o agricoli — e, di conseguenza, un maggiore controllo doveva essere eserci­
tato a livello politico e amministrativo: in questo quadro si spiegherebbe anche
la trasformazione dei paesi dell’Europa orientale in paesi « satelliti ». Insomma,
per l’URSS queste esigenze interne non sarebbero state compatibili con l’instau­
razione di stretti rapporti con gli occidentali: il resto del mondo doveva al con­
trario essere presentato come ostile, doveva essere creata un’atmosfera di peri­
colo e di vigilanza.
Gambino6 accoglie queste considerazioni, sottolineando, con riferimento più spe­
cifico al problema della « satellizzazione », il mancato appoggio di massa ai gover­
ni dei paesi occupati (ma non considera il caso della Cecoslovacchia) e il carattere
stesso dell’occupazione dell’Armata Rossa, che, a differenza degli eserciti angloamericani, il cui compito era semplicemente di confermare i regimi sociali e po­
litici esistenti, doveva procedere a modifiche profonde del tessuto economico e
sociale, elementi, questi, che avrebbero comportato un controllo sempre più stret­
to da parte sovietica. Infine Salisbury, nella postfazione al volume di Werth, sot­
tolinea un elemento che meriterebbe attenta considerazione: e cioè che fu pro­
prio la spinta della guerra fredda a consentire all’Unione sovietica di fare progres­
si tanto rapidi nel campo industriale e tecnologico. Questa osservazione può es­
sere completata, per una migliore comprensione della logica con cui si mosse
l’URSS, sottolineando il carattere di continuità delle scelte sovietiche in materia
di sviluppo economico e sociale, che fanno ritenere poco probabile, senza peral­
tro sottovalutare gli aspetti più strettamente politici, una svolta in questa dire­
zione, anche in presenza di un atteggiamento diverso della controparte occiden­
tale. Ma, a questo punto, il dibattito storiografico si chiude proprio quando do­
vrebbe incominciare. Che rapporto esiste, infatti, tra queste tendenze di lungo
periodo e le scelte concrete della politica estera sovietica, la disponibilità in più
occasioni manifestata da Stalin di un rapporto non conflittuale con gli Stati Uniti
e viceversa le accentuazioni polemiche e dure rilevabili a partire dal 1943? In
che misura la coscienza della debolezza relativa del potenziale industriale e mili­
tare sovietico in relazione a quello americano (tanto più dopo lo scoppio della
bomba atomica) agì su quelle stesse scelte? Non sembrano condurre nella giusta
direzione quelle interpretazioni che insistono sugli elementi di continuità delle
6
Antonio G ambino, Le conseguenze della seconda guerra mondiale. L ’Europa da Yalta a
Praga, Bari, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
11
tendenze espansionistiche dallo stato russo a quello sovietico, non foss’altro che
per i mutamenti qualitativi avvenuti nella società sovietica nel senso del passag­
gio da un paese agricolo e feudale dotato di una modesta base industriale al paese
industrialmente avanzato dell’epoca della seconda guerra mondiale e del secondo
dopoguerra. Qualche indicazione feconda può al contrario venire dal problema del­
la valutazione della forza deH’imperialismo americano. È certamente vero che,
almeno a quanto risulta dalla documentazione esistente, Stalin dette prova in nu­
merose occasioni di puntare su un accordo di lungo periodo con Timperialismo
americano e mostrò la sua disponibilità a una cooperazione economica nel dopo­
guerra, compresa la possibilità di utilizzare consistenti prestiti americani: ba­
sti ricordare la dichiarazione del novembre 1944, nella quale Stalin, dopo aver
affermato il carattere non imperialistico della seconda guerra mondiale, os­
servò come « l’alleanza tra URSS, Gran Bretagna e Stati Uniti fosse fondata non
su considerazioni casuali, di breve durata, ma su interessi vitali e durevoli ». Que­
sto atteggiamento può essere interpretato come un riconoscimento obiettivo dei
rapporti di forza, della debolezza sovietica in rapporto alla forza crescente degli
Stati Uniti. Ma non deve essere dimenticato un elemento « ideologico » e pur di
grande rilievo politico complessivo. La valutazione obiettiva della forza del ca­
pitalismo americano si accompagna sempre ad una sopravvalutazione delle con­
traddizioni di cui esso era portatore. La tradizione teorica della Terza Interna­
zionale agisce ancora nel senso di fornire un’immagine del capitalismo mondiale
fermo al periodo pre-1929, senza un’analisi dei mutamenti intervenuti nella strut­
tura di quello trainante, appunto quello americano, nel corso degli anni Trenta.
Stalin appare convinto che l’espansione senza precedenti da esso conosciuta nel
corso della guerra sia destinata a lasciare il passo ad una crisi grave nel dopoguer­
ra. Vanno in questo senso l’insistenza con la quale si informa, presso giornalisti
americani, delle previsioni di crisi formulate negli stessi Stati Uniti; e le conclu­
sioni cui giunge un congresso di economisti sovietici subito dopo la fine delle
ostilità.
Si ritorna così all’osservazione iniziale di Manacorda; cui si deve aggiungere che
a questa valutazione si accompagna una coscienza, rafforzata dalle prove sostenute
durante la guerra, della superiorità, nella prospettiva storica, del sistema sovie­
tico. Questo ribadisce l’interesse sovietico per un lungo periodo di pace, ma com­
porta altresì l’esistenza di condizioni irrinunciabili perché la « coesistenza paci­
fica » possa svilupparsi. In questo contesto vanno recuperate le osservazioni di
Ulam e di Salisbury e della stessa storiografia « revisionista » sulle esigenze di
« sicurezza » da cui è dettata la politica sovietica nei confronti dei paesi dell’Est
europeo. L ’URSS poteva anche accettare forme di coperazione con l’Occidente e
accendere debiti con gli Stati Uniti; ma a patto che venisse modificato profonda­
mente il carattere dei regimi sociali e politici di quell’area geografica e i loro mer­
cati non fossero aperti « con uguali opportunità » (sono non a caso le richieste
americane del 1945-1947) alla penetrazione dei capitali occidentali. Non va infine
dimenticato, per una migliore comprensione del carattere nuovo dello sfruttamen­
to sovietico delle risorse economiche dei paesi « satelliti », la punta duramente
repressiva nei confronti dei comunisti nazionali, che caratterizza l’atteggiamento
dell’URSS ancora durante la guerra (da Tito a Mao).
12
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Se è giusta pertanto la svalutazione, operata dalla storiografia « revisionista »
delle componenti « ideologiche » (nel senso leninista, dello sfruttamento delle
contraddizioni imperialistiche a vantaggio della rivoluzione mondiale) nella rea­
lizzazione della politica estera sovietica, e l’insistenza sul fatto che l’URSS si muo­
ve stimolata da motivazioni di potenza, non può essere esclusa l’analisi delle ca­
ratteristiche e delle cause di questa politica, che costituiscono un fatto qualita­
tivamente nuovo della storia dell’URSS e si realizza e si sviluppa proprio nel qua­
dro della guerra fredda.
Un riscontro della validità di questo tipo di ipotesi e parziali conclusioni è costi­
tuito dall’esame della politica americana. Abbiamo già accennato alle caratteristi­
che e ai limiti della storiografia esistente. Essa è una storiografia prevalentemente
politica, con motivazioni ideologiche fin troppo scoperte, che svalutano anche alcu­
ne importanti acquisizioni sul terreno della ricostruzione analitica presenti quasi
esclusivamente nel filone « revisionista ». L ’interpretazione « ortodossa », nata
nel clima della guerra fredda, pure nel quadro di una valutazione apologetica de­
gli scopi della politica estera americana, appunta la sua critica nei confronti degli
errori e delle illusioni che sarebbero state nutrite da Roosevelt verso la possibili­
tà di accordo con Stalin, anzi col « mondo comunista ». La presidenza Truman,
pur nel quadro di una sostanziale continuità, avrebbe preso atto dell’ostilità cre­
scente e dell’aggressività dei sovietici e sarebbe stata costretta a rispondere con
fermezza per difendere le sorti del mondo libero contro l’espansione comunista. La
storiografia revisionista nasce invece, benché possa vantare qualche primogenitura
in anni precedenti, nel periodo in cui il « disgelo » sovietico e la « nuova fron­
tiera » kennediana si incontrano per realizzare, sulla base dell’equilibrio nucleare,
una coesistenza pacifica. Ed è esattamente da questa nuova fase attraversata dai
rapporti sovietico-americani, considerati esclusivamente nei termini di un accordo
che allontana i pericoli di guerra ma non negli obiettivi di potenza e di controllo
bipartito del mondo che lo rendono possibile, che nasce l’impulso a ricercare se
per caso un’occasione del genere non fosse stata perduta all’indomani della secon­
da guerra mondiale e quindi a rivedere opinioni e giudizi consolidati. Non a caso,
questa storiografia è molto attenta ai problemi dei « tempi », delle « origini »
della guerra fredda e tende a spezzare la continuità delle posizioni americane e
sovietiche, viste quasi esclusivamente nelle loro manifestazioni politiche esterne.
Il cavallo di battaglia della storiografia revisionista è, con qualche oscillazione di
giudizio, la tesi secondo cui la morte di Roosevelt e l’ascesa alla presidenza del suo
vice Truman rappresenterebbero un momento di svolta nella politica americana,
aggressiva e inutilmente dura quanto quella di Roosevelt era stata meglio disposta
a intendere le ragioni della controparte sovietica. I punti a favore di questa inter­
pretazione sono rappresentati dalla contestazione del giudizio fino allora preva­
lente, secondo cui le concessioni degli alleati occidentali, e in particolare di Roose­
velt, al partner sovietico sarebbero stati degli errori e che con una maggiore fer­
mezza sarebbe stato possibile evitare la conquista sovietica dell’Europa orientale.
I « revisionisti » hanno messo al contrario giustamente in luce come l’ipotesi di
Churchill di puntare sul « ventre molle » dell’Europa per contenere e condiziona­
re l’avanzata sovietica verso l’Occidente fosse irrealizzabile e che la situazione de­
terminatasi in quell’area geografica era condizionata da esigenze di natura quasi e­
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
13
sclusivamente militare, derivanti dalla strategia complessiva americana, imposta da
considerazioni di politica interna e dal desiderio di ridurre al minimo lo spreco
di vite umane americane. Se mai, proprio il ritardo con cui gli Alleati si decisero
ad aprire il secondo fronte (richiesto insistentemente dai sovietici fin dal 1942)
favorì il realizzarsi di una situazione di fatto che non poteva non sanzionare il
predominio sovietico nella zona da essi liberata. La netta cesura posta tra presi­
denza Roosevelt e presidenza Truman — che secondo Fleming si sarebbe mani­
festata subito, il 12 aprile 1945, secondo altri nel periodo intercorso tra Yalta e
Potsdam, secondo altri ancora (è il caso di Alperovitz) subito dopo lo scoppio
della prima bomba atomica — appare invece assai poco convincente. Se è forse
troppo semplicistico il giudizio di Gambino secondo il quale la politica americana
cambiò nella forma ma non nella sostanza, non è possibile accettare una interpre­
tazione che svaluta tutti gli elementi di continuità della posizione americana e ri­
duce a errori di segno contrario di quelli messi in luce dall’interpretazione orto­
dossa il contenuto della politica di Truman. « Roosevelt era convinto che nel do­
poguerra Stalin avrebbe messo sopra ogni altra cosa l’“ interesse nazionale russo” ,
— osserva Werth, sintetizzando il punto di vista revisionista — mentre Truman
basò tutta la sua politica sul mito antiquato del babau comunista, sostituendo co­
sì alla politica rooseveltiana di una pacifica coesistenza con il mondo socialista,
senza dubbio difficile ma perfettamente possibile, la crociata contro il comuniSmo
mondiale ». Abbiamo già osservato che l’« interesse nazionale » della Russia non
era necessariamente compatibile con un’ipotesi di coesistenza pacifica, mentre il
carattere ideologico attribuito all’impostazione di Truman non tiene in alcun con­
to le motivazioni profonde e di più lungo periodo della politica estera e dell’impe­
rialismo americano. Con Truman cambiò il tono della politica americana; ma
sembra più giusto sottolineare, con Ulam, che, almeno fino al 1947, Truman fu
più incerto che aggressivo.
Un giudizio più interessante e maturo, concepito nell’ambito del filone « revisio­
nista » ma che se ne distacca proprio su questo punto decisivo, è quello di Gabriel
Kolko. Come è stato già osservato, Kolko è per la continuità della politica ameri­
cana; per lui, inoltre, la coalizione antifascista era una necessità imposta dall’ag­
gressione tedesca ed era destinata inevitabilmente a rompersi dopo il consegui­
mento del suo obiettivo, tanto più che essa fu l’eccezione nei rapporti tra l’URSS
e il mondo occidentale nell’intero periodo che va dal 1917 al dopoguerra. Non
senza forzature e qualche unilateralità di giudizio, il lavoro di Kolko delinea anali­
ticamente il quadro dei rapporti interalleati nel periodo 1943-1945 su tutto lo
scacchiere mondiale. Il tributo al filone revisionista è visibile nella svalutazione
delle motivazioni ideologiche della politica estera sovietica, che giunge ad attri­
buire il crollo dei regimi reazionari nell’Est Europa esclusivamente al fallimento
storico delle vecchie classi dirigenti e del capitalismo, nell’osservazione che, alme­
no fino all’autunno del ’44, gli aiuti militari, persino quelli proposti da Churchill,
facevano aggio, per l’Unione sovietica, sui vantaggi politici di lungo termine, nel­
la sottolineatura dell’appoggio, fornito dagli USA, alle classi dirigenti reaziona­
rie nei paesi dell’Europa orientale in funzione antisovietica, e ciò però ben prima
della morte di Roosevelt. Ma la novità sostanziale del saggio di Kolko consiste
nel considerare le motivazioni economiche prevalenti e anzi condizionanti quelle
politiche nelle scelte della politica estera americana. Secondo Kolko, per quanto
14
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
gli obiettivi politici fossero incerti o non ancora compiutamente definiti, quelli
economici erano invece assai chiari e precisi, a partire almeno dal 1943. La stessa
tattica dilatoria adottata nei confronti della definizione delle frontiere e delle con­
quiste territoriali in Europa, insomma l’opposizione americana alle « sfere d’in­
fluenza » così come erano concepite dagli inglesi e, in via subordinata, dai sovie­
tici, era giustificata dal proposito, comune a Roosevelt e a Truman, di aspettare
la fine della guerra per poter impiegare il potenziale economico in espansione de­
gli Stati Uniti nei confronti degli alleati esausti e del resto del mondo. La pretesa
di dominio mondiale, e cioè del controllo di un mercato unico mondiale liberato
dagli impacci delle politiche protezionistiche anche a livello dello sfruttamento
delle materie prime, doveva però rivelarsi un compito troppo grande per il capi­
talismo americano, troppo sicuro della sua forza e incapace di prendere coscienza
della crisi apertasi nell’intero mondo capitalistico e dell’ascesa di forze sociali e
politiche decise a trasformare (piuttosto contro che a vantaggio dell’URSS) il vec­
chio ordine. Sicché, con un certo ritardo, l’imperialismo americano prende co­
scienza della necessità di intervenire a salvare gli interessi generali del sistema,
impegnandosi nella « ricostruzione » dell’Europa occidentale.
La documentazione offerta da Kolko sulla coerenza e concordanza degli obiettivi
economici enunciati da fonti ufficiali americane a partire dal 1943 è senza dubbio
assai consistente, e tende a dimostrare come non si trattasse solo di affermazioni
teorico-ideologiche ma di programmi precisi. Nei suoi termini complessivi, l’obiet­
tivo della politica americana era l’espansione del commercio mondiale ed il suo
supporto ideologico il giudizio (esplicito nella visione del segretario di stato Cor­
dell Hull e del suo successore Stettinius) che la crisi e le guerre erano state pro­
vocate dall’acceso protezionismo prebellico7. « Una grande espansione nel volu­
me del commercio mondiale dopo la guerra — affermava un rapporto del dicem­
bre 1943 dello Special Committes on the Relaxation of Trade Barriers, che di­
pendeva dal Dipartimento di stato — sarà essenziale per il conseguimento di una
occupazione piena ed effettiva negli Stati Uniti e altrove, per il mantenimento del­
l’iniziativa privata e il successo di un sistema di sicurezza internazionale per pre­
venire guerre future ». Questa esigenza non nasceva solo, secondo Kolko, dal ti­
more di una depressione postbellica negli USA, che andava fronteggiata con la ri­
cerca di nuovi mercati all’estero e l’esportazione di capitali di investimento.
L ’esportazione di beni e di capitali doveva avere come contropartita il riforni­
mento di materie prime indispensabili all’economia americana, ciò che provocò
una ridefinizione della politica dell’Open Door, nel senso che « al capitale o alle
imprese di tutti i paesi dovevano essere concesse eguali opportunità (anche rispet­
to al capitale e alle imprese del paese in cui la risorsa esiste) di partecipare al
possesso e allo sviluppo delle risorse naturali ».
Senza volere sottovalutare il peso della documentazione fornita, sembra tuttavia
che Kolko conceda insieme troppo e troppo poco agli obiettivi del capitalismo
7
Sull’espansione del commercio mondiale e la sua regolamentazione cfr. E dward S. Ma­
Agreements, New York, 1946 e
Trends in International Trade. A
Report by a Panel of Experts, Geneve, 1958.
son, Controlling World Trade. Cartels and Commodity
G eneral A greement on tariffs and trade (GATT),
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
15
americano. Intanto, il timore di una crisi postbellica appare in contraddizione con
l’ostentata sicurezza che l’autore gli attribuisce. Sembra d’altra parte assai poco
credibile che un’ideologia vecchiotta e sommaria come quella di Hull o di altri
burocrati e funzionari potesse davvero coincidere con gli obiettivi dell’intero siste­
ma capitalistico americano, dopo l’esperienza del New Deal e il salto qualitativo
da esso compiuto attraverso quella esperienza. Contrasti di linea e di indirizzi
dovettero senz’altro manifestarsi entro i settori capitalistici americani: ma di que­
sto Kolko non ci informa, perché tutta la sua analisi è basata su dichiarazioni e
rapporti di funzionari o politici americani e non offre alcun elemento per valutare
le trasformazioni subite dall’industria e dall’apparato statale durante la guerra e
dalle contraddizioni interne del blocco sociale dominante. Per altro verso, l’imma­
gine che ci restituisce del capitalismo americano è troppo riduttiva e non tiene
conto del ruolo nuovo che gli Stati Uniti si apprestano ad assumere nel contesto
internazionale, di cui la politica di sostegno alla ricostruzione economica in Euro­
pa non è un momento di ripiego, ma è condizione per una successiva espansione.
Inoltre Kolko sottovaluta alcuni aspetti che gli storiografici apologeti hanno mes­
so in luce. Se si prende il volume di Rostow, il teorico degli stadi di sviluppo, si
trovano alcuni spunti di grande interesse per la comprensione della ideologia del­
la classe dominante USA e delle acquisizioni permanenti della struttura di pote­
re americana a seguito della guerra. Rostow sostiene che, nella conduzione della
guerra, « le considerazioni militari hanno la prevalenza nell’indirizzo di politica
estera »: tesi che, se non può essere accettata integralmente, rappresenta un cor­
rettivo delle ipotesi di Kolko. Soprattutto se si considera il ruolo sempre più im­
portante che il Pentagono viene ad assumere nella struttura decisionale del gover­
no americano. Un altro elemento sul quale Rostow porta l’attenzione è il legame
sempre più stretto che grazie alla guerra si stabilisce tra « tecniche militari e
scienza moderna ». « In uno sforzo continuo, l’impegno della nazione era diretto
non solo a creare nuove armi ma anche a conservare e a sviluppare le fonti da
cui provenivano. La scienza e gli scienziati — e un ordinamento sociale e un siste­
ma di educazione capace di produrli — assunsero così negli anni postbellici un
nuovo significato per la sicurezza nazionale ». Detto in altri termini, durante la
guerra, venne realizzata una collaborazione assai stretta e solidale tra militari,
scienziati e tecnici, senza contare — e l’omissione di Rostow è significativa —
l’integrazione sempre più evidente tra stato e grande industria nella politica degli
armamenti. Questo elemento, che è completamente trascurato da Kolko, serve
forse a spiegare l’interesse che ambienti assai influenti, come tutte le forze inte­
ressate alla politica degli armamenti e in particolare all’energia atomica, portano
allo scatenamento della guerra fredda e non di quella calda. Per concludere su que­
sto punto, si deve lamentare la carenza di analisi e di informazioni sulle trasfor­
mazioni subite dalla società americana nel corso della guerra, che servirebbero a
definire meglio gli obiettivi economici, che non possono essere indicati solo nei
termini proposti da Kolko. Sembra attendibile, al contrario, sul problema cruciale
dell’Europa orientale, la tesi dello stesso autore secondo il quale l’atteggiamento
americano era motivato dall’interesse economico a sfruttare i mercati est-europei
e quindi dall’esigenza politica di mantenere in piedi regimi sociali in grado di ga­
rantire la « libera concorrenza »: esattamente la condizione che, come abbiamo
16
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
visto, l’Unione sovietica non poteva accettare. Se si accoglie la definizione che uno
dei revisionisti, Warburg, ha dato della politica di Roosevelt, secondo cui alla
posizione di predominio sovietico in Europa orientale « avrebbero fatto da con­
trappeso la grave debolezza economica risultante dalla guerra e la conseguente
necessità di aiuti economici che soltanto gli Stati Uniti erano in condizioni di
fornire », ci si rende immediatamente conto, come osserva Werth, che gli aiuti
avevano una funzione di controllo sulla stessa politica sovietica nell’Europa orien­
tale e che pertanto — ci sembra di poter concludere — Truman si trovò nella
condizione di continuare una politica nelle sue linee essenziali già avviata. Se a
questi contrasti relativi al controllo dei mercati si aggiungono gli interessi pa­
ralleli che entrambi i paesi vedono esaltati dalla politica della guerra fredda, il
dibattito sulle sue origini può essere spostato agevolmente dall’analisi delle re­
sponsabilità prevalenti dell’uno e dell’altro paese e ricollocato su un terreno og­
gettivo.
Gli effetti sulla nuova struttura dei rapporti internazionali quale si viene deli­
neando nel corso della guerra e nell’immediato dopoguerra non mancano di
agire sull’Italia. Il processo attraverso il quale il predominio americano nell’Eu­
ropa occidentale si afferma incontrastato mette in luce l’esistenza di contrasti
interimperialistici esemplificati dai rapporti con la Gran Bretagna8. Sono due
impostazioni strategiche assai diverse, cementate, in negativo, dal proposito co­
mune di contenere l’avanzata delle forze di sinistra. Torna qui assai utile rifarsi
alla impostazione di Kolko, che su questo problema — è stato già osservato
dalla Aga Rossi — porta un contributo importante e originale. La strategia in­
glese è semplice e chiara, definita anche nei suoi aspetti politici: una sorta di
dottrina Monroe europea in funzione antisovietica ma anche di autonomia dagli
Stati Uniti. Vanno in questo senso, ad esempio, i tentativi di intesa con la Fran­
cia e la politica mediterranea e balcanica. Gli Stati Uniti non definiscono chiara­
mente i termini politici del loro intervento, ma sono molto espliciti nel sottolinea­
re il loro interesse economico per un’Europa aperta agli scambi commerciali con
gli Stati Uniti e perciò non rigidamente inquadrata in uno schieramento dominato
dall’Inghilterra e capace di autonoma iniziativa. La conquista dei mercati europei
e mediterranei non sembra comportare per gli Stati Uniti, come invece avviene
per l’Inghilterra, l’esistenza di regimi politici necessariamente spostati a destra,
anche se il loro atteggiamento, che è spesso dettato da considerazioni empiriche
contingenti, va nel senso di non alterare, nella misura del possibile, lo statu quo.
Nel caso specifico dell’Italia, il contrasto anglo-americano — che è stato più volte
esaminato e descritto, anche da chi scrive — appare con particolare evidenza; ed
è soltanto con la fine del ’44 che comincia a profilarsi l’egemonia americana ri­
spetto a quella inglese. Il ritardo con cui, da parte americana, si definisce una
politica italiana nonostante il peso del condizionamento britannico sembra deli­
neare un quadro assai meno chiuso e determinato di quello descritto dalla sto-
!
Sui rapporti USA-Gran Bretagna nel campo economico, cfr. R ichard N. G ardner,
Sterling. Dollar Diplomacy. Anglo-American Collaboration in the Reconstruction of Multilate­
ral Trade, Oxford, 1956. V. anche il recente F ranco C atalano, Europa e Stati Uniti negli
anni della guerra fredda. Economia e politica. 1944-1956, Milano, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
17
riografia esistente o dalla pubblicistica politica delle forze di sinistra. Ciò vale
in particolare per il terreno delle istituzioni e del nuovo assetto democratico che
non appare condizionato nella misura che, ad esempio, lo stesso Kolko sembra
proporre9.
Seguire l’evoluzione della politica alleata nei confronti dell’Italia comporta in
primo luogo la presa di coscienza che l’integrazione economica italiana nel nuovo
mercato internazionale avviene soltanto con il piano Marshall e che i termini di
questa integrazione sono piuttosto definiti dalle prospettive del blocco capitali­
stico interno e dalla sua capacità di egemonia, con l’ideologia liberista, su tutte
le forze politiche: ciò significa assegnare un margine relativamente ampio di au­
tonomia ai fattori interni il cui definitivo assestarsi non appare rigidamente de­
terminato prima dell’avvio del piano ERP. È già noto, peraltro, a questo propo­
sito come si siano verificati momenti di frizione, per quanto secondari, tra diri­
genti italiani e statunitensi circa le scelte di politica economica. Sul terreno so­
ciale e politico, un tema di grande rilievo è il problema della scelta, da parte de­
gli americani, degli interlocutori interni. In particolare, sarebbe di grande inte­
resse uno studio dei rapporti con la Democrazia cristiana, che nel corso del pro­
cesso sostituisce la classe dirigente prefascista come interlocutore privilegiato. La
premessa di questo cambiamento va evidentemente ricercata nei rapporti assai
stretti stabiliti con il Vaticano; e il problema non può essere liquidato con l’os­
servazione che gli americani si limitarono a scegliere le forze che trovarono.
Un terzo problema da affrontare è quello della coscienza che le forze politiche
interne ebbero del contesto internazionale. Per quanto riguarda le forze conserva­
trici e moderate, la stessa produzione esistente e il tipo di dibattito politico sui
temi di politica estera (quasi esclusivamente centrato sulle quesioni del trattato
di pace e dei problemi territoriali) lasciano chiaramente comprendere la scarsa
consapevolezza complessiva delle novità della situazione internazionale postbelli­
ca ed evidenziano la scarsa fecondità di una ricerca in quella direzione “ .
Nel caso delle forze di sinistra, che pure appaiono prigioniere del terreno di di­
scussione imposto dai loro avversari, sembra di grande rilievo un elemento che
solo in apparenza è ideologico, e che invece agisce al livello sociale e politico.
È la continuità del giudizio dato dalla Terza Internazionale sul capitalismo mon­
diale, sul suo crollo prevedibile e quindi in ultima istanza sulla sua sostanziale
debolezza. In questo senso si può anche recuperare l’abusato discorso del « con­
dizionamento » esercitato dall’URSS sulle scelte del movimento operaio italiano.
Esso agisce in un duplice senso: da una parte come elemento intrinseco alla stra-
’
Cfr. N icola G allerano, II contributo degli Alleati alla ricostituzione dello Stato
italiano, in Italia contemporanea, n. 114, 1974. Un contributo assai importante alla migliore
definizione della politica anglo-americana nei confronti dell’Italia, è naturalmente costituito
dalla disponibilità- di raccolta di fonti, come le Foreign Relations of United States per gli
anni in questione e il volume di C oles -Weinberg , Civil Affairs: Soldiers become Governors,
Washington D.C., 1164.
10
N orman K ogan, La politica estera italiana, Milano, 1955; A dstans , Alcide De Ga­
speri nella politica estera italiana. 1944-1953, Milano, 1953; C arlo S forza, Cinque anni a
Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, 1952.
18
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
tegia complessiva delle sinistre nel senso di restringerne l’autonomia e di ridurne
i propositi di modifica di un sistema destinato rapidamente a soccombere; dal­
l’altro, come coscienza diffusa e di massa di una tattica di attesa di liberazione
dall’esterno, dal paese del socialismo, che troverà più tardi espressione nelle lotte
di piazza contro il Patto atlantico e per la pace. A patto naturalmente, e in que­
sto senso si può tornare alla citazione di partenza del Manacorda, che questo giu­
dizio non venga inteso come semplice indicazione di un « errore » di valutazione,
ma come una posizione intrinsecamente connessa alla strategia delle sinistre da una
parte e alla stessa coscienza antagonista delle masse dall’altra.
I partiti politici
Nel panorama della storiografia dedicata all’Italia del secondo dopoguerra gli
studi sulla vita politica occupano uno spazio di tutto rispetto, in armonia, del
resto, con tendenze più generali della storiografia e della cultura italiana che solo
negli ultimi anni sembrano accennare a un mutamento di tendenza.
L ’aspetto più rilevante di questo indirizzo generalizzato è tuttavia non tanto
quello della prevalenza quantitativa, rispetto ad altri tipi di studi e di ricerche,
quanto piuttosto la tendenza a presentare la storia politica dell’Italia come ambito
esclusivo e terreno d’indagine privilegiato, che mette in secondo piano ogni rap­
porto col quadro sociale e complessivo del paese. La separazione tra il « politico »
e il « sociale », tra « paese legale » e « paese reale », è ancor prima che ipotesi di
ricerca o motivo di polemica politica (piuttosto infido per le facili connessioni
con proteste di sapore qualunquistico) un dato caratterizzante le analisi storiche
oggi prevalenti. Ben pochi studiosi hanno avuto sufficiente spirito critico per
partire dalla considerazione che « la nostra democrazia si riassume in una specie
di potere delegato, come soleva dire De Gasperi, esercitato da ristrettissimi grup­
pi politici » \
Non si tratta di contrapporre in modo indiscriminato quella che, in termini pla­
teali, viene definita la partitocrazia alle esigenze e alle opinioni di masse indistin­
te di cittadini. Si tratta piuttosto di allargare il quadro in cui l’azione dei partiti
e delle istituzioni va collocata in modo da cogliere il rapporto che lega le lotte e
le soluzioni politiche al processo reale che contraddistingue la società italiana. E
ciò è tanto più importante per il periodo dell’immediato dopoguerra in quanto
dal 1945 al 1948 la verifica degli esiti della lotta politica è incompleta, anche nei
termini consueti delle democrazie parlamentari per le limitazioni introdotte nei
poteri dell’Assemblea Costituente in merito all’esercizio della funzione legisla­
tiva e ai rapporti col governo. Una simile assenza priva lo studioso di punti di
riferimento utili per misurare i modi e i termini dell’esercizio della delega che i
partiti hanno assunto. E se ciò non diminuisce il valore di analisi — come quel­
le di Gelso Ghini — sul comportamento del corpo elettorale, lascia tuttavia evi-
C elso G hini, Le elezioni in Italia (1946-1968), Milano, 1968, p. 9.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
19
denti lacune per chi voglia seguire in concreto l’articolarsi della struttura orga­
nizzativa dei partiti di massa, del processo decisionale, e dei « tipi di rapporti che
intercorrono fra partiti, gruppi d’interesse e pubblica amministrazione e le con­
seguenze di essi » 2.
Una risposta almeno parziale su questi temi parrebbe venire, ancor più che dalla
storiografia di origine direttamente politica, dalla letteratura che si ispira a ri­
cerche sociologiche e a studi politologici. Sono questi i settori di studio nei quali
pare essere stato maggiormente valorizzato il significato di lungo periodo del
1945-48, come momento della formazione di un sistema politico assestatosi in
termini rimasti sostanzialmente immutati attraverso tutte le successive vicende.
La restante letteratura, al contrario, sembra essersi confinata al limitato e diretto
riferimento alla stretta cronaca politica e alle analisi di responsabilità, personali o
di gruppo, a corto raggio. Simile impostazione dipende in larga misura dall’as­
soluta prevalenza del materiale memorialistico o comunque legato ai termini della
polemica politica immediata. Sarebbe in ogni caso inutile insistere su questi
aspetti se non si sottolineasse nello stesso tempo come proprio da tale stretto
legame storiografia-politica possano emergere valide indicazioni per individuare
le origini e i caratteri ideologico-politici delle interpretazioni via via emergenti;
in modo tale che è questa letteratura quella che può offrire, malgrado le carenze
fin troppo facilmente rilevabili, le più solide e stimolanti indicazioni di ricerca.
Sotto la patina un po’ ostentata di oggettività, la letteratura sociologica e politologica (non è sempre facile stabilire tra i due generi confini precisi)34offre invece
allo studioso di storia scarsi spunti ai fini dell’approfondimento critico della vita
politica italiana soprattutto per il carattere mistificante, che in essa assume la
constatazione del costituirsi, dal 1947 in poi, di un’« area democratica » che esclu­
de il Partito comunista \
Va tenuto presente che in genere queste ricerche hanno come centro di interesse
gli anni ’50 e ’60 e quindi il riferimento al periodo immediatamente postbellico
è o frettoloso e superficiale o palesemente strumentale alle tesi elaborate per gli
anni successivi. Pur con le cautele che da questa limitazione cronologica possono
venire è necessario osservare che sul piano metodologico, malgrado il disegno di
ampio respiro interpretativo al quale vorrebbe ispirarsi, questa letteratura appare
soffocata dalle preoccupazioni di definire tipologie o schemi teorici interpretativi
che non di rado risultano indifferenti alla verifica degli stessi dati storici su cui
sono impostati. Il dissenso metodologico sotteso a simili limitate osservazioni è
probabilmente più ampio di quanto sia possibile esplicitare nel corso di questa
2
cfr. A lessandro P izzorno, Elementi di uno schema teorico con riferimento ai partiti
politici in Italia, in Partiti e partecipazione politica in Italia. Studi e ricerche di sociolo­
gia politica, a c. di G . S iv ini , Milano, 1972, p. 6.
3
Cfr. le osservazioni di G iordano S ivini nell 'Introduzione a Sociologia dei partiti politici,
Bologna, 1971.
4
Sulle implicazioni politiche di questa constatazione ha richiamato l’attenzione anche
S idney G. T arrow in Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1973, p. 73,
riferendosi in particolare a G iovanni S artori, European Political Parties: the Case of Pola­
rized Pluralism, in Political Parties and Political Development, a c. di J. L a P alombara e M.
Wiener , Princeton, 1966.
20
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
rassegna; né ci aiuta molto a chiarirne i termini lo stato del dibattito sui rapporti
fra sociologia e storia, essendosi limitati i cultori delle due discipline a un recipro­
co e concorde disinteresse. Le questioni di fondo non possono quindi che rima­
nere impregiudicate. Ma, per quanto riguarda i problemi che stanno al centro dei
nostri interessi, occorre sottolineare che nessuna delle definizioni del sistema po­
litico italiano dal dopoguerra ad oggi sembra utilizzabile ai fini di un approfondi­
mento dei termini in cui il sistema stesso è venuto formandosi. Anche se non si
può chiedere a un tale tipo di studi l’impianto analitico necessario alla ricerca
storica, è quanto meno singolare che tutti i tentativi di definizione del sistema
politico italiano partano da un quadro di riferimento all’interno del quale il mo­
mento della mediazione politica assume un rilievo assolutamente prevalente5.
Nasce di qui la difficoltà ad utilizzare sul piano della ricostruzione storica non solo
le indicazioni e suggestioni di ricerca che escono dagli studi sul sistema politico,
ma anche gli stessi elementi conoscitivi che alcune ricerche sociologiche dirette
riescono ad offrire. Ci riferiamo in particolare alle indagini di sociologia politica
promosse dall’Istituto Carlo Cattaneo, i cui risultati, per quanto di notevole in­
teresse sul piano del costume politico e dello studio dei rapporti interni, si rive­
lano poi assolutamente inutilizzabili per l’impossibilità di circostanziarne il valore
e riportarli in un contesto storico determinato67. Analogo il discorso da fare per
alcuni dei saggi di ricerca segnalati e in parte riportati da Farneti nella sua rac­
colta antologica, pur più attenti alla determinazione dell’ambito in cui la ricerca
viene svolta. Nel caso di questi studi (di Bagnasco, di Bettin, di Graziano) il pro­
blema finisce solo per spostarsi: se possiamo collocare in un contesto preciso ma
circoscritto i risultati, non possiamo poi collocare l’area-campione nel contesto
del paese; e risulta quindi impossibile determinarne il valore1.
Ai limiti rilevabili nelle ricerche sociologiche e negli studi politologici corrispon­
dono d’altra parte gli scarsi spunti critici della storiografia. Quelle che è consue­
tudine definire opere generali sul periodo esemplificano abbondantemente in qual
modo i rapporti all’interno della sfera politica si presentino quale ambito privile­
giato ed esclusivo, che media e riassume al proprio interno — senza verifica —
ogni fenomeno attinente al quadro sociale e alle lotte che lo contraddistinguono.
Sul piano delle sintesi e delle storie generali il contributo della storiografia si
esaurisce, nei migliori dei casi, nel constatare che lo stato tradizionale torna ad
affermarsi dopo la liberazione contro le « tendenze politiche rivoluzionarie », e
che la Democrazia cristiana, sorretta dall’appoggio della Chiesa, emerge quale
forza garante dell’ordine borghese — come nel caso delle lezioni alla Sorbona di
Federico Chabod; altri tentativi di presentare un quadro d’insieme (pur tenendo
presenti le nette differenze qualitative, ci riferiamo ai lavori di Catalano e Kogan
5
Ci riferiamo in particolare all’antologia a c. di P aolo F arneti, Il sistema politico italiano,
Bologna, 1973; anche G iorgio G a lli , Il difficile governo, Bologna, 1972, si presta ad analoghe
osservazioni.
6
Ci riferiamo in particolare ai volumi II comportamento elettorale in Italia, L ’organizza­
zione partitica del PCI e della DC e L ’attivista di partito, Bologna, editi rispettivamente nel
1966 (I e II) e 1967 (III).
