La Teoria della Ragnatela Sociale. Relazioni umane e solidarietà.

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Crimen et Delictum, IX (March 2015)
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La Teoria della Ragnatela Sociale.
Relazioni umane e solidarietà.
A. Puccia1, G. Sandri2, M. Tosi3, E. Corbari4
Abstract (versione italiana)
All’interno del presente lavoro il gruppo di studio
composto dagli operatori del Centro di Supporto alle Vittime di
Reato per la provincia di Mantova e dai ricercatori di FDE Istituto
di
Criminologia
di
Mantova
propongono
un’approfondita analisi socio-criminologica del tema
dell’insicurezza dei cittadini e avanzano per la prima volta un
nuovo paradigma interpretativo dell’insicurezza percepita. Gli
stessi, a seguito di una attenta riflessione critica sulle
motivazioni e sulle condizioni che determinano e hanno
determinato le paure e le insicurezze della Società dell’ultimo
ventennio (individuali e collettive), enunciano, attraverso la
“Teoria della Ragnatela Sociale”, le basi per un nuovo modello
interpretativo-applicativo basato sulla solidarietà e sul
rafforzamento dei legami di vicinato quali forme efficaci per
l’abbassamento dei livelli di percezione di insicurezza, nonché
per invertire la deriva dell’individualismo che ci sta portando
ad essere più vulnerabili e quindi più vittime.
Parole chiave:
chiave vittime, sicurezza, solidarietà, legami sociali, ragnatela
sociale.
Gli stereotipi della sicurezza individuale e collettiva
Essere “sicuri”; vivere “sicuri”; sentirsi “sicuri”: queste
sono le questioni che da almeno vent’anni sembrano al centro
di ogni preoccupazione individuale e collettiva. Riuscire ad
attribuire al sostantivo “sicurezza” un significato univoco è
difficile: per ragioni che qui non approfondiamo, l’accezione più
1
Presidente Associazione LIBRA Onlus di Mantova.
2
Giurista e Criminologo. Professore di Sociologia della Devianza e Criminologia, FDE
Istituto di Criminologia di Mantova.
3
Giurista e Criminologa. Ricercatrice in Criminologia, FDE Istituto di Criminologia di
Mantova.
4
Responsabile del Centro di Supporto alle Vittime di Reato per la provincia di Mantova,
Associazione LIBRA Onlus di Mantova.
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immediata nella sensibilità pubblica è quella che attribuisce alla
sicurezza individuale e collettiva una dimensione criminale.
Essere, vivere e sentirsi “sicuri” rispetto al rischio di subire reati,
di divenire “vittime”: come fare a ridurre la paura del crimine e
l’insicurezza da crimine è il tema che di seguito si proverà ad
affrontare.
L’osservazione secondo cui la Società ha modificato i
propri sistemi di relazione tra i suoi attori (individuali, di
gruppo e universali) è un fatto: ciò che ha reso probabilmente
più sensibile questo cambiamento è determinato dalla natura
virtuale dei legami che oggi sembrano prevalere tra le persone.
La mancanza di sicurezza e la paura del crimine si
nutrono anch’esse di una dimensione virtuale: i reati esistono;
esistono gli autori e le vittime; la rappresentazione che però di
essi, i reati, molto spesso se ne offre o ci si fornisce da sé è
inesatta perché stimata sul piano della percezione.
La “percezione dell’insicurezza”, tema che da un
ventennio a questa parte si dibatte in modo trasversale, è la
testimonianza di questa dimensione virtuale, che rende
concreto ciò che è invece astratto.
Riuscire a stabilire o ristabilire una relazione di
corrispondenza tra insicurezza e fatti che la spiegano è quindi
la questione principale: come rendere le persone
individualmente o collettivamente più sicure, sarà quindi la
conseguenza di quell’analisi.
L’idea degli autori, la loro filosofia, consiste nel cercare
di attivare –o riattivare- meccanismi di azione sociale
partecipata, di solidarietà, che alcune condizioni storiche e
sociali contemporanee sembrerebbero aver bloccato, in primis
l’effetto della deriva individualista che spesso pervade i nostri
comportamenti. Se questa ripartenza è importante in molti
campi della Società, occorre capire come renderla possibile
rispetto a una parte piccolissima del vivere sociale: quella parte
che è interessata dal crimine, reale o no. Riuscire a ridurre la
percezione diffusa secondo cui l’essere Tutti vittime potenziali
significa divenirlo certamente, potrebbe essere un risultato
incoraggiante. Rendere le persone, individualmente e
collettivamente, attori della sicurezza propria e altrui attraverso
il sostegno solidale a chi è realmente “vittima”, significa
realizzare la sicurezza e rendere i luoghi sicuri.
