dott.ssa ciacci: metodo aba - Istituto Comprensivo Falconara Centro

DOTT.SSA CIACCI: METODO ABA
Faccio una introduzione teorica all’analisi applicata del comportamento, e mi interessa sfatare alcune false
credenze e spiegarvi nel modo più chiaro possibile cos’è e come utilizzare i principi dell’analisi applicata del
comportamento nella riabilitazione ed educazione con bambini con disturbi dello spettro autistico.
Io sono una psicologa con specializzazione specifica nell’analisi applicata del comportamento e nel centro
dove lavoro si occupa dell’età evolutiva e abbiamo in carico bambini che iniziano il loro percorso già all’asilo
nido.
Ci soffermiamo sulla definizione di comportamento perché è indispensabile per poter poi andare a lavorare
su qualsiasi tipo di problematica, sia per aumentare comportamenti positivi che per diminuire quelli
negativi. (video) L’ABA non è vero che è solo lavoro strutturato, ma c’è dentro di tutto, il gioco, la letto
scrittura, la comunicazione e tanto altro. Parliamo di un intervento che va a 360 gradi nella vita delle
persone, dei bambini e delle famiglie, della scuola, degli insegnanti, degli educatori.
Partiamo dal cambiamento drastico che c’è stato una ventina di anni fa nella concezione di quelle che sono
le cause dell’autismo. Mentre 20 anni fa si considerava l’autismo una patologia psicologica causata da un
legame patologico tra la madre e il bambino e la terapia di elezione era la psicoterapia di tipo psicoanalita.
Dal cambiamento dell’eziopatogenesi che oggi viene considerato come una sindrome comportamentale del
neuro-sviluppo biologicamente determinato, quindi si è fatta una virata da un disturbo di tipo psicologico
ad un disturbo di tipo organico con basi genetiche. Ancora la causa precisa dell’autismo non si conosce, ma
il fatto che non si consideri più come causato da un legame patologico madre-bambino, ma di tipo biologico
ha determinato un cambiamento nel tipo di terapia e presa in carico di questi bambini. Un disturbo così
complesso richiede un intervento complesso e uno dei trattamenti raccomandati in questi casi è proprio
l’intervento ABA.
L’ipotesi che si trova alla base di questo tipo di intervento ed approccio parte dall’ipotesi di LOVAS, che è
uno dei primi comportamentisti che ha applicato i principi dell’analisi comportamentale all’autismo, che
differenzia il tipo di sviluppo dei bambini con disturbo dello spettro autistico da quelli con sviluppo
normotipico. Chi di voi ha figli sa che è molto facile apprendere per bambini in cui lo sviluppo proceda in
modo armonico, non c’è necessità di insegnare loro a giocare, a guardarvi negli occhi, ad usare il gesto
indicativo o a parlare o a fare la richiesta se hanno sete. Sono tutti apprendimenti che avvengono
naturalmente nello sviluppo del bambino e che non hanno bisogno di essere insegnati e tra l’altro i bambini
a sviluppo normotipico apprendono dall’ambiente per imitazione: vedono quello che fa l’altro e piano,
piano lo riproducono in maniera armonica e spontanea. I bambini con disturbo dello spettro autistico non
hanno nessuna di queste competenze, e vi rendete conto quanto sia difficile insegnare quando mancano i
requisiti di base. Ogni specifica abilità va insegnata in modo estremamente strutturato e direzionato
dall’adulto, perché non c’è apprendimento spontaneo.
Il tipo di intervento che si propone è un intervento che cerca di concertare tutte le figure di riferimento del
bambino e la scuola ha in questo una importanza fondamentale e gli insegnanti sono gli attori principali
dell’educazione del bambino. Il sistema educativo e riabilitativo deve per forza comprendere tutte le figure
di riferimento del bambino: i genitori, gli insegnanti, gli educatori, e gli operatori dei centri di riabilitazione
che devono tutti collaborare in sinergia per creare un programma di intervento più coerente possibile.
Il costrutto teorico alla base del nostro intervento è l’analisi applicata del comportamento, dall’inglese
Applied Behaviour Analysis. Che cos’è l’ABA? È la scienza deputata alla modifica dei comportamenti. Spesso
si parla di metodo ABA, in realtà è un costrutto teorico sul quale si costruisce programmazione. L’ABA è la
scienza che ci permette di modificare comportamenti attraverso la manipolazione degli eventi antecedenti
e delle conseguenze. È applicabile a qualunque patologia e a qualsiasi comportamento socialmente
significativo che devono essere in qualche modo modificati; considerati questi presupposti prescinde
dall’età, dalla diagnosi e dalla patologia. Questa è la definizione data dai primi analisti del comportamento
che si sono dedicati all’analisi del comportamento nella vita dell’uomo ed è il processo attraverso cui si
applicano sistematicamente i principi basati sulla teoria dell’apprendimento. L’idea principale è che
parliamo di una teoria dell’apprendimento, non è un metodo che fa lavorare i bambini in un certo modo o
dedicata ai bambini con autismo, ma è una scienza deputata al cambiamento del comportamento ed è una
teoria dell’apprendimento che nasce dai principi del comportamentismo.
Noi tutti, anche se non ne siamo consapevoli, siamo inseriti in questa modalità di apprendimento, noi tutti
siamo continuamenti rinforzati dalle contingenze naturali della nostra vita che ci portano ad aumentare
determinati comportamenti perché sono seguiti da conseguenze piacevoli, che possono essere lo stipendio
a fine mese, un buon voto alla fine di corso, o semplicemente un bravo dell’insegnante o un voto. Sono tutti
rinforzatori legati alle contingenze naturali che si riproducono quotidianamente nella nostra vita. La nascita
dell’analisi applicata del comportamento è quella del comportamentismo che poi dal 1957 con il libro di
Skinner Verbal Behaviour viene applicata anche al comportamento verbale, e che viene applicata come
scienza all’autismo intorno agli 60/70 ed è nata questa modalità di lavoro perché molti strumenti che
venivano utilizzati per la riabilitazione di questi bambini fallivano o non erano particolarmente incisivi.
Come scienza è supportata da numerose ricerche scientifiche ed essendo una tipologia di lavoro utilizzata
principalmente nei paesi anglosassoni, quasi tutta la bibliografia che si trova è in lingua inglese. Quali sono
i filoni principali su cui si va a lavorare:
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Creare i prerequisiti per l’apprendimento,
Il linguaggio e la comunicazione
L’aspetto sociale
Il ragionamento astratto, la capacità di problem solving
La teoria della mente
L’autonima personale
Le abilità accademiche e scolastiche
Come scienza applicata all’autismo viene riconosciuta la sua efficacia dalle ricerche e dalle linee guida
dell’Istituto superiore della Sanità e dalla società italiana di neuropsichiatria infantile che riconoscono
l’efficacia di un tipo di intervento intensivo, precoce e supervisionato da specialisti che coinvolga famiglia,
scuola, ecc.
È un intervento efficace, ma non l’unico, ma non è neanche una bacchetta magica: i risultati possono
variare da bambino a bambino e non esiste la certezza di un risultato sempre positivo. È importante che sia
fornito il più precocemente possibile, a volte anche prima della diagnosi. Iniziare un tipo di lavoro così
precocemente a volte aiuta anche a definire la diagnosi, perché spesso ci sono bambini piccoli, con un
disturbo di linguaggio severo o un disturbo di attaccamento, possono confondersi e iniziare un lavoro
precoce può aiutare ad avere una definizione diagnostica più chiara.