7
A rnaldo B agnasco, Il partito che controlla Polidia; G ianfranco B ettini , Partito e
comunità locale-, L uigi G raziano, Clientela e politica nel Mezzogiorno, in II sistema politico
italiano, cit., pp. 169-240.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
21
o a quelli assai meno attenti di Mammarella e Colapietra) si esauriscono nel ri­
percorrere puntualmente i passi della complessa vicenda sottolineando le con­
traddizioni e i limiti delle conquiste democratiche conseguite, senza tuttavia usci­
re dai binari di una storia in sé conclusa e definita. La schematicità dei riferi­
menti al quadro internazionale, con le conseguenze interpretative analizzate nel
precedente paragrafo di questa rassegna, contribuisce ad accentuare l’aspetto
poco articolato e scarsamente problematico di queste opere8.
Anche il saggio di Giuseppe Galasso, nel primo volume della Storia d’Italia edita
da Einaudi, non fa eccezione. Nella considerazione pur critica (anzi, addirittura
violentemente negativa) del quadro politico della « democrazia di massa » rea­
lizzata in Italia nel secondo dopoguerra, non entrano nemmeno di scorcio o per
accenni valutazioni che coinvolgano una considerazione delle forze e dei gruppi
sociali che i partiti politici si sono proposti di rappresentare9.
Al paragone la memorialistica d’origine direttamente politica appare molto più
varia e suscettibile di essere usata anche come fonte per una ricostruzione diretta:
se non altro in quei casi in cui è messo in atto un tentativo di individuare le ca­
renze e gli errori delle forze politiche della sinistra nell’opera di consolidamento
e di definizione dei risultati della lotta antifascista ed antitedesca. Resta tuttavia,
come limite di fondo comune alla massima parte di tale saggistica, la netta frattura
fra analisi politica ed istituzionale e momento economico-sociale.
Tali osservazioni valgono in particolare per la storiografia di matrice azionista
(sarà necessario utilizzare spesso categorie d ’origine strettamente politica, per
quante imprecisioni ciò possa comportare), alla quale spetta il merito di avere per
prima messo in discussione il tema della « crisi della Resistenza ».
Nata sull’onda di un ripensamento precoce e quasi autobiografico del fallimento
del partito (si veda il n° 11-12 de II Ponte, del nov.-dic. 1947) questa problemati­
ca è stata al centro di battaglie non solo storiografiche, ma anche civili e politiche
per tutti gli anni ’50. La lunga polemica sulla « Costituzione inattuata » — che
ha in Dieci anni dopo ampi riflessi storiografici — si è nutrita tra l’altro di analisi
cui la pubblicistica e la storiografia di matrice azionista hanno notevolmente con­
tribuito 10.
« [...] il problema storiografico di questi ultimi dieci anni — ha scritto Leo Valiani nel 1955, sintetizzando in modo paradigmatico un orientamento ricorrente —
si apre con il quesito se la Resistenza fosse, al di là dei risultati e dei suoi la-
'
F ederico C habod, L ’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, 1961; F ranco C atalano,
L ’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, Milano, 1970, vol. II ; N orman K ogan,
L'Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Bari, 1966; R affaele C olapietra ,
La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Costituente, Bologna, 1969; G iu seppe
Mammarella , L ’Italia dopo il fascismo: 1943-1968, Bologna, 1970.
5
G iu sep pe G alasso , Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d ’Italia,
vol. I, I caratteri originali, Torino, 1972.
10
II Ponte, a. II, n. 11-12, nov.-dic. 1947 (scritti di G. Salvemini, P. Calamandrei, A.C.
Jemolo, V. Foa, R. Levi, R. Battaglia, A. Predieri, D. Livio Bianco, C. Galante Garrone, P.
Barile, D .G. Peretti Griva, G. Ravagli, M. Bracci, L. Bianchi D ’Espinosa, M. Vinciguerra);
Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, 1955.
22
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
sciti [...] un movimento di rivoluzione oppure una restaurazione legale ». Dietro
il « quesito » stanno non solo la coscienza (qui più avvertibile che in altre opere
di autori diversi) dell’unità del periodo storico tra crisi del fascismo e instaura­
zione della Costituzione repubblicana, ma anche e soprattutto le delusioni e i
ripensamenti di una parte cospicua dell’antifascismo, vissuti attraverso le vicende
stesse del Partito d’azione. Il « fallimento » della Resistenza viene quindi identifi­
cato — il riferimento è sempre a Valiani, ma vale anche, tra gli altri, per Franco
Catalano — con il fallimento del Pd’A, che degli obiettivi di rinnovamento po­
litico e sociale della lotta di liberazione sarebbe stato il più intransigente sosteni­
tore in quanto espressione di quella piccola e media borghesia che era rivolta
« verso gli ideali comuni del vecchio generoso socialismo italiano e del giovane
movimento G L ».
Questa identificazione tra Pd’A e borghesia progressista, trapassata con facilità
in buona parte della storiografia corrente, non è tuttavia così pacifica come appare
dalle pregevoli pagine di Valiani. Di parere abbastanza diverso era ad esempio
Paimiro Togliatti, quando indicava nei ceti medi la presenza di una « massa
intermedia incerta, la quale sentiva il grande prestigio del movimento di libera­
zione nazionale », ma che « non era ancora né organizzata, né orientata in modo
certo e subiva l’influenza di quei numerosissimi fattori di disturbo di una co­
scienza politica che agivano in quella situazione [...] ». E , del resto, lo stesso
Valiani offre motivi tali da suggerire un accurato ripensamento sia dell’identifi­
cazione tra azionisti e borghesia progressista, sia dell’esistenza e consistenza
stessa di una borghesia progressista. Quando, all’indomani della liberazione, il
Partito socialista si rivelò alleato « non già col Pd’A, ma col PCI » — ha scritto
Valiani — « la classe operaia festeggiò l’evento come la prova della sua vittoria.
Il ceto medio ne rimase disorientato. I possidenti vi scorsero una minaccia mor­
tale ». Borghesia progressista? A questa stregua appare infinitamente più fondata
la tesi di Togliatti, che sembrava considerare la borghesia progressista un nucleo
da creare e da conquistare, piuttosto che una realtà di fatto, e che affermava
che il Pd’A aveva mancato alla sua funzione « di assicurare e penetrare con una
agitazione progressiva masse nuove e diverse, di ceto medio lavoratore e di in­
tellettuali, a cui i socialisti e noi non potevamo giungere »
Sono a confronto due tesi d’origine strettamente e immediatamente politica; ma
su questo argomento, che pure è centrale rispetto a tutte le ipotesi della sinistra
e delle forze progressiste nel post-liberazione, gli apporti della storiografia, an­
che della più recente, si limitano a ribadire quanto, con maggior vigore polemico
e più profonda passione, hanno già ampiamente detto i contemporanei.
Il dibattito sulla funzione e le vicende del Pd’A serve a sottolineare — al di là
delle specifiche questioni di linea e di scelte politiche — un elemento su cui sto­
riografia e memorialistica insistono quasi con monotonia: la possibilità, o meno,
di un esito « rivoluzionario » della Resistenza italiana. Il fatto che il problema
debba essere sottoposto a una definizione che ne riduca il carattere mitologico1
11 L eo V aliani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949; l’intervento di Togliatti in Fa­
scismo e antifascismo (1918-1948). Lezioni e testimonianze, Milano, 1962, vol. II, pp. 634-46.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
23
assunto attraverso un dibattito più che ventennale, non può esimere dal verificare
se e in quale misura esso abbia consentito di procedere all’acquisizione di nuovi
elementi di giudizio.
« Non è [...] che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione
legata alla prospettiva di una sconfitta e una via di evoluzione tranquilla, priva
di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circo­
stanze oggettive, dalle vittorie riportate e dalla unità e dai programmi sorti nella
lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare tutti gli osta­
coli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove
di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse,
e per adempierlo concentrammo le forze ».
In questi termini Togliatti riassumeva al X congresso del PCI — con una for­
mulazione che ancora recentemente Enrico Berlinguer definiva « magistrale sin­
tesi » — una tematica che la storiografia del partito ha largamente svolto. La
validità di una simile prospettiva generale è stata tuttavia contestata da parte di
chi ha creduto di ravvisare nel movimento di liberazione nazionale un potenziale
rivoluzionario che le forze di sinistra — e il Partito comunista in primo luogo —
avrebbero rifiutato di utilizzare.
In questa lunga polemica, che si è snodata in termini vari, legati a momenti di­
versi della vita politica italiana e del dibattito all’interno della sinistra, studiosi e
polemisti di estrazione marxista si sono affiancati a quelli di matrice azionista,
su posizioni di critica al PCI. Per quanto ciò non risponda a un costume diffuso,
è bene distinguere le riserve e gli spunti critici espressi dagli uni e dagli altri.
Mentre infatti gli azionisti insistono su una polemica che fa carico al PCI di aver
lasciato via libera alle forze conservatrici principalmente mediante l’abbandono
o la non sufficiente difesa di obiettivi democratici e laici (dalla « svolta » di Sa­
lerno, alla questione istituzionale, ai CLN, all’articolo 7 della Costituzione) —
ma hanno accompagnato tutto ciò (e valga ancora l’esempio di ValianiI2) con un
vigoroso biasimo della « smania di popolarità » che avrebbe reso i comunisti
troppo corrivi nei confronti delle rivendicazioni operaie e popolari — gli altri
hanno tenuto una strada sostanzialmente diversa. Al PCI essi hanno fatto carico
soprattutto di aver depresso e svalutato la spinta rivoluzionaria presente nelle
masse popolari e soprattutto operaie al termine della lotta antinazista. In linea
generale, tuttavia, riesce difficile negare a questi studi — da quelli di Maitan o
di Del Carria o al più recente e più rigoroso lavoro di Di Toro-Illuminati (pre­
gevole su altro terreno) — un carattere fortemente ideologico, che ne limita de­
cisamente l’incidenza sul piano dell’indagine storiografica, spesso assai carente
dal punto di vista tecnico e dell’informazione. Non vale tuttavia la pena di in­
sistere su quest’ultimo aspetto, in considerazione anche del ridotto supporto do­
cumentario della maggior parte della produzione storiografica in materia; ben
più decisivo si rivela, piuttosto il sottolineare come l’ipotesi « rivoluzionaria »,
sollevata da questi studiosi in alternativa alle analisi di derivazione togliattiana,
finisca inevitabilmente per riproporre il dibattito sulla minaccia della catastrofica
L. V aliani, L ’avvento di De Gasperi, cit., pp. 25-31.
24
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
soluzione greca, gravante sul paese occupato dalle armate angloamericane. Per
quanto sia rilevabile nel comportamento dei rappresentanti dell’AMG un indirizzo
che avrebbe concesso all’antifascismo italiano ben maggiori possibilità di suc­
cesso di quelle che furono effettivamente esperite, riproporre oggi il tema della
« rivoluzione mancata » significa impostare il problema in termini troppo ristretti
perché esso risulti fecondo 13.
Una via d’uscita a questo vicolo cieco è stata peraltro indicata da studiosi come
Liliana Lanzardo (in un’opera in cui, fra l’altro, il livello dell’indagine documen­
taria non è certo l’ultimo pregio)14. Se anche la contrapposizione di tendenze e
aspirazioni di « base » alla linea moderatrice del partito acquista nelle pagine
della Lanzardo ben diversa consistenza rispetto alla tematica della « rivoluzione
mancata », i reciproci rapporti tra classe operaia e partito richiedono ancora di
essere definiti e analizzati nelle diverse componenti. Né d ’altra parte si può far
a meno di notare come da più parti sia stata data per scontata — e non solo ai
fini polemici o in termini negativi — la funzione di « freno » assolta dal PCI, e
dal PSIUP, nei confronti di certe lotte di massa nel dopoguerra, senza che vi sia
stato uno sforzo adeguato per approfondire, al di là dell’astratto richiamo al tra­
guardo della democrazia progressiva o del fin troppo concreto ammonimento ad
evitare una soluzione greca, le ragioni positive che spingevano i partiti della si­
nistra in quella direzione. Tra le quali (e ciò vale per il PCI in particolare) il
primo posto dovrebbe spettare di diritto — lo ha ricordato con molta efficacia
Gastone Manacorda con osservazioni che sono riprese nella prima parte di questa
rassegna — alle valutazioni del quadro internazionale; anche perché, su questo
terreno, è opportuno un recupero di più largo respiro sui rapporti con il patri­
monio ideologico della III Internazionale, troppo spesso svilito dalla polemica
reazionaria nel rapporto subordinato « agli ordini di Mosca ».
Al centro di questa problematica sta l’azione del Partito comunista. La premi­
nenza che la storiografia gli ha accordato anche rispetto al Partito socialista è
per molti aspetti quanto mai giustificabile se si guarda alla capacità di iniziativa
politica e alla solidità organizzativa. Ciò non significa che sia da considerarsi pro­
duttiva la frusta tematica della subordinazione del PSIUP alle direttive comuni­
ste: questa, che è il cavallo di battaglia di polemiche ricostruzioni di ispirazione
socialdemocratica, risulta un’umiliante banalizzazione del rapporto tra i due par­
titi storici della classe operaiaI5. Il problema dell’unificazione tra di essi si rivela
piuttosto uno dei nodi centrali per la verifica della capacità della sinistra nel suo
complesso a condurre a buon esito il programma gradualistico che era legato alla
« democrazia progressiva ».
13
L ivio Maitan, PC I 1941-1965. Stalinismo e opportunismo, Roma, 1969; R enzo D el
C arria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950,
Milano, 1966; vol. II; C laudio D i T oro - A ugusto I llum inati , Prima e dopo il centrosinistra. Capitalismo e lotta di classe in Italia nell’attuale fase dell’imperialismo, Roma, 1970.
14
L iliana L anzardo, Classe operaia e partito comunista alla FIAT. La strategia della
collaborazione 1945-1949, Torino, 1971.
14
Cfr. ad es.: L. F aenza, La crisi del socialismo in Italia (1946-1966), Bologna, 1967 e
A. L andolfi, Il socialismo italiano. Strutture, comportamenti, valori, Roma, 1968.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
25
Lo hanno ben chiarito Benzoni e Tedesco in un lavoro che, pur mantenendo il
centro dell’interesse sul dibattito all’interno del partito, formula con chiarezza
estrema i termini in cui esso si muove: dalle ragioni della scelta dell’unità d’azio­
ne, risalente alle « traumatiche » esperienze del periodo fascista e alla necessità
di ricostruire la coesione delle forze proletarie, alla formulazione dei « postu­
lati rivoluzionari » su cui si baserà tutta la sua linea nel corso della Resistenza, al
« forzato » adattamento post-bellico alle scelte di collaborazione « imposte dalla
presenza alleata e dall’orientamento del PCI » e infine al definitivo assestamento
« anche sul piano dell’impostazione teorica » alla « strategia gradualistica ». Una
scelta quest’ultima, sostengono Benzoni e Tedesco, che rende ragione del suc­
cesso socialista nelle prime elezioni postbelliche, in quanto permise un più chiaro
orientamento delle forze del partito “ . E, se questa è una spiegazione certo più
convincente di quella di chi preferisce vedere nel successo socialista il risultato del­
la fedeltà alla poco definibile tradizione socialista, essa suona tuttavia come con­
ferma dell’origine esogena e contingente della forza e della solidità, politica oltre
che elettorale, del partito. Lo conferma, per altra via, lo studio di Agosti su Morandi: nel periodo postbellico la linea strategica complessiva della sinistra appare
il limite invalicabile al di là del quale non si spinge, né come ministro né come
uomo di partito, il dirigente socialista, che pure fortemente sentiva l’esigenza del­
la « preminenza della lotta di classe » 167.
Il baricentro di ogni analisi sulla condotta delle sinistre nel dopoguerra resta
quindi la linea dei comunisti. Testimonianze della continuità di uno scavo cri­
tico ed autocritico attorno ad un nodo di problemi centrali per il partito e per il
paese, diverse pubblicazioni di parte comunista offrono spunti di notevole inte­
resse per approfondire dall’interno la complessa tematica; basterà riferirsi, in
questa sede, ai sobri spunti contenuti nel quaderno di Rinascita dedicato al tren­
tesimo del PCI, alla relazione di Amendola al convegno del 1962 sulle Tendenze
del capitalismo italiano e al saggio di Chiaromonte nel quaderno n. 5 di Critica
marxista. « Errori », « incertezze » ed « approssimazioni » non vengono certo
sottaciuti nell’analisi dei dirigenti comunisti. La battaglia sul terreno delle ri­
forme, afferma per esempio Gerardo Chiaromonte, « non solo non fu vinta, ma
— tranne che in alcuni campi — non fu nemmeno ingaggiata ». E Amendola,
dal canto suo, ricorda che CG IL, PCI e PSIUP « non si impegnarono a fondo per
il riconoscimento giuridico dei Consigli di gestione »; che l’integrazione della
« politica del controllo dello Stato » con « una politica di mobilitazione dal bas­
so » fu « soltanto in parte attuata »; e che infine « di fronte ai problemi nuovi
posti dalla programmazione democratica e dalle riforme di struttura, il movimen­
to operaio italiano [...] si dimostrava non ancora sufficientemente preparato».
« Debole era ancora la comprensione del nesso che doveva stabilirsi tra le riforme
della struttura economica e le riforme della struttura politica, e della necessità
di una vasta articolazione autonomistica dello Stato, con un largo appello per lo
sviluppo originale di forme di autogoverno, di iniziativa dal basso, di organi di
democrazia diretta che introducessero elementi nuovi nella struttura centralizzata
16
17
A ldo B enzoni - V iva T edesco , Il movimento socialista nel dopoguerra, Padova, 1968.
A ldo A gosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Bari, 1971.
26
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
del vecchio Stato ». Sono giudizi che nel loro complesso riprendono e sviluppano
l’osservazione del quaderno di « Rinascita » del 1951: « una più forte pressione
dei comunisti e dei socialisti alla testa del popolo sarebbe però forse riuscita a
spingere più avanti tutta la situazione » ia. Sono anche indicazioni che legittimano
e sostengono un tentativo — che in altra parte di questa rassegna si articolerà
sul terreno dell’analisi storiografica — di verifica del rapporto tra le lotte di
massa e le organizzazioni del movimento operaio (in primo luogo i sindacati).
È tuttavia sufficientemente chiaro, da questo punto di vista, che rimproverare al
PCI l’« errore » di aver posto l’accento « sulla necessità di costruire un sistema
politico democratico per il movimento dei lavoratori » piuttosto che sulle riforme
di struttura correrebbe il rischio di essere, come ha scritto Chiaromonte, « una
specie di scoperta dell’ombrello »; ed è pienamente accettabile che « una qua­
lunque risposta (e anche qualunque critica) deve partire da una giusta valuta­
zione di ciò che si è conquistato, del valore enorme del quadro politico comples­
sivo che abbiamo conquistato con la Repubblica e la Costituzione » 189.
Ma, se tali conquiste non possono essere misurate sul metro di principi astratti,
ciò che appunto occorre fare è analizzarne il concreto processo di definizione, at­
traverso l’opera della Costituente e dei governi postbellici: anche a questo ri­
guardo è necessario rimandare all’esame degli aspetti storiografici relativi a tale
questione, condotta in una successiva sezione di questa rassegna. Si può tuttavia
rilevare fin da questo momento che di un simile lavoro non sono nemmeno stati
costruiti i presupposti, attraverso un soddisfacente quadro delle stesse forze po­
litiche che hanno contribuito all’opera della Costituzione.
È singolare il silenzio che attornia, nella storiografia italiana, le forze moderate
e conservatrici. Se è vero, come ha scritto Guido Quazza, che sul mondo politico
italiano incombeva nel dopoguerra « l’ossessione [...] se non del fascismo aperto,
almeno d’una reazione più o meno mascherata », lo scarso rilievo accordato allo
studio delle rappresentanze dei settori più retrivi della società italiana è ancor
meno giustificato. Scarsissime e di nessun conto, infatti, le opere dedicate ai li­
berali; che nei lavori d ’insieme si limitano ad apparire come la sparuta pattuglia
d’avanguardia di mandanti indefiniti: l’opera di Arnaldo Ciani si presenta d’altro
canto come una cronistoria apologetica priva di rilevanza storiografica. Sul feno­
meno del qualunquismo il lavoro di Gino Pallotta va appena citato per un minimo
di completezza bibliografica; sul neofascismo e sui monarchici non esiste, si può
dire, alcuna ricerca20.
Lacune che in buona parte si giustificano considerando come, più che gli studi
18
Trenta anni di vita e lotte del Pei, «Q uaderni di Rinascita », n. 2, Roma, s.d. [ma
1951]; G iorgio A mendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, in G.
A mendola, Classe operaia e programmazione democratica, Roma, 1966, pp. 201-286; G erardo
C hiaromonte, Riforme di struttura e direzione politica del paese, in « Quaderni di Critica
marxista », n. 5, 1972.
19
G. C hiaromonte, Riforme e direzione politica, cit., pp. 35 e 39.
20
La citazione da G uido Q uazza, Storia della Resistenza e storia d ’Italia: ipotesi di lavoro,
in Rivista di storia contemporanea, 1972, 1, pp. 70-71. Sui liberali: A rnaldo C iani, Il partito
liberale italiano, Napoli, 1968; sul qualunquismo: G ino P allotta , Il qualunquismo e l’av­
ventura di Guglielmo Giannini, Milano, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
27
sull’organizzazione politica, valgano per questi settori le indagini sulla base di
massa che li sostenne e sulle forze economiche dalle quali trassero ispirazione.
Per quanto riguarda queste ultime sarà bene osservare che l’assenza di lavori che
raccolgano il pur ampio materiale, elaborato da diversi economisti (in particolare
del PCI) sulla struttura del capitalismo italiano nell’immediato dopoguerra, ri­
sponde a un impianto riproducente — ancora una volta — il rapporto tra « po­
litico » e « economico-sociale » a suo tempo scelto dalla sinistra. (Ma per una con­
siderazione più approfondita di questi aspetti si vedano i paragrafi successivi della
presente rassegna). Meno spiegabile l’assenza di studi che diano corpo, tra l’altro,
alla diatriba sulla funzione e la collocazione dei « ceti medi »: il noto saggio di
Sylos Labini, utilizzato spesso anche in sede di dibattito politico, sembra richie­
dere in sede storica sostanziose integrazioni che permettano di individuare le forze
dei gruppi di pressione che hanno influenzato o tentato di influenzare tali strati
di popolazione; a meno di non volerli considerare — come è stato non senza
fondamento riproverato a Sylos Labini — se non proprio una classe, almeno « un
dato che ha nel suo complesso una qualche coesione » a cui sia possibile asse­
gnare comportamento e funzioni in qualche misura autonomi212.
Qualunque sia, su questo tema, la soluzione che si voglia dare, resta tuttavia in­
discutibile come sia necessario fare i conti anche con l’arretratezza di studi che
accertino attraverso quali strumenti le forze più decisamente retrive siano riu­
scite, dopo due anni di ampie lotte popolari, a riconquistare (se pure l’avevano
perso) il controllo di vaste zone dell’opinione pubblica: è notevole infatti che per
l’Italia del secondo dopoguerra non sia stato effettuato alcun tentativo di deli­
neare una storia delle comunicazioni di massa, e nemmeno del più facilmente
accessibile ad esse, la stampa. Solo Paolo Murialdi ha osato affrontare il tema in
un lavoro che, date le condizioni di partenza, non ha potuto riuscire altro che
un approccio conoscitivo 2\ Tuttavia i problemi della stampa — e in particolare
quelli della stampa cosiddetta « d’informazione » — meriterebbero di essere af­
frontati con un taglio che si richiami a quello usato da Valerio Castronovo per la
stampa defl’Italia dall’unificazione al fascismo. Senza dimenticare, in questo con­
testo, un’indagine — che non deve necessariamente essere scandalistica — sugli
elementi di continuità corporativa all’interno dei manipolatori dell’informazione.
Rispetto alle forze moderate e conservatrici, la Democrazia cristiana ha ovvia­
mente goduto di interesse ben maggiore; ma se le opere ad essa dedicate da av­
versari o da uomini di partito e di cultura ad essa legati sono numerose, non per
questo il quadro può dirsi soddisfacente: se si prescinde dall’interesse documen­
tario e di testimonianza, sul tappeto restano ben pochi lavori degni di discus­
sione. Sono opere che si collocano ancora negli anni ’50 (il saggio di De Rosa in
21
P aolo S ylos L abini, Sviluppo economico e classi sociali in Italia, in Quaderni di so­
ciologia 1972, 4; F rancesco F orte, Classi economiche, classi sociali e quaternario, in Econo­
mia e lavoro, n. 2, 1969; C amillo D aneo, Struttura e ideologia del ceto medio, in Problemi
del socialismo n. 5, 1967; la citaz. nel testo è tratta da II discorso sui «c eti m edi»: realtà e
mistificazioni, a c. del collettivo Note e rassegne, in Note e rassegne, 1973, n. 1-2.
22
P aolo M urialdi, La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972), Bari, 1973.
28
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Dieci anni dopo e quello di Togliatti) e le valutazioni espresse da Valiani nelVAvvento di De G asperi23.
Per quanto Valiani e Togliatti tendano entrambi a presentare l’opera di De Ga­
speri come pretta restaurazione del tradizionale stato italiano (con le incrostazioni
fasciste e le relative degenerazioni burocratiche) esistono fra l’uno e l’altro diffe­
renziazioni abbastanza nette. Valiani dà infatti largo spazio al « senso dello Sta­
to », caratteristico dell’uomo politico trentino; mentre Togliatti ritiene di dover­
ne sottolineare lo scarso « spessore » politico e lo riduce a semplice esecutore del­
le direttive del Vaticano e delle forze più conservatrici della Chiesa. Sono due
caratterizzazioni che hanno goduto larga fortuna, anche in espressioni meno lim­
pide; ma che oggi devono essere considerate largamente insufficienti. De Rosa, dal
canto suo, rivendica a De Gasperi il « merito storico » di « non aver mai cedu­
to [...] alle sollecitazioni interne ed estere di trasformare il partito parlamentare
e rappresentativo della Democrazia cristiana nel grande partito vagheggiato dalla
tradizione clericale popolaristica, nel grande partito cioè solidaristico vagheggiato
dagli idolatri dell’interclassismo finalistico »; ma deve anche sottolineare co­
me non si possa « escludere » una accentuazione delle sue tendenze conserva­
trici di fronte al timore di « un blocco resistenziale di popolo » che attenuasse
le istanze di « parlamentarismo e della democrazia politica ». Difficilmente il
« senso dello Stato » che Valiani rivendica per De Gasperi può sfuggire a una in­
terpretazione riduttiva come quella suggerita da De Rosa. Se si dà qualche ri­
lievo, anzi, alle varie opere apologetiche (da Andreotti a Magri), che insistono
sull’importanza determinante del pericolo bolscevico nel determinare le scelte di
De Gasperi, il conclamato « senso dello Stato » sembra piuttosto concretarsi in
un puro e semplice richiamo all’ordine. Che il pericolo rivoluzionario fosse poi,
nelle condizioni oggettive dell’Italia postbellica e nella volontà delle opposizioni,
un semplice motivo polemico su cui lo statista trentino intendeva far leva, cambia
poco: contribuisce, casomai, a chiarire la precarietà di un’indagine che prescinda
troppo affrettatamente dai problemi politici contingenti.
Potrebbe parere eccessivamente riduttivo richiamarsi quasi solo ad opere dedi­
cate a De Gasperi: ma la storiografia (si veda lo studio di Galli e Facchi24 sulla
sinistra democristiana) sembra concorde nell’attribuire alla centralità degasperiana una forza che esaurisce di fatto, sul terreno politico, l’intera dialettica delle
tendenze.
E attorno alla figura di De Gasperi si accentra anche l’altro grande tema, relativo
alla Democrazia cristiana: il rapporto con la Chiesa cattolica. Un posto di rilievo
spetta tuttora anche su questo terreno al giudizio di Togliatti, che nel suo saggio
raccolse e condensò spunti interpretativi espressi in diverse sedi e destinati a se­
gnare un orientamento che la storiografia della sinistra seguì per oltre un decen-25
25
Ci riferiamo a: G iulio A ndreotti, De Gasperi e il suo tempo, Milano, 1964; G iorgio
T u pin i , I democratici cristiani. Cronaca di dieci anni, Milano, 1954; G iu sep pe S pataro,
I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, Milano, 1968; M aria R omana C atti
D e G a speri , De Gasperi uomo solo, Milano, 1964; D e R osa , I partiti politici dopo la Re­
sistenza, in Dieci anni dopo, cit. (partie, pp. 145-160); L. V aliani, L ’avvento di De Gasperi,
cit.; P. T ogliatti, L'opera di De Gasperi, Firenze, 1958.
24
G iorgio G alli - P aolo F acchi, La sinistra democristiana, Milano, 1962.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
29
nio nelle sue analisi sul movimento cattolico. AI centro dell’interesse di Togliatti
sta l’evoluzione della Democrazia cristiana da partito popolare a partito conser­
vatore, improntato a un « clericalismo di tipo nuovo », « che non è alieno dal
parlare di riforme sociali anche avanzate, ma rinnega e vorrebbe cancellare le con­
quiste delle rivoluzioni liberali e democratiche per quanto riguarda l’indipendenza
della vita politica dalla religione e dalle autorità religiose ». In questi termini To­
gliatti, che nell’azione politica aveva tenacemente mirato al superamento di ogni
tematica anticlericale, finisce per attribuire « agli indirizzi delle autorità eccle­
siastiche » una responsabilità determinante, risalente alla lunga a una tradizione
storica reazionaria. Più che da una considerazione banalmente polemica, l’inter­
pretazione togliattiana sembra derivare da una profonda fede nella validità delle
« conquiste delle rivoluzioni liberali e democratiche »; dalla profonda simpatia,
cioè, per un orientamento cattolico-liberale che coraggiosamente scindesse l’ambi­
to del « politico » da quello « religioso ».
Ma simili criteri di valutazione valgono poco a definire il senso del rapporto DCChiesa cattolica se non si tiene conto della complessa strategia di riconquista in­
tegrale della società italiana che la gerarchia ecclesiastica era andata sviluppando,
come è stato messo in rilievo, negli anni della crisi del fascismo25.
Ed è quanto ha fatto, in un articolo che si limita per la verità a presentare alcune
anticipazioni di ricerca, Piero Scoppola esaminando il significato della scelta cen­
trista di De Gasperi nel 1947: essa nacque dall’incontro di « una realistica valu­
tazione » delle varie forze in gioco e della « lunga riflessione compiuta negli anni
del fascismo alla ricerca di una linea politica che conciliasse insieme i valori del
cattolicesimo sociale con quelli della tradizione liberale ». Di qui il distacco dai
socialcomunisti, ma anche il contemporaneo rifiuto di ogni invito oltranzista
— anche da parte degli ambienti vaticani — « a favore di un grande blocco di
tutte le forze anticomuniste senza discriminazioni sulla destra » 26.
Se non si può non riconoscere che in questo modo la figura di De Gasperi riceve
un’equilibrata collocazione all’interno della Democrazia cristiana e nei confronti
del Vaticano e degli orientamenti del Dipartimento di Stato degli USA, è anche
vero che il giudizio sulle scelte del 1947 non si può esaurire nel riconoscere che
esse furono il minore dei mali. Resta ancora aperto in realtà il problema di una
valutazione di più lungo periodo circa il contributo che tali scelte diedero a raffor­
zare il «cemento reazionario » — come è stato definito — dell’ideologia catto­
lica e resta insoddisfatta l’esigenza di analizzare in concreto l’articolarsi dello stes­
so magistero ecclesiastico come strumento dell’organizzazione del consenso 27.
25
Cfr. il saggio di T eodoro Sala, Un’offerta di collaborazione dell’Azione cattolica italiana
al governo Badoglio (agosto 1943), in Rivista di storia contemporanea, 1972, n. 4, pp. 517-533;
e gli aspetti posti in rilievo da P ietro S coppola in La Chiesa e il fascismo. Documenti e
interpretazioni, Bari, 1971, partie cap. V II, La guerra e la rinascita democratica.
“
P ietro S coppola, De Gasperi e la svolta politica del maggio 1947, in II Mulino, 1974,
n. 231, pp. 25-46; alcuni temi dell’articolo, comparso successivamente al seminario di Àriccia,
erano stati anticipati dallo stesso Scoppola nel corso del dibattito.
27
Ci sembrano stimolante e chiarificatrice testimonianza di un orientamento diffuso, so­
prattutto in gruppi e ambienti legati al dissenso cattolico, le Considerazioni sulla « politica ec­
clesiastica» del PC I (1921-1947), apparse in Chiesa e società, novembre 1973: analizzando
30
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Né è infine indifferente che da siffatti orientamenti di studi sembri uscire ancora
una volta sacrificato il rapporto tra il partito e la sua base di massa, tra il partito
e le rappresentanze del potere economico, tra il partito e le strutture dello stato
che esso si appresta a conquistare. La tendenza, più volte sottolineata in queste
pagine, a chiudere l’ambito della vita politica nei confronti di tutti i fenomeni
che si verificano su altri terreni della vita contemporanea, per quanto risponda a
orientamenti radicati in vari settori del mondo politico postbellico, non sembra
possa più trovare valide giustificazioni in sede di ricostruzione storiografica.
I problemi politico-istituzionali
Gli studi sul problema politico-istituzionale negli anni 1944-1947, cioè dalla tre­
gua istituzionale alla conclusione dei lavori della Assemblea Costituente, sono
numerosi ma presentano un quadro frammentario e disomogeneo. Ad una prima
analisi sommaria (che esclude il materiale archivistico, gli atti ufficiali del governo
e degli altri organi di potere, i dibattiti alla Consulta e alla Costituente), sembra
mancare una ricostruzione organica d’assieme e quindi anche un’analisi delle vi­
cende politico-istituzionali e del ruolo degli istituti di potere in questo periodo.
La storiografia politica in senso stretto che, per il periodo e il tema in esame, spes­
so si confonde con una letteratura memorialistica di alto livello, risente in maniera
profonda di una ricostruzione prevalentemente ideologica, ancorata alla polemica,
retrospettiva o attualizzata, tra le forze politiche protagoniste del periodo resi­
stenziale e postbellico. Si può in genere sottolineare, senza severità ma con chia­
rezza, come manchi costantemente negli studi sul nascere dello stato e delle istitu­
zioni repubblicane, una dimensione complessiva, sociale, della stessa tematica isti­
tuzionale; che rimane così angustamente circoscritta in un interesse, prevalente
quando non esclusivo, per le posizioni e gli atti dei partiti e in subordine per
l’azione di governo. Interesse non meramente giustificativo o descrittivo, che evi­
ta però di fare i conti con la dinamica sociale che sottende ed avvolge la rinascita
della democrazia e con essa il problema del potere inteso nelle sue più ampie ar­
ticolazioni e più vaste implicazioni.
Queste caratteristiche di fondo sono presenti anche nelle ricostruzioni più attente
ed evidentemente sono il frutto di un atteggiamento tradizionalmente consolidato
nella storiografia politica. Se ne discosta per la vivacità delle posizioni e per l’inte­
resse ad un discorso storico che è insieme testimonianza di protagonista, l’opera
di Valiani ', che affronta però il problema della ricostruzione istituzionale preva­
lentemente attraverso il filtro della politica dei partiti, le sinistre in particolare.
la politica comunista nei confronti del mondo cattolico l’articolo afferma che essa implicava
« un’insufficienza radicale di analisi nella misura in cui il Partito [comunista] veniva ad
accettare su questo problema [i rapporti all’interno del mondo cattolico] il punto di vista
del proprio interlocutore, rinunciando così a mettere in discussione quel privilegio di ma­
gistero che costituiva, in un arco molto più vasto di problemi, il cemento reazionario del mon­
do cattolico e del partito della conservazione italiana » (p. 8). Sono osservazioni che hanno
il pregio di mettere in luce con estrema chiarezza problemi che la storiografia italiana, condi­
zionata da una visione cattolico-liberale, preferisce accantonare.
'
.G L .^E0 V aliani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949 e II problema politico, in
Dieci anni dopo. Saggi sulla vita politica italiana, Bari, 1955.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
31
Quello che l’autore mette in discussione è soprattutto l’utilizzazione riduttiva e
minimalistica degli spazi e degli organi esistenti operata dai partiti democratici:
dall’incapacità dei governi di CLN di far fruttare il vantaggio di possedere con­
giuntamente il potere esecutivo e quello legislativo, al disinteresse delle sinistre
per la Consulta, dal rifiuto di battersi per affidare all’Assemblea Costituente
anche l’attività legislativa, alla utilizzazione contraddittoria e negativa dell’epura­
zione prima e dell’amnistia poi. Non è tanto il succcedersi dei compromessi su
varie questioni (da Salerno ai CLN, dalla tregua istituzionale al 2° governo Bonomi, dall’epurazione al ritorno della normalità in fabbrica) o il compromesso più
generale che viene messo in discussione: è l’utilizzazione che ne fanno PCI e PSI
(il Pd’A, così sembra sostenere Valiani, se non fosse stato il piccolo partito che
era, avrebbe agito diversamente) per motivi di partito interni e internazionali,
che avrebbe soffocato l’interesse a un reale rinnovamento nazionale. Infatti « sa­
rebbe stato sufficiente che questi tre uomini (Parri, Togliatti, Nenni) sincera­
mente repubblicani, portati al potere dai partigiani si mettessero d ’accordo tra
loro e preparassero in silenzio con la massima rapidità possibile, i provvedimenti
legislativi per prendere i quali erano saliti alla direzione dello stato: sistemazione
legale dei partigiani, militare ed assistenziale, legge elettorale, compimento e
chiusura dell’epurazione, disciplina conforme e senso giuridico dei tribunali
eccezionali [...] sarebbe stato necessario che i rispettivi decreti-legge fossero por­
tati un bel giorno, il più vicino possibile, al tavolo dei consigli dei ministri, per
affrettare con i fatti la data delle elezioni ». Tutto si risolverebbe quindi in mag­
giore o minore astuzia, in maggiore o minore capacità di contrattazione all’interno
del governo; le posizioni dei partiti di sinistra sarebbero da giudicare al tempo
stesso miopi e strumentali; strumentali perché avrebbero puntato su alcune con­
quiste immediate per la classe operaia (blocco dei licenziamenti, aumenti salariali)
o per i mezzadri allo scopo di guadagnare i suffragi di queste categorie lavoratri­
ci; miopi perché « sfuggiva loro che alcune grandi leggi fiscali e sociali votate alla
Costituente, la maggioranza dei componenti la quale era in cuor suo favorevole
alla soluzione progressista, sarebbero state assai più utili alla causa dei lavoratori,
ancorché i testi votati fossero stati più conformi al programma democristiano che
a quello marxista, che non il rinvio di tali questioni strutturali da una fase all’al­
tra della attività governativa, sovraccarica di ordinaria amministrazione e infine
al verdetto di nuove elezioni » 2.
