i confini della ragione e le tracce del sacro

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NOESIS – BERGAMO
VIRGILIO MELCHIORRE
INCONTRI DI FILOSOFIA
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2009 ­ 2010
I CONFINI DELLA RAGIONE E LE TRACCE DEL SACRO 23 febbraio 2010
VIRGILIO MELCHIORRE – I CONFINI DELLA RAGIONE E LE TRACCE DEL SACRO
Virgilio Melchiorre1, Università Cattolica, Milano
Conferenza tenuta martedì 23 febbraio 2010
1.1
RELAZIONE
Ogni uomo nutre la grande speranza di poter incontrare il senso assoluto delle cose. C’è aspirazione ad una radicalità di senso. Il Melchiorre cita dal pensiero di Karl Barth2 come ogni riconoscimento di Dio nasca dalla constatazione che Egli ci è nascosto. C’è desiderio di infinito, ma anche consapevolezza della trascendenza di tale desiderio. Questo conflitto si trova già alle radici del pensiero occidentale. Cita i frammenti di Eraclito 3, che definisce splendidi, e che danno il senso dell’incontro dell’uomo con la profondità del logos. Logos, che contiene l’etimo di logica, indica oggi la capacità del dire e del ragionare, ma all’origine aveva un significato più vasto. Comprendeva il senso di discorso, parola, fama4, soprattutto senso fondante, radicale, ultimo delle cose. In seguito questa visione estesa del logos in occidente verrà chiamata “Dio” (termine che contiene l’etimo di dies, giorno, luce che illumina tutte le cose). Il Melchiorre cita due frammenti di Eraclito: Da ciò con cui gli uomini hanno consuetudine, dal logos che tutto governa, essi differiscono.
Pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una propria e particolare saggezza (Fr. 5)
Questo logos, che dà il senso iniziale a tutto, gli uomini non lo intendono né prima né dopo averlo incontrato. Ne fanno esperienza, ma sembrano non [ri]conoscerlo. C’è incapacità ad entrare in consuetudine col logos. Vale la pena riflettere sul fatto che Dio, il logos, sempre ha a che fare con l’esperienza, ma vi è una diversione, una estrema difficoltà a riconoscerlo e definirlo.
Nella profondità della coscienza vive un riferimento al senso ultimo dell’essere.
Cita dal Monologion di Anselmo da Aosta5 “… anche lo stolto non può non pensare al significato di Dio”. Più tardi, quasi ad eco di Anselmo, Husserl6 dirà che nemmeno l’ateo può sottrarsi al presupposto di un assoluto come ultimità di senso dell’essere. Cosa intendeva Anselmo? Ad un monaco che gli obbietta non esserci riscontro esperienziale al concetto di assoluto, Anselmo risponde rinviando al pensiero quotidiano. Abbiamo esperienza di più e meno, bene e male, alto e basso: ogni giudizio di gradualità viene necessariamente da un senso innato della misura. Vengono proposte dal Melchiorre svariate citazioni a supporto dell’assunto:
− Cartesio: il senso dell’infinito è più originario di quello del finito.
1
Vedi al capitolo dei riferimenti
Karl Barth (1886­1968), teologo svizzero.
3
Filosofo greco vissuto tra il V ed il VI sec. a.c. Vedi riferimenti
4
La fama di qualcuno: ciò che se ne dice
5
Anselmo d’Aosta (1033­1109), filosofo e teologo italiano, vedi riferimenti
6
Edmund Husserl (1859­1938), filosofo 2
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− Kant: data l’idea del condizionato, è contestualmente data quella dell’incondizionato.
− Platone: se andiamo al fondo delle cose, nella nostra mente emerge l’idea di un bene assoluto ed incondizionato, come di un bene smarrito.
Vi è un risveglio dell’anima legato ad un senso di smarrimento. Si pone il problema di conciliare smarrimento e rinvio ad una radice di senso. Oppure di spiegare come l’uomo, pur abitato dal senso ultimo delle cose, non riconosce tale senso.