Adesso come strumento diagnostico per bambini piccoli viene utilizzato l’ADOS TODDLER, che può essere
utilizzato con bambini fino a 30 mesi, una valutazione non strutturata e il risultato che si ottiene da questo
tipo di test è un risultato di rischio di sviluppare questo disturbo e un lavoro precoce può aiutare a chiarire
qual è la diagnosi, il nucleo del disturbo del bambino.
Quando i bambini crescono e diventano ragazzi e adulti, non è più necessario avere un lavoro così intensivo
e strutturato, ma ciò non toglie che sia comunque utile continuare ad utilizzare determinate procedure per
insegnare comportamenti adattivi al livello di sviluppo e all’età del soggetto. Non ci si focalizzerà più sugli
apprendimenti ma sulle autonomie, sulla cura di sé, la possibilità di svolgere un compito senza supervisione
di un adulto. Gli obiettivi cambiano l’intensività si riduce crescendo, ma ciò non toglie che si possano
ottenere risultati anche in età avanzata. Quando qualcuno ci chiede se si può lavorare con ragazzi di 12
anni, si può tranquillamente dire di sì, perché il lavoro è diverso, gli obiettivi sono diversi ma si possono
comunque ottenere dei risultati. La ricerca non ha stabilito un limite di età oltre il quale non ci sia più
efficacia.
ABA non significa intervento con bambini con autismo, ma è un intervento che ultimamente viene molto
utilizzato con questi bambini, ma che nei paesi anglosassoni viene utilizzato in tanti altri campi.
L’intervento ABA non è un intervento troppo faticoso o strutturato o rigido per i bambini, perché molti
pensano che questo metodo sia soltanto star seduto al tavolo fare il compito ed ottenere il rinforzo. C’è
questa parte del lavoro, ma c’è tutta una parte di lavoro incidentale che si svolge e si focalizza su quella che
è la motivazione del bambino nello svolgere determinati compiti e nell’incrementare la capacità di
comunicare, tutto svolto in un ambiente naturale, di gioco. Se voglio insegnare delle abilità è necessario che
abbia ben chiari quali sono gli obiettivi, tutto è ben preparato, siamo all’interno di una attività dove è la
motivazione del bambino che ci guida e questo tipo di lavoro è il più difficile in assoluto, perché richiede
tanta fantasia, tanta capacità di essere elastici, capaci di seguire la motivazione del bambino e di essere
aperti a tante attività diverse.
I bambini che seguono il metodo ABA non sono stressati dalle ore di lavoro, perché sono bambini che
quando non hanno un rapporto individualizzato stanno male. Parliamo di disturbi dello spettro autistico,
con diverse gravità: andiamo dai disturbi lievi, dove possiamo anche non renderci conto della patologia, a
una gravità severa, associata anche a ritardo mentale e altro. Soprattutto quando c’è una severità nel
disturbo sono bambini che se lasciati a se stessi non riescono a costruire attività funzionali e quindi il
momento del lavoro con l’insegnante e l’educatore, dove possono ricevere cose che a loro piacciono, è un
momento piacevole e a volte è ricercato dal bambino stesso.
Tra le modalità e le procedure di insegnamento, quella principale è di insegnare senza errori, stressando il
meno possibile il bambino. Si assegna inizialmente il compito nella maniera più semplice possibile, aiutato e
facilitato il più possibile in modo che non sbagli e poi viene ridotto l’aiuto in modo che il bambino apprenda
e acquisisca quell’abilità e sia in grado di riproporla in modo autonomo. Questo perché non si vuole che il
bambino apprenda l’errore e quindi continui a sbagliare, o per apprendere la risposta giusta debba prima
dimenticare quella sbagliata, e anche per rendere l’apprendimento più piacevole e rilassato. Nei video
avete visto che l’educatrice a volte chiede al bambino di battere sul tavolo, o gli dice di imitare un gesto:
questo viene usato per correggere l’errore, in modo che venga corretto senza apprendere l’errore che ha
fatto in quel momento. Ad esempio, se il bambino sbaglia a toccare una carta, l’educatrice lo corregge
subito dandogli il maggiore aiuto possibile affinchè lui non sbagli, indicandogli lei stessa la carta giusta. A
questo punto non può rinforzare questa risposta perché lo ha fatto con aiuto e per essere sicuro che il mio
insegnamento sia stato efficace, sposto l’ordine delle carte e faccio fare un compito di distrazione (quasi
sempre istruzioni di movimento) e resetto la situazione di apprendimento per correggere l’errore. Se a
questo punto il bambino tocca la cosa giusta e la richiesta non è più così vicina all’aiuto che ho dato, a
questo punto do il rinforzo.
L’eccessiva raccolta dati sottrae tempo al lavoro diretto con il bambino: io mi rendo conto che questa della
raccolta dati sia una scocciatura, ma quando si lavora su un determinato obiettivo è fondamentale che si
segni la risposta del bambino e se c’è stato l’uso di facilitatori o no. Questo è vero che è una scocciatura, e
richiede tempo, ma non toglie tempo all’insegnamento ed è necessario per dare scientificità e una valenza
oggettiva a quello che stiamo facendo, altrimenti si rischia di andare a braccio. Soprattutto nel momento in
cui ci sono molte persone che lavorano con il bambino, tutto deve essere molto preciso ed articolato,
altrimenti non ci si accorda ed ognuno lavora su obiettivi propri e si rischia di perdere tempo. se l’obiettivo
invece viene proposto in maniera sistematica sarà più facile che quel bambino lo apprenda e inoltre saremo
sicuri che quell’abilità è in grado di riproporla autonomamente. Questo è un aspetto indispensabile.
Molti insegnanti che incontro rimangono molto titubanti relativamente all’uso del rinforzo, ma ribadisco
l’importanza di trovare la motivazione del bambino in quel momento e di poter soddisfare il bambino
secondo le sue preferenze. Se al bambino non interessa che io gli dica bravo alla fine del compito, il mio
feedback diventa del tutto inutile, ma se al bambino piace rovesciare l’acqua nella bottiglietta, perché non
gliela devo concedere se questa è la sua gratificazione? È questa conseguenza che lui desidera che va ad
aumentare la probabilità che quel bambino emetta di nuovo un determinato comportamento che gli sto
insegnando.
Un altro luogo comune è che gli specialisti ABA sono poco collaborativi con le altre figure professionali;
assolutamente no e si favorisce la collaborazione di più figure professionali sulla stessa situazione.
Tornando agli obiettivi: l’obiettivo principale è quello che il bambino impari ad imparare, ad apprendere
spontaneamente dall’ambiente circostante. Ritornando all’uso del rinforzo: è vero che si usano rinforzi
tangibili, quando è necessario, e l’obiettivo è quello di arrivare ai rinforzi naturali. C’è una progressione, una
associazione tra il rinforzo tangibile tra il rinforzo tangibile e il rinforzo sociale che va a creare un
condizionamento in modo che anche il rinforzo sociale acquisisca una sua efficacia e validità. Questo
comunque è l’obiettivo finale, nessuno vuole che il bambino rimanga legato al rinforzo stereotipato, però
quando è necessario va usato.
Gli obiettivi riguardano tutte le abilità comunicative, perché spesso sono bambini che nonostante abbiano
la capacità di produrre frasi, di esprimersi verbalmente, ma non è detto che abbiano la capacità di
comunicare. Magari un bambino sa a memoria tutto il testo di una canzone, o pezzi di cartoni animati, ma
non è capace di chiedere l’acqua. Non c’è quindi un problema fonologico, articolatorio, ma c’è proprio una
difficoltà a capire a che cosa serve il linguaggio e qual è la funzione della comunicazione. Questo è uno degli
obiettivi principali che si affrontano all’inizio con questi bambini, si cerca di dare loro uno strumento
comunicativo e insegnare loro l’intenzione a comunicare, che c’è l’altra persona e che questa è utile per
raggiungere e soddisfare dei piaceri.