Puramente descrittivo è il contributo di Raffaele Colapietra3, frutto di una inda­
gine operata prevalentemente sulle fonti giornalistiche e con un’ottica fondamen­
talmente moderata. Il tema dello stato è tutto ridotto ai termini del dibattito po­
litico, con una posizione di esagerata attenzione nei confronti del Partito liberale,
fautore di una continuità con la democrazia risorgimentale prefascista e una in­
comprensibile sottovalutazione del ruolo egemonico della Democrazia cristiana
anche sul terreno della rinascita istituzionale, riducendo ad abile prassi empirica
tutto il disegno politico degasperiano.
In un’ottica abbastanza simile, ed anzi con un carattere esplicitamente divulga­
2
Le citazioni da V aliani, L ’avvento, cit., rispett. a pp. 27-28 e 78.
3
Raffaele C olapietra , La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Co­
stituente, Bologna, 1969.
32
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
tivo, si pone Permoli4; la particolare attenzione riservata alla Costituente non
rappresenta niente più che un prolungamento necessario e lineare della strada, a
volte accidentata, che i partiti del CLN avevano intrapreso precedentemente. In
tal modo non solo l’opera della Costituente appare svincolata dalla situazione ge­
nerale del paese, ma lo stesso rapporto tra essa e i partiti non privilegia una rico­
struzione delle ideologie statuali e delle intenzioni « istituzionali » che essi anda­
vano sviluppando, ma si limita a ripercorrere l’attività di governo e le diverse
dichiarazioni programmatiche.
Studi più articolati e approfonditi ma circoscritti a temi parziali della ricostruzio­
ne istituzionale, esistono solo nei confronti dei CLN, e per lo più limitatamen­
te al 25 aprile. Il loro essere prevalentemente una ricostruzione cronologica o
il puntare in maniera esclusiva sui CLN centrali o su quelli periferici o sulla
struttura e il funzionamento, non permette di ricavarne direttamente utili in­
dicazioni ad una comprensione generale del problema del rinnovo istituziona­
l e 5*Il. Manca cioè anche rispetto a questo centralissimo problema un’analisi che
riesca a fondere gli avvenimenti, i provvedimenti, le strutture, con la realtà
sociale circostante, offrendo quindi un quadro vivo e dialettico dell’evolversi di
questi organismi. L ’aver comunque quasi sempre contenuto lo studio dei CLN in
un ambito cronologico che non supera la liberazione, già testimonia l’ottica, di
pura continuità o di netta separazione, con cui si è guardato alla lotta di libera­
zione e al periodo postbellico nei confronti del tema statuale e istituzionale.
Anche il problema della giustizia e della magistratura è stato oggetto di ricerche
particolari, che hanno spesso aggiunto la passione civile e l’interesse politico più
diretto e attuale alla ricostruzione storica più propriamente intesa. Il lungo sag­
gio di Battaglia, I giudici e la politica, pur a volte contraddittorio nelle consi­
derazioni generali non sempre condivisibili, è lo studio che meglio di tutti offre
una ricostruzione dell’apparato della giustizia e del funzionamento della magistra­
tura negli anni del dopoguerra. Studio che, anche se parziale, riveste un’estrema
importanza per valutare la ricostruzione dello stato non solo attraverso i suoi
organismi ma anche attraverso l’opera che questi hanno svolto. Battaglia parte
dall’idea che se le leggi non vengono attuate non è perché esse sono oscure o difet­
tose, ma perché è fiacco lo stato: e infatti « nel 1945 l’antifascismo al potere pos­
sedeva forza politica sufficiente a rendere effettive tutte le sue leggi [...] negli
anni successivi la forza politica dei suoi avversari crebbe in tal modo da riuscire
a vanificarne non poche ». Sul tema dell’indipendenza della magistratura Battaglia
4
P iergiovanni P ermoli, La Costituente e i partiti politici italiani, Bologna, 1966.
5
Sull’opera dei CLN: M ario B endiscioli, La Resistenza: gli aspetti politici, in II secondo
Risorgimento, Roma, 1955, pp. 291 e sgg.; F ranco C atalano, Storia del Clnai, Bari, 1955;
E milio S ereni, I Cln nella cospirazione, nella ricostruzione, Milano, 1945. Si spingono oltre
il limite del 25 aprile, con un tentativo di affrontare il problema del post-liberazione sotto
alcuni aspetti particolari, vari articoli e saggi di ricerca: M assim o L egnani, Documenti sul­
l’opera di governo del Clnai, in II movimento di liberazione in Italia, 1964, n. 74; R iccardo
L ev i , L ’azione economica e sociale dei Cln dell’Alta Italia, in II Ponte, 1947, n. 11-12; e
infine la relazione di G. G rassi e M. L egnani sul governo dei Cln in Alta Italia ora in Italia
Contemporanea, 1974, n. 115 e quella di C. P avone (Autonomie locali e decentramento nella
Resistenza) al convegno «S tato e Regioni» (ottobre 1973, Milano): testi che, benché ricchi
di indicazioni, non hanno potuto essere utilizzati in questa sede. Il saggio di V olterra in
Il governo dei Cln, Torino, 1966, appare troppo schematico per fornire utili suggerimenti.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
33
nota che si fece ben poco: sono i trasferimenti e le punizioni che rappresentano
la moderna corruzione; lo stesso moderato Einaudi diceva infatti che dare l’indi­
pendenza alla magistratura significava abolire assolutamente ogni carriera all’in­
terno della stessa. Sulla polemica riguardo i prefetti e ai questori, oltre alla scarsa
combattività dimostrata dalle sinistre per non esautorare quelli eletti dal CLN,
Battaglia sottolinea l’incostituzionalità — nemmeno questa combattuta — della
dipendenza dei questori dal ministro degli interni, che sottrae di fatto la polizia
al controllo della magistratura. La maggiore attenzione è comunque rivolta al­
l’epurazione il cui fallimento ha, oltre che motivi politici, cause profonde nelle
contraddizioni legislative e nella rapida cessazione delle magistrature speciali. In
meno di due anni infatti furono promulgate ben dieci leggi per regolare l’attività
dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo; si vollero « trasferire
sul piano della responsabilità penale le maggiori responsabilità politiche del fa­
scismo [...] il tentativo di trattenere sul terreno legalitario la insurrezione popo­
lare contro il nazifascismo e di placarne le acque con sentenze penali fu illusorio
e controproducente »; « tutti i testi di legge offerti alla interpretazione dei giudi­
ci erano tecnicamente assai difettosi », tanto che le leggi contro il fascismo furono
più spesso applicate dalla Cassazione che non dalla magistratura di merito tradi­
zionalmente più democratica; con l’amnistia non solo si mandarono a casa i fa­
scisti ma si offrì anche l’avallo giuridico per iniziare il processo alla Resistenza
che continuò negli anni cinquanta. In una parola si mancò « la trasformazione
dello stato di polizia in uno stato di diritto ». Quanto questo tortuoso cammino
all’indietro fosse motivato da sconfitte politiche e quanto invece da imperizia,
superficialità, disattenzione che quelle sconfitte favorirono, non è problema risol­
to dal saggio di Battaglia. Da esso esce però una ricostruzione utile, attenta non
alle cause ma agli effetti delle scelte intraprese in un campo ben delimitato, che
è un modo sia pure parziale per impostare un’analisi più generale6.
I contributi di Neppi M odona7 riguardano solo in misura assai ridotta gli anni
della ricostruzione postbellica, presentandosi invece come excursus sul lungo pe­
riodo. Malgrado la debolezza quantitativa dell’indagine, bisogna però riconoscere
all’autore la capacità di individuare i punti essenziali delle tematiche affrontate e
i momenti cruciali in cui si decide o si potrebbe decidere il rinnovamento del par­
ticolare aspetto istituzionale affrontato. C ’è forse, proprio per l’angolazione così
specifica con cui si guarda al periodo, una accettazione un po’ troppo frettolosa
della tesi della continuità istituzionale della recente storia d’Italia, che evidente­
mente può essere sostenuta solo sulla base di un discorso complessivo sullo stato
e sulla società; anche se evidentemente il problema dell’assetto della magistra­
tura o del sistema carcerario appare di centrale importanza per un discorso sulle
istituzioni che solo la forza dei fatti e delle argomentazioni quali quelle offerte
da Neppi può contribuire ad allargare e ad approfondire 8.
6
A chille B attaglia, I giudici e la politica, Bari, 1962; le citazioni, nell’ordine, alle
pp. 5, 77-85, 89 e 113.
7
G uido N eppi M odona, La magistratura e il fascismo in Fascismo e società italiana, To­
rino, 1973; Carcere e società civile in Storia d’Italia. V. I documenti, Torino, 1973.
!
Cfr. sempre sulla magistratura: Z. A lgardi, Processi ai fascisti, Firenze, 1973; V a ssa lli
e S abatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica, ed. La Giustizia penale, Roma, 1947.
34
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Assai più nutrito è l’elenco dei contributi più squisitamente giuridici e di quelli
propriamente costituzionali, il cui limite naturale è ovviamente quello di essere in­
dagini tutte interne al testo e alla norma della carta costituzionale, isolate dal
contesto storico e inserite tutt’al più in un discorso dottrinario o culturale-giuridico9. Vi sono tuttavia una serie di testi che, o per l’angolazione da cui viene con­
dotta l’analisi giuridica, o per la natura dei temi parziali affrontati o, ancora, per
l’ampiezza di un discorso costituzionale più generale che abbraccia la problemati­
ca della democrazia moderna, risultano, anche allo storico, di profonda utilità per
la ricchezza della problematica che l’ottica particolare riesce spesso a suggerire.
Esemplari per la profondità e l’attualità delle tesi sono gli studi di Calamandrei
che, grazie alla diretta e insostituibile partecipazione alla stesura del testo costi­
tuzionale è riuscito a rendere la diatriba giuridico-costituzionale pregnante di sen­
so storico e di attualità politica. Il saggio apparso in Dieci anni dopo ad esempio,
forse il meno scientifico dal punto di vista del giurista, è senz’altro tra i contri­
buti ancora oggi più stimolanti ed è esemplare di quella polemica politica che,
partendo dalle inadempienze costituzionali, ed esaminandone le cause interne ed
esterne, ricostruisce anche a livello giuridico e politico-formale il cammino della
restaurazione borghese. Più che riassumere il saggio di Calamandrei sarà forse
utile trarne qualche spunto: il giudizio di fondo attorno a cui ruota l’analisi delle
carenze costituzionali è felicemente sintetizzato nell’affermazione che « per com­
pensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si
opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa » I0. Il senso
di questo compromesso costituzionale è abbastanza evidente, come lo sono i mo­
di in cui fu attuato: carenze del legislatore che non promulgò leggi adeguate per
imporre l’attuazione della carta; carenza del governo che non approntò organi
legislativi funzionanti; carenza della magistratura che, retriva, favoriva l’inadem­
pienza costituzionale dimostrandosi prona al governo. Se sono ben delineati il
momento del compromesso, la sua conseguenza immediata (frattura limitata alla
forma dei supremi organi costituzionali e continuità di tutto il resto dell’ordina­
mento giuridico e statale), la sua conseguenza a lungo termine (e cioè il regime
democristiano), ben poco ci offre il saggio di Calamandrei per capire come e per­
ché si giunse a questo compromesso. Se le sinistre non videro nella Costituzione
una fotografia dei rapporti di classe esistenti (per loro sempre più sfavorevoli:
la Costituzione fu approvata dopo l’estromissione delle sinistre dal governo), ma
la videro come prefigurazione dei rapporti di classe da essi auspicati, questo non
fu causato solo dall’affievolirsi (più o meno documentabile) di un’« istinto » di
classe. Si trattò insieme di una sopravvalutazione dell’elemento giuridico (una fidu-
9
Cfr A G uarino, Due anni di esperienza costituzionale, in Rassegna di diritto pubblico,
1946; C. M ortati, La Costituente, Roma, 1946; B alladore-Pe ll ie r i , Diritto costituzionale,
1949; P. B iscaretti D i R u ff ia , L o stato democratico moderno nella dottrina e nella legisla­
zione costituzionale, 1946; Sica, Studi sulla Costituzione, II, Milano, 1958; A. P redieri, I par­
titi politici in Commentario alla Costituzione, Firenze, 1950; C alamandrei-Lev i , Commenta­
rio sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950; F alzone-Gr o ssi , Assemblea Costituen­
te in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1958, III.
10
P iero C alamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla in Dieci anni dopo, cit.,
p. 215.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
35
eia troppo ingenua nella forza coercitiva della legge) o di una sua sottovalutazione
(di qui le varie carenze tecniche dal punto di vista giuridico)? o anche di una so­
pravvalutazione della propria forza che si pensava dovesse venire evidenziata il
18 aprile; oppure di una lungimirante ritirata strategica in vista di un riacutizzarsi
internazionale ed interno dei contrasti di classe che tendeva a salvaguardare, nella
Costituzione, un punto fermo da cui riprendere le mosse? Sono domande a cui
evidentemente può dare risposta non uno studio costituzionale, ma una indagine
storica ben più complessa.
Sempre da un punto di vista giuridico, ma con spunti che non dovrebbero essere
lasciati cadere, è interessante la parte finale del saggio di Ambrosini nella Storia
d’Italia che enuclea tutte le contraddizioni giuridico-legislative senza dimenticare
che esse ebbero deleterio effetto pratico proprio nel passaggio dal fascismo alla
repubblica. Innanzitutto l’atteggiamento verso il fascismo, « per cui si deve pen­
sare ad un giudizio di illegittimità relativa, quasi a dire che il fascismo si impose
in modo formalmente legale pur realizzando fini illegali » e che portò alla contrad­
dizione tra le leggi punitive del fascismo da una parte e l’inapplicazione di tali
leggi e la sopravvivenza di leggi fasciste dall’altra. E infatti « i decreti e le leggi
successivi al 25 luglio 1943 si sono limitati ad una condanna dei modi, lasciando
inalterati molti fini ». Inoltre la compresenza, nel passaggio giuridico dal fasci­
smo allo stato repubblicano di atti che si conformavano ai dettami dello Statuto
con atti innovativi destinati a sostituirlo (confusione alimentata dalla tregua isti­
tuzionale) porta ad una lunga fase ibrida e di compromesso che si scioglierà solo
con la Costituente (tipica la figura del luogotenente che sanziona formalmente
gli atti legislativi ma è escluso dal potere). Interessante è anche l’accento posto
sulle fonti di produzione giuridica. Se negli anni a noi più vicini si sono affermate
nuove fonti di diritto accanto a quelle tradizionali e proprio in virtù di lotte poli­
tiche e sociali che hanno mutato oltre i rapporti di forza anche l’ideologia e la
dottrina (si pensi alla Corte Costituzionale, alle Regioni, ai sindacati stessi), que­
sto problema non ha avuto nell’immediato dopoguerra alcun rilievo, contribuen­
do (sul piano giuridico ma anche sugli effetti che esso ha sulla realtà) ad avvalo­
rare il tema della continuità. Con fine senso politico, Ambrosini conclude che
« il fatto stesso di consolidare in un testo giuridico articolato le conquiste operate
nella lotta politica costituisce un freno alle tendenze più avanzate » “ .
Su un terreno squisitamente dottrinario si muove Crisafulli in I partiti nella Co­
stituzione n. Tralasciando il discorso di fondo sulla sovranità popolare, quello
che preme sottolineare è come una valutazione — forse eccessiva — del ruolo dei
partiti nella Costituzione, è qui svolta soprattutto sulla base dei fatti precedenti12
11
G . A m brosini, Diritto e società, in Storia d’Italia, I. I caratteri generali, Torino, 1972;
le citazioni, nell’ordine, a pp. 385, 386, 391; cfr. anche Costituzione e società in Storia d ’Italia
V. I documenti, Torino, 1973, e Profilo storico del costituzionalismo italiano, in Studi per il
X X anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. I, Firenze, 1969.
12
V ezio C r isa fu lli , I partiti nella Costituzione, in Studi per il X X anniversario del­
l’Assemblea Costituente, Firenze, 1969, col. II ; cfr. anche Idem, La sovranità popolare, in
Studi in onore di V. E. Orlando, Padova, 1951, discorso formalmente ineccepibile, ma gra­
vemente contraddittorio con la realtà dei fatti.
36
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
alla Costituzione stessa. Infatti, osserva Crisafulli, il fatto nuovo rappresentato
dall’art. 49 è, concretamente, il punto di approdo e la risultante di una situazione
reale verificatasi in Italia negli anni 1943-48, il suggello di un « fatto » che preesi­
steva alla Costituzione repubblicana ed anzi può ben dirsi ne sia sostanzialmente
alle origini. E nella stessa prospettiva il ruolo del CLN centrale viene ad essere
quello di un normale parlamento. Il momento di rottura con il fascismo e di con­
tinuità tra Resistenza e repubbHca è dunque da ricercare nei partiti: « Il ricono­
scimento — espresso, formale, univoco — dei partiti è come un filo continuo che
passa attraverso la legislazione del periodo transitorio, che nelle sue varie fasi
precede e prepara l’avvento del nuovo ordinamento repubblicano ». Già nel ’44
infatti la Consulta siciliana e quella sarda erano formate sulla base di rappresen­
tanze partitiche; nel febbraio ’45 la rappresentanza di delega di governo al
CLNAI veniva espressa a quell’organo come organo di partiti (e, se questa inter­
pretazione è riduttiva, è però in linea con l’interpretazione non « rivoluzionaria »
della Resistenza e dei suoi organismi); ancora nel ’45 la Consulta, che per Crisa­
fulli rappresenta una sorta di preparlamento, sarà formata nella maggioranza di
persone nominate dai partiti; in attesa delle elezioni amministrative gli organi di
governo comunali e provinciali vennero costituiti su designazione dei principali
partiti; furono i CLN — e cioè i partiti — chiamati a designare i giudici popolari
componenti le corti straordinarie d ’assise e gli elementi da inserire negli uffici del
pubblico ministero. Questa interpretazione dei CLN come organi di partito —
che in larga parte risponde a verità e che comunque fu quella accettata nei fatti
anche dalle sinistre all’indomani della liberazione — permette al Crisafulli di met­
tere in luce, in un processo di continuità che trova sanzione nella carta costitu­
zionale, come siano appunto i partiti la novità del periodo in esame. Il vedere
nei partiti, nel loro ruolo e soprattutto nella loro unione, il germe del futuro or­
dinamento, già dice molto sulla funzione e l’opera che essi svolsero.
Se insomma anche da parte giuridica (e sia pure con alcune forzature) si tende
a mettere in evidenza il valore giuridico dei partiti, questo può essere uno spun­
to per il discorso fatto sul nuovo tipo di potere democratico (non più liberale)
che appare nella repubblica e che trova appunto nei partiti il suo nuovo sostegno.
E infatti così conclude Crisafulli: « In sintesi dunque: l’affermazione dei partiti
quali effettivi centri decisionali in ogni settore della vita pubblica nazionale pre­
cede lo stesso riconoscimento formale del diritto dei cittadini ad associarsi in par­
titi ».
Sulla stessa linea, anche se con differenze non sempre superficiali si muove Ama­
to 13 che vede nei partiti lo strumento principale della sovranità popolare in quan­
to trait-d’union tra collettività e stato-governo; sono infatti « soprattutto i par­
titi politici cui è affidato il compito di mantenere permanentemente aggiornato
il rapporto della organizzazione governativa con la collettività popolare ». Siamo
qui su un terreno che spesso confina con la scienza politica e dei partiti e non a
caso intere pagine sono dedicate alla diversità tra popolo e corpo elettorale e alla
G iuliano A mato, L a sovran ità p op olare n ell’ordinam ento italian o, s.n.t.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
37
discussione sulla personalità giuridica del popolo e dei partiti. Non si tratta, co­
me può sembrare, di un dibattito puramente giuridico, ma soprattutto di una
proposta tecnica di lettura costituzionale e di prassi politica che superi l’impasse
delle interpretazioni o delle divisioni ideologiche. Ê una impresa che, proprio per
il feticismo del fatto, del dato, della norma, ci sembra trovarsi al limite del vel­
leitarismo e dell’equivoco, ma che comunque rientra in un tentativo di revisione
giuridica interessante anche se di matrice nettamente tecnocratica. E infatti Ama­
to insiste sui vincoli che renderebbero non liberi i governanti nell’esercizio del
potere, vincoli reali (quali l’eleggibilità e la rappresentatività degli organi costi­
tuzionali e le forme di democrazia diretta presenti nel testo costituzionale) ma
evidentemente valutati in modo esagerato rispetto alla loro realtà effettuale. E
il centro del discorso tornano ad essere ancora una volta i partiti (« cui è affidato
il compito di mantenere permanentemente aggiornato il rapporto della organiz­
zazione governativa con la collettività popolare ») visti non come entità storica­
mente determinate, ma formalmente definite sulla base della dottrina.
Anche Maranini ", sebbene con ottica differente, considera fondamentale per il
periodo immediatamente postbellico, il problema dei partiti e quello dei rapporti
tra essi e l’Assemblea Costituente. Non solo come un riconoscimento di fatto e
cioè perché « dietro la sua sovranità teorica — dell’AC — stava la sovranità effet­
tiva dei partiti che ne avevano voluto la convocazione e che la componevano »,
ma anche come motivo di un giudizio blandamente negativo sul modo di far rina­
scere la democrazia italiana. Dietro il riconoscimento delle ragioni ideali e prati­
che che hanno spinto gli uomini della Costituente alla ricerca di un sistema di
garanzie giuridiche sufficienti ad evitare nuovi tracolli della vita parlamentare in
senso assolutistico, si nota nelle parole di Maranini una malcelata sfiducia verso
quegli ordinamenti speciali e settoriali (quali egli considera i partiti) che hanno
di fatto tenuto a battesimo « le nuove strutture dello stato italiano e cioè dell’or­
dinamento giuridico generale ». È una considerazione che, non approfondita nei
suoi termini storici, politici e giuridici, si colloca in una sorta di difesa, indiretta
e blandamente polemica, della tradizione liberale accompagnata dalla presa d’atto
dell’evolversi e del mutarsi delle condizioni storiche.
Assai carenti sono i contributi volti a definire il retroterra culturale dei partiti e
degli uomini che hanno contribuito alla formulazione del testo costituzionale. Ca­
renza tanto maggiore se si pensa che proprio l’inadeguatezza ideologica e giuridi­
ca dei partiti antifascisti è sempre stata una delle accuse rivolte con più facilità
e giustezza, ma anche con una buona dose di superficialità, ai padri della nostra
Costituzione. È una ricerca che andrebbe fatta, e non solo nei riguardi dei partiti
di sinistra, ma anche della Democrazia cristiana, per poter valutare coscientemen­
te che tipo di egemonia culturale, se è possibile verificarla, sia esistita nel mentre
si stava sviluppando una precisa egemonia politica, e quale rapporto o autonomia
sia possibile cogliere tra questi due elementi: onde evitare di separare l’analisi14
14
G iu seppe M aranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze, 1968; le citaz.
a p. 326.
38
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
della carta costituzionale e delle sue singole formulazioni dalla battaglia politica
che l’ha accompagnata e che comunque ha avuto luogo simultaneamente.
Nel saggio di Paolo Ungari, Lo Stato moderno 15, che fa proprie le tesi della de­
stra azionista a proposito di una trasformazione delle istituzioni statali da attuarsi
attraverso leggi organiche e soprattutto apparati amministrativi efficienti in un
quadro che, nonostante la fraseologia, è nella sostanza di restaurazione piena del­
la democrazia rappresentativa di tipo liberale, viene avanzata la tesi secondo cui
ogni discorso che puntasse sui CLN come organi statali o comunque ogni discor­
so « rivoluzionario » sul tema dello stato, non poteva che essere velleitario a par­
tire dagli accordi Medici-Tornaquinci « con i quali i CLN si impegnavano ad
amministrare nell’interregno con piena osservanza della legalità, per rimettere
poi i loro poteri all’AMG e al governo centrale trasformandosi in organi con­
sultivi ».
È a partire da questi accordi, cioè, che sparirebbe di fatto quella dialettica restau­
razione/trasformazione radicale e l’unica alternativa ad una restaurazione piena
diventerebbe una riorganizzazione efficientistica. Anche se le posizioni dell’Ungari
riprendono una polemica poco produttiva contro l’estremismo verbale-conserva­
zione reale che praticherebbero i partiti di sinistra, non mancano delle osserva­
zioni acute come quella secondo cui non fu il CLN « a porgere la modellistica
istituzionale sulla quale si articolò il dibattito delle forze politiche antifasciste
nella fase precostituente e costituente, se non in ridottissima misura »; tuttavia
non si cerca di individuare i motivi e soprattutto di capire che risultati questo
fatto comportò. Infatti non volendo utilizzare modelli costituitisi nel corso della
guerra di liberazione e evitando che autonomamente ne sorgessero altri (col voler
esaurire tutta la « politica » all’interno dei partiti stessi) non restava nei fatti che
il vecchio modello liberale da aggiornare e modificare ma non trasformare radi­
calmente.
Assai scarso è il contributo di sociologi, politologi, studiosi dei partiti, i cui studi
in genere 16 sorvolano con noncuranza proprio il periodo della ricostruzione isti­
tuzionale per affrontare invece con maggiore attenzione gli anni a noi più vicini.
È evidente che proprio questo tipo di studi, per la loro impostazione e per il loro
fine, abbisognano di una maggiore documentazione e difficilmente, per il loro
porsi sul lungo periodo, possono essere utilizzabili ad una indagine circoscritta
a pochi anni sia pure tumultuosi e particolarmente significativi. Ma è proprio la
ricerca di una tipologia, la volontà classificatoria e statistica che rende difficile
cogliere i problemi nodali, dal punto di vista istituzionale, del periodo 1944-48.
Si veda ad esempio come Farneti17 tenti da una parte una classificazione dei di­
15
P aolo U ngari, L o Stato moderno (Per la storia di una ipotesi sulla democrazia, 19441949), in Studi per il X X anniversario, cit. vol. I.
16
Cfr. soprattutto gli scritti di Sartori, Pizzorno, Galli in Quaderni di sociologia, 1966 e
1968; Politica del diritto, 1971; Rassegna italiana di sociologia, 1972; Rivista italiana di
scienza politica, 1971; il volume collattaneo Partiti e partecipazione politica in Italia, Milano,
1972, oltre alle opere di Duverger, Poulantzas, Kirchheimer e anche Weber.
17
P aolo F arneti, Il sistema politico italiano, Bologna, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
39
versi momenti della società, con sottogruppi, variabili, etc., dall’altro di verificar­
ne la validità attraverso una analisi cronologica delle vicende politiche dal dopo­
guerra ai giorni nostri. Il discorso generale è senza dubbio il più debole, incen­
trato com’è su una contrapposizione assai poco convincente tra stato e politica,
dove appunto la « società politica raccoglie tutto ciò che è espressione di volontà
politica non statuale (non istituzionale); essa si pone come concorrenza al mono­
polio del politico da parte dello stato », Ma a parte le considerazioni teoriche nel
cui merito non è il caso di entrare, anche sul terreno dell’analisi concreta non si
va al di là di ovvie constatazioni quali la mancanza dell’egemonia di un partito e
quindi la necessità di una coalizione di maggioranza (ma l’ottica è evidentemente
tutta quantitativa), e la democratizzazione che investì solo gli organi elettivi, ma
non si estese ad altre formazioni di potere quali la burocrazia, etc., e il conside­
rare il parlamento e il governo « struttura intermedia tra società politica da un
lato e istituzioni statuali dall’altro ». Di maggiore utilità è senz’altro l’opera di
Sartori18 che pur nella rigidezza di uno studio compilativo e statistico può offrire
una serie di dati che permettono, inseriti in una indagine più complessiva e inte­
grata con altra documentazione, una verifica sul terreno del personale politico
che si colloca alla direzione del paese nel dopoguerra.
L ’approccio comunque più interessante sul tipo di problemi in esame, proprio
per l’apertura storica e lo stimolo a non rinchiudere in alvei precostituiti lo stu­
dio delle istituzioni, è offerto da due contributi, diversissimi tra loro sotto ogni
punto di vista, che sono il risultato di una acuta conoscenza scientifica, di una
profonda passione politica e della diretta esperienza e partecipazione agli avve­
nimenti.
Ne II principe senza scettro di Basso, che forse è l’opera più interessante sul pro­
blema politico-istituzionale, è evidenziato meglio che altrove il limite strutturale
dell’atteggiamento delle sinistre sulla questione. Il giudizio di Basso sui CLN è
insieme realistico e critico (cosa difficilmente riscontrabile invece nelle posizioni
comuniste dove prevale solo il primo aspetto): essi infatti « da un lato avrebbero
dovuto essere espressione di questa iniziativa che saliva dal basso, organo del po­
tere popolare, strumento della nuova democrazia, ma dall’altro lato erano espres­
sioni di una coalizione di partiti soggetti alle regole della pariteticità e dell’unani­
mità nelle loro decisioni [...]. Questo conflitto tra iniziativa popolare e rinnova­
mento dal basso e, dall’altra, restaurazione conservatrice e direzione dall’alto fu
il problema centrale della Resistenza, pressoché unanime nella prima posizione
nella sua base di massa, ma frenata, in modo sempre più evidente, dall’intervento
centrale di alcuni partiti, la cui presenza nel CLN favoriva quest’azione di re­
mora ». Quando però si passa al dopoguerra sembra si accetti che quella dicoto­
mia interna alla Resistenza sia ormai risolta sfavorevolmente, per cui, pur rico­
noscendo all’antifascismo italiano una scarsa elaborazione di idee e tecniche costi­
tuzionali (bilanciata però da un maggior desiderio di rinnovamento), pur ricono­
scendo i limiti del compromesso istituzionale, pur riconoscendo le molte scadenze
G iovanni S artori, Il Parlamento italiano, 1946-1963, Napoli, 1963.
40
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
non rispettate o lasciate passare senza lotta, il discorso diventa quasi esclusivamente « costituzionale », e la Costituzione viene giudicata al suo interno e non
già in relazione ad una lotta politica che ancora non era chiusa. Di qui non solo il
giudizio estremamente positivo sulla Costituzione e l’esagerato valore attribuito
al referendum, ai poteri del capo dello stato, all’autonomia della magistratura,
ma anche il vedere nei partiti, « il cui concreto fondamento ritrova nel CLN la
sola autorità politica e legittima della Resistenza che era nato e viveva come coali­
zione di partiti », il fatto nuovo politico e anche giuridico della democrazia repub­
blicana rispetto alla democrazia liberale 19.
La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra di Foa, malgrado sia dedi­
cato agli aspetti economici del periodo 1944-48, offre notevoli stimoli per una
comprensione anche della problematica politico-istituzionale. E questo a ripro­
va di come l’analisi settoriale di un problema anche decisivo debba essere ne­
cessariamente ricondotta a una visione d’insieme della dinamica che percorre
la società tutta nel periodo preso in esso. È quanto accaduto invece nelle ri­
cerche finora ricordate che, per vedere il problema politico-istituzionale come
a se stante o nel migliore dei casi come puramente riferibile alla opinione e al­
l’azione dei partiti politici, non sono riuscite a dare, sia nella descrizione che nei
giudizi, un quadro d ’assieme del problema del potere visto nei suoi rapporti con
tutte le articolazioni della società. Così il problema dell’intervento dello stato
nell’economia (decisivo non solo per una comprensione dello sviluppo economico
ma anche per una comprensione del tipo di stato, del livello di integrazione tra
forze economiche e forze politiche, etc.) non è mai risultato trasparire dagli scrit­
ti esaminati: e l’ipotesi di Foa per cui « solo dopo la caduta del fascismo e già nel
periodo della ricostruzione, si avviò una utilizzazione razionale e su vasta scala
degli strumenti di intervento statale nell’economia forgiati dal fascismo » si può
così dimostrare utile da verificare anche in relazione a uno studio sullo stato sia
nella sua funzione politica mediatrice, sia nella sua veste di apparato organizzativo-burocratico. Il contributo di Foa è comunque più ampio. Sul tema del CLN
si sottolinea come nel corso della Resistenza e soprattutto a livello intermedio e
di base « il tema della nuova democrazia, di una trasformazione dello Stato cen­
tralizzato in una organizzazione politica fondata su autonomie di base, trovò la
sua elaborazione più ricca » 20. Con una indicazione ad approfondire meglio la
portata che ebbe a tutti i livelli il dibattito sulle forme del potere democratico e
l’eventuale contrasto o dialettica tra gli organismi intermedi e periferici con i ver­
tici dei partiti e 'l’influenza reciproca che ne derivò. E un discorso del genere è
comunque da estendere soprattutto al dopoguerra dove la verifica è possibile non
solo sul piano della ideologia o del consenso quantitativo.
Occorre infine menzionare due lavori che ultimamente, con intenti diversi e diver­
sa prospettiva, hanno ripreso la tematica istituzionale nel periodo transitorio e
19
L elio B asso , Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costi­
tuzione e nella realtà italiana, Milano, 1958, p. 101 e 102.
20
V ittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia
contemporanea, 1973, n. 4; le citazioni, nell’ordine, alle pp. 453 e 451.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
41
costituente, offrendo materiale per un rilancio di questi studi in una prospettiva
più ampia. Il governo di coalizione21 di Ferrara parte infatti da una analisi della
struttura dei centri decisionali del periodo di transizione, e cioè del governo,
scorgendovi una delle costanti che verranno mantenute posteriormente e formalizzate tanto nel testo costituzionale che nell’ordinamento politico più generale
che nella prassi parlamentare. Non potendo ripercorrere tutte le considerazioni
dell’autore, basterà ricordare come il Ferrara veda soprattutto nella struttura go­
vernativa la rottura profonda del regime transitorio col fascismo, scorgendo un
legame inequivocabile tra l’uguale partecipazione dei partiti al potere politico nei
governi di CLN e nel tripartito e la formulazione degli articoli 3 e 49 della Costi­
tuzione, dove il primo assicurerebbe, con la pari dignità sociale, una paritaria par­
tecipazione a livello politico, il secondo individuerebbe nei partiti lo strumento
per rapportare società e stato e far così funzionare quest’ultimo secondo istanze
che nascono e si fondano sulla società civile. Anche se nella seconda parte l’in­
fluenza della più aggiornata scienza politica e la necessità di far rientrare il discor­
so in una problematica pienamente giuridica e costituzionalistica portano ad una
progressiva sfumatura ed evanescenza del solido senso storico cui è ancorata la
prima parte del volume, il contributo di Ferrara va senz’altro preso come un in­
vito ad approfondire i legami reali e formali tra periodo transitorio, nuove isti­
tuzioni democratiche e testo costituzionale, che è l’unica ottica che permette di
uscire dal mero terreno del diritto e di affrontare il problema statuale del secon­
do dopoguerra con un discorso storico più completo. Intervenendo sulla polemi­
ca aperta dal libro in questione, Zagrebelsky 22 tenta, recuperando con intelligenza
i contributi di diverso orientamento, di ripresentare la ortodossa posizione comu­
nista, mantenendo però al discorso un carattere di problematicità e di apertura
che testimonia l’intensità e la sincerità dello sforzo iniziato da più parti per
ridefinire in termini il più possibilmente scientifici il problema del trapasso istitu­
zionale dal regime fascista a quello democratico. « Dove, come in Italia dopo la
liberazione, la scelta consapevolmente operata dalle grandi forze politiche antifa­
sciste fu quella di una trasformazione dall’interno delle strutture del potere, co­
sicché la costruzione del nuovo stato fu impostata non sulla macerie ma sui pila­
stri del vecchio, appare evidente la difficoltà di percepire sul piano delle strutture
di potere elementi significativi in una discussione sulla continuità o discontinuità
degli ordinamenti ». È questa indubbiamente una giusta impostazione che va sot­
tolineata e ripresa, non importa se poi contraddetta dalle conclusioni troppo sem­
plicistiche per cui il ’47 e l’estromissione delle sinistre dal governo « individua­
lino] una frattura tra un ordinamento democratico e progressivo ed un altro se­
gnato dalla discriminazione verso le forze popolari e democratiche della sinistra »,
avvalorando la tesi, non nuova, che il carattere traumatico del ’47 è da ricercare
in una improvvisa sterzata filocapitalistica della DC.
Di diverso tenore è il saggio che Cheli ha dedicato al problema storico della Co­
21
G iovanni F errara, Il governo di coalizione, Milano, 1973.
22
G ustavo Z agrebelsky , Coalizione di governo e regime transitorio, in Democrazia e
diritto, 1973, n. 4; le citaz. a p. 202.
42
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
stituente, tentando di ritrovare, in modo più descrittivo che interpretativo, il si­
gnificato di questo breve periodo nella recente storia italiana. Non si tratta co­
munque di una ricostruzione puramente cronologica e precisa dei fatti, delle leg­
gi, degli ordinamenti, della composizione dell’Assemblea, dei canali di formazio­
ne culturale-istituzionale che trovarono la loro sintesi nella elaborazione della
Costituzione. Anche se proprio la chiarezza espositiva permette con una visione
d’assieme di cogliere i vari nodi storicamente ancora irrisolti e meritevoli di ulte­
riore approfondimento. Il riconoscimento del distacco tra Costituente e paese e
il tentativo di individuarne le cause, la continuità tra classe dirigente della lotta
antifascista e del periodo transitorio e dell’Assemblea Costituente, che si accom­
pagna ad una accentuata unanimità sulle grandi prospettive e ad una acutizzazione
della polemica sulla politica contingente, la natura del compromesso costituzio­
nale e le condizioni culturali e politiche che permettono il realizzarsi di tale pat­
to: sono tutti problemi affrontati, sia pure di sfuggita, ponendo l’accento sul ca­
rattere intricato e contraddittorio della situazione reale, senza voler giungere a
definizioni precise o risposte esaurienti. « Il risultato finale — sostiene l’autore
sintetizzando il periodo della Costituente — è presto indicato: la Costituzione
nasce come prodotto autentico (caratterizzato cioè da una sua intrinseca omoge­
neità) ma anche notevolmente sfalsato dalla realtà contingente del paese »
È
una formulazione ancora troppo generica e problematica: ma esprime meglio di
ogni altra — come tutto il saggio del Cheli che da questo punto di vista risulta
emblematico — lo stato degli studi sul problema della rinascita delle istituzioni
democratiche nel secondo dopoguerra e il punto di partenza da cui occorre muo­
versi per il futuro.