Tutto il lavoro e la riflessione critica promossa dal
gruppo LIBRA-FDE durante l’ultimo triennio (2011-2014),
concentra la sua attenzione rispetto alle relazioni sociali
(ritenute carenti) all’interno delle nostre comunità, con riguardo
ai processi di vittimizzazione criminale.
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Il contesto socio-economico e territoriale in cui ci si
muove è quello di Mantova che –in astratto- sembrerebbe ben
poca cosa rispetto ad altre realtà geografiche. In Italia, non in
Europa o nel Mondo, ci sono aree urbane che, se non sono per
definizione “metropoli”, lo sono nei fatti. In teoria Mantova,
Comune di poco più di 47.000 abitanti5, sembrerebbe possedere
le caratteristiche di una cittadina ideale: piccola, in cui la
relazione interpersonale è (sarebbe ancora) reale e possibile, e
nella quale il problema della “spersonalizzazione dei rapporti”,
tipici della massa, sembrerebbe esclusa. Eppure c’è qualcosa che
accomuna contesti e territori così diversi –un sottile filo scuroche lega l’abitare ovunque: in case isolate, in frazioni, in borghi,
in cittadine, in città e/o metropoli: la Paura. La Paura, questo
sentimento indescrivibile. Ognuno di noi “sa” che cos’è la
“paura”; ognuno di noi la racconta ma ognuno di noi ha paure
diverse; non è possibile che la paura sia qualcosa di unico;
dunque: di che cosa stiamo parlando? Di quale Paura? La
Società contemporanea si è dovuta armare di un simbolo
condiviso che facesse (che faccia) parlare tutti gli abitanti dei
luoghi umani una sola lingua. La Lingua della Sicurezza. Per
quello che interessa coloro che scrivono, la “sicurezza
criminale”.
Paure: la Società vittima
La paura è un sentimento umano, è un’emozione
suscettibile di gradazioni –per cui ci si può sentire, ad esempio,
atterriti o terrorizzati- fino a trasformarsi in una condizione
quasi permanente che avvolge l’individuo in maniera totale.
Una condizione come questa, che non è necessariamente
patologica se la si osserva dal punto di vista sociale e non
clinico, la si definirà “insicurezza”. L’insicurezza può essere
quindi uno stato –permanente o- nel quale un individuo
indipendentemente dalla realtà dello stimolo o dalla sua
intensità, produce comportamenti reattivi caratterizzati dalla
paura nelle sue forme articolate: atterrimento e terrore come
poli estremi di un processo stimolo/risposta. Tali individui –
quando vivono una condizione di insicurezza permanentesono definiti patologici; l’insicurezza, cioè, è una malattia.6
5
6
Istat 2011, 15° censimento della popolazione e delle abitazioni.
Trattasi di considerazioni ricavate dal quotidiano lavoro promosso a favore delle
vittime di reato presso il CSVR di LIBRA (Centro di Supporto alle Vittime di Reato per la
provincia di Mantova), nonché all’interno delle sessioni comunitarie denominate
“Quartieri Senza Paura”, promosse presso numerosi quartieri della città in virtù del
progetto INNES (Intimate Neighbourhood Strengthening).
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Si sostiene anche che una società “insicura” non si trova
in una condizione patologica (come lo è nel caso del singolo o
del gruppo), perché una società che per intero ha sviluppato
l’insicurezza come modalità di adattamento alle esperienze e
alle relazioni è una società che si è dotata di una forma di
organizzazione e razionalità alternative. E’ una società, cioè,
funzionale a se stessa. La paura è uno strumento attraverso il
quale la società si replica e si conserva. La paura e l’insicurezza
sono forme di pedagogia attraverso cui l’organizzazione sociale
decide di orientare i suoi destini e le sue scelte.