Si vogliono migliorare le prestazioni cognitive, aumentare i comportamenti sociali, moderare le risposte
emotive, a volte non controllate o coerenti con quello che accade loro intorno. Vogliamo far arrivare i
nostri studenti all’autonomia e alla possibilità di potersi adattare il meglio possibile all’ambiente
circostante. Un’altra caratteristica dei bambini con disturbo dello spettro autistico è di essere molto rigidi,
ciò che viene appreso è molto schematico e rigido, quello che apprende in un contesto non è detto che
riesca ad utilizzarlo in un altro, se cambiano le routine può andare in tilt, ecc. la possibilità di adattarsi ai
cambiamenti e alle variazioni della giornata è indispensabile. In questo, la possibilità di vedere anche
visivamente ciò che accade o accadrà, come nelle agende visive, e di anticipare può essere comunque un
aiuto.
Questa definizione stravolge completamente la nostra concezione di insegnamento: se un bambino non
impara da come gli stiamo insegnando, dobbiamo trovare un modo migliore per farlo. Ciò di cui dobbiamo
essere consapevoli è che il problema non sta nel bambino, che non riesce ad imparare quella cosa, ma io
insegnate, genitore, psicologo, devo trovare un altro modo per insegnarla. È un presupposto che ci dà
innanzitutto tanta speranza, e se quell’obiettivo non è stato raggiunto non è detto che non verrà mai
raggiunto, e mette in moto tante altre energie e applicare quello che conosco in modo diverso, facendomi
sforzare a cercare altre vie.
Per poter insegnare in tutte quelle aree le abilità diversificate che ho indicato dobbiamo cercare di
individuare i comportamenti target, i comportamenti che ci interessano, per aumentarne o diminuirne la
frequenza a seconda dei tipi di comportamenti. Per fare questo devo avere bene in mente la triade
comportamentale, quindi capire quale è l’antecedente, quello che è il comportamento che si è verificato e
poi la conseguenza. L’analisi applicata del comportamento lavora prendendo in considerazione
comportamenti socialmente significativi: qui trovate questa check list, con delle domande che aiutano a
capire se effettivamente quel comportamento che voglio andare ad analizzare su cui voglio lavorare, è
effettivamente un comportamento socialmente significativo per la vita di quel bambino o se non è così
necessario e lo posso trascurare. Ad esempio, una domanda è “ Questo comportamento è un prerequisito
necessario per un’altra abilità funzionale più complessa?” se io mi rendo conto che è indispensabile per
andare poi a lavorare su altro è necessario che lo prenda in considerazione. Oppure “Questo
comportamento aumenterà la possibilità di accesso dell’individuo ad ambienti in cui altri comportamenti
possono essere acquisiti e utilizzati?”, anche in questo caso se la riposta è sì è necessario che vada a
lavorare su quel comportamento. Ancora: ”La modifica di questo comportamento favorirà una interazione
maggiore degli altri con l’individuo?” anche qui se è un sì, è mio dovere andare a lavorare su questo
comportamento. Se ad esempio è un bambino che sputa, il lavorare affinchè lo sputare diminuisca o venga
meno, farà sì che anche i compagni di classe si avvicineranno di più a lui. Questo per darvi degli spunti di
riflessione, per andare ad individuare nella vostra professione, anche se non sono prettamente obiettivi
didattici, possono comunque essere importanti per quel bambino, per la sua vita, e ci si può lavorare anche
a scuola.
Considerando la complessità del bambino con disturbo autistico, dobbiamo tenere presente che la maggior
parte di queste aree sono compromesse, soprattutto se vi è associata anche la disabilità intellettiva, il
ritardo mentale.
Il nostro lavoro deve riguardare tutte queste aree, non ne possiamo tralasciare nessuna e un tipo di lavoro
impostato sull’ABA va a monitorare e lavorare su tutti questi aspetti. Per essere efficace, le caratteristiche
dell’intervento ABA sono:
-
-
Individualizzato: è indispensabile che venga fatto un assessment psicologico comportamentale,
comunque funzionale, che ci dica quale è il livello del bambino, quali siano le competenze
emergenti, quali sono le sue difficoltà e dove possiamo andare a lavorare;
Intensivo: la letteratura ci dice che nei primi anni di lavoro bisognerebbe garantire almeno 25 ore a
settimana. In queste sono comprese le ore di lavoro a scuola
Precoce
Globale: deve comprendere tutte le figure che ruotano intorno al bambino e partecipino tutti al
progetto di vita.
Supervisionato: un intervento di questo genere è impossibile improvvisarlo e ci vuole l’occhio
esterno dello specialista che coordini e dia indicazioni sul lavoro. Gli incontri che si svolgono
prevedono la possibilità che le varie figure lavorino con il bambino e il supervisore valuti il lavoro e
dia indicazioni e correzioni rispetto alle procedure più efficaci. Il lavoro diretto con il bambino e la
correzione immediata è sicuramente molto efficace, rispetto ad una correzione teorica e inoltre si
condivide il lavoro che passa dalla scuola a casa, al centro, ecc. si crea un equipe di lavoro
collaborativa ed efficace.
Si parte dalle abilità emergenti incrementandole e inoltre si cerca di generalizzare il più possibile.
L’apprendimento che vien fatto al tavolo, dopo che il bambino ha appreso che un determinato oggetto si
chiama “acqua”, io necessariamente fuori dal tavolo devo insegnargli a chiedere acqua quando ha sete,
quando è al mare e vede l’acqua nominarla correttamente, cioè abituarlo a spendere le sue competenze in
tutti gli ambienti di vita, perché neanche questo avviene spontaneamente. Anche questo aspetto va
programmato. Nella programmazione ci sono tutte le varie aree che vengono prese in considerazione e per
ogni area vengono specificati i target su cui il bambino sta lavorando.
Per l’area dell’imitazione, ad esempio, ci sarà pronunciare frasi, suoni, e l’educatore, l’insegnante
segneranno, nello specifico, quali sono i suoni, le parole, le frasi su cui si sta lavorando. Per l’area del
recettivo la stessa cosa, quindi su tutte le varie aree vengono specificati gli obiettivi e lo stesso obiettivo
può essere riproposto in più aree.
Una delle modalità di lavoro strutturato al tavolo, è la modalità di mix and vary: si posizionano sul tavolo
diverse carte, che riguardano gli obiettivi che stanno acquisendo. Ci possono essere carte che è abituato a
denominare e altre che gli chiedo comunque di individuare, poi possono esserci degli oggetti per i quali
posso chiedere di mostrarmi la funzione, ci sono altre carte utilizzate come promemoria divise per colore.