Il senso ultimo delle cose ama nascondersi (Eraclito). Dio è senso e nascondimento dell’animo e nell’animo umano. La coscienza umana è talvolta attirata dalla radicalità di senso, ma tuttavia la percepisce come estremamente lontana. Tutti i termini che vi si riferiscono, come in­finito, in­
condizionato, ab­solutum sono termini negativi, si esprimono negando la finitezza, perché la ragione umana non può comprendere direttamente l’infinito. Serve una logica puramente astratta che si esprime mediante negazioni. Cita da Kant: “… posso essere certo del senso ultimo dell’essere, sono sicuro che ci sia un Dio, ma non ne posso parlare…”. A questo punto è come parlare di nulla 7, non ho gli strumenti concettuali per parlarne. Dobbiamo allora considerare definitivamente sbarrata la via che porta alla radicalità del senso? Anche se diciamo che tutto è relativo, è come se dicessimo che tutto rinvia alla radicalità ultima di senso (il termine a cui si rapporta il relativismo). Significa che tale radicalità è in qualche modo presente nella carne di ogni realtà, così come le tracce biologiche del padre sono presenti nella prole. Vi è infinita trascendenza, ma anche infinita immanenza del divino nelle creature: se possiamo metterci in ascolto della radice ultima di senso è proprio grazie alla dualità tra immanenza e trascendenza. Dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, fame e sazietà. Se prende nomi diversi, lo fa come il fuoco quando, mescolato a spezie, prende nome dall'aroma di esse (Eraclito, framm. 67).
La prima parte del frammento rinvia alla esperienza quotidiana di opposti. Cita il “C’è un tempo per tutte le cose” dal Cohelet8: Un tempo per nascere, un tempo per morire.
Un tempo per piantare, un tempo per sradicare la pianta.
Un tempo per uccidere, un tempo per guarire.
Un tempo per distruggere, un tempo per costruire.
La seconda parte del frammento ci riporta al senso ultimo delle cose, che finora è stato riferito ad una umanità che cerca di esprimersi per concetti chiari e distinti, in difficoltà nel gestire concetti contrastanti.
Il fuoco, sempre uguale ma sempre diverso, cambia secondo quello che sta bruciando, e non viene definito in sé, ma appunto attraverso il contributo del combustibile: Dio è [come il] fuoco.
Vi è una dimensione del dire e del pensare che si esprime simbolicamente, per grandi metafore, attingendo ad una ulteriorità di senso. Parlare di Dio come di un Padre amplia il concetto umano di paternità. La paternità umana dà l’odore9 alla paternità divina. Il senso della poesia e della religione si trova nel pensare per simboli.
7
Si veda anche Noesis, Ronchi, 2010
Il brano poetico citato è riportato nel capitolo dei riferimenti. Vedi anche Noesis, Natoli, 2009
9
Nel senso che emerge dalla metafora del fuoco
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Cita una poesia di Montale (Madrigali privati):
So che un raggio di sole (di Dio?) ancora può incarnarsi se ai piedi della statua di Lucrezia (una sera ella si scosse, palpebrò) getti il volto contro il mio. Qui nell'androne come sui trifogli; qui sulle scale come là nel parco; sempre nell'ombra; perché se tu sciogli quel buio la mia rondine sia il falco. Trifogli, palco, scale, ombra, …. Se si scioglie il buio accade che la mia rondine (la migrazione, l’essere errante) diventi falco (l’ascesa, l’andare verso il cielo).
I termini della consuetudine quotidiana ampliano il senso verso una radicalità che sembrava stare nell’ombra.
Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, parla di Maria senza nominarla (impossibilità di nominare il divino):
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali
sei di speranza fontana vivace.
Carità e speranza, espresse in modo non concettuale ma ravvivate da immagini molto vive. Dante non evoca Maria citando il suo nome ma usando potenti immagini simboliche. Altrimenti non se ne potrebbe parlare.
Lo Pseudo Dionigi10 di Dio dice che nessun nome è possibile, ma tutti sono possibili. Ogni realtà, se traguardata nella sua alterità di senso, mi fa intravedere sensi assoluti che sono oltre. Ricordiamo però che se tutti i nomi vanno bene, allora nessun nome va bene. I simboli sono legati alla storia ed alla cultura di chi li evoca. Altre culture daranno altri nomi alle stesse radicalità. Solo pochi uomini di grande fede sono capaci dell’apertura che permette di andare oltre.
Qual è il senso? Nella Natura Dio ama nascondersi, lascia tracce ma non si rivela. Questa è la condizione per la libertà dell’uomo, che non potrebbe avere possibilità di scelta se gli si disvelasse l’immensità del divino.