Ognuno di noi misura la paura sulla base della propria
esperienza diretta con i fatti; la paura, però, è anche il risultato
di un processo culturale e sociale che esclude -per certi versi- la
necessità di "fare" determinate esperienze.
I fatti non sono puri e semplici accadimenti o inerti
oggetti materiali: i fatti sono anche queste cose ma sono,
soprattutto, relazioni che l’individuo stabilisce tra gli uni
(accadimenti e oggetti) e Sè; si tratta, perciò, di relazioni
psicologiche, culturali e sociali. La dimensione sociale della
paura è forse la più importante –rispetto a quelle psicologiche e
culturali- perché se è vero che coinvolge il singolo individuo, è
anche vero che le relazioni basate sulla paura di cui si parla si
ritrovano nei gruppi e nella società intera. La paura, considerata
come processo, è complessa perché richiama a sè un vasto
insieme di significati; la paura tende a moltiplicarsi pur
conservando, quasi intatte, le sue strutture originarie.
La paura è –in un certo senso- un’esperienza contagiosa:
agisce su un piano, o un livello, nel quale alcune regole di
comprensione della realtà smettono di essere accettabili: la
paura rifiuta un confronto con la sua spiegazione e genera
interpretazioni sempre più irrazionali.
Ogni epoca ha la propria cultura della paura. La paura,
individuale e/o collettiva, seleziona gli oggetti (e quindi le
relazioni) in grado di suscitare reazioni irrazionali. Un tentativo
–peraltro riuscito- di descrivere una storia sociale della paura è
stato esperito dalla studiosa Joanna Bourke (2007): nel suo
lavoro sono state narrate alcune paure che hanno coinvolto e
unito l’Occidente a partire dalla seconda metà, circa, del XIX
secolo.
E’ ovvio che in quell’antologia di paure descritte dalla
Bourke compaiono solo alcune di quelle che con fortune diverse
hanno attraversato una parte della società in una determinata
epoca: ciò che rileva è la funzione che la paura ha rivestito
rispetto alla struttura sociale.
Il XXI secolo è iniziato all’insegna della paura e
dell’insicurezza come modalità di adattamento universale e
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globalizzato: insicurezza sociale –legata a precisi fenomeni che
hanno mutato le garanzie e le tutele sociali che buona parte della
popolazione dava per acquisite; insicurezza economica –legata
a mutamenti apparentemente orientati a produrre
l’impoverimento generale; insicurezza “criminale”, quella, cioè,
in cui gli individui si sentono minacciati dal crimine e che –come
conseguenza- ha prodotto precisi orientamenti in ordine alle
politiche repressive.
La paura del crimine e l’insicurezza che ne consegue non
sono un fenomeno recente; sono però un fenomeno Moderno,
che ha coinciso –grosso modo- con l’invenzione degli Stati
nazionali e con la nascita di apparati statali vicini alla
concezione contemporanea. In ogni epoca si sono verificati, e si
verificano oggi, fatti "criminali": essi hanno determinato e
determinano l'insorgere di precise paure. Altro importante
lavoro a supporto delle considerazioni sopra esposte lo si può
rintracciare nella recente letteratura di Zygmunt Bauman
(2014): il sociologo presenta una carrellata di fatti
contemporanei che hanno fortemente condizionato non solo
l’intera collettività, ma addirittura hanno orientato le policy dei
singoli Stati e internazionali dell’ultimo ventennio.
Oggi la paura e l'insicurezza legate alla criminalità
hanno una soglia di attenzione scollegate alla gravità e al
numero di fatti che, in astratto, dovrebbero giustificare gli
allarmi cui siamo sottoposti. Sostenere che i reati non sono
compiuti, o che ne sono compiuti sempre meno, è affermare una
cosa che non ha alcuna possibilità di rassicurare nessuno e
questo è il punto del problema. La criminalità complessiva, in
Italia, negli ultimi 50 anni, è in calo: nonostante questo viviamo
esistenze impaurite, come se fossimo assediati da ladri e
assassini. Si può osservare che alcune tipologie di reato hanno
un andamento irregolare: diminuiscono, crescono, si
stabilizzano e poi riprendono il proprio moto altalenante.