Ci possono essere carte rosse che riguardano le istruzioni ricettive (tocca la testa, batti le mani, alzati, ecc.)
altre carte verdi dove ci sono le istruzioni di imitazione (esempio mostro un movimento e il bambino lo
ripete), poi le carte gialle che riguardano l’imitazione vocale, quindi avrò una serie di carte per lavorare
sugli obiettivi di imitazione vocale del momento. Quindi sul tavolo ci possono essere delle carte per le
richieste di quel momento, dei cartellini con dei colori per tutte le altre richieste che non sono su quelle
carte. Questo tipo di lavoro è molto utile perché molto veloce, in poco tempo si riescono a richiedere molte
istruzioni e non è a compartimenti stagni. È fatto in velocità, perché nella nostra vita siamo veloci, e i
bambini devono essere abituati a rispondere velocemente; il bambino deve essere abituato al fatto che a
domanda c’è risposta immediata. Inoltre più lavoro veloce e più è difficile che cali l’attenzione: più andiamo
veloci nell’insegnamento più i bambini ci seguono. Più tendiamo ad aspettare i loro tempi più i loro tempi si
allungano. L’obiettivo è che data un’istruzione il bambino debba rispondere immediatamente. Il fatto di
mixare tutte le richieste aiuta il bambino a passare da un argomento all’altro in maniera più elastica, a non
rimanere rigido nei suoi schemi. Vengono date istruzioni differenti, ma che sono sempre all’interno della
programmazione del bambino, che può essere di imitazione, istruzione di movimenti. Con il passare del
tempo, il rinforzo non viene più dato dopo ogni risposta, ma anzi si aspetta che sia il bambino a farne
richiesta, dopo alcune risposte esatte. Anche con i bambini non verbali c’è la possibilità di lavorare non sulla
produzione ma sulla comprensione; i primi programmi che si insegnano sono comprendere una istruzione
con un oggetto. Ad esempio, c’è il bicchiere, la matita, gli occhiali: io do un’istruzione e il bambino deve
prendere l’oggetto e fare un’azione.
NET: NATURAL ENVIROnMENT TRAINING, training in ambiente naturale. Dopo aver lavorato al tavolo sui
concetti topologici, si passa ad utilizzarli in giochi dove debba necessariamente utilizzare questi termini,
creando una attività piacevole, dove il rinforzo è intrinseco all’attività stessa, che lo rende motivato a farla e
ad accettare correzioni da parte dell’adulto. Questo tipo di attività è molto più difficile dello stare al tavolo
e presentare delle carte. In una attività NET l’insegnante deve capire quale attività piace al bambino e che
rende la sua motivazione alta e deve metterci dentro gli obiettivi su cui lavorare. L’operatore manipola la
situazione, cerca di sfruttare la motivazione del bambino per insegnargli ciò che si è prefissato.
È importante che ci sia una formazione specifica degli operatori per poter essere consapevoli delle
procedure che si applicano e comunque ci dovrebbe essere un supervisore.
L’unità di analisi è il comportamento, ed è importante avere chiaro in mente che cosa intendiamo come
comportamento. Spesso parliamo per etichette (iperattivo, bassa tolleranza alle frustrazioni, socievole,
ecc.) però nel momento che dobbiamo parlare di comportamento non ci servono perché non descrivono
che cosa fa effettivamente quel bambino. Dobbiamo andare ad analizzare i comportamenti specifici per
poter andare a modificarli. Nella pratica quotidiana siamo soliti tutti utilizzare delle etichette, però
dobbiamo sforzarci di pensare per comportamenti.
Il comportamento è qualsiasi cosa che una persona dice o fa. È un movimento osservabile, quantificabile,
costituito da tutte le azioni e i movimenti che una persona mette in atto nelle varie situazioni. Per capire se
quello che noi stiamo osservando è un comportamento dobbiamo porci la domanda: sono in grado di
misurarlo? Sono in grado di stabilire la frequenza e la durata? Se riesco a prendere questi tre dati allora
sono sicura che quello è un comportamento. Noi invece siamo abituati a parlare per etichette e lo
svantaggio è che sono delle pseudo spiegazioni, dei ragionamenti circolari e spesso ci portano a pensare in
modo pregiudizievole e ci portano a pensare più a quelli che sono i problemi piuttosto che a pensare quali
sono le soluzioni perdendo di vista le reali capacità del bambino.
Per definire il comportamento dobbiamo comunque utilizzare dei criteri oggettivi, non ci possono essere
descrizioni libere. Il risultato della descrizione deve essere la stessa, perché altrimenti ognuno lavora su un
aspetto diverso. (regola dell’ABA: quello che può fare un uomo morto non è un comportamento). I
comportamentali vanno definiti in modo operazionale e non con etichette riassuntive, e ciò permette di
condurre un lavoro specifico. L’analisi comportamentale utilizza definizioni operazionali,
Luca è aggressivo con i fratelli
Carlo è iperattivo in classe
Luca da calci ai fratelli,
Carlo si alza dal banco quando la maestra propone
esercizi più difficili che non è in grado di svolgere
Lorenzo è pigro durante la lezione di basket
Lorenzo rimane seduto rifiutandosi di cambiare le
scarpe da solo
Sara è stata capricciosa al supermercato
Sara piange intensamente quando il papà non le
compra qualcosa al supermercato
Ogni comportamento è stato definito in modo positivo, dicendo quello che fa non quello che non fa, (non
sta seduto – si alza; non sta in silenzio – parla)il comportamento va definito in base a quello che vediamo,
che viene fatto in quel momento. L’analisi comportamentale utilizza definizioni operazionali, il
comportamento viene definito in modo preciso e ci permette di lavorare verificando e misurando la
frequenza del comportamento e il metodo è scientifico, permettendo a tutti di parlare la stessa lingua.
L’utilizzo di queste strategie è versatile, può essere usato con qualsiasi ragazzo a sviluppo tipico, non solo
con quelli autistici. Se metto in atto una procedura (faccio una base line, una osservazione in classe e vedo
che durante la lezione si alza 10 volte) in base all’analisi della situazione per modificare quel
comportamento, poi rivaluto e rimisuro il comportamento e vedo se si alza meno volte, e quali sono le
variabili. Descrivere un comportamento in modo oggettivo ci permette di misurare, quantificare e capire se
quello che sto facendo è utile o no.
L’analisi funzionale permette, analizzando la situazione, di vedere quali sono le condizioni che mantengono
un comportamento per lavorare sulle situazioni problematiche. A volte si arriva a rinforzare determinati
comportamenti perché ci sono situazioni che non permettono di lavorare in un certo modo e il
comportamento viene mantenuto da un rinforzo negativo, cioè la rimozione di una situazione spiacevole.
Quindi si cerca di sostituire con un rinforzo positivo, mantenendo l’istruzione che scatena il
comportamento problema.
Il principio fondamentale del comportamentismo è il condizionamento operante, il comportamento
dell’altra persona viene plasmato modificando gli antecedenti e le conseguenze. La contigenza a tre termini
è costituita da
-
Antecedente, quello che precede il comportamento,
Il comportamento stesso che abbiamo descritto
La conseguenza
Nell’insegnamento strutturato al tavolo, l’antecedente è l’istruzione (tocca il giallo),il comportamento è
l’azione di toccare il giallo e la conseguenza è il feedback del rinforzo dato al comportamento. Stimolo –
risposta – conseguenza: ogni volta che insegno qualcosa al bambino diamo uno stimolo, otteniamo una
risposta quindi un comportamento e abbiamo una conseguenza. È la conseguenza che determina
l’aumento in frequenza o la diminuzione di quel comportamento, quindi il rinforzo o la punizione o
l’estinzione, cioè l’assenza di rinforzo.
Uno dei principi dell’analisi del comportamento è l’utilizzo del rinforzo differenziale: nel momento in cui io
sto insegnando un comportamento ad un bambino, che io consegno un rinforzo ancora più alto, per
mantenere alta la collaborazione e non creare frustrazione di alcun tipo, nell’ottica di creare situazioni
meno traumatiche possibili per il bambino.
Per quanto riguarda le abilità sociali, comunicative e non prettamente scolastiche anche la famiglia è
istruita per agire secondo questa metodologia per far arrivare il bambino all’obiettivo in modo graduale.
Introduciamo l’insegnamento incidentale, spiegheremo l’analisi del comportamento verbale, verbal
behaviour, e poi ci concentreremo sull’insegnamento della comunicazione funzionale, partendo
dall’insegnamento della richiesta che in analisi applicata del comportamento viene definita MAND.