Cita Hans Jonas11, “Dire Dio dopo Auschwitz”. Se volessimo parlare di Dio come dell’onnipotente la Shoà lo sconfesserebbe. Bisogna riconoscere che Dio si è fatto assente per dare spazio alla libertà dell’uomo. Solo la possibilità di conversione dell’essere, la capacità di mettersi in ascolto di significati ulteriori, permettono di intravedere un senso a ciò che è simboleggiato da Auschwitz. Si tratta di uscire da una logica di chiarezza e distinzione per passare a partecipazione, comprensione, senza dimenticare che nessuna parola è definitiva, esclusiva, slegata dal contesto culturale.
Ha forse ragione Simone Weil12 quando afferma che ogni religione è l’unica vera: nel momento in cui la si pensa bisogna trattarla come unica. Ogni storia religiosa porta con sé una capacità 10
vedi Petrosino, Noesis 2009 e Ronchi, Noesis 2010
Hans Jonas, filosofo tedesco di origine ebraica (1903­1993). Vedi il capitolo dei riferimenti
12
1909­1943, Ebrea francese sotto il governo filonazista di Vichy, vita segnata da sofferenze ed impegno. Vedi note bibliografiche in Borgna – Noesis 2009
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specifica. Ma chi vuole mettersi in rapporto col divino deve capire che diverse religioni sono diversi modi di rapportarsi allo stesso divino.
Nell’Esodo Mosè chiede a Dio di mostrarsi, e la risposta è: “potrai guardarmi solo di spalle, altrimenti morirai”
Alla domanda: “Dio, chi sei?” la risposta è “Io sono colui che sono” Il nome è impronunziabile. “… vai a dire che sono il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe …”. Nell’ambito di quella tradizione arriva un aroma di Dio.
Apprezzare l’aroma e capirne il limite per aprirsi al dialogo con altre visioni. C’è una sollecitazione alla comunione dei viventi, all’esercizio che accomuna le diversità di linguaggi e culture.
Non date ascolto a me, ma al Logos. E' saggio convenire che tutte le cose sono Uno. (Eraclito, frammento 50). Tutte le cose si raccolgono nella stessa radicale unità.
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1.2
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DIBATTITO
Intervento 1 – A proposito della radicalità di senso, l’intervenuto ritiene che l’incarnazione sia una buona proposta di senso. Siamo fatti così, con una contrapposizione che non è un male ma l’essenza dell’umanità.
Intervento 2 – Chiede di approfondire le tracce del sacro, importanti oggi che dobbiamo ripensare un modello di comunità in cui non c’è più un dentro e un fuori, un nemico, e ci serve un nuovo modello di sacro.
Risposte 1 e 2 – C’è di mezzo la dimensione della libertà dell’uomo. Hans Jonas sottolinea come la condizione finita dell’umano sia legata all’esercizio della libertà. Incontrarsi col divino, e riconoscerne il nascondimento è accettare una negatività non perniciosa ma condizione di libertà. Tutto il discorso può avere ricadute in termini di socialità: “Dall’uno a tutte le cose, e da tutte le cose all’uno”. Nessuna realtà è tale di per sé stessa, ma solo in funzione di altre realtà. Ritiene preferibile il termine comunitarietà piuttosto che socialità.
Intervento 3 – Kant ha detto anche che la ragione è una piccola isola in un oceano di irrazionalità. L’irrazionalità è più grande della ragione. Risposta 3 – Kant amplia ulteriormente il discorso. Alla fine della “Critica della ragion pura” si chiede se parlare dell’incondizionato non sia un parlare del nulla. L’unica via d’uscita è la via della coscienza simbolica. Non idolatrica o dogmatica, che sono perversioni della religione, ma coscienza simbolica. I simboli sono un mezzo per dire in termini sperimentali di ciò che non sarebbe né dicibile né sperimentabile. Intervento 4 – Il sacro, se riandiamo al mito di Dioniso, era associato alla follia.