Descrivere la società italiana come una realtà nella quale
il rischio di essere vittimizzati con probabilità sensibile è
effettivamente certo, significa rappresentare una società che non
è la nostra. A tal fine non si può non citare l’intuizione e il
conseguente lavoro di speculazione promosso da Urlich Beck
(2000), il quale ha teorizzato la “Società del rischio”.
L’insicurezza che attraversa il nostro paese, dalle
metropoli, alle città, ai piccoli comuni, è vissuta nello stesso
modo preoccupato: indipendentemente dai dati, quindi dai
fatti, quindi dalle relazioni che gli individui e la società nel suo
insieme hanno con tali evidenze. La nostra società non è
assediata dal crimine: fortunatamente non lo è; eppure essa
riesce a trovare la propria ragione di coesione soltanto rispetto
alla paura: questo è il problema. Intendiamoci: non è un
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fenomeno nuovo; sulla paura si sono costruiti poteri molto
rigidi, storicamente inverati; ma è un modo probabilmente
sbagliato, infruttuoso e poco utile, per produrre relazioni e
legami. Tentare la strada della conoscenza (intellettuale dei fatti
e della realtà) e dell'incontro (sociale, tra le persone), è/sono
un'alternativa praticabile. Questo non significa che si risolverà
il problema del crimine e della paura; più semplicemente
significa che vale la pena tentare, per capire se qualcosa cambia
e cambierà.
Senza Paura no, con meno Paura sì
Secondo gli autori di questo articolo, rafforzare i legami
di vicinato significa individuare quelle azioni a carattere sociale
che possano rispondere ai bisogni individuali e collettivi,
soddisfacendoli in tutto o in parte, e che riescano ad esprimere
–contestualmente- concreta solidarietà. Si tratta pertanto di un
approccio pragmatico, basato sul supporto tra le persone (peersupport-circle), partendo dall’assunto che la quotidiana
interazione e relazione tra di esse possa fungere da sostegno a
chi si trova in una condizione di disagio o vittimizzazione.
Gli attori di questo processo sono i cittadini (singoli o
nelle proprie aggregazioni) e le istituzioni; i destinatari sono i
cittadini.
La solidarietà è un sentimento (un atteggiamento
psicologico) che riconoscendo i bisogni e le difficoltà di Altrida-Sé stimola il sostegno e l’aiuto come se si trattasse di Sé. La
Solidarietà, in astratto, è un riconoscimento di uguale
appartenenza a una medesima condizione: la solidarietà
innesca, nel soggetto che la vive, comportamenti attivi di
compartecipazione e azioni concrete.
I legami sociali, deboli o forti che siano, sono la
nervatura necessaria per rendere possibile la convivenza.
L’assenza di legami sociali trasforma la convivenza in una
relazione fragile, nella quale gli individui e i gruppi sono
scollegati tra loro, tenuti insieme da meccanismi di interesse e
di potere contrastanti tra loro; l’atomizzazione degli individui e
dei gruppi, che costituiscono solo formalmente una Società, si
fonda sul dominio e non sulla distribuzione orizzontale della
responsabilità. La Paura nella società contemporanea sembra
essere diventata il collante universale. Per provare a contrastare
la Paura è necessario investire e tentare di rafforzare qualcosa
d’altro.
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Il concetto di “rafforzamento”7 presuppone l’esistenza
di una struttura, di un fondamento, che si dà come esistente; se
tale struttura o fondamento è assente, allora occorre
svilupparla. L’idea centrale è che nei legami sociali occorra
individuare il loro fondamento solidale (quando c’è) oppure
svilupparlo (quando manca) e quindi rafforzarlo in modo che
diventi strutturale.
Una società solidale è una società aperta: è una società
nella quale –conosciute e accettate le differenze che
caratterizzano tutto ciò che è plurale- riesce a individuare i
legami fondamentali che rendono gli individui simili. Da questa
somiglianza rispetto ai bisogni e alle necessità, al
riconoscimento del diverso, è possibile partire per tentare di
immaginare azioni concrete rafforzative.
Il significato che il presente contributo intende dare al
concetto di solidarietà, rispetto alla sicurezza criminale, è
riferito alle relazioni di “Vicinato”. La “Solidarietà di Vicinato”,
da questo punto di vista, è l’applicazione in scala ridotta del
principio più generale di Solidarietà cui ci si è ispirati.