Il modo di indagare la problematica politico-istituzionale in un periodo come
quello 1944-47, non può che essere quello di vedere il potere (sia quello reale
che quello legale con i rispettivi intrecci e opposizioni) in rapporto all’evolversi
dei rapporti sociali, cioè di classe, nella società,, privilegiando lo studio, da una
parte dei partiti, dall’altra degli organismi democratici e misurandone la dialetticità sempre più opaca e frammentaria per risalire alle cause e offrire alternative
possibili alla realtà della situazione esistente.
È chiaro che muoversi in una simile direzione significa compiere una ben precisa
scelta storiografica che si contrappone tanto a una pura ricostruzione documen­
taria che a una riduzione al terreno giuridico di tutta la problematica istituzio­
nale, sia a risolvere nuovamente il problema all’interno di una disamina critica
della linea dei partiti quanto a una separazione meccanicistica tra struttura e
sovrastruttura per cui il momento politico-istituzionale sarebbe necessariamente
il frutto di una battaglia che si svolge solo nella società civile, in fabbrica o negli
uffici della Confindustria.
Esaminare lo svolgimento politico-istituzionale del periodo ’44-47 significa quin­
di esaminare lo sviluppo delle fonti (reali e legali) del potere, l’articolazione del
potere nei vari istituti, i meccanismi di funzionamento del potere, il rinnovamen-
u
E nzo C h eli , II problema storico della Costituente, in Politica del diritto, 1973, n. 4-5,
p. 520.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
43
to degli istituti del potere e del loro funzionamento, il personale delle istituzioni,
le decisioni prese e i provvedimenti adottati in relazione alla dinamica sociale del
periodo, riscontrabile soprattutto nell’azione dei partiti e nella vita degli orga­
nismi democratici approntati prima e dopo la liberazione. Ed è attraverso tale
esame che può essere possibile un discorso anche generale sullo stato in termini
non puramente giuridici e che sostanzi di fatti e giudizi il carattere di mediazio­
ne politica che esso ha nella società moderna; così come può ripartire di qui uno
studio dei partiti che, sfuggendo ad una impostazione meramente sociologica,
sappia recuperare in un’analisi concreta il carattere che essi hanno di espressione
politicamente mediata degli interessi di precise forze sociali.
Il dibattito economico
A differenza che per altri aspetti del periodo 1945-48, può dirsi che sul dibat­
tito intorno alla ricostruzione economica esistano già contributi di una certa im­
portanza e veri e propri tentativi di sistemazione della materia. Retro Barucci,
l’autore che si è occupato della questione con maggiore continuità e con i risul­
tati analiticamente più soddisfacenti, ha scritto recentemente, abbracciando l’in­
tera storiografia sulla ricostruzione: « Fra le vicende dell’Italia contemporanea
pochi periodi, come quello qui indagato, sono stati studiati con altrettanta accu­
ratezza. [...] La storiografia sul periodo è non soltanto folta e di buona qualità;
è anche una storiografia caratterizzata da un’attenta sensibilità verso i fatti eco­
nomici » *.
A parte l’eccessivo ottimismo di una simile valutazione, è certo che fin dal 1960
una pubblicazione della rivista Economia e storia aveva offerto una prima rico­
struzione, partecipe ma onesta, delle posizioni dei partiti politici italiani intorno
alla programmazione economica ad opera di Fiorentino Sullo e un’ampia e detta­
gliata bibliografia, che poteva essere usata con profitto, a patto di non tener con­
to di divisioni della materia quasi sempre arbitrarie, ad opera di A. Fiaccadori12.
Erano quindi seguiti spunti di grande valore di Foa e di Macchioro relativi alla
caratterizzazione storica del dibattito ideologico sulla ricostruzione3, saggi come
quelli di De Cecco sulla stabilizzazione della lira nel 1947 e di Piscitelli sul man­
cato cambio della moneta che contribuivano a chiarire aspetti essenziali della que­
stione 4, e, soprattutto, era venuta, ad opera dello stesso Barucci, un’ampia e pre­
1
P ietro B arucci, La politica economica internazionale e le scelte di politica economica
dell’Italia (1945-1947), Rassegna Economica, 1973, n. 3, p. 669.
2
A A .W ., I piani di sviluppo in Italia dal 1945 al 1960. Studi in memoria del prof. Jacopo
Mazzei, presentazione di A. Fanfani, Milano 1960.
3
V ittorio F oa, Le strutture economiche e la politica economica del regime fascista, in Fa­
scismo e antifascismo. Lezioni e Testimonianze, Milano, 1962, vol. I ; A. M acchioro, J.M. Key­
nes e il keynesismo in Italia, in Studi di storia del pensiero economico e altri saggi, Milano,
1970.
4
M arcello D e C ecco, Sulla politica di stabilizzazione del 1947, in Saggi di politica mo­
netaria, Milano, 1968 (una versione, con leggere modifiche, dello stesso saggio, dal titolo
La politica economica durante la ricostruzione 1945-1951, è pubblicata in Italia 1943-1950. La
ricostruzione, a cura di Stuart J . Woolf, Bari, 1974, pp. 283-318); E nzo P isc it e l l i , Del cam­
bio o meglio del mancato cambio della moneta nel secondo dopoguerra, nei « Quaderni del-
44
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
cisa catalogazione delle posizioni degli economisti italiani intorno al problema
della ricostruzione economica5.
Da questa serie di contributi è possibile rilevare i molti pregi ma anche i grossi
limiti di questa letteratura: viene colto il carattere anacronistico del predominio
liberistico nella cultura italiana, che rappresentava un unicum rispetto all’espe­
rienza contemporanea degli altri paesi europei, ma non vengono colte le radici
storiche e teoriche di tale egemonia; vi è un generale riconoscimento della debo­
lezza della sinistra, senza però che si vada al di là della semplice constatazione,
che rimane inesplicata, se non in termini di opportunismo o di tatticismo più o
meno deteriori. Se si aggiunge che proprio intorno ai limiti politici e ideologici
della sinistra si è prodotta la mole maggiore di studi, e che le posizioni dei catto­
lici (tranne alcune figure eccentriche) sono state scarsamente studiate o addirittu­
ra scarsamente divulgate, e per lo più in termini apologetici, si avrà un’altra no­
tevole caratteristica negativa della situazione degli studi.
I limiti maggiori ci sembrano, comunque, questi:
1) uno scarso respiro storico-genetico di questi saggi;
2) una certa residua astrattezza della trattazione, che non riesce mai a collocare
questi dibattiti come momenti di lotta politica: è il caso anche dell’Introduzione
a Saraceno di Barucci, che è una intelligente classificazione delle diverse posizioni
assunte innanzi al problema della ricostruzione, ma che astrae però dai nessi con
la lotta politica e sociale e dal rispetto per la cronologia, unificando in una com­
plessiva e indifferenziata risultante elaborazioni e acquisizioni che non possono
non esser viste invece nel processo del loro farsi e attraverso l’impatto con la lot­
ta dei partiti e delle classi;
3) l’assenza di un inquadramento nel dibattito generale che si apre nella cultura
italiana sul rinnovamento della società postbellica. Si tratta di verificare quanto
il dibattito economico sulla ricostruzione sia coerente al più generale clima ideo­
logico che caratterizza il periodo (la cosiddetta « ideologia della ricostruzione »),
o sia inserito in esso, o addirittura lo condizioni forgiando e suggerendo alcune
caratteristiche di esso. Non solo non esiste nulla del genere, ma anche i lavori di
storia della cultura sul periodo appaiono carenti da questo punto di vista; il sag­
gio di Luperini che ha intrapreso per primo un tentativo del genere appare trop­
po ideologizzato e fondato su ricerche assai circoscritte; gli sporadici tentativi
che sono seguiti sembrano ancor meno soddisfacenti6.
Vediamo in dettaglio. È facile avvertire come l’assenza di una restaurazione sto­
rico-filologica dei termini del dibattito favorisca oscurità e incomprensioni. I pro­
tagonisti della discussione parlavano a lungo e astrattamente di piano o di pro-
l’Istituto romano per la Storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza », n. 1, 1969; si veda anche
P aolo B a ffi , Memoria sull’azione di Einaudi, in Studi sulla moneta, Milano, 1966.
5
Introduzione a P asquale S araceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari,
1969.
6
R omano L uperini , Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopo­
guerra, Roma, 1971; l’approccio più utile al problema rimane pur sempre la lettura delle pa­
gine di E ugenio G arin, Quindici anni dopo 1943-1960 in La cultura italiana fra ’800 e
’900. Bari. 1962.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
45
gramma (la differenza era che una parola faceva paura, l’altra no, come si disse
con arguzia) per atterrire l’opinione pubblica o per propugnare una (moderata)
forma di programmazione, ma a quale idea di piano essi si riferivano, cosa inten­
devano con questa espressione? La questione è di sapere fino a che punto espe­
rienze economiche degli anni ’30 quali la pianificazione sovietica e il New Deal
o degli anni ’40 quali il piano Beveridge, e teorie come quella keynesiana fossero
conosciute e correttamente interpretate.
L ’unico esempio di questo tipo di ricerca di cui disponiamo, il saggio di Macchie­
rò, mette in luce la profonda incomprensione e il vero e proprio travisamento,
talvolta in malafede, del pensiero di Keynes ad opera dei liberisti italiani, che in­
fluiva anche, e profondamente, sulle sinistre: « Esse arrivavano — aggiunge Foa
— per esigenze di giustizia distributiva, a condividere le posizioni keynesiane sul­
la tassazione dei ricchi e sui prezzi politici per i beni di massa, ma riluttarono a
riconoscere che il risparmio nasceva dall’investimento e che si potesse affrontare
una spesa di disavanzo per sostenere la domanda » 1.
Certamente maggiore era la conoscenza dell’esperienza inglese, per quanto solo
nel 1948 l’editore Einaudi avesse tradotto la Relazione sull’impiego integrale del
lavoro in una società libera di F.W. Beveridge (e il fatto che questo editore, ge­
neralmente considerato quasi come l’espressione editoriale del Fronte popolare
in nuce o in atto, avesse pubblicato due anni prima il manifesto antipianificatorio
Pianificazione economica collettivistica di von Hayek, Pierson, von Mises e
Halm, con perentoria introduzione di Bresciani Turroni, dice molto sull’arretra­
tezza della sinistra nel campo della cultura economica); molte suggestioni doveva­
no anche venire dall’azione di governo in Francia, con la nazionalizzazione delle
ferrovie, delle officine Renault, dell’elettricità, del gas, del telegrafo e della radio,
del credito e di larga parte delle miniere di carbone, intervenuta nel 1945-inizio
’46 : ma in questo caso diremmo che si trattasse di una suggestione per lo più ne­
gativa, in quanto il rigetto popolare del primo progetto di nuova Costituzione non
poteva non ammonire a non tirare troppo la corda e a non spaventare troppo le
classi medie: il lancio del moderato (ma fin troppo utopistico per l’Italia) piano
Monnet non avrebbe, anche in virtù di questi fattori, trovato grande spazio nel­
le discussioni di quegli anni.
Forse può ipotizzarsi che il tipo di « piano » più diffusamente conosciuto fosse
quello teorizzato da Henri De Man negli anni della grande crisi: noto sia agli
esponenti del movimento operaio che lo avevano largamente discusso, approvato
o confutato, sia agli esponenti del corporativismo clerico-fascista che ne avevano
tratto autorevole conferma alla tendenza al superamento non collettivista dell’eco­
nomia di mercato che essi propugnavano, rappresentava con ogni probabilità un
antecedente non solo terminologico del Piano del Lavoro della CG IL, nel bene
e nel male.
Nuoce, da questo punto di vista, a tutti gli studi presi in esame (con l’eccezione
dei saggi di Macchioro e di Barucci) il non aver fatto riferimento se non fugace-
’
V ittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, nella Rivista di
storia contemporanea, 1973, n. 4, p. 439.
46
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
mente ai dibattiti e alle elaborazioni del ventennio fascista. È lì che vanno ricer­
cate le radici di molti orientamenti e il retroterra culturale di molte asserzioni ".
I liberisti pongono le basi dell’enorme prestigio del quale godono nell’ambito del­
l’antifascismo italiano nel corso della polemica da essi condotta contro il corpo­
rativismo. Ad essa si rifanno spregiudicatamente anche nel vivo delle dispute post­
belliche, facendo pesare e fruttare il capitale di prestigio accumulato. Le teorie
keynesiane verranno per molti anni equiparate al dirigismo fascista, fino a quando
la pressione delle cose e l’emergere di una nuova generazione di economisti meno
provinciale e culturalmente meno protetta costringerà alcuni fra i massimi espo­
nenti liberisti ad un tartufesco adeguamento in direzione dell’economia « corbynesiana » 9, nuova e non ultima versione teorica dell’autoctono « protezionismo
liberale » 10.
Ma è forse più importante notare come agli sgoccioli del regime si discutesse di
piani e di esperienze concrete di pianificazione in maniera già omogenea e, in ta­
luni casi, più approfondita perché libera da eccessivi assilli polemici, alle discus­
sioni del dopoguerra. È il caso di alcuni contributi al convegno pisano sui proble­
mi economici dell’Ordine nuovo del ’42, ingiustamente ricordato di solito soltan­
to in virtù del coraggioso ma mediocre e retrogrado intervento di Demaria in di­
fesa dei principi dell’economia di mercato. Le relazioni di Dami e di Fortunati
sono, dal nostro punto di vista, assai più significative Né possono essere dimen­
ticati i contributi di Papi e del Di Nardi, esempio di un’attenzione insolitamente
sollecita da parte di liberisti12; né si può tacere dei contributi, quantomeno a li­
vello di agitazione politico-culturale, promossi da De Stefani e dalla Rivista ita­
liana di scienze economiche intorno al keynesismo e, nel 1943, al piano Beveridge,
capziosi e non sempre correttamente informati, ma che comunque mettevano in
circolazione gli echi di quanto avveniva altrove.
Senza prendere le mosse dal periodo fascista è, pure, impossibile rendersi conto
della dialettica esistente all’interno del partito cattolico, se non in termini di « ani-
‘
Cfr. G. G allo, « Cesura » e « Continuità » nelle interpretazioni dell’economia italiana
dal fascismo al secondo dopoguerra, negli Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Uni­
versità degli Studi di Perugia, 1970-72, n. 11, Perugia 1973, pp. 279-348; G iorgio M ori,
Per una storia dell’industria italiana durante il fascismo, in Studi storici, 1971, n. 1; E ster
F ano D amascelli , La « restaurazione antifascista liberista ». Ristagno e sviluppo economico
durante il fascismo, in II movimento di liberazione in Italia, n. 3, luglio-settembre 1971.
5
L ’espressione è di A. Macchioro, nzWart. cit.
10_ Il termine, che ha un significato più ampio ed estensivo del precedente, è tratto dal­
l’introduzione di G iuliano A mato all’antologia II governo dell’industria in Italia, Bologna,
1972, da lui curata.
"
L ’intervento di D emaria può leggersi in appendice alla raccolta dei suoi scritti Problemi
economici e sociali del dopoguerra, a cura di T. Bagiotti, Milano 1951; per gli altri scritti
citati, cfr. gli Atti del Convegno per lo studio dei problemi dell’ordine nuovo, Pisa 1942 e
1943. Degno di nota è anche il volume di G uido C arli, La disciplina dei prezzi, edito da
Einaudi nel 1943, che è una analisi critica della politica economica nazista.
12
Cfr. G iu seppe U go P api , Preliminari ai piani per il dopoguerra, Roma 1944; G iu ­
seppe D i N ardi, Il controllo sociale dell’economia, Milano 1967. B arucci ha sostenuto la
tesi di una « priorità » del pensiero economico italiano moderno « nell’impostazione di alcuni
problemi teorici sulla pianificazione », riferendosi a Pantaleoni, Pareto e Barone, alla quale
sarebbe seguito « un declino di questo tipo di interessi », ma anche in periodo fascista non
sarebbe mancata una informazione « di notevole livello scientifico » { L ’idea di pianificazione
nella letteratura economica italiana, nella Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1972, n. 3).
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
47
me » contrapposte o divergenti. A differenza degli altri gruppi politici antifascisti,
i cattolici avevano potuto formare i propri quadri dirigenti in Italia, a contatto
con la realtà del paese e in regime di blanda vigilanza poliziesca, intervenendo e
spesso confluendo nelle iniziative culturali fasciste. L ’interscambio fra le riviste
cattoliche e quelle fasciste-corporative negli anni ’30 è senza dubbio impressio­
nante; in taluni casi è difficile capire quale sia l’elemento dirigente o egemone di
particolari campagne politico-sociali (la ruralizzazione, la campagna demografica,
ecc...). In questo clima, il gruppo di studiosi di economia raccolto da padre Ge­
melli intorno alla Rivista internazionale di scienze sociali (Vito, Fanfani, Taviani,
Mazzei, ecc...) si qualificava come il più attento alle esperienze economiche inter­
nazionali (degni di nota soprattutto i saggi di Vito sul New Deal) e come il più
incline a rifuggire i dogmi tradizionali dell’economia di mercato per abbracciare
una politica economica paternamente investita dall’intervento statale. Ci sembra
giusto insistere sul gruppo dei discepoli di Gemelli perché è il più significativo e
perché sarà l’unico a mantenere una certa coerenza di presupposti.
Resta il fatto che tutto ciò, nel periodo 1945-48, si ridusse a enunciazioni pro­
grammatiche, di cui i documenti democristiani non furono mai avari, all’attività
di alcune riviste, all’esperienza in larga misura isolata dei vari centri di studio e
di Saraceno (l’unico che formulò davvero un « piano »): poca o nulla l’attività
di governo. Non sembra credibile l’affermazione di Sullo secondo la quale l’inter­
mezzo di Campilli quale supremo timoniere della politica economica italiana si
muovesse in un senso di « moderata programmazione », tentativo subito schiac­
ciato dall’avvento di Einaudi.
In realtà emergono in questo periodo nel campo democristiano figure destinate
ad assurgere a simboli della completa sottomissione ideologica all’ortodossia libe­
rista, quali quelle di Pella e M alvestiti13.
L ’attività dei cattolici programmatori si svilupperà in parallelo all’attività di go­
verno, soprattutto nei settori del credito e del parastato che la provvida legisla­
zione fascista aveva posto sotto il pieno controllo statale, a cui l’ancor più prov­
vida ortodossia liberista di Einaudi aveva rinunciato, favorendo quindi un con­
trollo governativo anziché pubblico, che avrebbe significato in breve la rapida con­
quista democristiana delle banche e degli enti a vario titolo esistenti o di nuova
costituzione 1415. Dell’errore i liberisti si sarebbero accorti solo negli anni ’50, di
fronte al pieno sviluppo dell’EN I non solo in quanto organismo economico. Solo
all’avvio della piena ripresa produttiva la tendenza pianista sarebbe riaffiorata a
livello governativo, con il primo piano Fanfani sull’edilizia popolare “ .
Allo stato degli studi (pressoché inesistenti) non può essere suggerita altra spie13
P iero M a lvestiti , Economia programmatica o economia libera?, prefazione di G. P el Milano s.d. (1948); Id., Saggi e polemiche sulla Linea Velia, Milano 1951.
14
M. De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria nel dopoguerra, nei Saggi di
politica monetaria, cit., pp. 35-89.
15
D ’altronde il numero dei « pianisti » si ridurrebbe ulteriormente, se fosse accertata l’ipo­
tesi di Barucci secondo la quale molti « furono indotti a parlare di piano perché quest’ultimo
era richiesto come condizione per l’utilizzazione degli aiuti americani » (La politica economica
internazionale, cit., p. 673).
la ,
48
I! secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
gazione se non quella tradizionale, solida ma non onnicomprensiva, della piena
egemonia del « quarto partito », in quel periodo liberista e assolutamente con­
trario a ogni forma di controllo o di ingerenza non richiesta nell’attività privata,
la quale egemonia avrebbe messo la sordina alle tendenze non coerenti con tale
indirizzo esistenti nel partito cattolico, confinandole in secondo piano.
Ma è bene ripetere che il problema dell’avvento della DC quale grande partito
conservatore di massa è ancora tutto da studiare, soprattutto per quanto concerne
la sua compenetrazione con lo stato e l’uso da essa fatto delle strutture di potere
economico e politico ereditate dal fascismo, e che solo all’interno di un’analisi
complessiva di questo tipo potrà essere compiutamente analizzata la vicenda di
uomini « carichi sì di schemi dottrinari ma solo formalmente, in realtà poveri,
anzi privi di un’ideologia sociale precisa, e aperti e disponibili alla sperimenta­
zione più spregiudicata e più vuota di valori »
La letteratura più numerosa è senza dubbio sul PCI. Gran parte di essa si limita
a scoprire ciò che Togliatti diceva esplicitamente ogni volta che se ne presentava
l’occasione: che i comunisti non intendevano instaurare un regime socialista, non
ritenendo peraltro di averne la possibilità, e che consideravano utopistico un pia­
no generale dell’economia italiana, nonché una nazionalizzazione generalizzata
delle grandi imprese private, affermando inoltre che essi avrebbero fatto ricorso
all’iniziativa privata anche se fossero stati al potere da so li1617*.
Sulle motivazioni di questo atteggiamento ci sembra stimolante anche se forse
unilaterale l’interpretazione di Cafagna, per il quale l’obiettivo principale della
strategia comunista era « il partito stesso, cioè la massimizzazione della sua forza
nella società italiana, il suo consolidamento in quest’ultima » 1!. Ciò presuppor­
rebbe fin dall’inizio la lucida consapevolezza della fragilità della coalizione antifa­
scista fondata sull’alleanza dei tre partiti di massa, e, soprattutto, della solidarietà
internazionale fra le due grandi potenze: di qui l’apprestamento di una linea di
resistenza volta a operare nei tempi lunghi all’interno di una società uscita da
vent’anni di dittatura reazionaria e difficilmente acquisibile nell’immediato a una
prospettiva socialista.
Tuttavia, come è noto, l’Unità valutava positivamente lo scoppio della bomba
atomica a Hiroscima, che oggi è difficile non vedere quale primo cinico atto della
guerra fredda, più che doloroso epilogo della seconda guerra mondiale, e salutava
come grande vittoria dei lavoratori l’avvento di De Gasperi al governo, a conclu­
sione della crisi seguita alle forzate dimissioni di Parri.
Bisogna dire che questi errori di valutazione durano poco, e fin dall’inizio del ’46
la situazione si presenta più chiara, se non altro per quanto concerne il quadro
internazionale. È proprio all’esempio greco d’altronde che il PCI si richiamerà
16
M ario T ronti, Macchina statale e potere della DC, in Rinascita, 20 luglio 1973; ma
tutto l’articolo è da tener presente come tentativo di approccio inconsueto alla storia della DC.
17
Cfr. in particolare l’intervento al Convegno economico del PCI, ne l’Unità, 28 e 29 ago­
sto 1945.
"
L uciano C afagna, Note in margine alla « Ricostruzione », in Giovane Crìtica, n. 37,
estate 1973, p. I.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
49
più spesso quale esempio ammonitore di ciò che avrebbe potuto comportare la
scelta di un’altra strategia. Sembra indubitabile, peraltro, che fin dall’inizio la
visione personale di Togliatti, che egli cercò di trasmettere a tutto il partito, fos­
se improntata a un « pessimismo dell’intelligenza » che non avrebbe tardato a
rivelarsi valutazione quanto mai realistica dei reali rapporti di forza.
Questa interpretazione non spiega del tutto, comunque, la freddezza manifestata
sovente dai comunisti nei confronti dell’idea di piano. Ancora nel 1950 Togliatti
presentava con molta cautela su Rinascita la proposta di un Riano del Lavoro
lanciata dalla C G IL, chiarendo che essa non poteva intendersi come vera e pro­
pria pianificazione dell’economia italiana. Nello stesso fascicolo, un articolo di
Renato Mieli criticava aspramente le esperienze di pianificazione del mondo capi­
talistico, presentandole quali più aggiornate e ingannevoli lusinghe del nemico di
classe. Nessuna concessione fu mai compiuta, nonostante ciò che potrebbe far
pensare l’idiota e ininterrotta campagna reazionaria intorno al « modello » dei
comunisti, nel senso di una imitazione, anche parziale, dell’esperienza sovietica,
che pure era patrimonio politico e teorico non indifferente per il movimento co­
munista internazionale. La polemica Dami-Pesenti del 1950 è, da questo punto
di vista, molto significativa 19. Barucci ha scritto che l’esperienza sovietica, quando
fu usata nel dibattito sulla ricostruzione, lo fu solo in senso anticomunista2021. An­
cora Cafagna scrive, felicemente, che Togliatti evitò sempre di parlare del model­
lo sovietico come di qualcosa da imitare, « lasciandolo nell’indistinto di qualcosa
di grande che era avvenuto in un luogo lontano, e che non poteva non avere influ­
enza determinante sull’avvenire di ciascuno, ma in modi che toccava alla storia
precisare [...]. Fu così che di piani, pianificazione, programmazione, parlarono
altri in Italia in quegli anni, non i comunisti » “ .
I comunisti tesero subito a caratterizzarsi come interpreti della realtà italiana del
tempo, scevri da ipoteche culturali troppo gravose22.
Di più, i comunisti sembravano presentarsi sulla scena politica, e, soprattutto,
parlamentare, come un partito che non aveva alle spalle alcun passato di analisi
della società italiana. Ai lavori dell’Assemblea Costituente, se non andiamo erra­
ti, fu Sullo, subito seguito da Lussu, a citare per la prima volta le Tesi di Lione,
in trasparente polemica con l’atteggiamento dei comunisti sull’ordinamento re­
gionale. È significativo rilevare, anche se non rientra che marginalmente nel no­
stro tema, come accanto alla tepidezza nei confronti della programmazione si ac­
compagnasse da parte dei comunisti una svalutazione di quegli strumenti che nel­
l’immediato futuro sarebbero stati visti come chiave di volta di una prospettiva
19
Polemica intorno al libro di C esare D am i , Esperienze di economia pianificata, Torino,
1950, portata avanti da Pesenti su Critica Economica, agosto 1950. La rivista avrebbe poi
ospitato un dibattito sulla questione; cfr. l ’intervento di A. Macchioro, pubblicato negli Studi
di storia del pensiero economico, cit., pp. 688-698. Un contrasto fra i due deputati comunisti
si era già verificato al Convegno economico del PCI del ’45, dove Dami era stato uno dei
pochi sostenitori dell’urgenza di un piano economico, contestata duramente dal Pesenti.
20
La politica economica internazionale, cit., p. 674.
21
L. C afagna, Note in margine, cit., p. 4.
12
P. B arucci, La politica economica internazionale, cit., p. 686.
50
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
di programmazione democratica: è il caso, appunto, delle Regioni. Certo, in tutta
la vicenda delle discussioni all’Assemblea Costituente può vedersi la proiezione
di uno schema tradizionale nella storia dell’Italia unitaria, che vuole i partiti go­
vernativi fautori della centralizzazione e quelli d’opposizione, o che presumono
di poter diventare tali, sostenitori del decentramento e di un quadro di leggi che
ne garantiscono i diritti a livello centrale o locale, con il rapido interscambio di
ruoli che è finora sempre avvenuto e che si sarebbe riprodotto anche fra DC e
PCI dopo il 1947, ma forse si può ipotizzare che, in generale, gravi su tutto l’at­
teggiamento del PCI un condizionamento internazionale più pesante, in termini
di elaborazione teorica e politica, di quanto non appaia da una valutazione di
breve periodo: indubbiamente è solo dopo il XX Congresso del PCUS che molti
nodi verranno sciolti e la strategia comunista assumerà, a grandi linee, la confor­
mazione che mantiene tuttora. Per tornare alle Regioni, è significativo che nel
primo Consiglio nazionale del PCI seguito alle rivelazioni del XX Congresso (3-5
aprile 1956) Togliatti ponesse al centro della sua relazione i problemi della lotta
dei comunisti a livello delle amministrazioni e degli enti Locali, e assumesse con
forza la parola d ’ordine della rivendicazione dell’istituto regionale e dell’aboli­
zione dei prefetti, senza citare Stalin se non alla fine del discorso, e in termini non
negativi: atteggiamento che stupì e provocò critiche esplicite nel corso dei lavori,
oltre che perplessità. In realtà, oggi si può concludere che non si fosse trattato di
reticenza o di una presa di tempo rispetto ai quesiti sollevati dal crollo del mito
di Stalin, quanto di una risposta che traeva le prime debite conclusioni, con enor­
me anticipo su tutti, da quanto era avvenuto e impostava subito una strategia di
trasformazione dello stato libera da residui condizionamenti dogmatici.
Ma, tornando al nostro tema, va detto che il collegamento con le discussioni e le
elaborazioni nate all’interno del partito nel corso degli anni ’30 è ancora tutto da
istituire; il saggio di Sereni sul capitale monopolistico nelle analisi dei comunisti
italiani lascia comunque presagire la ricchezza di questo terreno di ricerca 2324.
Quanto al resto della sinistra, c’è da dire che i socialisti emergono con gli stessi
limiti culturali dei comunisti, lievemente corretti e differenziati in talune persona­
lità di spicco: è il caso di Morandi, la cui figura acquista talvolta nella letteratura
i connotati di un « profeta disarmato » all’interno del governo e all’interno del
movimento operaio !4. Si ha però l’impressione che l’uomo impersoni una tenden­
za non salda e priva di addentellati concreti, e che si faccia portatore di propen­
sioni prive di strumentazione concreta e non inserite in una strategia organica e
realistica. Del resto, e qui il discorso riguarda l’intero PSI assai più che Morandi,
sarà caratteristica costante dei socialisti darsi slogans brillanti e immaginosi più
che programmi e strategie di lungo respiro. Non c’è dubbio tuttavia che Morandi
23
E milio Sereni, Fascismo, capitale finanziario e capitalismo monopolistico di Stato nelle
analisi dei comunisti italiani, in Critica marxista, n. 5, sett.-ott. 1972; utili osservazioni anche
in S. N atale , Studi recenti sulla politica economica fascista, in Rivista di storia contempora­
nea, n. 4, 1973.
24 _ Cfr. R odolfo M orandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945-1948,
Torino, 1960; Lotta di popolo 1937-1945, Torino, 1958 (in particolare gli appunti carcerari
Analisi dell’economia regolata, pp. 37-49); A ldo A gosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e
Razione politica, Bari, 1971.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
51
rappresenti un polo dialettico insopprimibile all’interno della sinistra italiana per
una ricostruzione esauriente del quadro culturale di quegli anni. Analoga atten­
zione andrebbe posta a esperienze più sotterranee e che forse per certi tratti pos­
sono apparire in anticipo sui tempi, come quella della rivista Socialismo e, in ge­
nere, dell’attività culturale promossa da Panzieri.
Gli azionisti, presi nel complesso (sorvolando quindi su alcune personalità la cui
collocazione nel Pd’A appare ancora più provvisoria rispetto agli altri) sono all’in­
terno dell’antifascismo italiano coloro che più profondamente risentono dell’ege­
monia liberista, presentandosi talvolta, in alcune correnti, come gli eredi e i con­
tinuatori del liberismo radicale con tutto il contorno tradizionale di fiere invettive
contro i « trivellatori » e i « succhioni » dello stato. È noto, ed è divulgato per­
fino da ricostruzioni cinematografiche, come Parri volesse sopprimere, fra gli in­
utili carrozzoni fascisti, anche l’A G IP di Enrico Mattei. Anche personalità che
negli anni successivi si sarebbero caratterizzate per vera o presunta modernità
concettuale, come La Malfa, non sembrano sfuggire completamente a questo giu­
dizio. È pur vero che il curatore della raccolta degli scritti più significativi del
personaggio 25 cercherà di suggerire un non inconsueto valore profetico ai suoi pri­
mi interventi post-’45, ma non ci sembra condivisibile tale interpretazione: né
l’attività ministeriale di La Malfa al Commercio estero sembrerà accreditare que­
sta tesi. D ’altronde La Malfa proveniva, anch’egli, da un passato di polemica dife­
sa dell’ortodossia liberista in chiave anticorporativa 26t
Interessante e generalmente trascurato il ruolo dei socialdemocratici, che sem­
brano all’interno dell’Assemblea Costituente gli assertori più decisi di una poli­
tica di programmazione. Ivan Matteo Lombardo compie il 24 febbraio ’47 la di­
fesa più lucida dell’idea di piano, che Tremelloni il 9 giugno rivendica come ban­
diera dei socialdemocratici.
C’è indubbiamente in questo momento storico una coerenza di fondo degli scissio­
nisti, che hanno formato parte a sé proclamando la possibilità dell’evoluzione del­
la società capitalistica verso il socialismo democratico attraverso l’intervento del­
lo stato e delle sue leggi, e che peraltro sono momentaneamente liberi da respon­
sabilità governative, in attesa di legarsi alla DC con un prolungato abbraccio su­
balterno, e possono pertanto esplicitare in forma pressoché pura le loro convin­
zioni ideologiche, che assumono anche valore propagandistico e polemico contro
quanti li accusano di avere buttato a mare gli ideali del socialismo 27.
Non avrebbe senso trattare, in questo contesto, del Partito liberale vero e pro­
prio, quanto dei liberisti, per lo più confluenti in esso e ruotanti attorno ad esso.
È tipico, fra l’altro, come essi si mostrassero legati a una concezione del « parti-
25 U go L a M alfa , La politica economica in Italia. 1946-1962, scritti e discorsi a cura di L.
Magagnato, introduzione di L. Valiani, Milano, 1962.
“
Cfr. ad es. U. L a M alfa , Evoluzioni dottrinarie, nei Nuovi studi di diritto, economia e
politica, 1934, III.
27
Per una analisi dettagliata dei programmi socialdemocratici subito dopo la scissione, cfr.
L elio B asso , La funzione reazionaria del partito di Saragat nella vita politica italiana, su
Rinascita, aprile 1954. I contributi dell’economista più noto del partito, R oberto T remelloni,
non sono di grande originalità: cfr. soprattutto L ’Italia in una economia aperta, Milano, 1963.
52
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
to » spiccatamente prefascista: i casi di Corbino che si dimette dal PLI per poter
restare al suo posto di ministro dopo l’uscita del partito dal governo a seguito dei
risultati elettorali del 2 giugno, che nel ’53 fonda, assieme a altri, un’Alleanza
elettorale volta a contrastare la legge-truffa, che nel ’58 si presenta candidato
nelle liste DC a Napoli perché considerate più sicure di quelle liberali “ , esempli­
ficano utilmente il discorso.
Oltre a quanto richiamato in precedenza, bisogna sottolineare come dato più im­
portante che in questa breve e più assoluta stagione di egemonia dei liberalisti
si verifica una nuova e singolare coincidenza delle loro tesi canoniche con gli
orientamenti del grande capitale italiano. Tutti i grandi capitani d ’industria, con
qualche accentuazione in più o in meno, si professano liberisti nel corso dell’in­
chiesta della Costituente guidata, non senza preconcetti, dal DemariaZ9.
Significativo il furore liberista che emerge dai libelli che il conte Gaetano Marzotto di Valdagno-Castelvecchio scrive, stampa e distribuisce ai suoi operai, e che
vanno letti anche come documento della coscienza di classe del capitale italiano
nella sua forma più rozza e meno reticente“ .
Con questa convergenza fra liberisti e capitani d ’industria si colmava uno iato
pressoché cinquantennale di dissapori, perplessità e dissensi ed emergeva in piena
luce il ruolo di vera e propria « guida della nazione » che il gruppo si era tradi­
zionalmente riservato e che solo in questi anni poteva illudersi di esplicare con
convinzione e determinatezza. Costituisce valida riprova di questo anche la sin­
golare affermazione politica personale di alcuni esponenti del liberismo italiano:
da Einaudi a Corbino, a Del Vecchio, Papi, Jannaccone.
Questa « fortuna » dei liberisti, il suo significato, le sue motivazioni e le rovino­
se ripercussioni che essa ha prodotto non hanno trovato finora una esauriente trat­
tazione storica. Così, più in generale, si può dire che anche gli studiosi di storia
economica tendono a giustificare come ineluttabile e, alla lunga, positivo (in quan­
to premessa del boom economico degli anni ’50) il loro operato (con l’eccezione
sostanziosa del De Cecco, che è l’unico che tenti di far emergere le alternative di
sviluppo, non certo rivoluzionarie ma intercapitalistiche e, comunque, più « mo­
derne » e « civili » che furono sacrificate sull’altare di quella che già dieci anni
prima era stata definita la « barbara » religione del pareggio del bilancio).28930
28
Su queste vicende, cfr. E picarmo C orbino, Racconto di una vita, Napoli, 1972.
29
« Se il peso dei membri della Commissione si fosse dovuto stabilire in relazione al loro
numero, cioè in base alle loro tendenze e coloriture economiche, ne sarebbe uscito, in vitro,
un programma di pianificazione o, comunque, un mosaico che invece di orientare gli onorevoli
costituenti, spesso digiuni di problemi economici, ne avrebbe accresciuta la confusione d’idee.
Si deve airilluminata energia del suo Presidente, se il Rapporto della Commissione è un do­
cumento di coerenza il quale, nel meglio delle condizioni obiettive, indica in un aggressivo
liberismo la strada maestra della nostra rinascita economica » (dalla introduzione di T. B agiotti alla raccolta di scritti del Demaria citata in precedenza, p. 28). Un significativo cam­
pionario di deposizioni di industriali è raccolto in Lucio V illari , Il capitalismo italiano del
novecento, Bari, 1972.
30
Sotto il titolo complessivo Panorama della ricostruzione, gli opuscoli (editi a Vicenza
nel 1947) portano titoli diversi in base alla loro tematica: da vedere soprattutto Bolscevismo
o libertà?, che si chiude con l ’invocazione ai due grandi eroi della civiltà contro la barbarie,
nell’ordine: Pio X II e Truman.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
53
Concludendo, si può convenire con Barucci che « anche allora, come poi spesso
è accaduto nel nostro paese, i termini “ socializzazione” , “ nazionalizzazione”,
“ programmazione” (oppure “ pianificazione” ) comparivano con monotona insisten­
za, ma come in una grande danza di ombre. L ’uso diffuso delle “ parole amianto”,
impenetrabili e suscettibili di molte interpretazioni, era pressoché la norma comu­
ne. La disputa terminologica, ricchissima e variegata, non sottintendeva una cor­
rispondente chiarezza prospettica » 3132.