Risposta 4 – La storia della coscienza del sacro è storia che evolve e che si va liberando dalla tentazione di costruire idoli sulle alture (dobbiamo rifiutare di confondere il simbolo con la divinità). La storia della religione è storia di progressiva liberazione verso il simbolo. Intervento 5 – La tensione al sacro non ne dimostra l’esistenza. L’intervenuto richiama la dimostrazione del sacro secondo Tommaso d’Aquino, che gli appare assai più solida. Risposta 5 – questo intervento è il più stimolante. Il Melchiorre evidenzia come nel corso della conversazione sia stato proposto un argomento fondante di tipo trascendentale: la nostra capacità di misura e distinzione non sarebbe possibile se non fossimo abitati dall’esigenza/concetto di assoluto. Siamo ancora alla prima via dimostrativa di Tommaso d’Aquino secondo cui se qualcosa si muove il moto non può essere autonomo in quanto è in divenire, quindi c’è una causa esterna di moto. Risalendo di causa in causa si deve arrivare ad una causa prima. La frase “se andassimo all’infinito non avremmo dato una risposta” presuppone che una risposta ci sia. Se andassi all’infinito contraddirei al postulato del logos che una ragione ultima ci sia. Secondo Tommaso, se le cose hanno una finalità e non una coscienza, la coscienza deve stare altrove, nel divino. Kant amplia questa prova uscendo dall’ambito del finito per espandersi alle finalità della vita morale. Il concetto del divino emerge con prepotenza.
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Intervento 6 – Come si difende il relativismo dal logos, il quale postula una ragione ultima?
Risposta 6 – Il relativismo, nel momento in cui afferma che tutto è relativo, ricorre ad una proposizione assoluta, non relativa, e quindi il relativismo è autocontraddittorio. Siamo sempre abitati da un rinvio all’incondizionato.
Intervento 7 – A proposito dell’apertura dialogica, come può la ragione superare le trappole di cui è disseminata la strada per arrivare all’amore comune a tutte le religioni?
Intervento 8 – L’intervenuto propone una correzione all’affermazione del Melchiorre sul relativismo. Secondo lui l’affermazione base del relativismo suona così: tutto è, ma l’unica percezione possibile è relativa. Chiede un commento. Risposta comune alle domande 7 e 8 – Come superare la pretesa di avere un proprio intendimento: l’esercizio autentico del rapporto col divino porta con sé la consapevolezza del nascondimento. Ne nasce l’umiltà della consapevolezza che posso trovare solo tracce che stanno sulla soglia. Altrimenti in nome del divino nascono dogmatismo e prepotenza. Rinvia ad un esercizio etico di umiltà ed ascolto profondo. L’autentica coscienza del relativo è coscienza umile e non coincide con il relativismo.
Intervento 9 – Eraclito è molto diverso dalla posizione giudaico­cristiana. In Eraclito c’è l’indifferenziazione della realtà, ed induce a vedere come mutevole (l’aroma) ciò che è immutabile (il fuoco). Risposta 9 – Vero, c’è differenza tra Eraclito, monista e panteista, e la tradizione giudaico­
cristiana. Si può anche dare quella lettura, ma in questa sede Eraclito è stato citato per un altro scopo. Eraclito esprime la ricerca del senso ultimo e mostra la possibilità di procedere solo per simboli.
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RIFERIMENTI VIRGILIO MELCHIORRE
Le note che seguono sono tratte dal sito di: Associazione Culturale "La Maiella", Via Livello 11, 20017 RHO (MI)
Virgilio Melchiorre è nato a Chieti nel 1931. Ha insegnato filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Venezia. In qualità di professore ordinario, ha poi professato la stessa disciplina presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università Cattolica di Milano, ove in precedenza aveva prima insegnato filosofia della storia. Nello stesso ateneo e sempre presso la Facoltà di lettere e filosofia, nel 2000 è passato ad insegnare filosofia teoretica. Nell'ambito della stessa Facoltà ha diretto, dal 1967 al 1995 la Scuola di specializzazione in Comunicazioni Sociali. Presso l’Editrice «Vita e Pensiero» dirige le pubblicazioni del Centro di Metafisica per la sezione Metafisica e storia della metafisica. Dal novembre del 2003 ha dimesso, per limiti d’età, la titolarità del proprio insegnamento ed è “Professore fuori ruolo”. Ha iniziato le sue ricerche con alcuni studi su Kierkegaard, volgendosi poi allo studio di Kant, Hegel, Marx, Gramsci, Mounier, Maritain, Kant, Husserl, Heidegger, Maréchal ecc. Sul piano teoretico la sua ricerca è volta a coniugare il metodo della fenomenologia trascendentale con i grandi temi della metafisica classica. In questa direzione ha approfondito le costituzioni del pensiero moderno portandole alla possibilità di fondare sia una nuova interrogazione ontologica, sia una rinnovata concezione antropologica.