Passeremo in rassegna la comunicazione aumentativa e alternativa attraverso l’uso di PECS (picture
exchange comunication system) e i segni, i segni utilizzati dal linguaggio dei sordomuti, dalla LIS, ma
vengono utilizzati non con la sintassi della LIS ma come vocaboli, utilizzando comunque la grammatica
dell’italiano. Anche nei casi di bambini non verbali, con buon funzionamento cognitivo, che riescono ad
esprimersi con frasi, la costruzione della frase che viene utilizzata è quella dell’italiano: soggetto, verbo,
complemento oggetto.
Differenziamo ora l’insegnamento strutturato dall’insegnamento incidentale che è completamente diverso
perché basato interamente sulla motivazione del bambino.
Nell’insegnamento strutturato la motivazione è estrinseca all’attività, quindi utilizziamo i rinforzi
(caramella, gioco, ecc.) un oggetto motivante per il bambino e che in quel momento funge da rinforzatore.
Nell’insegnamento incidentale in cui non viene utilizzato un rinforzo estrinseco, che non riguarda quel tipo
di attività, ma è l’attività stessa che piace e all’interno dell’attività vengono inseriti obiettivi di lavoro.
Questo tipo di richieste viene anche in una sorta di catena: quando il bambino tende a perdere
l’attenzione, si cerca di riaccenderlo facendogli delle richieste che per lui sono molto semplici ma molto
velocemente, perché ci sono studi che dimostrano che se richiedo al bambino istruzioni di competenze per
lui molto semplici, impossibili da sbagliare, questo aiuta a ristabilire una situazione di controllo
dell’istruzione da parte dell’adulto, aumenta di nuovo la collaborazione e l’attenzione al compito e sarà
molto probabile che risponda bene alla richiesta che gli viene fatta successivamente. Quindi in alcune
situazioni in cui vedo che il bambino comincia a sbagliare e a distrarsi, gli do alcune istruzioni veloci e poi
ritorno alle istruzioni del compito per lui difficoltosa.
L’insegnamento strutturato può essere fatto in qualsiasi contesto, ad esempio in piscina: al bambino
interessa tuffarsi, quindi viene utilizzato questo rinforzo per far si che risponda a delle istruzioni. Viene data
un’istruzione, si ottiene la risposta e viene dato il rinforzo che è il tuffo.
L’obiettivo dell’insegnamento incidentale è di trasferire, generalizzare competenze acquisite al tavolo in
situazioni di gioco o comunque motivanti per il bambino. Nel momento in cui so di aver perseguito degli
obiettivi nel lavoro strutturato al tavolo devo cercare assolutamente di far si che il bambino impara ad
usarli al di fuori di quel contesto. Se il bambino non impara ad utilizzare quello che gli abbiamo insegnato
nel nostro lavoro al tavolo, probabilmente nella sua vita ci farà niente. È nostro dovere fare in modo di
creare opportunità molteplici durante la giornata in modo che impari ad utilizzarle. La situazione viene
continuamente manipolata affinchè il bambino sia costretto ad emettere nuovi comportamenti verbali,
sfruttando tutte le opportunità comunicative che è in grado di produrre e soprattutto che le servisse usare
quella comunicazione e all’interno di queste attività possono essere inseriti anche obiettivi didattici,
accademici (contare, leggere ad esempio). Le situazioni di apprendimento incidentale sono preziosissime e
noi chiediamo agli insegnanti di riprodurle seguendo la motivazione del bambino proprio perché senza la
possibilità di usare in modo funzionale il linguaggio appreso in modo strutturato, non tutti i bambini sono in
grado di generalizzare spontaneamente quello che hanno appreso.
Nell’insegnamento incidentale il bambino si diverte, è motivato dall’attività, sta alle regole dell’insegnante
e produce linguaggio. Nell’insegnamento strutturato, non necessariamente la situazione si svolge al tavolo,
però è chiara quella che è la triade dell’insegnamento: l’adulto fa una richiesta, il bambino risponde; se la
risposta è corretta riceve un rinforzo, se la risposta non è corretta inizia un procedimento di correzione
dell’errore e di nuovo di insegnamento dello stimolo giusto.
Nell’insegnamento NET l’insegnante segue l’iniziativa del bambino, può avvenire in qualsiasi ambiente e in
un curricolo iniziale, l’obiettivo primario è quello di insegnare al bambino a fare richieste.
Nell’insegnamento DDT (discrete trial teaching"/"DTT, insegnamento per prove discrete) dove tutte le
sessioni di lavoro sono strutturate in maniera molto sistematica, vengono date le istruzioni, viene dato il
rinforzo, poi viene fatta una sorta di pausa, poi si ricomincia. Mentre nell’insegnamento in NET è l’adulto
che segue la motivazione del bambino, nell’insegnamento strutturato è l’insegnante che detta le regole. Gli
obiettivi sono comunque la generalizzazione degli apprendimenti fatti in strutturato, e l’insegnamento della
comunicazione funzionale. La definizione di generalizzazione è questa:” Il processo grazie al quale le abilità
acquisiste nell’ambiente strutturato vengono rese funzionali e indipendenti in modo che il bambino sia in
grado di esibirle in un’ampia varietà di contesti.” L’importante è che siano funzionali, usate nel momento
giusto e quando servono ed indipendenti, cioè che non ci sia bisogno della presenza dell’altra persona che
crea la condizione adeguata. L’obiettivo finale è che il bambino impari a parlare e a rispondere a delle
istruzioni e delle domande e che il tutto avvenga in una situazione il più naturale possibile.
Qui ci introduciamo al tema della comunicazione, che è uno dei deficit principali che riguardano i disturbi
dello spettro autistico. Quindi ci sono bambini che sono in grado di parlare ma non di comunicare,
“Se volete sapere come ci si sente quando si è impossibilitati a comunicare, andate ad una riunione e
fingete di non poter parlare, usate le mani, ma non carta e penna, perché queste generalmente non
possono essere usate da persone con gravi disabilità, impossibilitate ad esprimersi verbalmente. Sarete
circondati da persone che parlano, parlano davanti a voi, parlano dietro di voi, intorno a voi , sotto voi,
attraverso voi. Sarete ignorati finchè vi sentirete come un elemento di arredo. “
Questa è una affermazione molto forte che ci invita ad immedesimarci con chi non ha la possibilità o la
competenza di comunicarci i propri bisogni. Spesso anche noi diciamo ad genitori ed insegnanti di non
parlare troppo, con troppe parole, perché spesso sono bambini che hanno difficoltà ad esprimersi e anche a
capire il nostro linguaggio e comunque dare la possibilità, nonostante non ci sia la potenzialità di emettere
suoni in maniera comprensibile, di poter comunicare attraverso altre forme è indispensabile ed
importantissimo. In un lavoro che si imposta con un bambino o ragazzo di qualsiasi età, la prima cosa che si
valuta è se è in grado di comunicare e se non lo è, è indispensabile capire quale può essere per lui la forma
più semplice e consona per poterlo fare e quindi si utilizzano altre forme alternative. Questa è una tematica
molto sentita perché oltre alle persone con disturbo dello spettro autistico riguarda la disabilità in generale,
e statistiche ci dicono che oltre il 2% della popolazione tra 0 e 18 anni ha delle difficoltà di comunicazione.
Che cos’è il linguaggio? Questa definizione mi piace molto: non è lo strumento ma è l’essenza dell’uomo.
Parlare significa parlare a qualcuno, quindi parlare non appartiene alla sfera dell’io, bensì alla sfera del noi.