Il termine “Solidarietà” è molto evocativo: sembra
tuttavia aver assunto, per ragioni non troppo misteriose
determinate dalla sua evoluzione, un contenuto piuttosto
passivo. La solidarietà sembrerebbe consistere oggi in un
sentimento e un corrispondente atteggiamento pratico, di
condivisione ideale quasi contemplativa. La solidarietà, al
contrario, dovrebbe possedere un carattere dinamico, dovrebbe
tradursi in un “agire”, un “fare” qualcosa che non lasci spazio
alla compiaciuta contemplazione (c’è un povero, uno
sfortunato, una vittima: me ne dispiaccio amaramente, ne
soffro, gli testimonio la mia solidarietà –ti sono solidale!) e tutto
finisce lì.
La solidarietà è tale solo se si esprime attraverso
comportamenti concreti: non significa che ve ne siano di
“giusti” e “sbagliati” (è giusto fare l’elemosina al povero per
manifestare la propria solidarietà?); significa solo che attraverso
un processo sociale condiviso, fatto di azioni che cambiano le
condizioni attuali, si cerca di rimuovere o impedire la causa che
ha determinato quel problema sociale. Perché è sulle cause che
determinano la vittimizzazione, l’insicurezza e la paura
individuale e collettiva che l’Associazione LIBRA Onlus e
l’Istituto di Criminologia di Mantova, anche attraverso i
7
Il rafforzamento dei legami con i significati (famigliari, parenti, amici e conoscenti) è
uno dei principali focus su cui è orientato il lavoro “con” la vittima di reato allorquando
questa chieda supporto al nostro sportello di ascolto. Occorre infatti, quando si lavora
con una persona che ha subito un reato o altro disagio, ristabilire parimenti la
consapevolezza delle proprie risorse e capacità sia a livello personale che di comunità,
per superare la condizione di vittimizzazione reale o percepita che sia.
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numerosi contributi provenienti dagli stakeholder, hanno inteso
muoversi e interrogarsi.
Oltre la Rete: il modello della Ragnatela Sociale
Osservare la società nelle sue formazioni principali
(individuo e gruppi) significa guardare la natura dei legami che
la costituiscono: i legami tra gli individui si sono allentati ma
non significa che siano scomparsi o non siano più necessari o
importanti; hanno trasformato la loro consistenza. Rinsaldare i
legami rispetto alla loro solidità relazionale, fondandoli
sull’incontro reale tra le persone, può contribuire a produrre
sicurezza.
Considerare contemporaneamente le esistenze sensibili
di reo, vittima e comunità osservante è la filosofia con cui si
approccia e si studiano le questioni criminologiche.
Ognuno di noi, individualmente, è molte cose: sia nella
relazione con Sé sia nella relazione con gli altri. Noi siamo
“molti”: siamo Bene e/o Male; siamo Giusti e/o Sbagliati; siamo
Buoni e/o Cattivi, eccetera, e viviamo costantemente una
condizione di contrapposizione rispetto a giudizi che
esprimiamo su noi stessi o che attribuiamo ad altri o che altri
riconoscono a noi. I giudizi (positivi, negativi, indifferenti)
determinano gli spazi di relazione sociale oltre che i confini
della nostra identità psicologica. Gli individui non sono mai
esclusivamente
un
polo
della
contrapposizione
“positivo/negativo”. I discorsi intorno alla sicurezza, per
ragioni sociali evidenti e chiare, selezionano sempre quale
estremo osservare. L’attenzione sugli autori di reato e sulla loro
pericolosità è sempre stata maggiore e orientata principalmente
alla neutralizzazione di tratti, condizioni, impulsi o patologie
che determinano i loro comportamenti; tale attenzione è solo
una parte della soluzione del problema sicurezza: la sicurezza,
nella prospettiva che qui importa, ha una dimensione sociale e
della società fanno parte tutti gli attori, singoli o associati.
L’autore del reato (o della violenza), la vittima del reato
(o della violenza) e la società spettatrice (del reato o della
violenza) sono interdipendenti, sono i protagonisti di un
processo che è certamente complesso ma dal quale e nel quale
nessuno può essere messo da parte o può estraniarsi.