In effetti è pur vero che furono due soltanto i problemi concreti su cui si discus­
se, o, per meglio dire, quelli sui quali fu possibile scegliere fra soluzioni diverse:
la forma da assegnare al prelievo fiscale, e il modo in cui fermare l’inflazione a
metà del 1947 3\
Ma in fondo l’impressione di astrattezza e di sterilità emerge solo ove si guardi
a questa disputa cercando di scorgere ciò che era impossibile che fosse, ossia un
confronto elevato, costruttivo, onesto e distaccato dalla mischia di posizioni intel­
lettuali e dottrinarie convergenti disinteressatamente verso il fine comune di ri­
costruire nel migliore dei modi il tessuto economico del nostro paese. Un clima
del genere durò in effetti pochissimo, e fu tenuto in vita già allora a gran fatica.
L ’esperienza unitaria di Critica economica alla quale ci si riferisce spesso a questo
proposito fu di breve durata, e il clima di operoso ma sterile idillio si prolungò
solo in settori abbastanza marginali o paralleli ai centri dove lo scontro era più
intenso.
Ci sembra cioè che l’astrattezza sia propria anche della storiografia sulla questio­
ne, che stenta a riconoscere il carattere eminentemente politico del confronto,
confronto fra schieramenti politici e sociali di cui gli economisti furono parte, co­
me esponenti talvolta rilevanti e dirigenti, talvolta puri e semplici mediatori di
posizioni politiche e di classe in virtù della loro fama o del proprio bagaglio tecni­
co. È impossibile uscire dalle secche di una storia delle idee astratta e perciò dete­
riore se non si comincia a porre al centro della ricerca il ruolo politico degli econo­
misti, che si esplica ad esempio nella collaborazione diffusissima e influente ai
quotidiani « indipendenti », attraverso i quali incidono nel breve periodo della
lotta politica assai più che con la loro produzione dottrinaria e specialistica. An­
che qui basti citare qualche caso fra i più noti: Il Corriere della sera con la firma
prestigiosa di Einaudi, La Nuova Stampa con Jannaccone e Demaria, fino alle
combinazioni editoriali di Corbino che pubblicando gli stessi articoli su II Gior­
nale di Napoli, Il Tempo di Roma e di Milano, La Gazzetta del Popolo di Torino,
Il Giornale dell’Emilia di Bologna, La Nazione di Firenze e La Sicilia di Catania,
riesce a coprire praticamente tutto il territorio nazionale.
31
P. B arucci, La politica economica internazionale, cit., p. 704; da tener presente anche
l’invito dello stesso Barucci a distinguere due tempi della ricostruzione (uno in cui il « rico­
struire » sarebbe stato senza aggettivi, l’altro in cui i partiti avrebbero teso a darsi veri e
propri programmi) e a soppesare attentamente i vincoli « di ordine strettamente economico ed
altresì di rapporti di forze » entro cui i partiti dovettero scegliere.
32
Ibid., p. 694.
54
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Peraltro, restando in tema di stampa, bisogna sottolineare con forza che una rico­
struzione storica che voglia cogliere il dibattito in tutta la sua interezza e com­
plessità non può limitarsi a prendere in considerazione soltanto la produzione de­
gli economisti professionali e i documenti economici dei partiti, ma deve riuscire
a includere nella trama della ricerca tutto quanto concorre a determinare e preci­
sare le linee fondamentali del quadro, dalla pubblicistica al giornalismo, sia pure
dozzinale, in quanto concorra a orientare o a consolidare le tendenze e le convin­
zioni dell’opinione pubblica e a influire sugli stessi orientamenti dei partiti.
Ricostruzione e disegno capitalistico
Se il dibattito intorno alla ricostruzione ha ricevuto da politici e studiosi — come
si è visto nel paragrafo precedente — un’attenzione particolare e alcune prime
sistemazioni di indubbio valore, il giudizio sulla storiografia muta sensibilmente
una volta si affronti il tema stesso della ricostruzione, tanto nei suoi aspetti quan­
titativi e statistici (persino dei settori più rilevanti) quanto, soprattutto, nella
individuazione dei legami tra potere economico, indirizzi governativi e sistema
politico. Su questi aspetti si sa ancora molto poco, anche se sono stati pubblicati
negli ultimi anni alcuni saggi che offrono nuovi e più credibili modelli inter­
pretativi.
La prima memorialistica e storiografia sul secondo dopoguerra fu, per forza di
cose, storia dei partiti politici, ma — osserva giustamente il Barucci1 — data la
rilevanza dei fatti economici divenne necessariamente « una ricerca in buona par­
te orientata a ricostruire ciò che essi proposero, vollero e realizzarono nel campo
più strettamente economico » 2. La filiazione diretta dalle diverse correnti politi­
che e dalle battaglie allora sostenute fece si, tuttavia, che di quel dibattito si mu­
tuassero valutazioni generali e temi di scontro (la pianificazione, la disoccupazio­
ne, il cambio della moneta) senza che si ponesse nel dovuto rilievo quanto, con
minore pubblicità, veniva concretamente operato nella struttura produttiva del
paese. Giudizi generalmente catastrofici sul sistema economico uscito dalla guerra
sono infatti riscontrabili tanto in testi ufficiali3 o apologetici, quanto in prese di
posizione della sinistra, data la sua ben nota e altrove documentata scelta « con­
cretista ».
1
P ietro B arucci, La politica economica internazionale e le scelte di politica economica
dell’Italia (1945-1947) in Rassegna economica, 1973, n. 3.
2
Cfr. E picarmo C orbino, L ’economia, in Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita
democratica italiana, Bari, 1955; U go L a M alfa , La politica economica in Italia, 1946-1962,
Milano, 1962; M auro S coccimarro, Il secondo dopoguerra, Roma, 1956; P asquale S arace­
no, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari, 1969; F iorentino S ullo , Il dibattito
politico sulla programmazione in Italia dal 1945 al 1960 in Economìa e storia, 1960.
3
Cfr. CIR, L ’economia italiana nel 1947, Roma, 1946, rapporto presentato dalla delega­
zione del governo italiano al V Consiglio generale dell’UNRRA (di qui l’utilità di una valu­
tazione tendente « a l ribasso»); si vedano anche: Banca d’Italia, Relazione del governatore
all’adunanza dei partecipanti per il 1947, Roma, 1947, p. 30 (ancora nel marzo del 1947
Einaudi calcolava in 3000 miliardi le spese da affrontare per la ricostruzione) e CIR, Lo svi­
luppo dell’economia italiana nel quadro della ricostruzione europea, Roma, 1952, pp. 2-7
(il voi. ha una funzione apertamente propagandistica della politica economica italiana e degli
aiuti americani).
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
55
Questi giudizi, alla luce di studi più recenti e dello sviluppo economico degli an­
ni ’50, sono apparsi sempre più come il frutto di una valutazione esclusivamente
quantitativa, — « fisica » — dei danni, che non teneva conto delle capacità di
ripresa e di rapida crescita dell’apparato industriale (meno gravemente colpito
del settore agricolo, delle infrastrutture e in generale degli approvvigionamenti di
materie prim e4), mentre, d ’altra parte, sottovalutava il costo della ristruttura­
zione che la nuova collocazione internazionale richiedeva al paese.
Quanto ai temi che il dibattito del tempo considera come discriminanti delle due
linee di politica economica (i piani, le misure antinflazionistiche, ecc.), essi rischia­
no di perdere il loro valore di battaglie emblematiche se non si inquadrano nel
processo di ricostruzione del potere padronale che ha i suoi cardini nella rapida
riconquista (legale) della fabbrica, nell’acquiescenza dell’amministrazione statale5,
nel sostegno offerto dalla politica finanziaria e creditizia6.
Lo stesso Barucci, che tanto nella Introduzione agli scritti di Saraceno, quanto
nel saggio di Rassegna economica, sembra ritenere che una « politica economica
eclettica » durò per un lungo « periodo di attesa » che andò dalla liberazione al­
la fine dei governi di coalizione, non può fare a meno di constatare nella politica
finanziaria (cioè nell’unico campo di cui si sappia qualcosa, perché i tecnici hanno
voluto raccontare il loro operato7) una continuità dal 1946 e « una determinazio­
ne che colpiscono ». Anche Manzocchi che, coerentemente con la storiografia di
parte comunista, tenta di rinviare al 1947 la fine di ogni alternativa democratica,
non può fare a meno di rilevare proprio in campo monetario una coerenza riscon­
trabile fin dal 1945. Il segno della continuità appare qui più preciso per l’omoge­
neità e l’organicità del gruppo di economisti che lo manovrarono e soprattutto
perché fu questo il campo in cui la sinistra, attraverso Scoccimarro, si batté con
maggiore coerenza. Ma gli studi recenti di Graziani e Amato 8 lasciano intravvedere come tale determinazione di intenti da parte padronale sia riscontrabile an­
che altrove.
4
Cfr. A ugusto G raziani, (a cura di), L ’economia italiana: 1941-1970, Bologna, 1972,
p. 15. Si veda anche quanto scrive Postan, (Storia economica d’Europa. 1947-1964, Bari, 1968,
cap. II) a proposito della ripresa industriale in Germania dove le distruzioni belliche non
annullarono la capacità produttiva addizionale creata durante e prima del conflitto; in Ger­
mania, come in Inghilterra, i danni di guerra dimostrarono effetti più gravi nell’immediato
che a lungo termine perché poterono essere riparati con spese modeste. La situazione non si
presentava in modo dissimile in Italia dove i costi più gravi furono sostenuti per il rinnova­
mento degli impianti.
5
È ancora da studiare la funzione dei Comitati industriali, vera e propria sopravvivenza
del regime corporativo, che tanta parte ebbero nello spingere al liberismo la piccola e media
industria. Cfr. A rrigo C a ju m i , Dirigenti e pianificazione in La Nuova Europa, 1945, n. 39.
6
Si veda quanto scrive B ruzio M anzocchi sull’uso dell’inflazione da parte delle forze
conservatrici in Introduzione a Scoccimarro, op. cit. p. XXXVI e in Lineamenti di politica eco­
nomica in Italia (1945-1959), Roma, 1960, p. 42.
7
Oltre alle Relazioni del governatore della Banca d ’Italia Einaudi, v. in particolare P aolo
B a ffi , Memoria sull’azione di Einaudi (1945-1948) e L ’evoluzione monetaria in Italia dal­
l ’economia di guerra alla convertibilità (1935-1958), scritti rispettivamente nel 1954 e 1958,
entrambi in Studi sulla moneta, Milano, 1965.
8
II governo dell’industria in Italia. Testi e documenti a c. di G. A mato, Bologna, 1972.
56
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
L ’opera di Manzocchi rimane tuttavia una delle prime ricostruzioni critiche del
periodo e una delle più pregevoli. Il suo limite è quello di essere stata concepita
in anni di dura polemica difensiva del Partito comunista e di condividerne fino
in fondo l’impostazione « verticistica » e chiusa all’ambito governativo della bat­
taglia sulla ricostruzione economica. Risultano cioè omessi — o rinviati a dopo
la fine del tripartito — i nessi tra la sconfitta delle misure economiche proposte
dal ministro Scoccimarro e, da una parte, una realtà produttiva che cresce e acqui­
sta forza da quella sconfitta, dall’altra, una realtà sociale in movimento che non
è mai chiamata a lottare per quegli obiettivi in nome dei quali il partito giustifica
la sua presenza al governo.
Abbiamo detto che l’opera del Manzocchi è una delle prime ricostruzioni criti­
che. È noto che non mancarono già nel 1948 e 1949, soprattutto da parte ameri­
cana, dubbi sull’opportunità della feroce stretta creditizia di Einaudi9. Nel com­
plesso, tuttavia, l’inatteso ritmo di incremento del prodotto nazionale negli anni
’50 fece momentaneamente spegnere quella polemica e scomparire dietro il mira­
colo economico tanto i pesanti costi sociali e l’aggravarsi degli squilibri interni,
quanto la forte dipendenza da quei costi della possibilità di continuare a soddi­
sfare la crescente domanda dei paesi « sviluppati ».
Un tipico esempio di uso « celebrativo » delle statistiche è il citato volume del
C.I.R del 1952 (Lo sviluppo dell’economia italiana nel quadro della ricostruzione
europea): la ricostruzione è un fenomeno oggettivo, non selettivo, e come tale
le sue vicende sono percorse dal 1946 al 1950, anno in cui il prodotto nazionale
tornò finalmente ai livelli prebellici. Non dissimile come impostazione, nonostan­
te sia stato pubblicato vent’anni dopo la Breve storia della grande industria di R.
Romeo 10 che si limita per gli anni 1945-1950 ad una semplice esposizione di dati
molto aggregati con scarsa attenzione a periodizzazioni interne. Va osservato an­
che che Romeo riprende un argomento largamente usato dalla letteratura di parte
« einaudiana » e cioè la stretta dipendenza tra l’accumulazione accelerata di scorte
valutarie nel 1948-49 (che caratterizza, nel contesto europeo, la politica moneta­
ria italiana) e la liberalizzazione degli scambi operata nel 1950-51. Anzi, Romeo
vede in questo raffermarsi — di contro alla tradizionale battaglia tra liberisti e
sostenitori dell’industria protetta — dei « più responsabili fautori di un graduale
ritorno a una maggiore libertà degli scambi in relazione a una politica di generale
sviluppo del paese ».
Baffi si sofferma a lungo su questo argomento: il rafforzamento della lira, prima
di intraprendere un programma di espansione, avrebbe evitato all’Italia una cri­
si di bilancia dei pagamenti, come subirono invece altri paesi nel processo di libe­
9
Cfr. il Country Study dell’ECA sull’Italia, Milano, 1949, di cui alcuni capitoli sono stati
riprodotti da Lucio V illari , Il capitalismo italiano del novecento, Bari, 1972. V. anche i
brani da A.O. H irschman (Inflation and Deflation in Italy in « American Economic Review »,
1948) e B. F oa’ (Monetry Reconstruction in Italy, New York, 1949) pubblicati da A. G raziani nell’antologia cit.
10
R osario R omeo, Breve storia della grande industria in Italia. 1861-1961, Bologna, 1972,
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
57
razione del commercio e dei pagamenti esteri. De Cecco, a sua volta, ha replicato
con esempi della scuola economica opposta (il caso del Giappone) dimostrando
come tassi elevati di reddito furono ottenuti con un diverso rapporto riserve-com­
mercio estero e riserve-reddito nazionale e aggiungendo in sede di conclusioni:
« L ’analisi economica recente sembra [...] concordare nel considerare piena occu­
pazione e massimo sviluppo del reddito nazionale gli unici obiettivi della politica
economica, e il livello delle riserve e il bilancio dello stato strumenti di essa, in
quanto ne assicurano il mantenimento nel tempo » 11.
Quello che rimane nell’ombra di questo contrasto tra due scuole economiche (e
politiche) opposte è l’analisi del rapporto — storico, non teorico — tra politica
economica e mondo della produzione: il fatto, ad esempio che la liberalizzazione
degli scambi fu accompagnata dalla entrata in vigore della tariffa doganale del 15
luglio 1950 che introdusse una protezione media del 24 per cento ad valorem-,
alcuni dazi, nonostante la riduzione imposta dai successivi negoziati del GATT,
rimanevano ancora nel 1953 tra i più alti di quelli in vigore nei paesi dell’OECE.
Sarebbe interessante riesaminare la politica di liberalizzazione degli scambi alla
luce dei compensi pagati (attraverso opportuni dazi protettivi) a determinate in­
dustrie nazionali.
Nelle vicende della storiografia economica del secondo dopoguerra, la fine del
miracolo economico e la formazione del centrosinistra segnano una ripresa di in­
teresse per gli anni della rinascita economica e del tripartito. I nodi della rico­
struzione riacquistano il loro carattere di scelte tra alternative diverse: se ne va­
lutano i costi sociali, ma anche i limiti che comportarono per la produttività del­
l’intero sistema. Tanto gli interpreti « ottimisti » quanto quelli « pessimisti »
della crisi iniziata negli anni ’60 sono concordi nel rintracciare in quelle scelte
l’origine dei successivi sviluppi: per gli uni, che vedono nella crisi solo un proble­
ma di domanda, si tratterebbe di ripercorrere determinati orientamenti di politica
monetaria, per gli altri invece si sarebbe giunti al punto di dover rivedere alcune
scelte economiche di fondo che hanno portato a quell’abnorme sviluppo di setto­
ri improduttivi (nell’agricoltura, nel terziario, nella pubblica amministrazione)
nel quale si vede il principale responsabile degli elevati costi di produzione dei
settori industriali trainanti.
L ’intento positivamente polemico è alla base del bel saggio di De Cecco, Sulla
politica di stabilizzazione del 1 9 4 7 , che individua pur nell’ambito di una gestione
capitalistica le alternative che avrebbero risparmiato all’economia conseguenze
tuttora pesanti. Nella stessa linea il saggio di Graziani sulla politica monetaria 12.
L ’intento polemico diviene critica organica dell’intero processo di sviluppo del
dopoguerra nell’antologia — citata — curata dallo stesso Graziani, che rimane
finora l’opera più completa sull’argomento. Più breve, ma con utili spunti inter­
11
Cfr. P. B a ffi , L ’evoluzione monetaria in Italia, cit., pp. 26 e 27; M arcello D e C ecco,
Sulla politica di stabilizzazione del 1947 in Saggi di politica monetaria, Milano, 1968, p. 140.
12
A ugusto G raziani, Problemi di politica monetaria in Italia nel voi. curato da V. B alloni, Lezioni sulla politica economica in Italia, Milano, 1972.
58
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
pretativi, soprattutto sulla politica delle sinistre, il saggio di Silva e Targetti
Diversa l’impostazione dell’antologia curata da G. Amato, Il governo dell’indu­
stria, che viene a colmare, pur con una impostazione prevalentemente giuridica,
le lacune, già rilevate, degli studi sulla storia dei rapporti tra politica governativa
e imprese pubbliche e private. Partendo da un’analisi dei dati istituzionali, Amato
analizza l’evolversi dell’intreccio stato-industria in Italia e costruisce un coerente
modello interpretativo in cui trova la sua collocazione quella realtà così eminen­
temente confusa pur nella sua continuità.
Se l’ottica del presente accentua utilmente, in questa letteratura recente, il signi­
ficato politico delle scelte del passato, il rischio è quello di tralasciare i nessi tra
realtà sociale e lotta politica, di appiattire nel tempo la gravità della « frattura
tra l’ampia partecipazione popolare allo sforzo di sollevamento civile del paese
e il successivo prevalere » — come scrive Caffè con una valutazione forse discu­
tibile — « di una politica prevalentemente per i “ ceti medi” » u. L ’altro limite —
peraltro in gran parte dovuto alla insufficienza degli studi disponibili sull’econo­
mia fascista — è la scarsa attenzione che in quest’ottica ricevono, da una parte,
l’eredità del fascismo e le innovazioni della ricostruzione nella struttura del cre­
dito, del parastato 13*5 e della produzione, dall’altra, la gravità della crisi sociale
apertasi con gli scioperi del 1943. La ricerca delle ragioni storiche della crisi del­
l’economia italiana tende invece al momento a tradursi in una rigida accettazione
del 25 aprile come termine a quo e in una visione, anche critica, della ricostru­
zione che accetta in sostanza la tesi della « novità » della classe politica che ge­
stisce il potere economico, ne accentua la sistematicità teorica e ne omette i le­
gami con le forze economiche del passato e del presente.
La domanda che, di fronte alla frattura ricordata da Caffè, si pone spontanea —
nel tentativo di superare una visione manichea di un capitalismo sempre « razio­
nale » e coerente al suo interno (visione che ha avuto una sua utilità polemica)16
— è come si sia potuto cementare il blocco dominante, come cioè la enorme ca­
rica combattiva delle masse si sia potuta risolvere nella subordinazione di fatto
e senza scontro aperto ad un disegno capitalistico legato al mantenimento di bassi
costi del lavoro e al pieno utilizzo di strumenti ereditati dal fascismo e che nel
13
F. S ilva e F. T argetti, Politica economica e sviluppo economico in Italia: 1945-1971,
in Monthly Review, 1972.
“
F ederico C affe ’, Un riesame dell'opera svolta dalla Commissione economica della Co­
stituente in Teorie e problemi di politica sociale, Bari, 1970, p. 169.
15
Con l ’eccezione del saggio di De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria
nel dopoguerra nel voi. cit., Saggi di politica monetaria. V. anche F ranco B onelli, Protago­
nisti dell’intervento pubblico: Alberto Beneduce in Economia pubblica, 1974, n. 3.
16
Si veda ad es. in Di Toro e Illuminati (Prima e dopo il centro-sinistra, Roma, 1970) la
collocazione della ripresa capitalistica italiana nel nuovo ciclo economico dell’imperialismo
iniziato negli USA con la guerra mondiale. La definizione del nuovo schema istituzionale
(Bretton Woods, Fondo Monetario Internazionale, GA TT, ecc.) che sancisce l ’unità impe­
rialistica, pone in una luce diversa la collaborazione offerta dal movimento operaio italiano
alla riattivazione della produzione e ne sottolinea la gravità della scelta in un momento de­
licato (il periodo aprile 1944 - dicembre 1945) che consente la riorganizzazione borghese.
Il limite di questa interpretazione sta in uno schematismo eccessivo che tende ad esagerare
la « razionalità del capitale » in qualsiasi momento e luogo, finendo per ignorare la varietà
delle alternative interne al sistema.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
59
lungo periodo si è rivelato anche sostanzialmente inefficiente sul piano della pro­
duttività e degli investimenti.
È chiaro che la risposta si deve trovare nel confronto sulle scelte qualificanti della
ricostruzione tra le forze economiche e sociali in gioco. Nell’organizzazione del
consenso, tuttavia, non andrà sottovalutato il peso che alcuni filoni ideologici con­
gelati dal ventennio fascista ebbero nel frenare la lotta di classe su alcune ideeforza (il mito del progresso, della tecnica, della democrazia) legate ad un evolu­
zionismo di stampo ottocentesco17. Lungimirante anche il giudizio di Silone ri­
cordato da Caffè nel passo citato: « Il tempo è un fattore essenziale di ogni crisi
politica, perché le energie rivoluzionarie non si possono mettere in conserva co­
me le prugne, col pensiero di servirsene più tardi, quando saranno stagionate ».
Il recente saggio di Foa sulla Rivista di storia contemporanea pone l’accento sui
condizionamenti decisivi che la Resistenza incontrò nella seconda metà del ’44,
sia con i trattati alleati, sia con la partecipazione comunista al secondo governo
Bonomi. Ciò non toglie — come osserva lo stesso Foa — che le masse operaie
(oltre a non avere di questi condizionamenti la stessa consapevolezza dei diri­
genti) non fossero disposte a subirli senza contropartite; mentre, d ’altra parte, il
radicalizzarsi delle lotte nelle campagne poteva far sperare in un sostegno di mas­
sa ad un programma di rivendicazioni organiche.
È, comunque, di fronte ad un intero corpo sociale in attesa di profondi mutamen­
ti — nell’assetto istituzionale se non nei rapporti di produzione — che si avviano
già nei primi due anni di collaborazione governativa orientamenti economici de­
cisivi per l’uno e per l’altro campo.
Dalla letteratura economica recente emergono come nodi qualificanti la ricostru­
zione — e destinati a tradursi negli anni ’60 in altrettanti freni all’espansione del­
la domanda — i punti seguenti:
1. Il ruolo trainante ed esclusivo affidato ai settori industriali esportatori, fin dai
piani di primo aiuto.
2. La differenziazione dei settori produttivi e il dualismo territoriale (problemi
dell’agricoltura e del Mezzogiorno).
3. La subordinazione alle scelte precedenti del problema dell’occupazione e la
conseguente ripartizione del mercato del lavoro in sfere incomunicanti.
4. Il ruolo tradizionale dello stato, tanto sul piano economico — nel farsi diret­
to sostenitore del disegno industriale, secondo un modello di interdipendenza
classico nella storia italiana, come risulta dall’analisi di Amato — quanto sul pia­
no politico, nel mediare le spinte sociali alternative in un quadro istituzionale di
democrazia elettiva.
L’insieme di queste scelte ha concorso — con i fattori politici esaminati in altra
parte della presente rassegna — ad un indebolimento e frantumazione della lotta
di classe e ad un rafforzamento della stabilità politica in funzione di un più in­
17
Si veda su questo V ittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra,
in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4, p. 443.
60
11 secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
tenso sfruttamento del lavoro, primo motore del miracolo all’italiana: un miraco­
lo basato sul solido intreccio politico ed economico degli oligopoli industriali con
la rendita dei settori privilegiati e « improduttivi ».
Le scelte del mondo imprenditoriale — ed è questo l’assunto delle pagine seguen­
ti — appaiono fortemente caratterizzate e orientate già prima che la crisi del 1947
sancisca la saldatura tra grande capitale e Democrazia cristiana mediante il pas­
saggio, con l’aiuto americano, da una politica di inflazione ad una stretta deflattiva.
Non si vuole qui cadere in schematismi che denunciano una continuità con il pre’47 inesistente sul piano politico-istituzionale, ma richiamare quanto è già stato
osservato 18 e cioè la mancanza, già negli anni della collaborazione governativa,
di una vera alternativa al disegno capitalistico vincente e di un vero confronto
su scelte decisive di cui fu sottovalutata la portata nel lungo periodo.
Come scrive Amato, la stretta monetaria del ’47 « fu la risultante necessaria del­
l’intervento pubblico meramente adesivo che caratterizzò il periodo ». L ’aver
scelto la deflazione — anziché la sola svalutazione come sarebbe stato più logico
da un punto di vista strettamente economico 19 — era coerente con il disegno di
ricostruzione capitalistica, prima schematizzato, che si era andato affermando sen­
za sostanziali contrasti nel corso della ricostruzione « eroica ». L ’assunzione di
Einaudi alla vicepresidenza del Consiglio, seguita alla fine del tripartito, sancì
con la forza del ricomposto quadro politico e istituzionale la coincidenza di obiet­
tivi tra stato e industria che aveva fino allora vissuto sulla universalmente accet­
tata ideologia del progresso. Nello stesso tempo il piano di deflazione, oltre a fre­
nare il proliferare di imprese improduttive conseguenza dell’inflazione, consenti­
va di ristrutturare il sistema industriale con una « frustata » che ne stimolò l’« ef­
ficienza » eliminando « l e imprese non competitive, “ sfrondando’’gli organici di
quelle che sopravvissero dei lavoratori superflui, inducendo ad utilizzare tecniche
più moderne e con maggiore intensità di capitale ». La « frustata », dunque, cadde
essenzialmente sulle spalle dei lavoratori, perché l’occupazione industriale andò
calando dal ’48 fin quasi alla metà degli armi ’50 19bis. La deflazione confermava
così, con la forza strategica che le derivava dagli aiuti americani, scelte e orienta­
menti che dal punto di vista dei costi sociali, non differivano sostanzialmente da
quelli maturati negli uffici della Confindustria. Anzi, sul piano delle scelte effet­
tivamente compiuto sorprende la coerenza e la relativa facilità con cui la linea
della Confindustria uscì vincente al termine dei due anni decisivi20. Si direbbe
che il ceto industriale sia stato la forza più consapevole nell’orientare, se non la
produzione, l’assetto istituzionale in cui avviare la ricostruzione.
”
Cfr. M assim o L egnani, Contributi e tenti di ricerca sul 1945-48 in Italia in Rivista di
storia contemporanea, 1974, n. 1, pp. 15-25.
19
De Cecco (nel saggio cit.) spiega la scelta einaudiana con la volontà politica di catturare
i ceti medi e i contadini legati ad un’agricoltura di sussistenza, Amato, invece (nell’antologia
cit.), con i pericoli di allargamento del mercato interno connessi alla svalutazione. La seconda
spiegazione appare più coerente con il disegno economico generale, mentre la vantata difesa
dei « peculi » contadini non troverebbe conferma nelle vicende elettorali successive che videro
l’avanzata elettorale della DC concentrata soprattutto nei centri urbani.
19bis M ichele S alvati, L ’origine della crisi in corso, in Quaderni piacentini, marzo 1972, p. 6.
'°
Per un primo approccio sulla linea della Confindustria, cfr. Lucio D e C arlini, La Con­
findustria, in La politica del padronato, Bari, De Donato, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
61
La Confindustria si contraddistingue fin dall’inizio per la sua compattezza orga­
nizzativa e per la coerente difesa dei suoi interessi di classe tout court. Il 10 di­
cembre 1945, convoca la prima assemblea generale con i rappresentanti di tutta
Italia. Il 1° gennaio 1946 sono già organizzate nella Confindustria circa 70.000
ditte con due milioni di dipendenti. Nel ’47 le ditte associate sono 76.251 con
2.666.566 dipendenti. I dati mostrano anche l’importanza che le ditte minori ri­
vestono nella struttura confederale. Il 95,3% nel 1946 e il 94,9% nel ’47 delle
ditte associate hanno meno di 100 dipendenti. Un raffronto tra la consistenza
organizzativa della Confederazione del 1947 (volontaria) con quella del ’40 (ob­
bligatoria) mostra che « lo sviluppo delle forze associative risulta più elevato nel
settore delle grandi aziende che in quello delle piccole e in questo più elevato
che fra le medie aziende » (con oltre 100 o meno di 250 dipendenti).
Quanto alle singole categorie, il confronto è più che soddisfacente per le industrie
tessili (il 97,0% delle ditte e l’80,5% dei dipendenti), metalmeccaniche (94,3%
delle ditte e 79,3% dei dipendenti) e chimiche (rispettivamente 94,3 e 73,7% ),
cioè i tre settori qualificanti dell’industria privata. Valori molto minori per le
altre categorie2’ .
Nonostante la compresenza di settori industriali che nel lungo periodo si rive­
leranno portatori di indirizzi contrastanti, nel breve periodo della ricostruzione
la Confindustria oppone un fronte compatto ad ogni battaglia innovatrice e que­
sta battaglia si incentra su alcuni cardini, come la traduzione del liberalismo teo­
rico nel suo corrispondente reale, e cioè non solo il rifiuto dell’intervento statale
negli orientamenti produttivi dell’industria privata a, ma la lotta contro una ge­
stione degli investimenti pubblici che sul piano finanziario entrasse in rivalità
con il settore privato23. Più in generale il rifiuto di una pianificazione degli inve­
stimenti pubblici che fosse in contraddizione con un disegno esplicito e coeren­
te di subordinazione dell’espansione del mercato interno alle esigenze delle indu­
strie esportatrici.
Il sistema dei rapporti stato-industria è stato del resto analizzato molto attenta­
mente da Amato: quello che risulta evidente dalle relazioni confindustriali è che213
21
Confindustria, Annuario 1947, p. 246 e Annuario 1948, p. 467.
22
È sufficiente d’altra parte scorrere l’indice degli Annuari confindustriali per rendersi con­
to degli interventi operati dalla Confindustria presso l’amministrazione statale, sempre sotto la
veste di un indirizzo volto a ristabilire la libera iniziativa privata, e sostenuto, a quanto pare,
dalla burocrazia statale.
23
All’assemblea generale dei delegati del 3 die. ’46, Costa disse nel suo discorso: « noi
non domandiamo che lo Stato finanzi l’industria, anzi desideriamo che non la finanzi; noi de­
sideriamo che lo Stato non monopolizzi la raccolta del risparmio, e soprattutto che non ostacoli
il diretto afflusso del risparmio verso gli investimenti industriali [...] Con la nominatività
dei titoli e la limitazione dei dividendi il capitale non può più rivolgersi agli investimen­
ti industriali, per i quali praticamente è stata mantenuta soltanto l ’alea negativa ». E candi­
damente aggiungeva « il mancato afflusso del capitale all’industria rappresenta la causa prin­
cipale dei bassi salari reali attualmente esistenti in Italia » (Annuario 1947, pp. 215-16). Per
meglio comprendere i lamenti degli industriali occorre ricordare che nella primavera del ’46
erano già stati abbattuti « con vero gusto » dal min. Corbino in pratica tutti gli ostacoli agli
investimenti in titoli posti dalla legislazione di guerra con la sola eccezione della nominatività
dei titoli. La nuova disciplina provocò un’ondata di euforia in borsa tra aprile e agosto del ’46,
frenata poi per qualche tempo da alcune misure restrittive prima del nuovo e decisivo balzo
in avanti dell’aprile maggio 1947 (cfr. P. B a ffi , L ’evoluzione monetaria in Italia, cit. p. 254).
62
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
gli obiettivi di politica economica che Amato vede prevalere nel governo (forse
con qualche forzatura) già dai primi piani di importazione (il raggiungimento del­
la competitività dell’industria sul mercato internazionale e il pareggio della bilan­
cia commerciale) e che saranno sanciti dalla creazione dei fondi IMI-ERP e FIM,
non sono altro che l’assunzione da parte governativa di quanto gli industriali an­
davano chiedendo già dal ’45 2\
È vero che per i primi anni — salvo eccezioni — per settori esportatori si in­
tendevano prevalentemente i tessili (che raggiunsero nel ’46 per alcuni articoli
un volume di esportazione pari a quello prebellico) e non si pensava ai settori
capitalistici moderni2425, ma questo dal punto di vista della definizione del quadro
istituzionale non cambia nulla. Non a caso, dopo un avvio molto lento della pro­
duzione, sono dapprima i tessili (usciti indenni dalla guerra e con limitati bisogni
di carburante) che impongono nel marzo del ’46 la liberalizzazione del 50 per
cento della valuta ottenuta con l’esportazione 2627; poco dopo saranno i meccanici
ad ottenere il FIM e a trasformarlo rapidamente in « ospedale di salvataggio »
(l’espressione è di Amato). L ’impegno della Confindustria nell’impedire un di­
verso utilizzo delle materie prime e dei capitali andrebbe inoltre misurato sui
numerosi interventi presso l’amministrazione statale a livello centrale e sulla
pressione fin dal ’45 a livello settoriale e locale.
È ormai appurato, comunque, che sul piano della politica finanziaria la linea
della Confindustria fu totalmente vincente, seppure tra incertezze e contraddizio­
ni ” , nelle diverse fasi della ricostruzione. Sono queste le vicende che appaiono
più chiare per gli studi di Baffi, De Cecco e Graziani. L ’industria ricostruì gli
impianti con diverse fonti di finanziamento, ma senza rilevanti sacrifici per il li­
vello dei profitti, utilizzando:
1) anzitutto gli aiuti americani: dopo la fase di primo aiuto in alimentari e me­
dicinali, gli aiuti acquistarono una maggiore organicità con l’ammissione dell’Ita­
lia (13 agosto ’45) al programma UNRRA. Il Consiglio di Atlantic City aveva
stabilito che i rifornimenti industriali avrebbero dovuto consistere prevalente­
24
È infatti la tesi di Amato che nella ricostruzione vi sia stata « coincidenza fra le pro­
spettive di sviluppo che l’industria era naturalmente in grado di coltivare e il disegno trac­
ciato e perseguito dalla classe di Governo ». Non una complicità omissiva da parte dello stato,
ma un « calibrato programma nel quale erano previsti fini e mezzi dello sviluppo » (pp. 48-49).
25
Anche perché in una prima fase si prevedeva uno sviluppo del commercio estero con i
paesi balcanici. Nel discorso citato del 3 die. ’46, Costa osservava: « la posizione geografica
dell’Italia nel Mediterraneo — la cui importanza è attualmente aumentata in conseguenza
della deficiente disponibilità di mezzi di trasporto, che avrà una durata prevedibile di qualche
anno — gli spostamenti di mercato dipendenti dalla mutata situazione politica dell’Europa
centro orientale, fanno sperare che l’Italia possa essere il Paese di transito per la esportazione
oltre Oceano di molta parte dei prodotti di tutto il bacino mediterraneo ». (Annuario 1947,
pag. 216).
26
Fu questo un metodo che permise agli industriali tessili « di aumentare ancor più la
rendita di posizione che essi possedevano sul mercato internazionale » (per l’assenza di con­
correnti validi) e di speculare sul mercato interno dominando allo stesso tempo il mercato
delle importazioni. Cfr. D e C ecco, La stabilizzazione del 1947, cit., p. 125.
27
Cfr. in particolare i paragrafi 14, 15 e 16 del saggio cit. di Baffi {L ’evoluzione monetaria
in Italia) sulla contraddittorietà della linea del Tesoro su tre piani in particolare: la disciplina
della borsa valori, il controllo dei prezzi, l’imposta sul capitale.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
63
mente in materie prime, macchinari e parti di ricambio, atti a facilitare al paese
assistito la produzione e il trasporto dei prodotti essenziali, alla sua economia,
la ripresa dei lavori pubblici e la riattivazione dei servizi pubblici essenziali,
quali luce, acqua, energia elettrica, trasporti. Industrie essenziali si consideravano
quelle che provvedevano alla lavorazione di prodotti alimentari, materiali per
l’edilizia, prodotti farmaceutici e industrie tessili. Sul totale degli aiuti ricevuti
dall’Italia con i vari programmi dal 1° gennaio 1944 al 31 dicembre 1947, gli
alimenti rappresentavano il 42,11 per cento, i combustibili solidi e liquidi il
21,50 per cento e i tessili il 9,63. Furono ancora i tessili che ricevettero il primo
prestito rilevante dalla Export Import Bank, 25 milioni di dollari che alimenta­
rono l’unica rilevante corrente di esportazione di quegli anni e permisero anche
una parziale ricostruzione delle scorte28. Diversi, com’è noto, i presupposti del
programma ERP con il quale si tentò di incoraggiare, senza successo, una politica
economica più « aggressiva » 29;
2) altra fonte fu l’autofinanziamento delle imprese favorito dai continui rinvii
e poi dall’abbandono di misure fiscali straordinarie (il cambio della moneta e
l’imposta progressiva sul patrimonio) e dalla scarsa incidenza di quelle ordinarie;
3) la terza, non per ordine d’importanza, fu l’espansione creditizia del ’46-47.
L ’espansione monetaria conseguente alla politica governativa di pura « adesione
al mercato » (Amato) fu la principale causa dell’ondata inflazionista cui si ac­
compagnarono gli effetti scontati di redistribuzione del reddito a scapito del la­
voro e di accresciuto potere per i gruppi economici a scapito dello stato.