E questo mi introduce a spiegarvi che cos’è la comunicazione funzionale, che non è semplicemente parlare
ripetendo frasi sentite dalla tv, o il parlare con se stessi che non è un parlare in maniera funzionale, o il
parlare in maniera ecolalica che non è una comunicare funzionale. La definizione data da Bondy e Frost,
ideatori del metodo PECS è
“La comunicazione funzionale è un comportamento rivolto verso un’altra persona che a turno fornisce
rinforzi diretti o sociali”, che significa che può dire semplicemente un “bravo” oppure consegnare, nel caso
della richiesta, quello che io desidero. La comunicazione di tutti noi funziona in questo modo. Quindi non
tutti i comportamenti sono comunicativi. È necessario che ci sia un interlocutore. La comunicazione quindi
è bidirezionale e si sviluppa molto precocemente nel bambino a sviluppo tipico, molto prima dell’emergere
del linguaggio perché il bambino comincia ad indicare, a triangolare lo sguardo molto prima di produrre le
prime paroline.
Nell’autismo il deficit comunicativo è disarmante, anche nei casi ad alto funzionamento ci sono
caratteristiche evidenti di linguaggio autistico, che vanno a comprometterne l’uso. Nel momento in cui non
c’è la possibilità di comunicare verbalmente, non ci sono neanche i prerequisiti perché il bambino non è in
grado di imitare i suoni che produco, non c’è controllo ecoico, cioè non c’è imitazione vocale, e non ho
possibilità di aiutarlo fisicamente a produrre quello che voglio insegnargli e quindi ho le mani legate
nell’insegnare a richiedere delle cose. Io non posso aspettare di arrivare a questo livello per insegnare al
bambino a comunicare, perché significherebbe parlargli sopra senza dare a lui la possibilità di parlare.
L’insegnamento incidentale è il luogo privilegiato dove insegnare il linguaggio e la comunicazione
funzionale, e il primo passo per insegnare a comunicare è insegnare a richiedere. Che cos’è la richiesta, il
MAND? Questa è la definizione che viene data da Skinner nel testo Verbal Behaviour:
“il MAND è un operante verbale, ed affinchè venga emesso e si verifichi è necessaria un’operazione
motivativa (la motivazione a desiderare qualcosa). La situazione motivante che si crea in determinate
situazioni di sazietà o altro, fa si che io sia motivato a fare una richiesta. Quindi c’è la situazione che crea la
necessità della richiesta e naturalmente deve esserci l’ascoltatore. Queste sono le due caratteristiche, i due
prerequisiti per creare la situazione in cui posso insegnare a richiedere.
Perché è importante la richiesta e perché si parte da qui:
-
è la prima forma verbale che si sviluppa. I bambini quando imparano a parlare cominciano a
chiedere a raffica, a partire dalla mamma.
È l’unico comportamento verbale che beneficia direttamente il parlante. Per cui se ho sete e chiedo
l’acqua, il rinforzo che ricevo è l’acqua stessa. La richiesta ha già direttamente in sé il rinforzo e
insegna che il comportamento verbale, quando viene prodotto, procura dei benefici, ha un valore e
di conseguenza anche la persona stessa che soddisfa le richieste verrà associata a situazioni
piacevoli e positive e aumenterà anche il valore della persona che sta intorno. Se l’insegnante, nella
situazione di insegnamento, crea tante opportunità perché io richieda, quando il bambino vede
l’insegnante è contento. Considerate che per i bambini con disturbo dello spettro autistico l’altro
ha un valore estremamente relativo, considerate quanto può essere utile ed aiutarlo questo tipo di
lavoro, in cui la persona che lo aiuta a imparare a richiedere è anche quella che offre un sacco di
cose piacevoli e il valore della persona aumenta enormemente.
È importante sapere che nei trattamenti logopedici si punta spesso all’aumento del vocabolario del
bambino, ma se un bambino ha imparato ad etichettare 50 nomi, non è matematico che impari a richiedere
le cose quando gli servono perché non c’è sempre un trasferimento così naturale e diretto tra la possibilità
di denominare semplicemente e quella di richiedere, ma spesso sono tutte aree che vanno insegnate
separatamente. Per questo è necessario creare un lavoro il più omogeneo e globale possibile.
La comunicazione va anche distinta e questo è molto importante per capire quale è la procedura per
insegnare a richiedere, perché spesso si confonde la comunicazione spontanea con la risposta ad una
domanda. Quando noi chiediamo di lavorare sulla richiesta diciamo che bisogna stare in silenzio e questo è
molto contro-intuitivo, perché tutti noi siamo portati a chiedere all’altro se ha bisogno di qualcosa,
cercando di creare una situazione in cui lui possa dire di sì. È importante invece che l’adulto rimanga in
silenzio perché vogliamo insegnare una comunicazione spontanea, non semplicemente una possibilità di
rispondere ad una domanda. Perché se il bambino impara a richiedere l’acqua solo quando gli viene
richiesto, non imparerà mai a richiederlo sentendo il suo bisogno e questo sembra una banalità ma
purtroppo è quello che succede comunemente ai bambini con questo tipo di disturbo. Imparano a
rispondere a domande, ma se non sottoposti ad un training specifico non imparano a fare richieste
spontanee. La prima cosa da fare è aspettare in silenzio e vedere se il bambino è interessato o meno
all’oggetto che gli proponiamo. Quello che è importante è creare innumerevoli possibilità di fare richieste
durante la giornata, lavorare in tutti i contesti di vita, tutti devono essere addestrati a creare la situazione
perché il bambino possa richiedere.
Per prima cosa dobbiamo valutare i rinforzatori, cioè le cose che al bambino piacciono, facendo interviste ai
genitori, facendo proposte diversificate e quindi associarci a questi oggetti piacevoli per acquisire anche noi
un maggior grado di piacevolezza da parte del bambino e poi dobbiamo controllare l’accesso a questi
oggetti perché spesso sono bambini molto autonomi, fanno tutto da soli, se la cavano, ma non vanno
dall’adulto a chiedere. Oppure usano l’altro come strumento: prendono la mano dell’adulto, la mettono
sopra la maniglia senza un contatto oculare, c’è una difficoltà enorme in questo senso. Quello che è
indispensabile fare è non renderli autonomi, che sembra un controsenso però in una prima fase è
indispensabile limitare l’autonomia di un bambino per potergli insegnare a richiedere in maniera
spontanea. Quindi metterò l’oggetto del desiderio in vista ma in posto inaccessibile così da fargli venire la
voglia, ma non avendo la possibilità di accedervi liberamente così da creare l’opportunità di comunicare e
sollecitare la richiesta spontanea da parte del bambino. La pria cosa di cui dobbiamo essere sicuri è che il
bambino in quel momento abbia desiderio di quello che io gli propongo, perché altrimenti se non c’è
desiderio non c’è motivazione e l’operazione motivativa non parte. Quindi mi assicuro che lui desideri
quella cosa, gliela mostro in silenzio, aspetto che si fa avanti spontaneamente e solo allora nomino
l’oggetto. Dopo un certo allenamento arriverò al punto che non dovrò più suggerire il nome dell’oggetto
ma sarà lui spontaneamente a nominarlo.
Un’altra cosa importante da fare è di consegnare piccole porzioni di cibo o consegnare l’oggetto del
desiderio solo per poco tempo, in modo che rimanga sempre il desiderio, la voglia di riaverlo e la necessità
di fare ulteriori richieste e domande. Più il bambino si allena nella possibilità di richiedere e più è probabile
che acquisisca quella competenza.