Da oltre vent’anni alcuni problemi sociali sono osservati
secondo la prospettiva della “Rete”8: fare rete significa creare
8
Il progetto europeo VIS Network “VIctim Supporting Project: a network to support and
aid crime victims” ref. GRANT AGREEMENT nr. JUST/2011/JPEN/AG/2960, di cui gli autori
fanno parte in qualità di board mantovano, pone la sua metodologia operativa proprio
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alcune condizioni di legame istituzionale formale e informale
attraverso le quali soggetti deboli possano ottenere sostegno e
ricevere ciò di cui hanno bisogno per recuperare autonomia
individuale e sociale. In questa prospettiva i ruoli pubblici e/o
privati dei singoli attori contribuirebbero a raggiungere lo
scopo: questo vale e varrebbe anche rispetto, per esempio, alla
vittima di un reato. Creare una rete significherebbe con
riguardo alla sicurezza criminale, sviluppare sostanzialmente
tre processi: quello di sostegno alla vittima; quello di
prevenzione, intercettamento e controllo dell’autore, e quello di
legame e coesione sociale generale. In astratto, l’idea della rete
è congeniale al processo: è funzionale all’obbiettivo. Secondo la
prospettiva qui suggerita, tuttavia, essa presenta un limite
potenziale che non è trascurabile e che rischia di annullare il
processo virtuoso cui essa aspira. Immaginare una rete vuol dire
rappresentarsi una figura come quella sotto:
La caratteristica di tale rete è di possedere filamenti
annodati che permettono i processi di cui si è scritto ma che,
proprio in ragione di quei nodi che la costruiscono, può rivelarsi
inefficace. Un nodo costituisce, nella rete, un luogo di
passaggio: può essere un luogo formale istituzionale o
informale, nel quale una persona giunge per ottenere sostegno
o essere indirizzata altrove; dal nodo della rete, in effetti, come
nella figura che segue, si dipartono altri fili, altre opportunità.
Un processo sociale nel quale esistono nodi è
potenzialmente un percorso ad ostacoli: il nodo stringe e non è
detto che da quel nodo si possa poi passare: si riesca cioè a far
sul concetto di rete. Ed è proprio a questo costrutto che il paradigma della ragnatela
sociale intende dare rinnovata prospettiva.
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passare l’informazione, l’interazione, la persona. La
caratteristica della rete è quella di possedere nodi e se anche essi
sono necessari alla sua struttura e alla sua funzione (che –
ribadiamo- è orientata a sviluppare i processi di
sostegno/tutela;
prevenzione/intercettamento/controllo;
coesione sociale), può determinare un vero e proprio blocco; se
questo accade, è ovvio, il processo è vano. Si sono spese risorse,
energie, tempo inutilmente: la rete è debole. Nell’immagine
sotto, si chiariscono graficamente i rischi: la persona che dal
punto “A” deve raggiungere il punto “B”, incontrando i nodi,
potrebbe essere sviata o addirittura non raggiungerlo mai.
A
B
Quando inoltre cerchiamo di applicare la metodologia
della rete a processi di supporto che prevedono il
coinvolgimento di attori diversi (pubblici e privati), non
possiamo escludere che i nodi che tra questi si stringono in virtù
di atti formali (protocolli, convenzioni, accordi), essi stessi siano
oggetto se non di ostacolo, di rallentamenti e/o deviazioni
dovute alla struttura organizzativa stessa degli attori coinvolti.
Ciò con immediata ripercussione negativa sul soggetto che
necessita dei servizi di quella rete.
Il gruppo di studio in capo al progetto INNES9,
sviluppatosi parallelamente al progetto VIS Network, ha
cercato di capire se esistono alternative alla rete, che ne
conservino le potenzialità virtuose sottraendone però quelle
plausibilmente negative, rischiose, di inefficacia. L’idea è
maturata attraverso un confronto che ha cercato di individuare
in fatti reali, in cose che esistono già, elementi di ispirazione.
9
INNES - Intimate Neighbourhood Strengthening. An Italian Crime Prevention Pilot
Programme for Small Cities. Ref. nr. HOME/2011/ISEC/AG/4000002580. Traduzione in
italiano: INNES - Rafforzamento dei legami di vicinato. Un programma pilota per la
prevenzione del crimine nelle piccole città. Progetto sostenuto dalla Comunità Europea
– DG Home Affairs.