Fra i suoi scritti, oltre a numerosi articoli, si possono ricordare i volumi: Arte ed esistenza, Firenze 1956; Il metodo di Mounier, Milano 1960; Il sapere storico, Brescia 1963; Sul senso della morte, Brescia 1964; La coscienza utopica, Milano 1970; L'immaginazione simbolica, Bologna 1972; Metacritica dell'eros, Milano 1977, 1987; Ideologia, utopia, religione, Milano 1980; Essere e parola, Milano 1982, 1984, 1990, 1993 (quarta ed. integrata e ampliata), Corpo e persona, Genova 1987; Studi su Kierkegaard, Genova 1987, 1998 (seconda edizione am­pliata); Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991 (opera insignita nel 1990 del «Premio Mursia per la cultura e la ricerca scientifica»), Figure del sapere, Milano 1994, La via analogica, Milano 1966, Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia 1997, Al di là dell’ultimo, Milano 1998, Dialettica del senso, Milano 2002.
1.3.2
ERACLITO
Il passo che segue è tratto dal sito:
http://www.filosofico.net/eracli.html
Eraclito, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., è di famiglia aristocratica (addirittura discendente da famiglia regale) e lo stile stesso in cui scrive risente di questa influenza aristocratica (nella sua opera arriverà a dire: "uno è per me diecimila, se è il migliore"). Nel suo libro Περι φυσεως (Sulla natura) traspare palesemente un atteggiamento di disprezzo per la massa popolare (definita come un branco di "cani" che gli abbaiano contro). Va subito precisato, però, che l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale. Secondo la tradizione, Eraclito avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio di Artemide ad Efeso: egli compie questo gesto senz'altro per il fatto che il tempio era il luogo più sicuro per la custodia (all'epoca le biblioteche non c'erano) , ma anche perchè era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale ed arcaica. Eraclito ritiene dunque che il tempio sia l'unico luogo idoneo a custodire il suo scritto: egli infatti nutre grande sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto possa essere compreso dalla maggior parte degli uomini. Ciò dipende dai contenuti di esso, lontani dalle esperienze della vita comune, ma anche dal linguaggio e dalla forma nei quali questi contenuti sono espressi. In effetti ancora oggi non si è riusciti a comprendere la natura dell'opera di Eraclito, sebbene possediamo numerosi frammenti (oltre 100): essa era infatti costituita di aforismi, vale a dire paginette autonome e singole. Il fatto che fosse un libro "aforistico" non significa che fossero idee campate in aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca, cambiando in continuo argomenti: ogni frase, ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo. Va senz'altro notato che Eraclito fu probabilmente il primo a fare collegamenti forma­contenuto : dal momento che i contenuti erano complessi , anche lo stile e la forma dovevano essere complessi: è come se Eraclito volesse sottolineare la difficoltà del contenuto tramite la difficoltà della forma (tant'è che veniva spesso denominato "l'oscuro" o "il piangente"): Aristotele stesso, nel tratteggiare le qualità stilistiche proprie dei filosofi, cita Eraclito come esempio in negativo. Socrate stesso dice che per penetrare nel senso dei discorsi Pagina 7 di 13
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23 febbraio 2010
di Eraclito occorrerebbe essere dei "palombari di Delo". Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di interpretazione del suo libro: da buon aristocratico, diceva che non tutti gli uomini erano in grado di capire cosa dicesse: solo i migliori ce l'avrebbero fatta. In Eraclito perfino gli accenti sono ambigui: il termine greco "bios" (βιος) , ad esempio, letto "biòs" significa "arco" , ma letto "bìos" significa "vita" (sono addirittura antitetici i significati: l'arco è un qualcosa che provoca la morte, che è l'opposto della vita). E' interessante e famoso il frammento in cui Eraclito dice "la natura ama nascondersi" (φυσις φιλει κρυπτειν) : con ciò, egli intende sottolineare che non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli occhi; lo stesso stile eracliteo – così oscuro ­ può allora essere inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una convinzione di fondo: che l'intera realtà sia governata da un solo principio (come dicevano i Milesi), a cui tutto è collegato. Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal Λογος (Logos) : nel mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con "logos", termine che riveste una miriade di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Questo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perchè restano rinchiusi nel loro orizzonte privato . Eraclito paragona questi uomini a coloro che dormono e li chiama "dormienti", in contrapposizione con coloro che son desti: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in comune le esperienze: non siamo soli , ma c'è un comune terreno d'intesa . Quando invece dormiamo e ciascuno di noi vive nei sogni in un mondo interamente suo. I dormienti quindi, nel caso degli uomini che Eraclito così definisce, sono coloro che rinunciano al logos cosmico, che ci consente di capire insieme la realtà. Certo suona strano che un aristocratico parli di logos comune­cosmico: in realtà la questione è che quel "comune" logos "cosmico" si riferisce non a tutti gli uomini, ma a pochi : solo ai migliori , e non ai dormienti. Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda con "logos comune, cosmico": come accennato, la parola logos è polisemantica ed è quindi bene non tradurla. Essa si riconnette al verbo greco "lego", che in origine significava "legare" ma che poi passò a significare "parlare". Logos vuol dire, tra le varie cose, discorso: c'è l'idea di più parole che vengono tra loro legate per assumere un significato. Può anche significare "discorso interiore" in quanto prima di parlare, si effettua un ragionamento, un dialogo interno a noi stessi. Quindi passò a significare "ragionamento" e da qui "ragione", ossia la facoltà di effettuare ragionamenti. Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre: 1) La ragione che governa l'universo 2) Il pensiero che comprende questa ragione universale 3) il discorso che esprime questa conoscenza (dunque il discorso che Eraclito pone per iscritto nel suo testo). Così come abbiamo un logos dentro di noi (la ragione) , Eraclito dice che anche nella realtà ci deve essere un logos cosmico, dove logos ha valenza di "ragione" : il logos è quel qualcosa che fa funzionare l'universo. Eraclito afferma che il logos che abbiamo nella nostra mente non è diverso da quello cosmico. Per arrivare a dire questo, probabilmente, Eraclito si deve essere sagacemente chiesto: "come è che quello che noi pensiamo esiste anche nella realtà?". Questo è anche un modo per rispondere alla domanda: "come si ricollegano le leggi della natura e del mondo? ". Di fatto, Eraclito nega l'esistenza di un dio, ma ammette quella di una ragione universale: c'è un nesso tra la ragione che governa il mondo e quella che governa la nostra mente: sono la stessa cosa e dunque l’ambiguità espositiva nell'opera "Perì fuseos" è dettata dal logos stesso, che fà sì che la natura ami nascondersi. Certo è difficile comprendere questo logos universale, ma non è impossibile: l'uomo ce la può fare usando quel frammento di logos a sua disposizione, insito dentro di lui : la ragione, che non è nient'altro che un pezzettino di logos universale di cui tutti disponiamo. Quindi tutti partiamo dallo stesso livello, ma solo i migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico. I dormienti sono coloro che non ci riescono nè ci provano: per raggiungere il logos universale bisogna cooperare, non agire da soli e nel proprio interesse: Eraclito dice "bisogna seguire ciò che è comune; infatti ciò che è è comune di tutti . Ma pur essendo il logos di tutti , la folla vive come se avesse un proprio ed esclusivo criterio per giudicare". Eraclito era del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle leggi: come il logos cosmico governa il mondo, così le leggi governano la città. Anche le leggi (νοµοι), come la mente umana, rappresentano un frammento di logos universale. In Eraclito matura l'idea che la legge umana derivi da quella naturale, della φυσις (natura). Tutte le leggi umane ­ nella misura in cui sono giuste ­ attingono ad un'unica legge cosmica. A quei tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente convenzionali e non c'entrassero nulla con la natura. Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio sia il logos, un'entità assolutamente astratta, tuttavia egli sente il bisogno di incarnarlo in qualcosa di materiale, e più precisamente nel fuoco. Eraclito dice che l'universo non è il prodotto di dei o uomini, ma un ordine universale unico ed eterno. Egli lo identifica con "il fuoco sempre vivente" . Con il riferimento al fuoco, Eraclito non intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente attribuita agli ionici a partire da Aristotele (Metafisica, I), dell'unicità del principio. Intende piuttosto insistere sulla peculiarità di comportamento del fuoco: si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare anche dal sole, che ora brilla (di giorno) e ora si spegne (di notte). La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti regolata da una misura. La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato, ma è regolata secondo ritmi precisi. Eraclito sostiene che non si tratti solo della successione di un opposto all'altro, del Pagina 8 di 13