Facciamo l’esempio della richiesta verbale: nel caso in cui c’è un bambino in grado di ripetere il mio
linguaggio, io posso insegnargli a richiedere utilizzando l’aiuto imitativo: io gli do un modello, il bambino
ripete e io gli do l’oggetto. In questo modo io andrò poi a sfumare l’aiuto fino a che non produrrà
spontaneamente la parola. Si può dare un aiuto fonologico, dicendo la prima parte della parola, oppure
tutto il modello che il bambino ripete. La volta successiva aspetterà qualche secondo prima di dare l’aiuto,
perché il nostro obiettivo è quello che il bambino batta il nostro aiuto, il nostro prompt e noi possiamo
rinforzare una risposta data o una richiesta emessa in modo spontaneo, senza aiuto.
Un’altra strategia importante è differenziare il rinforzo in base alla prestazione del bambino: se il bambino
ha ancora bisogno di un aiuto totale, darò un pezzettino del cibo od ottiene l’oggetto per un po’; nel
momento in cui batte il mio aiuto e lo dice spontaneamente allungo i tempi o aumento le quantità. Il poter
differenziare il rinforzo in base alla prestazione aiuta a far capire che è quello il comportamento richiesto.
Il bambino mostra interesse per l’oggetto, l’adulto dà il prompt call, cioè pronuncia il nome dell’oggetto, il
bambino ripete e fa la richiesta, la consegna dell’oggetto richiesto è il rinforzo. Il prompt call viene
gradualmente ritardato fino a che il soggetto produce spontaneamente la parola per richiedere il
rinforzatore. Quello che ci tengo che capiate è questo aspetto della spontaneità, della comunicazione fatta
spontaneamente, intenzionale, indipendente dall’aiuto o dalla richiesta dell’altra persona.
Nella scuola primaria c’è una parte di lavoro academico, che dipende dal livello del bambino, ma c’è una
parte di lavoro che va fatto in classe e che prevede una situazione più strutturata e direttiva da parte
dell’insegnante. Però se si tratta di un bambino che non ha un buon repertorio di richiesta è comunque
indispensabile uscire dalla classe e lavorare anche con attività piacevoli, non strettamente legate al
curriculum della scuola primaria, ma che gli consentano di fare le richieste e di stabilizzare questa
competenza. È indispensabile per poter poi lavorare su tutto il resto, perché consegnando al bambino lo
strumento comunicativo linguistico o con altre strategie, diamo a lui la possibilità di esprimere il suo
bisogno e la sua intenzione di quel momento. Considerate poi che più è alta l’abilità comunicativa e più
inferiori sono i comportamenti problematici, le due cose vanno di pari passo. Se un bambino ha un
repertorio comunicativo molto ristretto è molto probabile che metterà in atto comportamenti problematici
in numerosi contesti proprio perché non riesce a spiegarsi e l’altro non lo capisce. Da un insegnamento
incidentale sulla richiesta trae beneficio tutto il resto dell’insegnamento e dello stare insieme relazionale.
Se non c’è un buon repertorio richiestivo un buon 40% dell’insegnamento va fatto in questo modo.
Vediamo l’aspetto della collaborazione: come fare con un bambino che si oppone, vuole l’acqua ma non
vuole chiederla e mette in atto tutti i comportamenti problema pur di non chiederla. Questo è un bambino
che necessita urgentemente di un comportamento di questo genere proprio perché i comportamenti
problematici hanno assunto una funzione comunicativa. La storia di apprendimento del bambino ha fatto sì
che lui desse testa, morsi ecc., per ottenere qualcosa o per evitare di fare qualcosa. Cosa fare? Nel caso del
bambino non collaborante con l’altro, il primo lavoro che si fa quando si inizia a lavorare è il PAIRING, cioè
l’associarsi a situazioni piacevoli e divertenti, prima di arrivare a pretendere dal bambino una richiesta io lo
devo conquistare secondo la “regola della nonna” e cioè si da tutto gratuitamente per diverso tempo
affinchè si crei un legame con cose piacevoli e ci trasformiamo noi stessi in rinforzanti. Prima di iniziare
qualsiasi tipo di lavoro è indispensabile passare per questa fase; l’obiettivo è che il bambino ci veda e sia
contento e ci siamo tolti una parte del problema che può essere quella dell’accettazione dell’altro. Poi ad
un certo punto bisogna dare un freno: all’inizio viene tanto gratificato, poi quando ha acquisito una
capacità stabile a richiedere, dovrò cominciare a dire dei no. Anche questo lavoro viene fatto
gradualmente, perché i bambini si devono allenare a riconsegnare l’oggetto che desiderano. All’inizio, per
non creare una situazione di astio con il bambino, si cerca di utilizzare rinforzatori consumabili, che il
bambino non è costretto a riconsegnare, oppure giochi che prevedono tante parti (esempio puzzle: il
bambino è motivato a richiedere un altro pezzo perché gli serve e io non devo togliergli niente). All’inizio si
cercano escamotage per cui io non debba togliere dalle mani e quando questo è necessario si fa un lavoro
di scambio, proprio per non creare situazioni spiacevoli. Se il bambino riesce a produrre delle cose ma non
quello che io richiedo, oppure produce qualcosa che viene compreso solo dai genitori, l’insegnante,
l’educatore, questa forse non è la comunicazione ideale perché nel momento in cui insegno a richiedere,
questa richiesta deve essere comprensibile in ogni contesto, altrimenti non è uno strumento comunicativo
efficace. Quindi prevedere con una strategia aumentativa un altro tipo di comunicazione che preveda poi
un abbinamento graduale dell’approssimazione della parola fino a che non riesca a ripetere bene. Davanti
alla frustrazione di non produrre bene un suono, potrebbe far scaturire comportamenti problematici che
poi sono difficili da gestire.
Usare il segno per caramella, scambiare l’immagine di una caramella con la caramella vera sono tutti
esempi di MAND , indipendentemente da quella che è la funzione e sono tutti considerati comportamenti
verbali, anche senza emissione di suono perché è comunicazione.
I sistemi di comunicazione aumentativa alternativa che si usano in ABA sono:
-
-
PECS, lo scambio di immagini strutturato in un certo modo, sempre utilizzando una procedura
simile all’insegnamento della richiesta vocale.
I SEGNI. Che sono gesti che si possono prendere dalla LIS o anche inventati
La scrittura: a volte è capitato che bambini che usano tranquillamente il PECS poi creassero delle
immagini spontaneamente. Quando poi impara a scrivere, invece di scambiare l’immagine del
bagno lo scrive direttamente.
VOCA o TABLET che sono più una comunicazione alternativa che aumentativa e si usano nei casi di
ragazzi, adolescenti e non bambini piccoli, che non hanno possibilità di produrre suoni ed utilizzano
il tablet con programmi specifici con sintesi vocale. È utile in adolescenza quando si portano i
ragazzi a fare esperienze di comunicazione al di fuori dell’ambito familiare. Il ragazzo compone sul
tablet la frase su un programma apposito e la sintesi vocale legge la frase scritta. Questo è utile nei
lavori sociali e nei lavori sull’autonomia.
La comunicazione può essere aumentativa: c’è una possibilità embrionale da parte del soggetto di produrre
qualcosa ma non è sufficientemente chiaro quindi ho bisogno di uno strumento di sostegno alla sua
capacità comunicativa.
Si parla di comunicazione alternativa quando il soggetto è quasi muto, non in grado di produrre suoni.
Le domande che dobbiamo porci sono:
-
È utile per compensare parzialmente o totalmente gravi difficoltà nell’emissione del linguaggio
parlato?
È presente il linguaggio?
È comprensibile anche da estranei?
È presente intenzionalità comunicativa?
Vengono utilizzate frasi?
Queste sono le domande che ci possono condurre nella scelta dell’utilizzo di uno strumento di
comunicazione alternativo o meno.