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Il punto di partenza è stato il riferimento ad un mondo
apparentemente lontanissimo dal problema ma che invece ha
offerto una chiave interpretativa interessante per capire la
questione.
Quando Werner Heisenberg ha concepito le sue
equazioni fondamentali sulla meccanica quantistica, si racconta
che fosse alle prese con il problema di riuscire a capire dove
fosse (dove si trovasse) l’elettrone in un nucleo atomico in un
dato momento dell’osservazione. La meccanica quantistica ha
sovvertito completamente l’idea di Realtà e le vicende umane e
personali dei protagonisti di quella stagione fondamentale per
l’Uomo, lontane un secolo o quasi, ne sono la testimonianza
chiara.
Heisenberg si trovava a Copenhagen nel 1925, insieme
ad altri fisici e tutti discutevano di quanti e atomi con Niels
Bohr. Rientrando a casa una sera, passando per un parco buio,
nel quale solo pochi lampioni proiettavano il loro fascio di luce
sul terreno, si era accorto che proprio all’interno di quei coni di
luce in un mondo buio, compariva ogni tanto, l’ombra di un
passante che come lui attraversava quel parco (Rovelli, 2014).
Dall’episodio Heisenberg ricava le sue intuizioni, con le
conseguenze note.
L’episodio è importante, per la nostra riflessione sulla
ragnatela sociale, perché rappresenta una metafora
fondamentale per arrivare a capire dov’è la debolezza della rete.
Le ombre che passano sotto i coni di luce rappresentano gli
attori sociali: sono le vittime, gli autori, la società nel suo
insieme di cui ci accorgiamo sempre solo quando sono
all’interno di quel cono di luce, metaforicamente inteso quale
spazio di attenzione istituzionale e collettiva.
Fuori del dal cono di luce, dove sono gli attori?
È questo il problema centrale: riuscire a concepire un
sistema nel quale ognuno possa, in un determinato momento,
poter contare su una rete di sensibilità sociali per cui la
solitudine è esclusa; questo sistema riuscirebbe ad assolvere,
per esempio, funzioni di prevenzione (anticipando la
vittimizzazione e/o la strutturazione dell’antisocialità e/o la
disgregazione
sociale);
funzioni
di
controllo
e/o
intercettamento (quando la vittimizzazione è avvenuta e/o
l’antisocialità si è manifestata); funzione di aggregazione e
coesione dei legami sociali, rendendoli solidi ed elastici allo
stesso tempo. Questo sistema dovrebbe poter contare
sull’assenza di nodi, perché i nodi a volte stringono troppo,
impediscono il passaggio, rendono impossibile il processo. I
nodi sarebbero i coni di luce proiettati dai lampioni nel buio del
parco di cui racconta Heisenberg, che non ci spiegano il prima e
non ci spiegano il dopo rispetto al passaggio dell’ombra; non
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dicono, cioè, dove sono le persone durante i processi sociali,
perché di esse ci si accorge solo quando sono appunto sotto i
riflettori. Dove sono le vittime e gli autori, prima di subire o
agire una condotta criminale: un reato? Dove sono, ma anche,
chi sono queste persone? Siamo noi.
La questione, che per noi è dirimente, è quella di capire
se è rintracciabile un modello cui riferirsi, per cercare di
tradurre l’idea di una struttura sociale che superi la rete: che
superi quindi il rischio che il nodo diventi l’ostacolo, e che
invece riesca a collegare, sempre, le persone -gli attori- nei
processi sociali.
L’idea, o il modello, cui si fa riferimento si ispira alla
ragnatela che tessono i ragni.
Le ragnatele sono strutture formidabili: non solo per la
capacità di sopportare carichi proporzionalmente superiori a
quella che è la loro portata teorica. Rispetto alla Paura e/o
all’Insicurezza, è chiaro quale potrebbe essere il potenziale della
ragnatela: distribuire il carico di esse significa rendere “paure”
e “insicurezze” meno aggressive, violente, insormontabili per il
singolo individuo, che le potrà distribuire sulla collettività. Le
ragnatele sono anche strutture nelle quali i fili si intrecciano tra
loro senza avere alcuna necessità di nodo, creando geometrie
perfette. Creare legami e relazioni fondate su un modello a
ragnatela, quindi, dove i fili sono gli individui (ma sono anche
la solidarietà che può tornare a caratterizzarli e sono infine la
conoscenza che si ha dell’altro, delle cose e della realtà),
significa raggiungere lo scopo: collegamento e relazione diretti.