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23 febbraio 2010
giorno alla notte, della vita alla morte e così via. La guerra (πολεµος) assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell'universo: questo è caratterizzato da un'armonia superiore consistente nell'unità e identità degli opposti in tensione tra loro (coincidentia oppositorum). Quindi anche per Eraclito la ricerca dell'unità, al di sotto dell'apparente molteplicità e dispersione di ciò che appare ai più, è l'obiettivo primario. La guerra ("Polemos è signore di tutte le cose") tra gli opposti non è espressione di ingiustizia, come ritengono i più e come aveva detto Anassimandro: il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto e si esprime nell'incessante tensione e trasformazione di un contrario nell'altro. Il fuoco suggerisce bene l'idea di questo costante divenire, di dinamicità, di trasformazione e di identità degli opposti: dove c'è il fuoco c'è la vita, ma il fuoco porta anche la morte (come "bios" denota sia la vita sia l’arco mortifero). Eraclito polemizzerà moltissimo con i Pitagorici (ed in particolare con Pitagora che definirà "inventore di coltelli", vale a dire dell'arte tagliente della retorica, che mira ad affascinare l'ascoltatore con dialoghi raffinati, ma privi di verità), che sostenevano la pace e l'armonia dei contrasti e che vedevano nella musica la struttura numerica della realtà. Per lui la vera armonia è la tensione tra i contrasti (armonia discors): se prendiamo un arco o una lira, notiamo che essi funzionano fin tanto che la struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Divenire significa proprio passare da un opposto all'altro. Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla guerra, Eraclito (e in forza di ciò sarà amatissimo ad esempio da Hegel) dice che polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose, è ciò che rende liberi o schiavi gli uomini. Da notare che non si può conoscere pienamente una cosa se non si conosce il suo opposto: non si può conoscere davvero la schiavitù se non si sa che cosa sia la libertà. Per Eraclito la guerra è una grande cosa anche perchè determina quali siano gli uomini più valevoli e quelli inferiori: anche nella guerra c'è dunque un frammento di logos universale. Per Eraclito c'è armonia solo quando i contrari sono in tensione. In un suo frammento, Eraclito afferma che il diametro del sole sia di un piede umano, il che è un'assurdità e lui lo sapeva bene: con quest'affermazione sconcertante egli vuole dire che, così come è assurda la sua affermazione, tali sono anche tutte quelle che si arrestano all’apparenza, giacchè "la natura ama nascondersi". In un altro frammento dice di aver indagato se stesso ("ho indagato me stesso"): salta all'occhio questa affermazione perchè sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto γνωθι σαυτον (conosci te stesso): lui dice di aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro, tipicamente aristocratico, quel mondo a cui aveva voluto affidare il proprio scritto. Probabilmente quest'affermazione va riferita ad un'importante constatazione di Eraclito: voleva conoscere il logos dell'anima e dice di aver scoperto che l'anima non ha dimensioni, non è definita: "per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos". Dice che il suo logos è profondo, quasi con l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. Eraclito biasima anche Esiodo, l'autore di quella specie di Bibbia dei Greci che è la "Teogonia", che tra le varie coppie di contrari aveva individuato il giorno e la notte, ma che non le aveva individuate come identità di opposti. In un frammento Eraclito dice "la via in su ed in giù è unica ed identica": un qualsiasi percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare l'identificazione degli opposti: la salita e la discesa sono tra loro opposti, ma si identificano. Interessante è il frammento in cui dice: "il fulmine governa tutte le cose" ; il fulmine è strettamente connesso al fuoco, che governa tutto ed è l'attributo principale di Zeus, il padre degli dei. Gli Stoici pensavano