Come facciamo a scegliere? Indicativamente, quello che prendiamo in considerazione è l’età del soggetto,
la sostenibilità dell’intervento all’interno dell’ambiente di vita del bambino. Per il resto , tutte le abilità
(motorie, di attenzione, abilità visive, lo sguardo, il comportamento) sono del tutto indifferenti, non è
necessario che il bambino abbia chissà che livello cognitivo, per scegliere uno strumento rispetto ad un
altro. Che sappia discriminare immagini, che abbia un certo livello di attenzione sono tutte cose che
vengono insegnate durante l’apprendimento di questo tipo di strumento. Quello che è importante è
valutare quella che può essere la proposta migliore per quel soggetto in quel contesto dove vive perché, ad
esempio, un sistema comunicativo come il PECS può essere adeguato per bambini o ragazzi che si
affacciano a comunicazioni con persone che non sono strettamente nella cerchia dei famigliari. Quello che
ha di positivo l’immagine è che la può comprendere chiunque, mentre un segno che può essere arbitrario,
può risultare ambiguo. Il PECS è però uno strumento macchinoso, specialmente per la famiglia che deve
preparare tutte le immagini, deve avere immagini di riserva, perché se sono perse devono essere cambiate,
il bambino non può rimanere con un quaderno sprovvisto di immagini perché significherebbe
imbavagliarlo; il bambino lo deve portare ovunque con sé ed è impegnativo per la famiglia organizzare una
comunicazione di questo tipo. I pro e i contro vanno valutati situazione per situazione è importante sapere
che entrambi gli strumenti di comunicazione non inibiscono lo sviluppo del linguaggio parlato ma anzi lo
incentivano. Il fatto di insegnare precocemente la comunicazione fa sì che l’abilità comunicativa si sviluppi e
quando possibile proceda anche il linguaggio parlato.
Parliamo di segni: si scelgono dei segni che possono essere convenzionali, di solito si preferiscono segni
iconici che ci rappresentano l’oggetto che richiedono. Quando non è possibile, si usano i segni della LIS, e
quando questi sono troppo complessi come per il movimento, i segni vengono modificati in base al livello
imitativo e motorio del soggetto che abbiamo di fronte. L’importante è che ogni bambino abbia il suo
vocabolario, la sua rubrica che i genitori aggiornano quotidianamente e che deve essere disponibile con
tutti colori che ruotano intorno al bambino, propri per il rispetto della sua comunicazione.
La procedura di insegnamento: possiamo utilizzare due tipi di aiuto, il bambino che imita può usufruire
semplicemente del modello, copiando il mio gesto. Quando non è in grado di imitare lo aiuto fisicamente,
la bravura sarà sfumare l’aiuto fino a che il bambino lo produce spontaneamente. Nel caso dell’imitazione è
il tipo di lavoro che si fa con il modello vocale; prima lo imita, poi dopo alcune prove aspetterò qualche
secondo per vedere se lo fa senza il mio aiuto. Con il bambino che non imita, quello che posso fare è dare
sempre il modello, e dopo aver provato alcune volte con l’aiuto fisico, proverò a ridurlo passando al
semplice aiuto di imitazione. A questo punto forse avrà bisogno di meno aiuto e lo faccia spontaneamente;
la bravura dell’insegnante è quella di riuscire a sfumare l’aiuto in modo che il bambino non rimanga
dipendente da esso e questo accade quando l’aiuto è invasivo e protratto per lungo tempo e questo non gli
permette di acquisire una comunicazione spontanea ed autonoma. Devo invece ridurre progressivamente
l’aiuto affinchè lo produca progressivamente da solo.
Lavorare al massimo su 3 parole, meglio se sono segni “chiusi” non segni in movimento, che hanno un
movimento che termina e che riguardino aree diverse, un cibo, un gioco, un’attività. Poi vengono inseriti i
verbi, e il lavoro è lo stesso che si fa con il vocale e si possono creare NET con i segni. È vero che il segno è
meno comprensibile, è vero che sono bambini che hanno una gravità tale per cui non sono mai soli e non
hanno chissà quali esperienze di uscita da contesti conosciuti, ma il segno ho la possibilità di averlo sempre
e ovunque. Il linguaggio dei segni ha un livello di astrazione superiore rispetto alle immagini ed è più simile
ad un linguaggio parlato e con un gesto posso denominare, fare un commento, mentre con le PECS è molto
più difficile e macchinoso.
L’uso del tablet ha la stessa procedura del PECS e deve essere dedicato solo a quello, non ci possono essere
altre applicazioni. L’importante che sia insegnato in questo modo: che si aspetti l’iniziativa del bambino,
che gli venga insegnato a digitare l’immagine che desidera, che impari a discriminare tra le varie immagini.
Anche qui c’è un insegnamento preciso per imparare a discriminare tra le varie immagini. La stessa cosa si
fa con lo strumento digitale o tridimensionale. Si tratta però di strumenti un po’ delicati e nonostante
abbiano il guscio sono comunque un po’ ingombranti. Per alcuni bambini è più facile ed immediato sfogliare
le pagine della PECS, mentre con il tablet fanno più fatica a trovare le sottocategorie delle varie immagini.
La modalità di insegnamento della comunicazione non cambia con l’età del soggetto ed è un insegnamento
trasversale che può essere fatto per tutta la vita, senza un limite di età.
Con le PECS, a differenza dell’insegnamento del segno o della richiesta vocale, c’è bisogno di un partner
comunicativo, qualcuno che aiuta il bambino a scambiare l’immagine. All’inizio deve semplicemente
prendere l’immagine e metterla nella mano dell’adulto: questo è il primo requisito di base.
Successivamente, sempre con l’aiuto, c’è un partner comunicativo che è quello che riceve l’immagine, c’è il
bambino che comunica e il prompt fisico, la persona ombra, che in silenzio lo aiuta a prendere il quaderno,
a cercare l’immagine, a scambiarla, un aiutante. Quindi nella prima fase si insegna a dare l’immagine, nella
seconda fase si insegna al bambino a cercare il quaderno che può essere in diversi contesti e a cercare
l’interlocutore, che può essere girato rispetto a lui, per insegnare ad insistere sull’intenzionalità della
comunicazione. Quello che è indispensabile è coinvolgere la famiglia in prima persona perché i bambini,
oltre che a stare a scuola stanno a casa e i genitori devono essere attori partecipi.
Nella terza fase si insegna a discriminare tra due immagini, una gradita e una non gradita, poi due immagini
gradite e qui iniziano i problemi perché molti non sono bravi a discriminare. Il bambino discrimina
l’immagine che gli serve, quella che corrisponde all’oggetto che ha davanti. In un primo tempo si
propongono due immagini, una gradita e una no, per cui se mi offre l’immagine non gradita e io gli do
l’oggetto lui lo butta e sono sicuro che la volta successiva discriminerà meglio. Poi due egualmente gradite
dove poi si va a fare un controllo di corrispondenza, proprio perché entrambe le immagini sono desiderabili
per lui, e cioè gli si offrono tutte e due le scelte e se il bambino è coerente nel prendere l’oggetto
corrispondente all’immagine abbiamo la certezza della sua scelta consapevole e glielo facciamo prendere,
altrimenti non glielo facciamo prendere e lo correggo facendogli scegliere l’immagine giusta.
Nella quarta fase si insegna a costruire delle frasi, “Voglio la caramella”, e si può decidere di insegnare gli
aggettivi. Nella quinta fase si insegna a rispondere alle domande e nella sesta fase si insegna a
commentare quello che vede o fa. È un procedimento lungo che porta a dei livelli alti di capacità
comunicativa.