Riveste particolare interesse, a questo proposito, lo studio citato di Marcello De
Cecco sulla struttura finanziaria postbellica che analizza il passaggio alla Banca
centrale dei poteri di controllo che la riforma del ’36 aveva conferito al governo
e il mutamento di equilibri che ne consegue all’interno del sistema bancario. Si
assiste infatti ad un ritorno — incoraggiato — alla libera concorrenza e quindi
alla riprivatizzazione del sistema finanziario, che ha la sua origine proprio nel
tentativo, sopra ricordato, delle banche nell’immediato dopoguerra di abbando­
nare i crediti allo stato in favore dei crediti, più remunerativi, all’economia. Le
conseguenze di lungo periodo della politica monetaria inaugurata da Einaudi e
continuata da Menichella sono di eccezionale rilievo sia per le modificazioni nella
struttura del credito (espansione nei piccoli centri delle Casse di risparmio,
Monti e Banche popolari cooperative — favorite dalle rendite di posizione con­
cesse loro dalle autorità a scapito dei depositi postali — forzata razionalizzazione
delle banche di interesse nazionale volutamente indebolite dalla Banca centrale,
accentuazione del carattere « misto » del sistema bancario e ritorno alla concor­
renza tra le banche maggiori per ottenere i depositi raccolti da quelle piccole)
sia per i riflessi sul costo del credito e quindi sull’aggravarsi del dualismo tra
piccole e medie imprese, da una parte, e grandi imprese, dall’altra, queste ultime
in grado di acquistare banche private o controllare banche di credito ordinario e
di accrescere così la loro autonomia nei confronti del governo.
28
Confindustria, Annuario 1948, pp. 648-51 e C IR Lo sviluppo dell’economia italiana,
cit., parte IL
29
Così si esprimeva il rapporto dell’ECA (Hoffman), cit.
64
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Il breve saggio di Canale 30 aggiunge una significativa qualificazione politica al­
l’analisi della struttura finanziaria compiuta da De Cecco che aveva lasciato nel­
l’ombra i rischi di involuzione politica connessi, nel nostro paese, anche ad una
struttura finanziaria eminentemente « pubblica » come quella auspicata per l’eco­
nomia italiana. Infatti la minore rigidità introdotta dalla legislazione bancaria del
dopoguerra, oltre a mutare la funzione dell’intervento statale bloccando la possi­
bilità di un controllo qualitativo del credito, ha avuto come effetto quello di po­
liticizzare l’intero sistema finanziario. L ’osservazione di De Cecco che le Casse
di risparmio sono inevitabilmente dominate da gruppi di pressione economici e
politici locali vale a maggior ragione per le grosse aziende di credito le cui cariche,
essendo per la gran parte pubbliche, cioè di nomina politica, sono tradizional­
mente nelle mani del partito al potere da trent’anni, la Democrazia cristiana.
È lo stesso De Cecco del resto ad avanzare l’ipotesi che il potere politico delle
Casse di risparmio non sia stato estraneo alla decisione di potenziarle, data l’im­
portanza che il decentramento del potere finanziario riveste per i partiti al go­
verno. In questo modo la « riprivatizzazione » del sistema bancario, che si è
dimostrata dannosa per la gestione efficiente della economia italiana, trova una
sua più che convincente motivazione politica.
L ’altro — e più n oto31* — cardine della politica confindustriale negli anni del do­
poguerra fu la battaglia contro qualsiasi forma di partecipazione operaia alla ge­
stione (anche in subordine) dell’impresa, il che significò rifiuto dei consigli di
gestione (e più in generale di qualsiasi strumento di partecipazione democratica33,
difesa a oltranza del diritto di licenziamento, accettazione delle commissioni in­
terne purché prive del potere di contrattazione aziendale. L ’accordo dell’agosto
’47 sulle CI (collegato al problema del blocco dei licenziamenti che si voleva ap­
punto subordinare al parere della CI) fu visto e presentato dalla Confindustria ai
propri associati come una sostanziale vittoria in materia di licenziamenti: esso
sanciva infatti il potere deliberativo della direzione aziendale indipendentemente
dal parere espresso dalle CI; precisava inoltre che la materia riguardante la re­
golamentazione contrattuale esorbitava dalla competenza delle commissioni. Que­
st’ultimo punto veniva sottolineato con particolare soddisfazione33 perché con­
trariamente alle speranze degli industriali, la contrattazione nazionale non aveva
30
A. C anale, Dimmi come speculi e ti darò quanto vuoi in Giovane critica n. 37, estate
1973.
31
La Confindustria curò con estrema attenzione la propria propaganda presentandosi nel
ruolo di organismo tecnico senza legami con i partiti e il governo: in particolare la linea
confindustriale sul blocco dei licenziamenti e i consigli di gestione fu oggetto di apposite
pubblicazioni o di opportune divulgazioni in linguaggio « più piano e popolare », dal signi­
ficativo titolo Li facciamo questi consigli di gestione? e Lo Stato tiranno.
33
Sulle cinque pagine che l’Annuario 1948 dedica alla Costituzione (con prevedibili critiche
degli articoli più controversi in materia di iniziativa privata e di diritti del lavoro), più di
due sono dedicate alle autonomie regionali sulle quali la pubblicazione esprime un parere ne­
gativo « perché pregiudizievoli al miglior funzionamento dell’economia nazionale ».
33
La contrattazione nazionale e il mantenimento dei livelli salariali concordati è un punto
fermo sul quale Costa insiste anche sul « fronte interno ». Parlando nel ’47 delle trattative sul
blocco dei licenziamenti, la direzione confindustriale chiede apertamente « solidarietà » agli
associati, lasciando così capire che accordi separati venivano ancora stipulati: « [...] gravi
ripercussioni hanno spesso avuto nei confronti della categoria atteggiamenti di debolezza o di
eccessiva larghezza nei confronti dei lavoratori, assunti da determinate associazioni o aziende ».
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
65
fino allora impedito che le CI interferissero nelle materie regolate dai contratti
collettivi, né che più in generale le stesse organizzazioni dei lavoratori cercassero
« di riporre sul tappeto le condizioni concordate appellandosi quasi sempre alla
insoddisfazione dei loro organizzati » 34. Nella seconda metà del ’46 si calcolava
che su tre milioni di operai occupati nell’industria oltre due milioni fossero stati
interessati dalle agitazioni: solo nell’ultimo trimestre, dopo la conclusione della
tregua, il numero delle agitazioni e degli scioperanti andò diminuendo 35.
Del resto, pur senza cadere in schematismi, si può osservare che tutte le più
grosse conquiste del movimento operaio in questi anni o vennero aspramente com­
battute e cancellate o vennero accettate perché inoffensive o funzionali. La scala
mobile, ad esempio, fu concessa consapevolmente dagli industriali « nel presuppo­
sto che tale meccanismo potesse costituire un mezzo idoneo per assicurare sul
terreno delle relazioni sindacali adeguati periodi di tranquillità per le masse e per
la produzione senza compromettere le basi dell’equilibrio economico e monetario
del paese » 36. Quando il meccanismo concordato risultò, nel corso dell’ondata
inflattiva del ’47, troppo « efficiente » e troppo « egualitario » per il sistema sa­
lariale, ma soprattutto incapace di frenare la spinta di lotta delle masse, la Confindustria si affrettò a rivederlo.
Il tema della rivalutazione (monetaria) del lavoro qualificato è un altro dei punti
su cui gli industriali insistono nella loro battaglia antioperaia. L ’obiettivo è quello
di una frantumazione categoriale dei salari operai usciti livellati dalla guerra e
dall’applicazione della scala mobile37.
Oltre a un disegno antioperaio in fabbrica, matura anche un più ampio progetto
riguardante il mercato del lavoro nazionale. Le proposte di allargamento della
occupazione attraverso un programma di investimenti pubblici non vennero prese
in considerazione se non dopo qualche anno, una volta assicurata la ripresa. Nel
breve periodo, dei disoccupati ci si preoccupò solo per motivi di ordine pubblico:
operando, da una parte, per creare nuovi sbocchi per un’emigrazione massiccia e
dall’altra rinforzando le forze di polizia38. Nel frattempo la strada scelta comporE ancora: « occorre che penetri neffe coscienze e negli intelletti il convincimento che il man­
tenere determinati trattamenti salariali in questo delicato momento della vita nazionale è una
esigenza di ordine assolutamente superiore » (Annuario 1947, p. 366).
34
Confindustria, Annuario 1948, pp. 267 e 755.
35
Confindustria, Annuario 1947, p. 136.
36
Confindustria, Annuario 1948, p. 761.
37
Questo era il prospetto comparativo dei salari contrattuali:
(fatto = 100 il salario del manovale comune)
salari reali
ott.-nov.
1938
1946
(1938-100)
153
115
74,51
operaio spec.
132
110
82,31
operaio qualificato
106
105
90,50
manovale spec.
100
100
97,27
manovale comune
76
donne
53
104,75
operaie senza carico famiglia
Rapportando gli stipendi al salario medio degli operai ( = 100), mentre nel ’38 l’indice dello
stipendio medio era 198, nel ’46 lo stesso indice era 115 (Confindustria, Annuario 1947, p. 126).
35
Cfr. i dati in D e C ecco, Sulla stabilizzazione del 1947 cit. p. 129.
66
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
tava un aumento della produttività del lavoro (nel ’47 la produttività veniva va­
lutata dalla Confindustria inferiore al 25-30 per cento a quella prebellica), ed
una sua maggiore qualificazione, ma uno scarso, se non inesistente, assorbimento
di nuova mano d’opera. Il problema perciò veniva scaricato sull’intero corpo so­
ciale, cioè su un uso « assistenziale » dei lavori pubblici, sull’agricoltura e sul
Mezzogiorno, nell’ambito di una visione ruralista dell’economia italiana che non
differiva da quella degli anni ’30 se non per il peso minore dei lavori pubblici.
Scartata, per motivi politici, un’ipotesi di riforma agraria, l’agricoltura fu, sul
piano finanziario, in una prima fase lasciata a se stessa: fino al settembre ’47 la
scarsità di derrate agricole e la redistribuzione del complesso delle spese per i
vari consumi (limitati negli altri settori dalla mancanza di beni industriali, dal
blocco sugli affitti e i servizi pubblici) favorì elevati redditi agricoli e quindi l’au­
tofinanziamento delle aziende; di quelle aziende, naturalmente, che producevano
per il mercato. Il processo di ricostruzione negli anni ’45-47 è avviato in queste
aziende con notevolissimi investimenti interni o con affluenza di capitali anche
da altri settori che vedevano negli investimenti agricoli un rifugio dai pericoli
inflazionistici.
Particolarmente rapido il processo di ricostruzione del patrimonio zootecnico, con
larghe importazioni dall’Olanda, dalla Svizzera e dall’America39, ma prevalente­
mente finanziate dalla disparità dei redditi provocata dagli squilibri dei prezzi.
L ’abbandono troppo brusco del vincolismo bellico e la maggiore severità esercitata
nei confronti dei prodotti agricoli fondamentali (i cereali), provocò squilibri
colturali a vantaggio di produzioni meno essenziali per le quali erano aboliti o
erano meno severi i controlli. Dopo l’insuccesso della campagna ’45-46, il prezzo
dell’ammasso del grano viene triplicato nel maggio ’46, ma venne mantenuto
fermo il prezzo di vendita. Dopo essersi battuto per l’abolizione dei controlli,
Einaudi inizia la sua più tenace battaglia contro il prezzo politico del grano —
denunciato come il principale responsabile dell’inflazione — rifiutando di pren­
dere in considerazione gli effetti moltiplicativi che il sicuro aumento del prezzo
del pane sul mercato libero avrebbe avuto sui salari monetari.
Baffi ha affermato 40 che l’incertezza della politica seguita nella definizione dei
prezzi e l’aumento del prezzo del ’4 6 /’47 a circa 17 volte quello del ’3 8 /’39 in­
fluenzò profondamente gli operatori economici perché « esso palesò che il governo
abbandonava ogni idea di ricondurre il livello generale dei prezzi verso quella
quota di 78 volte l’anteguerra a cui, fino al maggio 1946, erano stati mantenuti i
prezzi ufficiali dei prodotti di prima necessità e le tariffe dei servizi pubblici ».
Albertario41 a sua volta ha rilevato che fu un errore dello stesso pensiero liberista
ritenere che fossero già ritornate le condizioni per restituire il mercato alla libertà
di contrattazione e che gli orientamenti antivincolistici prevalenti già prima della
unificazione del paese, si basarono sulla convinzione di una automatica quanto
impossibile discesa dei prezzi reali.35*
35
40
CTR Lo sviluppo dell’economia italiana, cit., p. 179.
P. B a ffi , L ’evoluzione monetaria, cit., p. 255.
P aolo A lbertario , La situazione economica dell’agricoltura, Roma, 1947, p. 238.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
67
Le misure del settembre ’47 (e il contemporaneo miglioramento delle produzioni
agricole interne e internazionali) fecero crollare i prezzi agricoli bloccando il pro­
cesso di autofinanziamento (e quindi un probabile processo di ristrutturazione
agricola). Se nella prima fase gli aiuti finanziari all’agricoltura furono irrisori e
prevalentemente volti ad alleviare la disoccupazione con lavori di bonifica (21
miliardi di lire sul bilancio, 14 milioni di dollari sui 589 dei contributi UNRRA e
5 miliardi sul Fondo-lire)42, anche nella seconda non si andò molto al di là della
formulazione di piani. Il freno imposto dalla deflazione einaudiana al processo
capitalistico nelle campagne fu accolto con particolare favore dai settori indu­
striali perché rinsaldava le alleanze con la rendita fondiaria e contributiva a sta­
bilizzare il mercato del lavoro.
L ’Annuario della Confindustria del ’48, valutando il graduale assestamento del
mercato mondiale di cereali, calcolava che entro due o tre anni l’Italia non avrebbe
più avuto bisogno di razionamento e avrebbe potuto dedicarsi a colture più adatte.
E aggiungeva: « Tale trasformazione deve però essere lenta e graduale, per non
creare nuovi e più gravi problemi ». Una eventuale diminuzione dei cereali a
vantaggio delle foraggere potrebbe realizzare un assetto produttivo più economi­
co, perché il grano verrebbe coltivato su terreni più adatti, ma « contemporanea­
mente, in quanto le colture foraggere e l’industria zootecnica richiedono meno
mano d’opera, si verrebbe, data l’alta intensità della nostra popolazione rurale,
ad immettere sul mercato del lavoro un’offerta di mano d’opera che, in assenza
di un corrispondente sviluppo dell’industria, aggraverebbe il nostro già difficile
problema della disoccupazione ». Al momento inoltre una contrazione delle col­
tivazioni cerealicole creerebbe dei problemi valutari e di investimento di capitali.
« Si manifesta pertanto la necessità di una politica agraria che sappia contempe­
rare le esigenze attuali del paese con la necessità a più larga scadenza della nostra
agricoltura o della nostra economia e che pertanto sia armonicamente collegata
con la politica industriale, monetaria e creditizia ».
Giustamente quindi Foa osserva che quello che fu conquistato nelle campagne
si deve al fatto che « i lavoratori non si limitavano a chiedere e manifestare, ma
sviluppavano azioni che modificavano la realtà nell’atto di chiedere la modifi­
cazione ». Altrove però aggiunge — e il passo citato di Costa sembrerebbe con­
fermarlo — che una soluzione democratica della lotta mezzadrile del ’45 e di
quella bracciantile del ’47 si ebbe perché gli agrari vennero abbandonati dalla
Confindustria decisa a imporre il primato delle esigenze industriali.
Quanto al Mezzogiorno e all’ennesima occasione mancata per la soluzione del
problema si vedrà in altra parte della relazione. Anche qui è interessante ripren­
dere il giudizio di Foa sull’opera di Saraceno, uno degli esperti più consapevoli
del problema e principale autore dei piani di primo aiuto: « La soluzione racco­
mandata — scrive Foa — e poi adottata fu la rianimazione mediante la spesa
pubblica della domanda meridionale di prodotti industriali del Nord: la crescente
coscienza del problema meridionale e dell’inaccettabilità del divario dei consumi
fra Sud e Nord forniva così la giustificazione per la creazione di un mercato più
42
Lo sviluppo dell’economia, cit., p. 179.
68
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
ampio all’industria del Nord » 43. Va rilevato tuttavia che il disegno dei « pianifi­
catori » era strettamente collegato ad una rapida ed efficiente assunzione da parte
dello stato (e quindi dei partiti di governo) di tutti gli obiettivi del piano. Così,
ad es., al momento dell’unificazione la riattivazione delle principali industrie del
nord e dei trasporti doveva essere accompagnata dalla tempestiva emissione di
un prestito e del mantenimento o miglioramento delle provvidenze alimentari
(mense e spacci) per contenere i costi di produzione. Solo così, si sperava, il nord
poteva diventare un « fattore di riequilibrio, uno dei cardini su cui imperniare
gli sforzi antinflazionistici ». Il programma44, che nelle intenzioni dei suoi ideatori
intendeva « quasi agganciare l’Italia liberata al Nord anziché il Nord all’Italia
liberata », richiedeva « rapida risoluzione e impostazione dei provvedimenti ne­
cessari »: il che voleva anche dire un sostegno coerente delle forze economiche
e sociali.
Nella realtà gli industriali appoggiarono la parte del disegno che loro conveniva,
e cioè la riattivazione dei trasporti e dell’industria del nord, meno danneggiata
di quella meridionale (l’apparato produttivo che aveva subito danni valutati in
media l’8 per cento secondo i calcoli della Banca d’Italia45 e il 20 per cento se1condo i calcoli della Confindustria46, era già ritornato alla fine del ’46 sui livelli
del ’39). Sull’insieme del programma invece, nessuna forza politica si impegnò
a fondo decretandone così l’insuccesso, sancito definitivamente dall’approvazione
del piano ERP che ne distrusse il presupposto di una ricostruzione basata solo
sulle forze interne 47.
Se il disegno industriale qui riassunto appare così strettamente ancorato ad una
solida base di classe, il modello economico della sinistra (legato ad una compre­
senza tra settore privato, impresa pubblica e spesa pubblica) risalta non solo per
la sua quasi impossibilità di realizzazione pratica 48 (fatto che in parte spiega le
continue modificazioni della linea di attacco), non solo per i limiti culturali rile­
vati da Foa (l’influenza della scuola liberista), ma soprattutto per i limiti politici
e teorici che vi stanno all’origine e sui quali ci si è soffermati nei paragrafi pre­
cedenti.
Il tentativo di distinguere tra le forze capitalistiche sane e quelle malate, inten­
dendo con le prime Valletta, appare ancora più irrealistico quando risulta chiara
la compattezza dell’avversario di classe. La rinuncia a porsi obiettivi socialisti,
anche nel lungo periodo, comportò la rinuncia a dare battaglia su obiettivi di de­
mocrazia dal basso puntando tutte le carte sulla lotta a livello elettorale o go­
vernativo. La vera sconfitta — così conclude Foa il suo saggio — fu essenzial­
43
V. F oa, La ricostruzione capitalistica cit.; le citazioni, nell’ordine, a pp. 441, 454 e 442.
44
Ministero dell’Italia occupata, Programma di primo intervento nel Nord nato da un
incontro tra Vanoni, Saraceno, Cianci, Saibante, in ISR T Fondo Medici-Tornaquinci, Filza
n. 416; ins. Uff. Econom.
43 Cit. in D e C ecco, Sulla stabilizzazione del 1947, cit., p. 112.
4° Annuario 1947, p. 36, ripreso anche dalla pubblicazione cit. del C IR , Lo sviluppo del­
l’economia italiana.
47
M assimo L egnani, Contributi e temi di ricerca sul 1945-48, cit.
4!
Cfr. S ilva-Targetti, Politica economica e sviluppo economico in Italia, cit.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
69
mente sul problema della democrazia, l’aver dissociato lotta democratica e lotta
socialista nella convinzione di « una pacifica avanzata democratica in un quadro
di rafforzamento del capitalismo ». Pur tenendo presente che il problema pratico
e teorico della democrazia socialista ha acquistato una diversa urgenza negli ul­
timi anni, e che la rinuncia a quelle posizioni non significò allora una rinuncia alla
combattività, il chiarire quali furono gli obiettivi e i risultati della lotta della si­
nistra ha un suo valore nel momento in cui quegli anni si ripropongono come mo­
dello di nuove alleanze.
La « meditata piattaforma alternativa » che Cafagna49 attribuisce a Togliatti (lo
obiettivo vincente del consolidamento del partito in una società capitalista) può
essere un utile strumento interpretativo dopo il ’48, ma sicuramente non ha alcuna
base negli anni in cui le sinistre dimostrarono la più completa impreparazione
alla cacciata dal governo. Rimangono invece da chiarire tutti i problemi sollevati
da Cafagna con le sue Note: il problema della doppia linea anzitutto, il cosiddetto
« concretismo » del vertice accettato dalle masse in visita di un pegno futuro. Si
vorrebbe capire, cioè, se il radicamento del partito nel paese (nell’ipotesi che que­
sto fosse il vero obiettivo di Togliatti) doveva proprio passare attraverso la scon­
fitta della linea economica immediata ideata dal suo vertice, mentre l’adesione
delle masse veniva fondata su una continuità di tradizioni di lotte che con quella
linea aveva ben poco a che fare.
Il sindacato
Un esame, per quanto sommario, dello stato della questione riguardante il sinda­
cato per il periodo 1944-48 porta ad una prima considerazione di carattere gene­
rale: e cioè la maggiore disponibilità dimostrata dal movimento sindacale rispetto
ai partiti a ripensare in termini critici l’esperienza degli anni 1944-48, esperienza
che coincide con la costituzione della C G IL unitaria fino alla scissione È suffi­
ciente prendere in esame le riviste del sindacato, per cogliere questa disponibilità
in numerosi scritti di militanti e di studiosi del movimento sindacale2.
Questo atteggiamento è dovuto al salto qualitativo compiuto dalle organizzazioni
sindacali nella loro collocazione politica nel paese a partire dagli anni ’60, nei
rapporti nuovi che si sono stabiliti tra le varie correnti sindacali avviate ad un
processo di unità che per quanto diffìcile non pare reversibile, e soprattutto nel
nuovo rapporto che i sindacati hanno cercato di stabilire con i movimenti di
massa. Molte preclusioni di carattere ideologico sono cadute sotto la spinta dei
nuovi livelli sui quali si è attestato lo scontro di classe nel nostro paese. Il mo­
vimento sindacale si è adeguato a questa realtà corrispondendo positivamente
49
L uciano C afagna, Note in margine alla « Ricostruzione », in Giovane Critica, cit.
1
Per i documenti relativi alle scadenze congressuali della C G IL unitaria, cfr. I congressi
della C G IL, voli. I-II, Roma, 1970.
2
Cfr. in particolare i numeri monografici di « Quaderni di Rassegna sindacale », la rivista
della C G IL dedicati a L ’unità sindacale, n. 29, mar.-aprile 1961; Sindacato e partiti, nn. 33-34,
nov. 1971 - febbr. 1972; I congressi della C G IL, n. 41, marzo-aprile 1973; ma vedi anche
gli Annuari del Centro studi C ISL e i « Quaderni di azione sociale » delle A di.
70
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
alla richiesta di unità che è cresciuta dal basso e che ha costretto le diverse com­
ponenti a un ripensamento della propria strategia e della propria azione quoti­
diana. Il processo si è tradotto in una ricerca, spesso difficile, di una nuova iden­
tità del movimento sindacale, e quindi di un riesame del proprio recente passato
per rapportare gli elementi di differenziazione o di continuità, presenti in un’espe­
rienza contraddistinta dal segno dell’unità e della richiesta politica, alla nuova
realtà del sindacato caratterizzata, come quella, da una fortissima richiesta politica,
da una forte spinta unitaria ma anche da una precisa esigenza di autonomia. Il
movimento sindacale, chiamato prepotentemente a giocare un nuovo e originale
ruolo nel rapporto stato-società, non può non fermarsi a riflettere sul proprio
passato per capirsi e capire la realtà in cui si trova ad agire.
Questa esigenza si è tradotta in tempi recentissimi (e nuovi risultati saranno
presto disponibili) in una serie di lavori che se non possiedono ancora i caratteri
di una soddisfacente sistemazione critica e storica dell’esperienza unitaria, testi­
moniano però del rapido crescere di una « cultura sindacale » che ha operato un
netto salto qualitativo rispetto ai risultati disponibili fino a qualche tempo fa.
Per capire i termini della crescita e dell’approfondimento compiuto possiamo as­
sumere come punto di riferimento la rassegna di studi condotta alcuni anni fa
da un gruppo di ricercatori torinesi34, nella quale i limiti della produzione storio­
grafica e della memorialistica venivano riassunti (e ci pare correttamente) nell’os­
servazione che « la storia del quinquennio successivo alla liberazione [venne vi­
sto] come storia della rottura dell’unità sindacale ». Da un lato appare ovvio che
il tema dell’unità, caratterizzando in modo specifico l’esperienza del dopoguerra
rispetto a tutta la precedente storia del sindacato, fosse al centro dell’attenzione e
che il tema della scissione dominasse l’interesse di chi scriveva sul sindacato così
come dominò l’opinione pubblica e la polemica politica. Dall’altro lato appare
evidente, però, che la scissione diventa per la gran parte degli autori il momento
di verifica della bontà di tesi precostituite, frutto più di una carica polemica spinta
a portare avanti il gioco delle responsabilità che di uno sforzo di riflessione sui
modi, tempi e significato della costruzione unitaria, la quale finisce per assumere
nella quasi totalità delle interpretazioni il segno di una forzatura operata dai
partiti. Così per il Gradilone * la scissione del ’48 è il giusto correttivo al peccato
di origine dell’unità sindacale; per altri autori5 è uno strumento pericoloso nelle
mani dei comunisti, ai cui fini essa viene piegata; di qui la necessità storica della
scissione come momento della difesa della democrazia e della libertà. La tesi del­
la strumentalizzazione si ritrova come giustificazione della rottura anche in autori
democratici e laici6 ed è ripresa nelle opere di storia generale7, nelle quali, tutta­
3
Cfr. AA. W ., Il movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi 1945-1969, Torino,
1970. Ai fini del nostro lavoro cfr. in particolare le parti curate da Dora Manteco e Aldo
Agosti, pp. 83-140.
4
A ldo G radilone, Storia del sindacalismo, Italia, vol. I l i , 1-2, Milano, 1959.
5
Così A. T oldo, Il sindacalismo in Italia, Milano, 1953; valutazioni più meditate in
F rancesco M agri, Dal movimento sindacale cristiano al sindacalismo democratico, Milano,
1957 e G iancarlo G a lli , J cattolici e il sindacato, Milano, 1969.
6
D avid L. H orowitz, Il movimento sindacale in Italia, Bologna, 1963; I. V iglanesi , Dieci
anni di sindacalismo democratico (1950-1959), Roma, 1960; G iorgio G a lli , La sinistra ita­
liana nel dopoguerra, Bologna, 1958.
7 ' Cfr. N orman K ogan, L ’Italia del dopoguerra, Bari, 1972; G iu sep pe Mammarella ,
L'Italia dopo il fascismo, Bologna, 1970.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
71
via, al sindacato è riservato poco spazio, proprio perché si ritiene che le sue scelte
siano largamente ricomprese in quelle dei partiti. Anche in autori della sinistra
le tesi della strumentalizzazione trova spazio, sia pure con segno contrario, per
ribaltare sulla corrente cattolica e sulla DC la responsabilità della rottura, ma in
genere l’operazione si accompagna ad un tentativo di analisi che tende ad inserire
le vicende italiane in un contesto più ampio. Significativamente il Candeloro 8, il
cui breve saggio resta pur sempre il lavoro con l’impostazione più solida, sottoli­
nea i movimenti del quadro internazionale e lo sviluppo della guerra fredda come
cause delle svolte interne politiche e sindacali.
Senza scendere in considerazioni più analitiche, per le quali si rinvia alla citata
rassegna, ci pare di dover sottolineare come il criterio di leggere le vicende sin­
dacali attraverso il filtro esclusivo dei partiti e dell’influenza che su di esse eser­
citarono, non fa compiere alla ricerca grandi passi avanti, ma anzi la fossilizza su
un solo aspetto. Che questa impostazione ci fornisca del sindacato un’immagine
ridotta e riduttiva è già stato denunciato da chi ad un’unità frutto di scelte verticistiche ha contrapposto un’unità frutto anche di una reale spinta dal basso, ri­
fiutando una realtà sindacale ridotta all’aspetto istituzionale, a un gioco di sim­
boli, ad una parvenza di rapporti il cui significato reale è riconducibile a quelli
esistenti tra le forze politiche, per sottolineare invece la necessità di rapportare
le scelte dell’organizzazione sindacale al contesto generale delle vicende del
paese, da un lato, dall’altro ai movimenti delle forze sociali di cui l’organizzazione
sindacale bene o male tende ad essere espressione ’. Si tratta, dunque, della ri­
scoperta di un rapporto meno meccanico tra forze politiche e sindacato per un
verso, tra sindacato e realtà sociale per un altro verso, scavando al di là della
natura e dei limiti di quel patto di Roma che dà vita alla C G IL unitaria per
verificare che cosa significhi la ricostruzione del sindacato a livello centrale e
periferico, evitando di far discendere le sue scelte da un marchio d’origine defi­
nito una volta per tutte e da una filiazione senza contraddizioni dalle decisioni e
dagli orientamenti dei maggiori partiti. Il quadro rigido, che ci veniva proposto,
si apre, si amplia, si articola e la realtà sindacale viene restituita ad una com­
prensione dialettica ricca di problemi e di contraddizioni. Nei più recenti lavori
sul sindacato questo sforzo è stato intrapreso con risultati, che pur nella loro
parzialità, danno certamente ragione, per la ricchezza dei motivi e la potenzialità,
di ulteriori sviluppi oltre che per l’originalità delle acquisizioni, a questa impo­
stazione.
Già il lavoro del Turone 10, pur con i limiti che gli derivano da un taglio narrativo
che riduce lo spazio dell’approfondimento critico, offre, specialmente nella prima
parte dedicata alla nascita dell’esperienza unitaria, una serie di spunti assai utili.
L ’aver seguito il formarsi dell’organizzazione sindacale durante la guerra nel sud
e nel nord come due momenti distinti di elaborazione gli consente di dare il giu'
G iorgio C andeloro, II movimento sindacale in Italia, Roma, 1950; vedi anche l’inter­
vento di F ernando S anti in I sindacati in Italia, Bari, 1955 e di E milio Lussu in Dieci anni
dopo, 1945-1955, Bari, 1955.
9
Questo sforzo, già evidente nel citato lavoro del Candeloro, è una costante delle riflessioni
e dell’impostazione perseguita da Vittorio Foa nei suoi numerosi scritti dedicati ad un riesame
del periodo 1944-1948.
10
S ergio T urone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Bari, 1973.
72
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
sto spazio, nell’unità sindacale che si realizza pienamente con la liberazione, sia
alle componenti partitiche sia a quelle scaturenti dalla base, di collegare quanto
avviene nella clandestinità con il dopoguerra cogliendo il senso della continuità
di un processo estremamente diversificato, anche nella sua manifestazione terri­
toriale, e soprattutto individuando lo stretto nesso esistente tra azione politica e
azione rivendicativa nell’esperienza realizzata nelle fabbriche del nord nei lunghi
mesi dell’occupazione tedesca. Questa indicazione si va però man mano spegnen­
do con il procedere della ricostruzione; le forze sociali finiscono sullo sfondo e
riaffiora un tipo di impostazione più tradizionale che tende a spostare a livello
partitico la chiave interpretativa, anche se non mancano ricchezza di particolari
sulle vicende del dopoguerra e un non secondario interesse per personaggi e mi­
litanti di maggior rilievo del movimento sindacale (Di Vittorio, Grandi, Pasto­
re)
Più saldamente organizzato appare sotto questo profilo lo studio del Pillon112
che affronta il tema del rapporto Partito comunista-sindacato, tentando di dare
una risposta ad un interrogativo di fondo, analizzando le cause per le quali « l’im­
mensa carica rinnovatrice messa in moto dalla guerra armata di liberazione non
riesce nemmeno a creare le strutture di un’effettiva “ democrazia progressiva” , e si
logori anzi così rapidamente da mettere addirittura in pericolo i due obiettivi
“ minimi” della Resistenza — la Repubblica e la Costituzione ».
La risposta viene cercata dal Pillon non tanto nelle difficoltà oggettive, (così fre­
quentemente richiamate nella pubblicistica di sinistra) del dopoguerra, difficoltà
che se chiudevano gli spazi a soluzioni rivoluzionarie, altri ne lasciavano aperti ad
iniziative di rinnovamento strutturale e istituzionale, quanto nelle sfasature e
nelle incongruenze delle scelte strategiche e tattiche delle forze di sinistra, sinda­
cato compreso. Uno di questi errori viene individuato nell’assunzione in proprio
da parte della sinistra dell’obiettivo della ricostruzione senza la garanzia di un
rinnovamento democratico da condurre parallelamente sul terreno della fabbrica
e dello stato, con la conseguenza che « una ricostruzione economica che vede la
classe operaia ancora una volta in posizione subalterna sarà in effetti una restau­
razione capitalistica e pregiudicherà di conseguenza la costruzione di una vera
democrazia popolare ». Da questa valutazione politica iniziale discende anche la
linea rivendicativa della C G IL unitaria, che se individua correttamente i problemi
dei lavoratori, offre delle soluzioni (vedi gli accordi sui licenziamenti, la politica
salariale con le « tregue » conseguenti) che non possono non tradursi in « sacri­
fici inutili » perché senza contropartite politiche nel momento in cui si rinuncia
ad utilizzare quella spinta dal basso che, vittoriosa nella Resistenza, avrebbe po­
tuto contrastare nel dopoguerra la ricomposizione di un blocco di forze moderate.
Questa rinuncia, che è mediata dal sindacato ma è propria di tutta la sinistra e in
particolare del PCI, viene giustificata dal Pillon (ma la giustificazione non con­
vince) prima come una rassegnazione fatalistica al deteriorarsi dell’alleanza di
11
Per gli scritti di D i V ittorio nel periodo 1944-1951 cfr. G iu sep p e D i V ittorio , L ’uom o
antologia a cura di A. Tato; su Grandi cfr. L. Bellotti,
12
C esare P illon , I com unisti e il sin d acato ,
11 d irigen te , vol. II, Roma, 1969,
A chille G ran d i , Roma, 1966.
Milano, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
73
governo e poi come una necessità del movimento operaio di adeguarsi in modo
difensivo al rapido deteriorarsi dei rapporti sul piano interno ed internazionale.
Anche Pillon, come il Candeloro, vede la scissione sindacale come il risultato
di un dato generale internazionale, di un gioco esterno, che supera le possibilità
di manovra sul piano nazionale. Molta attenzione dedica ancora l’autore, proprio
per il tipo di problemi affrontati, agli organismi di base sul luogo di produzione,
in particolare alle commissioni interne, ai commissari di reparto, ai consigli di
gestione. Vere rappresentanze dirette della classe operaia e nello stesso tempo
articolazione, anche se formalmente non riconosciuta, del sindacato in fabbrica,
le commissioni interne vivono con drammaticità questa loro ambivalenza a volte
portatrici di una .spinta classista che scavalca accordi e impone nuove soluzioni,
a volte traduttrici a livello di fabbrica di una linea elaborata all’esterno della
fabbrica stessa 11.
Costretti dalle scelte generali del sindacato a muoversi in spazi sempre più ri­
stretti (accordo del 1947 sulle commissioni interne) questi istituti costituiscono
il punto d ’incontro delle contraddizioni poHtiche e sociali del dopoguerra ed è
per questo che su di loro (come sui commissari di reparto, sui quali però le infor­
mazioni disponibib sono assai scarse) si è appuntata l’attenzione di alcuni recenti
studi, che guardano agli anni della ricostruzione sotto l’angolazione di uno scon­
tro sociale in cui le possibilità aperte di fronte alle classi subalterne risultano as­
sai più articolate e ricche di quanto superficialmente non appaia.
Già la rapida sintesi della storia del sindacato condotta da Vittorio Foa 134, pone
esplicitamente il problema del rapporto tra lotte sociali e movimento operaio,
individuando per il periodo considerato (ma il discorso si amplia fino ai nostri
giorni) la compresenza di due differenti concezioni del sindacato: « quella che lo
vuole diretta istituzione ed espressione della classe operaia, intesa come forza
autonoma che si muove nel rapporto subalterno per superarlo, e quella che lo
vuole istituzione dello Stato democratico, organo di una società pluralistica in
cui il sindacato opera come rappresentante di “ un fattore della produzione” ac­
canto ai rappresentanti degù altri “ fattori”, ed opera come soggetto e parte
di una struttura mediatrice a livello sociale ».
Queste due concezioni coesistono all’interno della CG IL unitaria non solo come
puro riflesso delle diversità politiche e ideologiche delle correnti sindacali, ma
passano all’interno delle singole correnti, sia pure con accentuazioni diverse, e
quindi attraverso l’intero movimento operaio. Va tuttavia osservato che solo in
rare occasioni la compresenza delle due linee si traduce a livello di vertici sinda­
cali in una dialettica aperta, almeno fino a quando non si avvia esplicitamente il
13
Per un esame teorico e storico delle commissioni interne cfr. F ranco M omigliano,
Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, 1966.
“
Cfr. V ittorio F oa, Sindacato e lotte sociali, in Storia d’Italia, voi. 5 (2°), I documenti,
Torino, 1973; per un esame dello sviluppo delle idee dell’A. sul sindacato cfr. V ittorio F oa B runo T rentin , La C G IL di fronte alle trasformazioni tecnologiche dell’industria italiana,
in Lavoratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, a cura di F.
Momigliano, Milano, 1962; V. F oa, La C G IL e l’unità sindacale, in Idee e documenti per
l’unità sindacale, A CLI - Cbllana ricerche n. 10, Roma, 1969; V. F oa, La ricostruzione capi­
talistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4.
74
11 secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
processo della scissione, mentre la linea « mediatrice » prevale, nel periodo ini­
ziale e decisivo della ricostruzione, in consonanza con la linea politica di alle­
anze e di collaborazione che la sinistra porta avanti. E la prevalenza di questa
seconda linea si traduce per il sindacato in alcune scelte di fondo, destinate a
giocare nel lungo periodo, su un terreno specifico come quello rivendicativo.