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Inoltre, va considerato il fatto che la ragnatela sociale
non è costruita appositamente per rispondere ad un bisogno,
come invece lo è la rete: rete antiviolenza, rete contro il disagio
abitativo, rete per il supporto alle dipendenze, e così via.
Al centro di questo modello, quindi, ci sarebbero sempre
le persone: e le persone, rispetto al tessuto della ragnatela
sociale, sarebbero i ragni, che quotidianamente –non quindi a
posteriori per risolvere un problema o intervenire su un bisogno
specifico- tessono i fili della ragnatela. Essa si configura pertanto
quale processo continuo e costante che trova applicazione e
rafforzamento nei piccoli gesti di solidarietà che ognuno di noi
può decidere di compiere ogni giorno. Più l’individuo e le sue
aggregazioni comunitarie percepiscono beneficio da questo
processo in divenire, più la ragnatela si rafforzerà e ingrandirà
con effetto moltiplicatore autonomo (Sandri et Al., 2014).
In natura, i ragni, attraverso la sensibilità che li
caratterizza, percepiscono i cambiamenti che colpiscono la tela
se un insetto in essa incappa: e non occorre che siano al centro
della struttura o siano fisicamente vicini alla preda. I filamenti
della tela, non avendo nodi, trasmettono il segnale: non c’è il
rischio, cioè, che qualcosa ostacoli il passaggio
dell’informazione. Così la ragnatela sociale percepisce e
trasmette alla sua comunità i segnali di richiesta e risposta
d’aiuto.
Se una Rete si rompe, per aggiustarla occorre ri-creare
un nodo che unisca le parti nuovamente: una ragnatela invece è
ricucita dal ragno, ossia dall’individuo. Il ragno, quindi, ricuce
legami e lo fa ripartendo dalla rottura, senza che i fili debbano
essere riannodati.
Nel presentare e nel discutere il modello sono state
avanzate alcune perplessità. L’idea della Ragnatela (sociale)
evoca il significato di “trappola”: è uno strumento attraverso il
quale il ragno cattura la propria preda, per annientarla e poi
cibarsene. La questione, se posta in questo modo, rischia di non
essere compresa rispetto all’importanza del suo significato.
Anche le reti, le comuni reti da pesca, imprigionano e catturano:
pure in questo caso le obiezioni potrebbero avere la stessa
consistenza ma di “Reti” si continua a parlare. Altra perplessità
su cui si è inteso fornire un ulteriore elemento di chiarezza è
quella per la quale l’individuo/attore sociale, paragonato ad un
ragno, potrebbe essere interpretato come sostanzialmente
individualista e in una società individualista si fatica a capire
dove è possibile rintracciare i legami solidaristici, che sarebbero
quelli che fonderebbero –insieme ad altro- la struttura della tela.
Anche tra i ragni “individualisti”, però, esistono eccezioni: ve
ne è una specie, chiaramente sociale, nella quale migliaia di
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individui collaborano a costruire, insieme, tele enormi, che
serviranno poi a tutta la loro comunità10.
I fili della tela siamo noi, siamo tutti: tutti abbiamo un
legame con l’altro; ognuno di noi di Sé e dell’Altro può avere,
dare e ricevere, giudizi e opinioni; ma le relazioni sono anche
altro e sono una necessità.
La ragnatela sociale è un modello pro-attivo –basato sul
concetto di solidarietà di vicinato- che tenta di interpretare i
comportamenti sociali delle comunità urbane e che restituisce ai
suoi attori (singoli, aggregati) il diritto/dovere di
autodeterminarsi attraverso il coinvolgimento delle comunità in
cui essi vivono (community empowerment).
Nel Mito di Aracne, una donna mortale è stata
condannata a tessere per l’eternità perché, lo si ricordava sopra,
a causa della sua Hybris, aveva sfidato prima una Dea e poi
l’aveva oltraggiata.
Se il nostro destino è quello di tessere, cerchiamo di farlo
pensando che ognuno dei punti di questa Ragnatela sia l’Altro.
L’Altro, per noi, deve essere quello che noi dobbiamo essere per
lui: Sicurezza.
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