La contrattazione centralizzata I5, aspetto tipico dell’azione sindacale nel dopo­
guerra, se significa da un lato il recupero in chiave minimalista di una spinta
egualitaria fortemente presente nelle lotte operaie e la riduzione di pericoli cor­
porativi, dall’altro significa la mortificazione della ricchezza politica delle lotte
sul luogo di produzione e la concessione al capitale di margini certi di manovra
attraverso i quali pianificare la propria ripresa e la propria strategia, senza altre
garanzie per la classe operaia che un relativa assicurazione dei margini per la
propria riproduzione (scala mobile). Significa ancora, nel momento in cui si
decide di spostare nella fabbrica la centralità dello scontro politico (e non sem­
pre l’operazione riesce per il riaffiorare prepotente in più occasioni di un’autono­
mia operaia tanto più interessante quanto più priva di strumenti operativi), di
operare una « dissociazione fra lotta e prospettiva politica, da cui deriva una
progressiva astrazione della “ politica” dei problemi reali. Anche la scissione
sindacale per Foa va letta in termini di lotta di classe: prodotto della guerra
fredda, essa viene condotta in porto quando la ricostruzione capitalistica è ormai
compiuta e « si trattava di renderla irreversibile, di piegare gli operai ad accettarne
passivamente tutte le conseguenze ».
Il punto che Foa sottolinea più volte (in apparente contraddizione con la linea
del discorso portato avanti, ma probabilmente per individuare correttamente un
problema da sottoporre all’analisi) è che la non congruenza tra la linea politica
del movimento operaio e le tendenze oggettive del movimento di classe non si
traduce in una frattura del rapporto organizzazione-massa; anzi, egli parla ora di
identificazione, ora di delega della classe operaia nei confronti delle organizzazioni
del movimento operaio, di un rapporto quindi di fiducia che solo nel lungo pe­
riodo rivelerà delle incrinature.
Il problema viene affrontato anche dalla Lanzardo 16 in uno studio che ha al cen­
tro il rapporto tra Partito comunista e classe operaia in quel grande complesso
industriale che è la Fiat, utilizzando una documentazione particolarmente ricca
e minuziosa. Largo spazio viene dedicato alle condizioni di vita, alle lotte della
classe operaia e all’azione del sindacato in fabbrica. Quest’ultimo è visto sostan­
zialmente come strumento che, per il modo con cui si è formato e per i legami di
dipendenza dal partito, condiziona, frena e canalizza la spinta operaia lungo i
binari delle scelte operate dal PCI. Il significato delle continue agitazioni e lotte
operaie, tendenzialmente e spontaneamente indirizzate ad una rottura dei rap­
porti sociali in senso rivoluzionario, è piegato, attraverso un controllo dei canali
15
Sulla contrattazione centralizzata cfr., ma con scarsi riferimenti storici AA. W ., Sindaca­
to e contrattazione 'collettiva, Milano, 1971.
16
L iliana L anzardo, Classe operaia e 'Partito comunista alla Fiat. La strategia della colla­
borazione, Torino, 1971.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
75
di comunicazione e di trasmissione della lotta o attraverso una limitazione e ri­
discussione degli obiettivi, alle scelte di collaborazione sul terreno politico ed
economico con le forze moderate e il capitale. Solo nei momenti di tensione più
acuta la spinta operaia riesce a coinvolgere e a far marciare nella propria direzione
gli strumenti organizzativi di base, soprattutto le commissioni interne e solo par­
zialmente riesce a toccare le strutture superiori del sindacato. L ’uso operaio del­
l’organizzazione si ferma quindi al livello più basso e non decisivo, senza riuscire
a diventare momento unificante del conflitto che si apre sul terreno della fabbrica.
Sullo stesso schema si muovono le analisi di tre studiosi ” , dedicate al periodo
della ricostruzione nel triangolo industriale. L ’analisi delle lotte operaie confer­
ma in tutte e tre le situazioni esaminate la sfasatura tra lotte e linea del movimen­
to operaio, tra tensioni sociali e linea politica che le traduce. Particolare attenzio­
ne è dedicata, oltre che ai movimenti della classe operaia, alle agitazioni di strati
di popolazione non occupata o « emarginata » (disoccupati, reduci, internati, don­
ne, ex partigiani, ecc.) per sottolineare una disponibilità ed una combattività gene­
ralizzata che potrebbe permettere alla lotta operaia di trovare anche fuori dalla
fabbrica un terreno di estensione, purché l’organizzazione, e in particolare il Par­
tito comunista, lo volesse. Forse a questi saggi, per molti versi stimolanti, nuoce
l’intenzione troppo scoperta di sottolineare i vuoti, le mancanze, gli errori della
sinistra col risultato di lasciare senza risposta la legittima domanda sulla sostanza
del rapporto tra Partito comunista e classe operaia.
Con un respiro più ampio e più problematico Bianca Beccalli1718 affronta in un re­
centissimo saggio alcuni nodi fondamentali della concreta ricostruzione del sin­
dacato, cogliendo alcuni caratteri fondamentali dell’esperienza unitaria. Intanto
quello della « centralizzazione » che riguarda sia la priorità data alla ricostru­
zione delle strutture « orizzontali » (Camere del lavoro, Confederazioni) rispetto
a quelle « verticali » (Federazioni di categoria), sia i metodi e i poteri della con­
trattazione, sia il parallelo ridimensionamento delle strutture di base. La « cen­
tralizzazione » sembra rispondere, e così verrà giustificata dal movimento operaio,
alle esigenze della composizione della forza lavoro, estremamente composita e
articolata nell’Italia del dopoguerra, e alla aspirazione del sindacato di essere
espressione unitaria delle esigenze, potenzialmente corporative e settoriali, che
questo tipo di mercato del lavoro potrebbe esprimere. Ma risponde anche ad una
esigenza del carattere di « politicizzazione » che il sindacato assume fin dalle sue
origini per il suo legame funzionale con i partiti, in contrapposizione con un al­
tro tipo di « politicizzazione » verificabile a livello di base come risultato del­
l’esperienza resistenziale vissuta come fenomeno di massa. La « debolezza con­
trattuale », che contraddistingue il sindacato in questa fase della sua storia e in
modo ancor più evidente negli anni ’50, è il risultato dell’insieme di queste scelte
politiche organizzative.
Riassumendo rapidamente i risultati dell’esame della più recente produzione sul
17
F abio L ev i , P aride R ugafiori, S alvatore V ento, II triangolo industriale tra ricostru­
zione e lotta di classe 1945-1948, Milano, 1974, con una introduzione di V. Foa.
1!
B ianca B eccalli , La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943-1950, in Italia 19431950. La ricostruzione, a cura di S tuart J. W oolf, Bari, 1974.
76
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
sindacato unitario si può osservare come le linee di ricerca convergano con insi­
stenza su alcuni problemi di fondo, che ruotano attorno ad un tema che, espresso
brutalmente, è quello del rapporto tra Partito comunista - organizzazione sinda­
cale - lotte sociali. Evidentemente spingono in questa direzione le connotazioni
politiche degli autori, anche se obiettivamente non si può disconoscere la rile­
vanza dell’argomento.
Tuttavia ci pare giusto sottolineare che esso non esaurisce affatto la gamma dei
problemi aperti o più semplicemente non affrontati. Ci limiteremo ad indicarne
alcuni la cui importanza non è secondaria per sciogliere gli interrogativi legati alla
esperienza unitaria della CG IL: intanto è necessario un esame più approfondito
delle altre correnti sindacali, socialista e democristiana. La prima è stata ingiu­
stamente identificata in base a giudizi non verificati con quella comunista19; la
seconda ha avuto finora una scarsissima attenzione, mentre ci pare che il condi­
zionamento che essa ha indotto sul comportamento complessivo del sindacato
unitario, giustifica un approfondimento che non può essere eluso facendo appa­
rire come errori delle correnti di sinistra quella che si è dimostrata una sensibi­
lità politica e una capacità tattica di grande respiro.
Accanto all’analisi della corrente democristiana, vanno messe quelle organizza­
zioni « parasindacali » come le A C L I20 che giocarono un ruolo di primo piano nel
costruire le condizioni della rottura dell’unità e nell’elaborare una linea sindacale
alternativa; o ancora quel vero strumento di supporto al potere democristiano
che fu la Coltivatori diretti21 che seppe inserirsi e radicarsi nel mondo conta­
dino, incautamente abbandonato, o appena sfiorato dagli appelli solidaristici delle
sinistre. D ’altra parte le campagne aspettano ancora chi scriva, anche dal punto di
vista sindacale, la loro storia nel dopoguerra22.
Lotte sociali nell’Italia settentrionale
Fino a poco tempo fa l’analisi delle lotte sociali del periodo 1943-48 presentava
due facce assai diverse: mentre era disponibile un certo numero di studi riguar­
danti il periodo resistenziale, scarsissimi o quasi nulli erano i contributi sul pe­
riodo postliberazione.
Il dato non era affatto casuale, ma era piuttosto il risultato di un orientamento
generale prevalente nel considerare questo periodo della storia italiana, nella quale
la Resistenza costituiva un capitolo a parte, anche se ad essa si faceva frequente
19
Purtroppo il saggio di A. F orbice - P. F avero, I socialisti e il sindacato, Milano, 1968,
prende le mosse dagli anni 1950, trascurando il periodo della C G IL unitaria.
20
Cfr. i riferimenti alle A CLI nell’intervento di G . R a pelli , in AA. W ., I sindacati in Ita­
lia, Bari, 1955, e con più sistematicità in F. M agri, B ai movimento sindacale cristiano, cit.
Vedi anche G iancarlo G a lli , I cattolici e il sindacato, cit.
21
Per un primo approccio al problema cfr. A. E sposto , Politica agraria e unità contadina,
Roma, 1972; E rnesto R o ssi , Viaggio nel feudo di Bonomi, Roma, 1965.
22
Per un primo approccio ai temi e ai problemi aperti del cosiddetto mondo contadino,
cfr. E manuele T ortoreto, Lotte operaie nella valle Padana nel secondo dopoguerra 19451950, in Movimento operaio e socialista, 1967, n. 30.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
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richiamo per spiegare le vicende dell’Italia repubblicana. Entro questo quadro si
collocava anche l’analisi delle lotte sociali sviluppatesi nel corso della Resistenza,
la cui interpretazione si traduceva, pur con sfumature diverse, nella sottolineatura
della partecipazione delle classi subalterne alla lotta di liberazione.
Le opere generali sulla Resistenza, fossero esse la testimonianza di militanti anti­
fascisti 1 o risultato di una riflessione in sede storica2, così come gli studi di
carattere più generale che prendevano in considerazione il periodo34, mantenevano
ben ferma l’interpretazione delle lotte sociali come espressione di uno scontro in
cui le connotazioni più specificatamente sociali, di classe, erano chiaramente su­
bordinate al carattere prevalente di lotta contro tedeschi e fascisti. Anche da
parte di coloro che, come Pietro Secchia, furono più attenti al contenuto di classe
delle lotte operaie e contadine, il rapporto lotta di classe e lotta nazionale veniva
risolto, non senza sforzo, in una chiave interpretativa volta a far coincidere i due
momenti giungendo, per dimostrarne la compatibilità, ad assumere come dato di
fatto che ciò che era accettato da una avanguardia era valido anche per la massa \
L ’egemonia della classe operaia nella guerra di liberazione veniva interpretata
come capacità della classe di autoregolare le proprie esigenze per farle coincidere
con gli interessi più vasti della nazione, ossia delle altre classi; di qui si ricavava la
funzione di guida della classe nel processo di ricostruzione post-bellico.
Un secondo filone interpretativo ha finito per assumere invece le lotte sociali del
periodo come l’espressione di una carica rivoluzionaria che potenzialmente si po­
neva al di là del quadro nazionale in cui la sinistra tradizionale voleva costrin­
gerle. Di qui l’accusa al movimento operaio di non aver utilizzato questo poten­
ziale fino in fondo, tradendo i principi teorici e la prassi rivoluzionaria del mo­
vimento socialista5. Per la verità il contributo di questi studi è sul piano storio­
grafico (ma anche su quello politico) estremamente carente, poiché il momento
dell’analisi è del tutto sopravanzato dalla polemica politica ed è tanto più disar­
mato e disarmante in quanto non trova, o non ha ancora trovato, un retroterra
teorico e pratico sul quale fare marciare la propria contrapposizione di principio.
Più complesso e articolato si presenta il panorama degli studi di carattere par­
ziale o locale sulle classi sociali e sui loro movimenti nel periodo resistenziale,
studi che sono incentrati sulla classe operaia dei grossi centri industriali del nord.
1
Cfr. L uigi L ongo, Un popolo alla macchia, Milano, 1947; P ietro S ecchia , I comunisti
e l ’insurrezione, Roma, 1954.
2
R oberto B attaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1953; C arli-Ballola ,
Storia della Resistenza, Milano, 1957; G iorgio B occa, Storia dell’Italia partigiana, Bari, 1965;
Il ComuniSmo italiano nella seconda guerra mondiale, Roma, 1963.
3
N orman K ogan, L ’Italia del dopoguerra, Bari, 1972; G iu sep pe M ammarella , L ’Italia
dopo il fascismo, Bologna, 1970; E nzo S antarelli, Storia del movimento e del regime fascista,
Roma, 1973.
4
Cfr. P ietro S ecchia , Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione (1943-1945).
Ricordi documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973. Vedi in particolare pp. 202-205.
5
Lungo sarebbe citare tutto il materiale che è stato prodotto, specie negli ultimi anni,
dalla sinistra extraparlamentare e dagli studiosi che a questo filone fanno riferimento. Basterà
ricordare per tutti le pagine dedicate alla Resistenza e al dopoguerra da R enzo D e l C arria,
Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano,
1966.
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II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
Alcuni di questi sono riconducibili al primo filone interpretativo e in parte ne
hanno costituito il supporto: così le analisi di Massola, sugli scioperi del marzoaprile ’43 tese sostanzialmente a dimostrare la presenza e le capacità organizzative
del PCI nelle prime lotte « aperte » della classe operaia dopo il ventennio fasci­
sta 6. Gli studi li Luraghi e Gibelli dedicati rispettivamente alle lotte degli operai
torinesi e genovesi, ricostruiscono con rigore storico le lotte nei due centri indu­
striali del nord con maggiore fedeltà allo schema interpretativo di ispirazione co­
munista il primo, tendente a ridurre a problemi organizzativi le contraddizioni
che si aprono fra partito e classe; con maggiori capacità critiche il secondo che
riesce a vedere il rapporto dialettico intercorrente tra movimento e organizza­
zione, e tra lotte operaie e contesto sociale.
In questa dimensione critica si collocano anche gli studi di Giorgio Vaccarino
sulla Resistenza a Torino e in Piemonte7 nei quali l’autore, muovendo da ipotesi
non riconducibili nell’ambito dell’interpretazione tradizionale del movimento
operaio, conclude sulla partecipazione come scelta soggettiva della classe operaia
alla lotta di Resistenza, offrendo però una ampia gamma delle articolazioni delle
componenti in gioco sia politiche che sociali. Ad esempio, per primo il Vaccarino
dedica particolare attenzione agli industriali e alla loro presenza tutt’altro che
neutrale e secondaria nelle vicende di quegli anni, come Castronovo ha verificato
nella sua storia su Agnelli e la F ia t8.
L ’impostazione prevalente negli studi sopra ricordati, non tanto di quelli speci­
fici, quanto piuttosto di quelli a carattere generale in cui viene fornito un giudi­
zio complessivo sul significato e valore delle lotte sociali, è stata messa in di­
scussione da una serie di lavori che, pur nella differente struttura e impostazione
presentano alcuni punti di incontro. Tra questi i più significativi ci sembrano il
rifiuto della frattura del 25 aprile e la sottolineatura della componente di classe
presente nelle lotte sociali del periodo resistenziale, componente che viene recu­
perata con eguale segno nelle lotte del periodo della ricostruzione. Questo tipo di
impostazione risale evidentemente ad un discorso più generale sul modo di inten­
dere la storia recente del nostro paese nel senso che i movimenti delle forze so­
ciali vengono assunti come il filo conduttore che permette di leggere una realtà
che non si ritiene completamente assorbita e interpretata dalle forze politiche
istituzionali. Per la verità questo sforzo non si è tradotto ancora in un discorso
sistematico, data la parzialità dei risultati, di cui tuttavia si incominciano a in­
travedere le linee di fondo sostanzialmente unitarie. Alcune osservazioni sui sin­
goli lavori possono chiarire che cosa si intenda per questa tendenziale unità.
Ai movimenti sociali nel periodo resistenziale è dedicata la ricerca in corso di
pubblicazione, promossa dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di
6
Cfr. U mberto M assola , Marzo 1943: ore 10, Roma, 1953, ora ampiamente ripreso e
rivisto in U. M assola , Gli scioperi del ’43, Roma, 1973. Da queste interpretazioni, sia pure
inserite in un giro d’orizzonte assai più ampio, non si discostano le pagine dedicate agli scio­
peri del 1943 da P aolo S priano, Storia del Partito comunista. La fine del fascismo. Dalla
riscossa operaia alla lotta armata, Torino, 1973.
7
G iorgio V accarino, Problemi della Resistenza italiana, Modena, 1966.
8
V alerio C astronovo, Agnelli, Torino, 1972.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
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liberazione in Italia, che affronta l’analisi della crisi italiana del 1943-44 e, in
quest’ambito, degli scioperi operai nei centri industriali del nord (Milano, To­
rino, G enova)9. L ’analisi delle lotte di fabbrica, nettamente prevalenti nel pe­
riodo considerato, ricostruisce da un lato gli atteggiamenti e le iniziative operaie
in rapporto alle condizioni materiali di esistenza (salario, condizioni di lavoro e
di vita, ecc.); dall’altro il crescere del rapporto tra classe operaia e sue organizza­
zioni; dall’altro ancora le reazioni che le lotte operaie inducono sulle forze che le
contrastano (capitalisti, tedeschi, fascisti). Il nesso tra lotta di classe e lotta di
liberazione rivela, a questa prima verifica, una notevole complessità come testi­
moniano le difficoltà incontrate dal movimento clandestino a stabilire una soddi­
sfacente mediazione tra i due momenti, dovendo continuamente' misurarsi con
una emergente autonomia operaia. Ricca di risvolti interessanti si rivela anche la
strategia della classe padronale che nel momento in cui deve fronteggiare le ini­
ziative di parte operaia, è costretta ad uscire allo scoperto, fuggendo allo schema
della collaborazione con i nazifascisti, alla ricerca di soluzioni che non ne pre­
giudichino le possibilità future di riaffermazione, in un difficile equilibrio tra le
esigenze nazifasciste e quelle dei lontani (ma non troppo) alleati.
11 tema dell’autonomia operaia è presente, sia pure con sfumature diverse, in altri
recenti lavori. Costituisce ad esempio, il punto centrale del discorso che Gobbi
dedica alle lotte operaie nella Resistenza 10, assumendole come momento dello
scontro tra capitale e classe operaia, scontro che negli anni 1943-45 è tutto uti­
lizzato da parte operaia a recuperare quegli spazi di iniziativa che gli sono stati
negati nel ventennio fascista. Viene quindi negata l’interpretazione della parte­
cipazione della classe operaia alla « ideologia » resistenziale, in quanto ideologia
estranea agli interessi diretti di classe; in questa chiave il rapporto partito-classe
è fortemente ridimensionato nel senso che esso investe solo la parte politicizzata, i
militanti, non la classe nel suo insieme per la quale il rapporto con l’organizza­
zione è un rapporto di uso ai suoi fini specifici.
Diversa interpretazione del concetto di autonomia si ritrova in altri lavori che
hanno in comune sia il periodo esaminato (il dopoguerra) sia l’impostazione di
fondo. Lo studio della Lanzardo sulla F ia t11 e i saggi di Levi, Rugafiori, Vento 12
sottolineano le sfasature tra la linea delle organizzazioni del movimento operaio
(partiti e sindacato) e le esigenze operaie quali si esprimono nelle lotte. Lotta
politica e lotta sociale nel dopoguerra muovono per strade diverse, dopo aver
trovato, secondo gli autori, momenti significativi d ’incontro nel periodo della
Resistenza. L ’accento batte più sul concetto di spontaneità che non su quello
di autonomia, la quale non può dispiegarsi senza il momento di coscienza co­
stituito dal partito. La spinta operaia resta pertanto nel periodo della ricostru­
zione ad uno stato potenziale e non trova uno sbocco alternativo alla presenza
9
Operai e contadini nella crisi italiana del 1943, Milano, 1974.
10
Cfr. R omolo G obbi, Operai e Resistenza, Torino, 1973.
"
Cfr. L iliana L anzardo, Classe operaia e Partito comunista alla Fiat. La strategia della
collaborazione, Torino, 1971.
12
Cfr. F abio L ev i , P aride R ugafiori, S alvatore V ento , Il triangolo industriale tra rico­
struzione e lotta di classe. 1945-<1948, Milano, 1974.
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II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
egemone del Partito comunista fra le masse, traducendosi al massimo in contin­
genti frizioni tra spinte di base e soluzioni di vertice 13. Ma, lasciando ad ulteriori
approfondimenti il tema dell’autonomia, e guardando all’insieme del quadro for­
nito dagli studi considerati, possiamo tentare di riassumere quegli aspetti che,
secondo noi, offrono la possibilità di un ulteriore sviluppo dell’indagine e di in­
dicare al tempo stesso i limiti con i quali è necessario misurarsi.
Un primo dato è costituito dalla ricchezza degli elementi che vengono offerti alla
riflessione da un approccio che privilegi le forze sociali e i loro movimenti. Questa
ricchezza non è solo il risultato scontato di avere affrontato un terreno relativa­
mente nuovo disponendo di una notevole strumentazione documentaria, ma è
data dalla potenzialità di sviluppo di un discorso che muovendo dalle forze so­
ciali, consente un accostamento « globale » alla realtà permettendo di riconside­
rare sotto un’angolazione inesplorata i processi di aggregazione politica, le solu­
zioni istituzionali, le strutture economiche. Tutto questo in una dimensione dina­
mica dei rapporti intercorrenti tra società, stato ed economia, che vede sì al cen­
tro lo scontro di classe ma senza fornirne una interpretazione definita una volta
per tutte, evitando le paralizzanti contrapposizioni ideologiche ma non sfuggendo
ad un giudizio storico politico. Infatti, se è vero che una parte rilevante dei saggi
è dedicata all’esame del rapporto partito-classe, è anche vero che questo interesse
non si è trasformato in giudizi aprioristici. Anzi, proprio a proposito di questo
tema ci pare di dover sottolineare come esso resti « aperto » e come, accanto al
riaffiorante ma non definito concetto di autonomia operaia, si ponga (e la ricerca
è tutta da compiere) il tema dell’autonomia delle organizzazioni e in particolare
del partito. E ancora ci pare senza una risposta soddisfacente il problema del nesso
tra Resistenza e dopoguerra, vuoi perché alcuni studi si fermano al 25 aprile o
prima, vuoi perché gli altri muovono proprio da quella scadenza dando per scon­
tati assetti sociali e politici tutti da verificare.
Se lo sguardo si allarga all’insieme delle componenti sociali, alcuni vuoti appaiono
evidenti: è andata avanti l’analisi della classe operaia dei grandi centri e delle
grandi fabbriche, ma sono rimasti inesplorati larghi strati di classe operaia dei
centri minori, degli operai occupati in piccole e medie aziende così come atten­
dono una attenzione specifica ampie fasce di lavoratori come i braccianti, i mez­
zadri la cui azione nel dopoguerra è di primo rilievo. Basterà accennare, infine, di
sfuggita al grosso problema dei « ceti medi » che restano, malgrado tutto, avvolti
nella fumosità dei luoghi comuni.
Un discorso a parte richiede poi l’iniziativa capitalistica in relazione all’uso che
riesce a fare del suo antagonista di classe, ai rapporti che riesce a stabilire con il
movimento operaio e soprattutto in relazione alle ragioni della scelta operata sul
piano politico in direzione di un ceto di governo che capitalistico non era
(e non è).
Ma per non continuare in una enumerazione di temi, che si giustifica solo per
13
Su questa linea d’interpretazione cfr. l’introduzione di V. F oa ai saggi cit. di Levi, Rugafiori e Vento; cfr. anche B ianca B eccalli, La ricostruzione del sindacalismo italiano 19431930, in Italia 1943-1930. La ricostruzione, a cura di S tuart J. W oolf, Bari, 1974.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
81
l’intenzione di voler dar conto delle possibili linee di sviluppo della ricerca, si
può passare all’esame della periodizzazione. È presente in alcuni stu d i14 un’ipotesi
che tende a inserire le lotte sociali degli anni 1943-48 in un ciclo decennale che
vede il suo inizio negli scioperi del marzo 1943 e la conclusione agli inizi degli
anni ’50. Questa ipotesi poggia su alcune considerazioni che ci appaiono fondate:
in primo luogo lo sviluppo delle lotte nel decennio si caratterizza in modo netto
rispetto a quella che sarà la situazione di stallo, di relativa staticità caratterizzante
gli anni ’50, nei quali si registra una netta caduta dell’estensione, dell’intensità,
della circolazione dei conflitti sociali. Su un altro piano, complementare al primo,
concorre a definire il ciclo decennale l’andamento del ciclo capitalistico, che nel­
l’alternanza delle fasi congiunturali di segno opposto in esso presenti, realizza il
superamento della crisi indotta dalla guerra. L ’assestamento su nuove posizioni
quale si realizza all’inizio degli anni ’50 (controllo del mercato interno, apertura
a quello internazionale, avvio di un processo di ristrutturazione e di riorganizza­
zione generale attraverso la scelta della meccanizzazione spinta dei settori trai­
nanti) presuppone un riconquistato controllo sulla forza lavoro, una raggiunta
stabilità politica che passa attraverso il contenimento dei conflitti nella fabbrica
e nella società. Il processo lento, contraddittorio, ma continuo si costruisce per
fasi successive che possiamo, in prima approssimazione, indicare, adottando come
criterio discriminante (con gli inevitabili rischi di arbitrarietà che ogni schematiz­
zazione comporta) i momenti di aggregazione delle forze sociali in movimento.
Il periodo resistenziale ci pare possa essere diviso in due parti. La prima (marzo
1943 - marzo 1944) è contraddistinta dalla iniziativa della classe operaia, parti­
colarmente nei grandi centri del triangolo industriale, che con gli scioperi del
marzo ’43, dell’agosto, del novembre e dicembre successivi scende in campo a
difesa dei propri livelli di sussistenza. Forti caratteri di autonomia, o se si vuole
di spontaneità, sono riscontrabili in questi momenti di lotta poiché scarso o tardi­
vo è il collegamento al movimento delle organizzazioni clandestine, così come qua­
si nulla è la presenza di altre forze sociali, se si escludono i momenti di partecipa­
zione di massa agli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre. Lo sciopero ge­
nerale del marzo 1944 (che pure registra vistose assenze: Genova, Trieste, il
Biellese) segna una svolta nel senso di un primo organico incontro tra movimen­
to organizzato e lotta operaia.
La seconda fase copre il periodo giugno 1944 - aprile 1945. Il salto di qualità
segnato dallo sciopero generale del marzo non trova nei mesi successivi fino agli
scioperi insurrezionali, una verifica nelle lotte che caratterizzano mese per mese
la situazione nelle fabbriche. I punti di scontro si moltiplicano; gli operai sono
impegnati quasi senza interruzione da un lato nella difesa del salario, eroso dal­
l’inflazione, dell’occupazione minacciata dai trasferimenti di manodopera voluti
dai tedeschi, dall’altro contro l’organizzazione capitalistica del lavoro (cottimo,
estensione dell’orario di lavoro). Le lotte, che in singole situazioni raggiungono
livelli altissimi, non ricuperano quella coordinazione, prima circolare e poi com­
plessiva che ha caratterizzato l’anno precedente, malgrado l’obiettiva ricomposi­
zione materiale e politica della classe dovuta alla spinta egualitaria messa in moto
Cfr. in particolare L. L anzardo, Classe operaia e partito, cit.
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il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
dall’inflazione. Si registra tuttavia un ampliamento del fronte sociale in movi­
mento. Non solo nuovi segmenti dell’articolazione della classe operaia scendono
in lotta, ma alcune componenti dei ceti medi cittadini vengono coinvolte dalle
lotte operaie e soprattutto anche il « mondo » contadino è scosso dalle agitazioni.
Prima i braccianti della pianura Padana, poi i mezzadri, i piccoli e medi affittuari
scendono in campo, trovando spesso un felice collegamento con il movimento di
Resistenza. Ma, come si è detto, la crescita numerica e politica nelle forze dispo­
nibili alla lotta non trova un coordinamento politico adeguato; anzi, proprio sul
terreno politico, nell’autunno 1944 si deve registrare una strozzatura che spinge
all’indietro il movimento cresciuto nella calda estate del 1944. La ricomposizione
di uno schieramento di forze moderate, costituitosi utilizzando le contraddizioni
specifiche e generali del quadro interno ed internazionale, avvia una strategia
volta a contenere la spinta sociale crescente a separare nettamente la lotta antifa­
scista dalla lotta di classe, usando abilmente il ricatto dell’unità antifascista. Nep­
pure gli scioperi insurrezionali e il clima di aperta contestazione sociale che ac­
compagna le giornate della liberazione riescono a smantellare le ipoteche mode­
rate avanzate sul dopoguerra. L ’indomani della liberazione verifica infatti, di
fronte a questa strategia, l’insufficienza di un’impostazione, fatta propria dalle
sinistre, che ha rimandato al dopo le definizioni dei rapporti che devono inter­
correre tra le forze sociali in gioco.
Il periodo che va dal 25 aprile 1945 al luglio 1948 si può schematicamente di­
videre in tre fasi successive 15. La prima fase può essere definita quella della
« normalizzazione », in cui cioè si tenta da parte capitalistica e da parte delle forze
democratiche antifasciste, di ricondurre a livelli accettabili i contrasti sociali esi­
stenti nella fabbrica e nella società attraverso l’uso dell’ideologia della ricostru­
zione. Il problema da risolvere è come attenuare la tensione sociale che, convo­
gliata e interpretata politicamente durante la guerra di liberazione in un quadro
di opposizione al fascismo e ai nazisti, la faccia ora funzionare dentro un quadro
che non comprometta la stabilità democratica appena raggiunta. L ’operazione ri­
sulta difficile perché ogni movimento di classe contraddice la natura del patto di
collaborazione sottoscritto, sia pure con intendimenti diversi, da tutte le forze
antifasciste.
Il rifiuto operaio di sottoporsi alla disciplina produttiva, le richieste salariali
avanzate con una serie di scioperi in giugno e culminanti in luglio in lotte estese
ai maggiori centri industriali, testimoniano una continuità dello scontro di classe
con il periodo resistenziale, continuità che si esprime anche nelle forme di lotta
prevalentemente spontanee e coordinate solo a livello di base attraverso un uso
tutto operaio delle commissioni interne. I restanti mesi del ’45 vedranno impe­
gnate le forze politiche e sindacali in uno sforzo teso ad attenuare il livello dello
scontro che investe anche le campagne. I mezzadri con le agitazioni avviate nel
15
Per la rapida e schematica esposizione dei principali momenti delle lotte sociali nel
periodo 25 aprile 1945 - luglio 1948 sono stati utilizzati i dati raccolti nei saggi più volte
citati dalla Lanzardo, di Levi, Rugafiori, Vento e di una prima schedatura di alcuni quotidiani
{Stampa, Unità, Avanti!)-, per le lotte nella valle padana qualche utile riferimento in E manue­
le T ortoreto, Lotte operaie nella valle padana nel secondo dopoguerra 1945-1950, in Movi­
mento operaio e socialista, 1967, n. 30.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
83
luglio mantengono aperta una conflittualità che toccherà le punte più alte in Si­
cilia e soprattutto in Emilia Romagna, dove i proprietari non vogliono riconoscere
i patti strappati durante la guerra di liberazione. L ’intervento personale di De
Gasperi non chiuderà le agitazioni che continueranno fino alla legge del 7 maggio
1947 e oltre. La lunga battaglia garantirà una forte crescita organizzativa della
categoria. La relativa tregua che si stabilisce nelle fabbriche nell’autunno con­
sente agli industriali che si stanno riorganizzando (la Confindustria verrà rico­
stituita ufflcialmente nel dicembre 1945), di impostare una strategia destinata a
dare i suoi frutti sul lungo periodo. Essa punta su alcuni obiettivi qualificanti:
far passare il principio dello sblocco dei licenziamenti, introdurre in alcuni settori
chiave un nuovo meccanismo di incentivazione del lavoro destinato a rompere le
spinte equalitarie, aprire una battaglia di principio sui consigli di gestione, porre
fine all’epurazione di industriali o di quadri tecnici per preparare il completo
recupero del controllo capitalistico sul processo di produzione. Come contropar­
tita viene offerto alla C G IL un consistente pacchetto di concessioni (la scala mo­
bile, le 200 ore per gli operai e la 13a mensilità per gli impiegati) il cui costo,
malgrado vengano ottenute senza lotte, apparirà nelle sue giuste dimensioni solo
più tardi.
I meccanismi di mediazione messi in atto, tra cui fondamentale risulta quello
della contrattazione centralizzata, riescono ad attenuare lo scontro a livello di
fabbrica anche se la tensione riaffiora in altri punti della società attraverso le
manifestazioni, spesso violente, di masse di disoccupati, reduci, partigiani a nord
e a sud del paese (gennaio-marzo ’46), intersecandosi con forti agitazioni di operai
e impiegati sulla questione dei contributi unificati, con le lotte dei lavoratori del
settore commerciale.
La relativa ripresa economica nel corso del 1946 segna il passaggio alla seconda
fase, che durerà fino alla tarda estate del ’47, ed è caratterizzata da una minore
incidenza delle lotte operaie. Queste, che per la crescente tensione sul salario do­
vuta alla galoppante inflazione tendono a esplodere in scioperi durissimi, come
avviene a Torino e in Piemonte nel luglio, spingono nell’autunno ’46 la Confin­
dustria ad una parziale accettazione delle rivendicazioni, ma la contropartita che
gli industriali strappano è altrettanto importante: una tregua salariale di sette
mesi (frutto del « nuovo corso ») che in pratica disarma gli operai di fronte al­
l’inflazione. Il nuovo anno si apre con un forte sciopero dei braccianti contro la
mancata applicazione dell’imponibile di manodopera in diverse province del sud
(Caserta, Reggio, Cosenza, Catanzaro), indice della progressiva ricomposizione
politica della categoria bracciantile.
Agitazioni si hanno anche tra alcune categorie di dipendenti statali retribuiti in
modo notevolmente inferiore ai dipendenti dell’industria, e tra i bancari per la
retribuzione dello straordinario. Il crescente costo della vita innesca a ripetizione
agitazioni e scioperi nelle fabbriche del nord (a Sesto S. Giovanni, a Torino); la
spinta è tale che le commissioni interne si vedono costrette a far proprie le ri­
chieste operaie malgrado la tregua salariale.
In aprile e maggio l’agitazione per il carovita si trasforma in movimenti di
piazza sempre più frequenti ed estesi nelle città; in queste manifestazioni parte
84
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
attiva hanno soprattutto le forti aliquote di disoccupati che il movimento sin­
dacale non riesce a controllare. Malgrado questo clima l’espulsione dei comunisti
dal governo, che avviene senza contrasti di ridevo, appare come la prima tappa
di una svolta della quale il movimento operaio non pare rendersi pienamente
conto, come confermano gli accordi firmati tra Confindustria e C G IL sulla rego­
lamentazione delle CI.
L ’attacco agli operai, alle classi subalterne, alle organizzazioni del movimento
operaio si fa scoperto. Alla svolta autoritaria del governo fa da contrappeso la
svolta in campo economico che segna il passaggio alla terza fase: si dà inizio a
quella politica deflazionistica che permetterà alla Confindustria di portare avanti
le esigenze « oggettive » dell’economia per operare un attacco a fondo contro la
classe operaia e le sue organizzazioni. La risposta delle classi subalterne è per la
verità adeguata a fronteggiare l’attacco: iniziano i braccianti (settembre 1947)
che aprono una vertenza la quale vedrà per la prima volta uniti i seicentomila
lavoratori della pianura Padana e i braccianti della Puglia, mentre in Lucania, Ca­
labria e Sicilia si registrano frequenti occupazioni di terre. Le principali categorie
industriali (tessili, chimici, metalmeccanici) in ottobre-novembre aprono in ser­
rata successione delle vertenze incentrate sulle rivendicazioni salariali, mentre il
fronte delle agitazioni si estende a nuovi settori (statali, dipendenti comunali,
degli istituti previdenziali, insegnanti elementari). Si giunge a scioperi generali
locali (a Milano a fine ottobre), a scioperi di importanti categorie di lavoratori a
Reggio Emilia, La Spezia, Venezia, Novara, ma non ad un’azione coordinata, men­
tre nel clima incandescente di aperto scontro sociale, ad acuire la tensione, ricom­
paiono le squadre fasciste (Roma, Milano) e la polizia in più occasioni non esita a
sparare sui dimostranti.
Ma le prossime scadenze elettorali impediscono alle organizzazioni del movimento
operaio di utilizzare in modo efficace l’enorme spinta che viene dal basso: le
forme di lotta si diluiscono nella « non collaborazione » dei metalmeccanici che
così non riescono neppure a chiudere un contratto che si trascinerà a lungo. Anzi,
si finisce per accettare nei primi mesi del ’48 una tregua sindacale subito con­
traddetta dalla ripresa della lotta da parte dei braccianti.
Intanto l’attacco ai livelli di occupazione, conseguenza della scelta deflazionistica,
continua attraverso le sospensioni, la chiusura di piccole e medie aziende, le ri­
duzioni di orario. La sconfitta elettorale del 18 aprile non attenua la combattività
operaia: i mesi di giugno e luglio vedono crescere ed estendersi movimenti di
lotta con occupazioni di fabbriche nel Milanese, con lo sciopero generale del­
l’industria a Torino (2 luglio), con scioperi di chimici e metalmeccanici. Ancora in
giugno i mezzadri sono costretti a scendere in campo per fare rispettare le norme
sulla ripartizione dei prodotti.
L ’attentato a Togliatti si inserisce in questo clima di scontro sociale aperto. La
reazione operaia è massiccia proprio perché a lungo preparata dalle lotte prece­
denti. Lo sciopero generale si colloca al culmine della parabola crescente delle
lotte del periodo postbellico e chiude di fatto una lunga stagione. La scissione
sindacale apporrà il sigillo al riconquistato controllo da parte delle forze mode­
rate sulla società e da parte del capitale sulla classe. Il passaggio alla fase de­
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
85
crescente delle lotte non è né immediato né lineare anche se il colpo è avvertito
in profondità. Negli anni che seguono lotte persistenti e dure saranno ancora
combattute, ma non saranno in grado di contrastare seriamente l’iniziativa ca­
pitalistica che già a partire dall’autunno ’48 (Fiat) incomincia in forme rozze un
processo di ristrutturazione degli impianti che è l’indice più signficatvo di una
riappropriazione in chiave capitalistica della contestazione operaia e del pas­
saggio dell’iniziativa nelle mani del capitale.
Aspetti del problema del Mezzogiorno
Nell’ambito degli studi sul secondo dopoguerra la situazione economica e sociale
del sud all’indomani del crollo del fascismo, lo schieramento delle classi, l’effet­
tiva azione dei partiti di massa e le resistenze opposte dalle vecchie strutture di
potere sono rimasti tra i temi meno studiati e approfonditi. Si spiega così come
venga dato facilmente per scontato che nell’immediato dopoguerra il più potente
freno alla spinta della classe operaia e delle forze di rinnovamento sia stato co­
stituito dal « vento del sud », Piscitelli giunge a parlare di un « “ deep. South”
[...] ribollente di torbidi umori vecchi e nuovi, in procinto di battersi per la meta
finale: il mantenimento della monarchia »
Turone vede nel sottoproletariato
meridionale un « alleato inconscio » dei « cauti ambienti imprenditoriali dello
stesso Nord » 2, riconoscendo una matrice eversiva e reazionaria nei tumulti di
piazza nel sud, almeno durante i governi di coalizione; lo stesso Spriano insiste
sul peso determinato nel sud dalla mancata esperienza della Resistenza3. Non
mancano naturalmente voci di dissenso all’accettazione dell’inevitabilità del suc­
cesso reazionario nel Mezzogiorno: già nell’immediato dopoguerra Valiani avan­
zava l’ipotesi di una possibile alternativa rivoluzionaria nelle campagne meridiona­
li sull’onda delle nuove speranze scaturite dalla liberazione, in un’opera troppo
ristretta al rammarico dell’occasione perduta per offrire utili indicazioni4. Negli
ultimi tempi l’indagine si è fatta più attenta ai fenomeni meridionali, pur pre­
sentando ancora una serie di limiti. In un suo acuto saggio Foa dà ancora cre­
dito incondizionato al moderatismo meridionale considerandolo, fino alla stabi­
lizzazione democristiana dell’aprile ’48, « terreno di rigurgiti nostalgici e reazio­
nari anche a livello di massa », cogliendone però il carattere di protesta, di ri­
fiuto di ogni autorità centrale che « non tarda a mostrare il suo volto estraneo e
autoritario » 5. Un utile contributo è stato offerto da precedenti ricerche sulla
'
E nzo P isc it e l l i , II governo Farri e i problemi della terra (I), in II Movimento di libe­
razione in Italia, 1972, n. 107, p. 95.
2
S ergio T urone, Storia del sindacato in Italia, Bari, 1973.
3
P aolo S priano, Bue operai comunisti nel Sud, in Rinascita, 22 settembre 1972, p. 21
(a proposito di S. C acciapuoti, Storia di un operaio napoletano, Roma, 1972, e G. C alandrone, Comunisti in Sicilia [1946-51], Roma, 1972).
4
L eo V aliani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949.
s
V ittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia
contemporanea, 1973, p. 442.
86
il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti delia storiografia
crisi italiana del 1943-44, da parte dell’Istituto per la storia del movimento di
liberazione in Italia67che hanno confermato l’importanza del processo di disgre­
gazione del blocco sociale garantito dal fascismo nel Meridione, riconoscendo
implicitamente la possibilità di una diversa collocazione politica del Mezzogiorno
nell’immediato dopoguerra. Da parte di certa letteratura che contesta ai partiti
di sinistra un mancato carattere di classe non solo si riconosce uno specifico con­
tributo del sud alle lotte sociali nel generale processo di crisi che investe l’Italia
nell’immediato dopoguerra, ma vi si è voluto vedere « il livello più alto di in­
subordinazione proletaria » 1. Ciononostante manca ancora una seria ricostruzione
di tali lotte e in genere della dinamica sociale del Meridione per cui occorre pro­
cedere a prime sommarie ipotesi.
Il materiale disponibile sembra giustificare l’inserimento di queste lotte in un
unico ciclo, come per il nord, con caratteristiche, però, in una certa misura di­
verse, In primo luogo, per la periodizzazione, se è identico il termine a quo, il
’43 (con punte fino al ’42), la conclusione del ciclo non può essere anteriore al­
meno al ’53. Così, se è accettabile su scala nazionale la divisione del ciclo in due
fasi principali, crescente fino al ’47, difensiva dal ’48 al ’50, questa divisione è
valida per il Mezzogiorno solo in misura relativa per quel che riguarda le lotte in
fabbrica, con il passaggio da una limitata linea offensiva ad una rigida difesa
(che non implica però minor capacità di mobilitazione), e non è affatto valida per
le campagne dove anzi il periodo ’49-51 segna l’acme del movimento. Per quel
che riguarda la partecipazione di altre categorie alle lotte, la fase di riflusso deve
essere anticipata almeno alle elezioni del ’46.
Altra fondamentale differenza troviamo nella composizione sociale del movimen­
to: se il proletariato di fabbrica è una componente essenziale, al pari di quello del
nord, in grado di dare alle lotte un carattere di continuità, pur disponendo di
una forza di gran lunga inferiore, sia per la ridotta consistenza sia per la bassa
produttività dell’apparato industriale meridionale che riduce sensibilmente il suo
potere contrattuale, la seconda componente di primaria importanza non può esse­
re riconosciuta nel proletario contadino puro e semplice, il bracciante, quanto
piuttosto nella tipica figura del contadino povero, in parte bracciante, in parte
piccolo affittuario di appezzamenti assolutamente insufficienti al suo stesso man­
tenimento: il che rende forzata l’attribuzione di precisi contenuti di « classe »
ad un movimento estremamente articolato. Anche il ruolo delle altre forze che
ruotano attorno a queste due componenti, pur non necessariamente sulla stessa
linea, è diverso rispetto al nord. Ruolo fondamentale hanno nelle città le masse
di disoccupati o sottoccupati, attratte in una prima fase, almeno in una certa mi­
6
Si fa riferimento ai saggi contenuti in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943, Mi­
lano, 1974.
7
L uciano F errari B ravo - A lessandro S erafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del
mezzogiorno italiano, Milano, 1972, p. 134. Sono ancora da citare R enzo D el C arria , Prole­
tari senza rivoluzione, Milano, 1966 e C. D emarco, La costituzione della Confederazione ge­
nerale del lavoro e la scissione di « Montesanto » (1943-44) in Giovane Critica, 1971, n. 27.
Molto interessante è il libro di S idney G. T arrow, Partito comunista e contadini nel Mez­
zogiorno, tr. it., Torino, 1973.
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
87
sura, nella sfera d ’influenza del movimento operaio, per la sua generale pro­
spettiva di lotta per l’occupazione e per l’attenzione prestata alla soluzione di
problemi urgenti e particolarmente sentiti da questi gruppi come il carovita o
il mantenimento del razionamento, ma che la sinistra non riesce a legare com­
pletamente alle lotte degli occupati, lasciando ampi spazi per la penetrazione delle
forze di destra.
Per gli altri gruppi sociali si deve ricordare che il vero e proprio ceto medio pro­
duttivo ha scarsissima incidenza nel movimento data la sua scarsa presenza nelle
strutture meridionali; maggiore interesse è invece rivolto dai partiti di sinistra
agli artigiani, ai professionisti, agli stessi imprenditori, almeno piccoli impren­
ditori, di aziende industriali e agrarie. Questa apertura viene giustificata con la
necessità di un ampio fronte meridionalista che non trascuri nessuna compo­
nente. Non è per il momento possibile ricostruire nella loro interezza i rapporti
del movimento operaio con i gruppi imprenditoriali: risulta però evidente come
questi si siano mostrati interessati ad una collaborazione, almeno fino a quando
sentirono minacciata l’esistenza stessa dell’apparato industriale meridionale.
La rigida difesa'del principio di gerarchia e il rifiuto di qualunque pressione ope­
raia sul momento decisionale se accomunano l’atteggiamento di questi gruppi a
quelli degli esponenti del grande capitale settentrionale, non sono sufficienti a na­
scondere le preoccupazioni di quegli imprenditori locali, piccoli e medi, che pro­
prio dai programmi di quest’ultimo vedono minacciata la loro stessa sopravviven­
za “. Ancora più aspri i rapporti col cosiddetto ceto medio improduttivo. Si tratta
indubbiamente di uno dei ceti maggiormente colpiti dalla crisi inflazionistica e
dalla crisi d’autorità degli anni ’44-45. Questo aspetto psicologico non è affatto
da trascurare, non tanto per la sopravvivenza di un legame con la terra da parte
di questi ceti, che si è notevolmente attenuato durante il fascismo, quanto per
il peso esercitato dall’apparato propagandistico conservatore, che riusciva a co­
prire la politica di piena restaurazione liberistica, portata avanti in campo finan­
ziario (mancato cambio della moneta, esenzioni fiscali, accentuata deflazione) in
nome della difesa dei ceti medi ’. I privilegi sociali di questi gruppi, che di fatto
sono superati ma che mantengono ancora una notevole carica emotiva per gli
interessati, sono abilmente utilizzati dalle forze moderate. È tipica la difesa avan­
zata dalla DC della figura dell’« onesto impiegato », esaltato come baluardo dei
tradizionali valori religiosi, dello stato e della famiglia, la contrapposizione por­
tata avanti tra i ceti a reddito fisso e gli operai e i contadini, che sono presentati
come maggiormente in grado di difendersi (se non di giovarsi) dell’inflazione 10.1*90
1
Sul divario Nord-Sud cfr. M arcello D e C ecco, La politica economica durante la ricostruzione in S tuart J . W oolf, Italia 1943-1950. La ricostruzione, Bari, 1974. Sulla posi­
zione degli imprenditori locali può essere di qualche utilità un’opera estremamente ufficiale
come quella di G . R u sso , L ’Unione Industriale di Napoli, Napoli, 1973. Mancano studi di
un certo peso. Tra i documenti utilizzabili si possono citare i verbali delle riunioni della
Consulta economica provinciale di Napoli, l ’« Adunanza napoletana dei ministri per la ria>
struzione della Campania (1945)», le relazioni presentate dalle varie commissioni per il 10°
Congresso per la difesa dell’industria meridionale (Napoli 4-5/12/1948).
9
cfr. D e C ecco, op. cit. pp. 293-294.
10
Una parte importante per questa ricerca è per questi aspetti II domani d’Italia, organo
della DC meridionale, per il 1944-45.
88
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
È infine appena il caso di accennare al peso esercitato dal mito di Giannini, di
« un impiegato a capo dello Stato ».
Passando ad una più precisa articolazione delle lotte nelle città meridionali, si
può far coincidere con il triennio 1943-45 il periodo di riorganizzazione sindacale
e in generale di ripresa del movimento democratico.
La storiografia ha sempre prestato scarsa attenzione al sindacato nel Mezzogiorno.
Eppure, nonostante il peso certamente inferiore dell’organizzazione sindacale del
sud rispetto a quella settentrionale, lo studio dei suoi rapporti interni ed esterni
potrebbe costituire un’interessante verifica della strategia sindacale nel secondo
dopoguerra. Per quel che riguarda i rapporti interni è certo che sin dall’inizio la
dirigenza sindacale si è impegnata a frenare le spinte rivendicative della base,
tanto da far prospettare un’autonomia del « movimento » dall’organizzazione
A mio parere questo fenomeno indica una sostanziale debolezza del sindacato, che
da un lato è impegnato a non ostacolare lo sforzo bellico del paese, riducendo il
proprio potenziale di lo tta112, dall’altro non riesce ancora a presentarsi come
protagonista della costruzione di un nuovo tipo di società direttamente gestita
dalla classe operaia (come è invece il caso delle grandi fabbriche del nord)13. Circa
le relazioni esterne, gli stretti rapporti con i partiti politici provocano sin dal­
l’inizio ostacoli ad un’azione unitaria che è costretta, già nel 1944, a fare i conti
con l’accanita resistenza democristiana.
Nel secondo periodo, che potremmo definire della ricostruzione, 1945-1947, co­
mincia a delinearsi con maggior chiarezza la strategia sindacale. Dalla pubblici­
stica dell’epoca appare sempre più evidente lo sforzo del sindacato di presentarsi
come garante della ricostruzione, come grande forza nazionale disposta per quel­
l’obiettivo a sacrificare gli stessi interessi dei propri iscritti, rinunciando alle ri­
vendicazioni economiche settoriali. Non sono risolte però tutte le contraddizioni
all’interno del sindacato. Se il predominio dell’organizzazione orizzontale (che
costituisce un punto di forza nel sud, data la mancanza di grandi concentrazioni
operaie con forte potere contrattuale), la stessa richiesta di una partecipazione
delle maestranze alla direzione delle aziende attraverso i consigli di gestione e i
comitati di fabbrica tendono a contenere le lotte salariali, il continuo aggravarsi
dell’inflazione, la crescente tensione nelle fabbriche per il mancato intervento
dello stato, la strenua difesa fatta dai sindacati dei governi di coalizione, che im­
pedisce uno sbocco politico alle lotte, finiscono per porre come obiettivo quelle
11
Cfr. le indicazioni emerse dai citati saggi sulla « crisi italiana del 1943-44 » e C. D emar­
La costituzione della CGL, cit. Per i dissensi sulla linea da tenere in campo sindacale si
ricordino le violente polemiche che dividevano Battaglie Sindacali, organo della C G IL, e La
Voce, giornale unitario di socialisti e comunisti, nel 1945.
12
Non bisogna sottovalutare anche le notevoli pressioni esercitate dall’AMG, contrariamente
a quanto pensa Stuart J. Woolf (cfr Stuart J. W oolf, op. cit. p. 402).
11
II senso di debolezza delle prime organizzazioni sindacali del Sud è chiaramente espresso
dal messaggio inviato dalla Camera del Lavoro di Napoli al Congresso di Bari, in cui manca
qualsiasi affermazione di iniziativa autonoma (Cfr. A urelio L epre , La svolta di Salerno,
Roma, 1966, pp. 4143).
co,
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
89
stesse richieste rivendicative che si volevano evitare (si pensi all’accordo sulla
scala mobile). Gravi problemi si pongono nel rapporto con gli altri gruppi: l’ac­
cettazione di una ricostruzione tesa a rimettere in efficienza « quello che già
c’era, dov’era », privilegiando relativamente la condizione operaia, creava una
barriera insormontabile con le masse disoccupate che non potevano certo consi­
derarsi, come per il nord, solo temporaneamente emarginate dal processo pro­
duttivo, dato il carattere cronico del fenomeno nel sud. Non a caso Turone può
citare il malcontento dei meridionali per gli accordi stipulati al nord per la con­
cessione del 75 per cento del salario ai disoccupati1415: risulta evidente la preoc­
cupazione che si volesse garantire l’occupazione settentrionale a spese di analoghe
misure per il sud. L ’agitazione dei disoccupati acquista comunque caratteri di
notevole estensione, radicalizzata dalla presenza di un numero altissimo di reduci,
coincidendo con le altrettanto numerose manifestazioni per il carovita.
Questo potenziale di lotta non può essere utilizzato, se non occasionalmente,
dalle forze di sinistra, appunto per il suo carattere spesso soltanto sovversivo.
L ’interesse dei partiti operai è tutto rivolto, invece, all’organizzazione di un mo­
vimento democratico che sappia saldare l’azione dal basso con le iniziative par­
lamentari, come nel caso dei decreti Gullo, capaci di estendere la propria in­
fluenza sui più svariati strati sociali, in una prospettiva di « riscatto meridionale »
che va al di là degli interessi contingenti,5. GÜ ostacoli incontrati da un simile
programma sono però difficili da superare; alcuni di ordine soggettivo come l’in­
capacità del PCI di generalizzare l’esperienza dei decreti Gullo 16 o la mancanza
di una spinta dalla base che sappia dare reale contenuto ai nuovi organismi (nelle
fabbriche, ad esempio, i consigli di gestione mantengono sempre un ruolo mar­
ginale mentre l’azione politica e sindacale resta prevalentemente legata alle com­
missioni interne), altre di ordine oggettivo dovute al progressivo deterioramento
del quadro politico. Il timore di imprevedibili sviluppi nella direzione dello stato,
che sembravano preannunciati dalla formazione del governo Parri e poi del tri­
partito, provoca la violenta reazione delle forze conservatrici (si pensi al separa­
tismo siciliano e alle minacce di rivolta armata all’indomani del referendum isti­
tuzionale) che si ripercuote anche nei rapporti tra i partiti di massa, che, del
resto, non erano mai stati particolarmente distesi17.
Nella terza fase, 1947-1948, il sindacato e le forze di sinistra sono colpite dalla
generale svolta involutiva della politica italiana. Le elezioni del 1946 hanno, poi,
chiarito i reali rapporti di forza nel Meridione incoraggiando l’attacco diretto alla
14
S. T urone, Storia del Sindacato, cit., p. 119.
15
Cfr. Il Consiglio nazionale del Partito comunista italiano, 7-10 aprile 1945, Roma 1945.
16
Un’autocritica dell’azione del PCI è già espressa nel 1947 da Sereni che riconosceva
« l a volontaria limitazione delle lotte delle masse [...], l’ingenua fiducia nell’efficacia di una
lotta che si svolgesse esclusivamente sul piano parlamentare e governativo » (E m ilio S ereni,
Il Mezzogiorno all’opposizione, Torino, 1947, p. 61).
17
La lettura del Domani d ’Italia mostra chiaramente come sia stata soprattutto la direzione
nazionale e frenare le impazienze di gran parte della DC meridionale per una rottura con i
partiti di sinistra. Il clima teso tra questi partiti è particolarmente avvertibile nelle zone
dell’interno dove è meno sentita la preoccupazione democristiana di trovare sempre una co­
pertura a destra.
90
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
classe operaia meridionale e alle sue espressioni politiche. La priorità data alla
organizzazione politica comincia però a dare i suoi frutti: in una fase di generale
riflusso del movimento operaio, nel sud si assiste ad una crescita della sua forza
organizzata16*18 ed elettorale. Se è vero che l’esperienza del Fronte democratico del
Mezzogiorno ha deviato verso una prospettiva elettorale le energie del movimento,
è anche vero che essa ha costituito la prima esperienza di partecipazione demo­
cratica di massa nel Mezzogiorno, coinvolgendo a tutti i livelli le popolazioni at­
traverso le Assisi del popolo, le carte di rivendicazione e tutti gli organismi unitari
rapidamente diffusisi in tutto il sud 19.
Nella nuova situazione non bisogna però dimenticare Pimpossibilità della classe
operaia meridionale di porsi come diretta protagonista delle lotte, dovendo re­
sistere all’interno della fabbrica alla nuova offensiva antioperaia e alla politica di
smobilitazione portata avanti dal governo.
La « razionalizzazione », in senso capitalista, delle campagne meridionali intra­
presa durante il fascismo provoca delle gravi fratture nel blocco contadino. Il
precario equilibrio economico su cui questo si reggeva viene ulteriormente ag­
gravato dalle modificazioni fondiarie e culturali, in particolare con la battaglia
del grano e la conseguente riduzione delle produzioni pregiate e del patrimonio
zootecnico. Le stesse campagne di bonifica e di colonizzazione, puntando ad una
riqualificazione « produttiva » dell’agricoltura, a tutto vantaggio delle grosse pro­
prietà agrarie, creano insostenibili problemi d’occupazione20.
La « capitalizzazione » dell’agricoltura meridionale non implica però una sem­
plificazione del quadro sociale. Recenti studi21, alla luce di un « ritorno a Marx »,
tendono a mettere in evidenza la componente capitalista tra i contadini; sono
però validi, a mio parere, le considerazioni di Macaiuso 22 quando contesta l’arbi­
trarietà dei parametri usati nelle classificazioni, riaffermando la assoluta premi­
nenza delle figure m iste23. I rapporti di lavoro non sono ancora direttamente
capitalistici, anche se funzionali ad una agricoltura sempre più integrata nelle
strutture capitalistiche, con una pluralità di ruoli per cui gli imprenditori agricoli
sono anche percettori di rendita e spesso imprenditori in altri rami dell’economia,
16
Una tappa importante è data dal Congresso di Pozzuoli del Fronte democratico del
Mezzogiorno, tenutosi il 19 dicembre 1947 alla presenza di 7.000 delegati.
19
La validità del « Fronte » è dimostrata fra l’altro dal fatto che anche dopo il 18 aprile
rimase in vigore. Sul « Fronte » cfr. G iorgio A mendola, La democrazia nel Mezzogiorno,
Roma, 1957; Il balzo del Mezzogiorno, in Critica marxista. Quaderno n. 5, 1972 e Lo svi­
luppo democratico del Mezzogiorno dal 1944 al 1954, in Cronache Meridionali, 1954, pp.
747-789.
20
Cfr. le osservazioni di A ugusto G raziani, L ’economia italiana 1945-70, Bologna, 1972.
21
Cfr. G. B olaffi - A. V arotti, Agricoltura capitalistica e classi sociali in Italia, 19481970, Bari, 1973.
22
E manuele M acaluso , Arretratezza e patti agrari nel Mezzogiorno, prefazione L ivio
S tefanelli , Bari, 1974.
23
« La realtà è che nella struttura sociale delle campagne si passa dal proletariato puro,
privo di ogni mezzo di produzione, attraverso tutta una serie di figure miste, all’imprenditore
capitalistico puro, cioè al puro organizzatore dello sfruttamento della forza-lavoro altrui. E si
badi bene, sia il bracciante puro che l’imprenditore agricolo puro sono del tutto eccezionali
nel quadro delle nostre campagne » (E. M acaluso , Prefazione cit. p. 13).
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
91
i braccianti sono anche emigranti stagionali, per lo più edili nelle vicine città e
la massa dei contadini, anche quando lavora in proprio, per raggiungere il livello
di sussistenza, è costretta ad accettare contratti di mezzadria, di affitto, di enfiteu­
si, di colonia parziaria o migliorataria, che hanno spesso rapporti giuridici capi­
talistici, ma sempre una condizione economica con forti residui feudali24*.
In questa economia prevalentemente basata sull’autoconsumo, è chiaro come non
ci sia alcun margine per l’aumentato valore dei prodotti agricoli che poteva in­
vece essere sfruttato dai mezzadri del centro-nord.
È questa la premessa indispensabile per comprendere la risposta delle organizza­
zioni di sinistra alla « fame di terra » dei contadini meridionali. Le forme di lotta
corrispondono a questa struttura arretrata, mantenendo un carattere esasperato,
che risente della tradizione spontaneistica, ribellistica tipica dei moti contadini
del sud; compaiono però anche caratteri nuovi di organizzazione, di generalizza­
zione delle lotte, di più vaste prospettive politiche, per il passato del tutto ine­
sistenti.
Il problema chiave nelle campagne è quello delle alleanze, particolarmente a cuore
al PCI, che per questo obiettivo frena in tutti i modi le occupazioni indifferen­
ziate di terre. Sulla politica del movimento operaio persistono tuttora grosse la­
cune 23; recentemente, in relazione al dibattito aperto nella sinistra dalle vicende
della legge sui fitti agrari v’è stata una ripresa dell’interesse verso questi argo­
menti, anche se persiste una certa incomprensione verso la condizione contadina
del sud quando si contesta la scelta del PCI di rivolgersi ad un fronte contadino
indifferenziato, senza un preciso carattere di classe. Non si coglie infatti il legame
tra la strategia « democratica » del PCI, che del resto risaliva a Gramsci e al­
l’elaborazione svolta durante il fascismo 26, e la realtà dei contadini meridionali
che, a prescindere dal loro particolare stato di salariati e coltivatori diretti, com­
partecipanti o coloni, erano accomunati da una generale povertà27.
La specificità della situazione meridionale non implica però un’azione del PCI
per il sud in contraddizione con l’orientamento generale, secondo l’interpreta­
zione di Tarrow del « dualismo economico » 28. Non si tiene infatti nel dovuto
conto la lotta alla jacquerie condotta con fermezza dal partito, essenziale per su­
perare il livello della rivendicazione immediata, e il ruolo assegnato all’organizza­
zione come momento unificante delle lotte tra nord e sud.
L ’insistenza della direzione comunista per un continuo rafforzamento dell’orga­
nizzazione si spiega anche con la consapevolezza dell’effettivo stato del movimen-
24 Interessante la ricca documentazione in L. S tefanelli, Arretratezza e patti agrari, cit.
23 Utili spunti di ricerca si possono trarre dalla recensione di A. M attone, Partito Comu­
nista e contadini nel Mezzogiorno, in Studi Storici, 1973, n. 4.
26
Cfr. le Tesi sul lavoro contadino nel Mezzogiorno approvate dalla Conferenza meridionale
comunista del 12-13 settembre 1926 e gli articoli di Grieco per Stato operaio raccolti in R.
G rieco , Scritti scelti, Roma, 1956.
27
Cfr. i dati sulla povertà tra le diverse categorie agricole ricavati dalla inchiesta sulla
miseria dell’apposita commissione parlamentare del 1952-53 (L. S tefanelli , Arretratezza e
patti agrari, cit., p. 101.
21
S idney G . T arrow, Partito comunista e contadini, cit.
92
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
to nelle campagne che, pur essendo dotato di una notevole carica contestativa,
non riesce ad esprimerla pienamente.
È ancora prematuro avanzare delle considerazioni definitive da una prima rile­
vazione delle fonti archivistiche disponibili (in particolare del fondo del ministero
degli Interni), ma è possibile ipotizzare che nell’immediato dopoguerra il fer­
mento nelle campagne è maggiormente legato al disagio per il caroviveri o per la
politica degli ammassi che non ad una vera e propria contestazione dei rapporti
di proprietà. Il grado di maturità espresso dal movimento contadino, soprattutto,
è del tutto insufficiente per prospettare soluzioni rivoluzionarie. Nelle zone che
avevano già visto nel primo dopoguerra le masse contadine impegnate nell’occu­
pazione delle terre si registra una notevole radicalizzazione delle lotte con una
adesione quasi messianica delle popolazioni ai programmi comunisti, non si riesce
però a estendere queste agitazioni a tutte le campagne meridionali dove le vec­
chie forze dominanti mantengono pressoché intatto il loro potere, servendosi
spesso degli stessi CLN e, soprattutto, potendo contare su quel formidabile
strumento di conservazione sociale costituito dal clero locale. Un altro grosso
limite era, infine, costituito dalla mancanza di chiarezza negli sbocchi politici del
movimento che non riesce facilmente a distaccarsi da un certo elementare po­
pulismo.
È evidente allora come fosse sentita la necessità di garantire una continuità del
movimento per impedirne il riflusso, rivendicando un ruolo prioritario al partito
e alla sua capacità di direzione39. Si tratta di un processo lento che si svolge tra
seri limiti e ritardi del partito2930 che non riesce perciò a impedire una lunga fase
di riflusso.
Il notevole salto qualitativo delle lotte del 1948-50 non può spiegarsi comple­
tamente senza tener presente la nuova situazione politica che vede il passaggio
del Mezzogiorno « all’opposizione ». Il 18 aprile non solo vede la fine di certe
remore nell’azione delle forze di sinistra, ma segna il passaggio da una lotta legata
a motivi contingenti ad un rifiuto aperto della politica governativa che porta
realmente, per la prima volta, a unificare le agitazioni dei contadini e le lotte
della classe operaia al nord e al sud. Ciononostante è azzardato parlare di situa­
zione rivoluzionaria31: l’avanguardia operaia del nord è già in fase di riflusso,
29
« L ’esperienza ci dice, infatti, che innovazioni contrattuali o legislative ottenute dal mo­
vimento contadino organizzato e profondamente sentite dalle popolazioni, per la insufficiente
messa a punto da parte delle forze politiche e sindacali degli strumenti atti ad agevolarne e
diffonderne l’applicazione, con la caduta della pressione di massa, rimangono sovente poco
conosciute agli stessi interessati [...]. Cosicché [...] persino il decreto Gullo [...] più che
dare l’avvio al ridimensionamento della rendita parassitarla provocava, come ricorda Grieco,
il “ terrorismo giudiziario” dei padroni contro i miglioratati » (L. S tefanelli , Arretratezza
e patti agrari, cit., pp. 133-134).
30
Cfr. A. M attone, Partito comunista, cit., p. 946.
31
« Solo la politica decisa dai comunisti riuscì a mantenere le lotte che vi si svilupparono
entro il limite oltre il quale si ha l ’insurrezione o l ’attacco diretto allo Stato, riuscì a circoscri­
vere^ l’orizzonte politico degli obiettivi entro la riforma agraria, con ciò stesso indicando il
nemico da battere nella frazione più arretrata del capitale, i latifondisti », (F. F errari B ravo A. Serafini, Stato e sottosviluppo, cit., p. 15).
Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
93
la capacità di mobilitazione del PCI nel Mezzogiorno è ancora insufficiente ” ,
soprattutto viene a mancare l’apporto della classe operaia meridionale, il cui ruo­
lo è stato erroneamente sopravvalutato dal partito3233, che resta isolata all’interno
delle fabbriche nella difesa della propria esistenza.
Nello stesso movimento contadino si presentano seri limiti che vengono accen­
tuati da errori del PCI. Se non si può accettare l’interpretazione di Tarrow sulla
« doppiezza » del PCI, è infatti innegabile che in alcuni settori del movimento la
scelta frontista va a discapito della coscienza di classe, provocando fenomeni di
opportunismo seguiti con preoccupazione dalla stessa direzione34.
I limiti del movimento contadino, che hanno permesso alla DC di varare una
riforma agraria che non si ponesse in contraddizione con i programmi del capi­
talismo industriale e che non colpisce alla radice gli interessi delle forze piu
retrive del Mezzogiorno, sono stati al centro dell’interesse del dibattito meridio­
nalista 3’ .
II filone « democratico », in particolare con Rossi-Doria36, tende a ridimensionare
il ruolo delle agitazioni nelle campagne nella convinzione che una corretta poli­
tica agraria avrebbe dato maggiori risultati nella lotta al latifondo che non una
generale riforma agraria37. Secondo questa interpretazione il movimento conta­
dino avrebbe dato, sì, la spinta decisiva ad un nuovo tipo di intervento statale
nel Mezzogiorno, ma, cadendo sotto l’egemonia comunista, avrebbe esaurito ra­
pidamente il suo ruolo progressista, causando anzi un’ulteriore involuzione po­
litica del sud perché i tempi di attuazione della riforma agraria hanno coinciso
con il suo esaurimento consentendo una « gestione democristiana » della riforma.
Analoghe considerazioni vengono fatte da altre parti. Per Tarrow il risultato di
queste lotte sì può definire piuttosto deludente: dal punto di vista sociale con il
32
La risposta all’attentato a Togliatti è molto dura in alcuni centri operai (ad esempio a
Castellammare di Stabia). La capacità di reazione del PCI nel sud si rivela però complessiva­
mente debole. Cfr. P ietro S ecchia , L o sciopero del 14 lu glio, Roma, 1948.
33
« Per la prima volta nella storia del Mezzogiorno, non solo la classe operaia “in gene­
rale”, ma proprio la classe operaia del Mezzogiorno ha assunto la funzione dirigente in que­
sta lotta » (E. S ereni, Il Mezzogiorno, cit., p. 117).
34
Grieco è costretto ad un energico richiamo ad una più rigida discriminante di classe,
denunciando un pericolo di « inquinamento » dello stesso partito che tende a ostacolare i
contatti diretti tra le direzioni dei sindacati e del partito e le masse contadine: « è frequente
il caso che i contadini economicamente più forti siano a capo della cooperatva, siano membri
del partito comunista e socialista e molte volte dirigenti locali di questi partiti..., lo strato
dirigente delle cooperative, in mancanza di una vita democratica interna alle cooperative e
identificandosi spesso con la direzione politica locale, ha resistito alle lotte o a nuove occu­
pazioni, per il timore che venissero pregiudicate le sue posizioni di vantaggio nelle coopera­
tive »; si viene così a determinare una « “ barriera d’opportunismo” con una base sociale ca­
ratterizzata » (R uggero G rieco , I contadini meridionali all’attacco del latifondo, Roma,
1949, p. 15).
35
Per una ricostruzione delle posizioni dei meridionalisti sono di grande utilità le biblio­
grafie dei libri di Tarrow e di Ferrari Bravo.
36
Cfr. di M anlio R o ssi D oria, Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1956
e Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari, 1958.
37
Nell’immediato dopoguerra Rossi-Doria era stato invece uno dei più convinti assertori
della riforma agraria. Cfr. M anlio R o ssi D oria, Prospettive dell’agricoltura italiana, Roma,
1945.
94
II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia
rafforzamento del ceto sociale a suo avviso più conservatore, quello dei piccoli
proprietari, dal punto di vista politico con un saldo controllo delle campagne at­
traverso l’organizzazione della « clientela » e la piena subordinazione del contadi­
no non più al latifondista ma alla Cassa o agli Enti di riforma3’. Giudizio molto
simile avanza Ferrari Bravo, secondo il quale « l’insorgenza proletaria nelle cam­
pagne » spezza la tradizionale struttura di potere nel Mezzogiorno, senza però che
si esprima una nuova classe politica nella gestione locale del potere, dando così
spazio alle nuove ipotesi di sviluppo portate avanti in prima persona dalla DC.
In realtà queste interpretazioni trascurano il fatto che la DC già da tempo ha ac­
quistato un ruolo primario presentandosi come espressione politica immediata di
quei gruppi sociali più conservatori che si erano mostrati capaci di ricomporre
rapidamente la vecchia struttura clientelare. È nella mancata utilizzazione in
senso democratico dei C L N 389 e nella sistematica scalata alle cariche pubbliche
da parte degli esponenti democristiani, sostenuti apertamente dagli Alleati, che
bisogna cercare le premesse del successivo uso spregiudicato dei centri di potere
da parte della DC “ .
Delle posizioni autocritiche degli esponenti comunisti s’è già accennato in pre­
cedenza. È chiaro che dalla ricostruzione delle agitazioni risulta maggiormente
evidenziata la difficoltà del Partito comunista ad assorbire tutta la spinta conte­
stativa meridionale nella prospettiva della costruzione democratica di « un qua­
dro di riferimento istituzionale unitario ». Una difficoltà che deve essere fatta
risalire alle scelte complessive fatte dal PCI su scala nazionale, all’accettazione
della priorità della ripresa produttiva (e quindi della restaurazione padronale)
che di fatto rinviava (per poi annullare) la soluzione degli squilibri sociali, in
primo luogo l’eliminazione, del divario nord-sud.
Alla contrapposizione tra nord e sud, portata avanti dalle destre, il movimento
organizzato dà una risposta giusta individuando, nei reali contenuti delle lotte, il
vero nemico nello stato, ma questo giudizio positivo non deve far trascurare il
grave ritardo con cui la sinistra prende coscienza dell’importanza della riforma
agraria, di cui si privilegia il carattere di riforma dei contratti e che comunque
viene vista, per lo più, come mezzo per un maggior collegamento con i ceti mez­
zadrili, con i gruppi intermedi delle campagne. È tutta l’importanza del problema
meridionale che tarda ad essere avvertita dal PCI e, del resto, anche quando i
reali termini del problema si mostreranno in tutta la loro drammaticità, si tar­
derà molto ad uscire dalla semplice enunciazione di una lotta contro il restaurato
blocco conservatore industriali-agrari, rimanendo troppo genericamente legati alla
visione del sud come sintesi delle insufficienze del sistema capitalistico italiano
e come massimo problema dello sviluppo nazionale, senza entrare nel merito di
38
L ’attenta analisi di Tarrow della struttura clientelare della DC nelle campagne era già
stata preceduta da diverse denunce. Cfr. E rnesto R o ssi , Viaggio nel feudo di Bonomi,
Roma, 1965.
39 5 ^ r’ S tuart J. Woolf, Italia 1943-1950, cit., p. 397. G. C iranna, Partiti ed elezioni in
Basilicata nel secondo dopoguerra. I, in Nord e Sud, febbraio 1958.
4“
C&- di P ercy A. A llu m , Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950, in
S tuart J. Woolf, op. cit. e Politics and society in post-war Naples, Cambridge, 1973.
Il secondo dopoguerra In Italia: orientamenti della storiografia
95
questo tipo di sviluppo. Nella linea di orientamento meridionalistico « democra­
tico » questo problema viene invece espresso subito con estrema chiarezza: in
Rossi-Doria l’esigenza di porre in primo piano il criterio di « produttività » è
chiara, così come in Saraceno, attraverso la politica di « infrastrutture industriali »
che, ponendo le basi di un aumento del reddito funzionale, di fatto, ad un am­
pliamento del mercato per le industrie del nord, riconferma il ruolo di subordi­
nazione dell’industria meridionale e la sua costante sottoutilizzazione. Ciò com­
porta la tendenza a privilegiare il mercato estero eliminando così ogni illusione
di piena occupazione e impedendo lo sfruttamento del mercato locale, per evitare
qualsiasi concorrenza all’industria del nord 41. Da altra angolazione Ferrari Bra­
vo riprende questa analisi, sviluppando la teoria del sottosviluppo come funzione
dello sviluppo capitalista. L ’unica forma possibile di intervento al sud, compa­
tibile con gli interessi del grande capitale, non può essere altro che la politica di
sostegno al reddito meridionale, legata sempre al criterio di produttività e con
l’unico scopo di passare da una fase di autoconsumo a quella di « consumo ca­
pitalistico ». Alla luce di questa analisi è chiaro che la ricostruzione non può che
riproporre il modello dualistico, ovvio risultato di ogni programma di sviluppo
capitalistico. Ma quando si riconosce che « al di fuori di una scelta esplicita di
stagnazione, l’alternativa neppure si pone » 42 si finisce con lo sfuggire ad un
preciso giudizio sull’azione e sulle scelte avanzate dalle forze di sinistra.
42
Cfr. P asquale Saraceno, Ricostruzione e pianificazione, Bari, 1969.
F. F errari B ravo - A. Serafini, Stato e sottosviluppo, cit., p. 25.
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