che vi sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla conflagrazione del mondo (εκπυροσις) e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo. Essi amavano Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili, quali la conflagrazione. In effetti c'è un frammento eracliteo in cui si dice che il fuoco può cambiarsi in tutte le cose e che tutte le cose si possono cambiare in fuoco, ma Eraclito intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco, e una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose. C'è un equilibrio: Eraclito non intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni: si tratta di interpretazioni errate da parte degli stoici. Uno dei frammenti senz'altro più famosi di Eraclito è quello che dice : "negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo " : troppo spesso è stato interpretato come il manifesto della "filosofia del divenire", del παντα ρει ("tutto scorre"), come se Eraclito ci stesse suggerendo che non possiamo mai bagnarci due volte nelle stesse acque di un fiume, giacchè esse si rinnovano incessantemente. In realtà l’indirizzo dell’incessante divenire che regola la realtà sarà intrapreso, più che da Eraclito (nel quale pure non è assente), dal suo discepolo Cratilo (futuro maestro di Platone): egli estremizzerà le posizioni di Eraclito e diventerà il filosofo del "tutto scorre": a suo avviso è addirittura impossibile dare i nomi alle cose perchè esse cambiano di continuo (noi chiamiamo Po un fiume ma non è corretto, perchè le acque si rinnovano in continuazione e il fiume non è mai lo stesso); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe limitarsi ad indicare le cose col dito, senza chiamarle per nome. In realtà Eraclito, con il frammento del fiume, sta argomentando in favore della coincidenza degli opposti, mettendo in luce come quando ci immergiamo in un fiume siamo in esso e al contempo non siamo in esso (poiché nel fiume le acque cambiano di continuo). Circa l'identità degli opposti, egli dice anche che "il mare è l'acqua Pagina 9 di 13
Appunti dalle conferenze a cura di Danilo Cambiaghi NOESIS – BERGAMO
INCONTRI DI FILOSOFIA
VIRGILIO MELCHIORRE
2009 ­ 2010
I CONFINI DELLA RAGIONE E LE TRACCE DEL SACRO 23 febbraio 2010
più pura e impura, per i pesci potabile e salutare, per gli uomini imbevibile e letale" : in questo frammento si può anche scorgere il famoso relativismo assoluto di Protagora, ad avviso del quale il miele c'è chi lo sente dolce e chi lo sente amaro, ma non si può effettivamente dire se esso sia amaro o dolce: dipende da come ciascuno lo sente. Durissima è la critica condotta da Eraclito contro i sapienti del suo tempo (Pitagora, Ecateo, Esiodo, Omero, tutta "gente dalla doppia testa"), accusati di πολυµαθια, il "sapere molte cose": la vera conoscenza dev’essere quella dell’unico logos. 1.3.3
FRAMMENTI DI ERACLITO
Non ho trovato in rete una raccolta completa dei frammenti di Eraclito. Per una selezione significativa si possono consultare i siti:
http://www.raffaelesaccomanno.net/filosofia_critica/frammeracl.htm
http://xoomer.virgilio.it/bayseveri/3E/Aforismi%20di%20Eraclito.pdf
1.3.4
ANSELMO D’AOSTA
La nota che segue è tratta dal sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Anselmo_d'Aosta
In tale sito si trovano esaurienti notizie biografiche ed una esposizione del suo lavoro filosofico, 1.3.5
HUSSERL
Si veda il sito:
http://www.filosofico.net/husserl.htm
In tale sito si trovano esaurienti notizie biografiche ed una esposizione del suo lavoro filosofico, 1.3.6
QOHELET Il Qohelet (o Ecclesiaste) è uno dei libri sapienziali dell’Antico Testamento (insieme ai libri di Giobbe, Salmi, Proverbi, Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide).
Dal Qohelet è tratto il seguente brano poetico.
1 Per tutto c'è un momento, un tempo per ogni cosa sotto il cielo:
2 [c’è] un tempo per nascere, e un tempo per morire, un tempo per piantare, e un tempo di sradicare ciò che si è piantato,
3 un tempo per uccidere, e un tempo per curare, un tempo per demolire, e un tempo per edificare,
4 un tempo per piangere, e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto, e un tempo per danzare,
5 un tempo per gettare pietre, e un tempo per raccogliere pietre, un tempo per abbracciare, e un tempo per ritrarsi da abbracci,
6 un tempo per cercare, e un tempo per lasciar perdere, un tempo per conservare, e un tempo per gettare via,
7 un tempo per strappare, e un tempo per ricucire, un tempo per tacere, e un tempo per parlare,
8 un tempo per amare, e un tempo per odiare, un tempo di guerra, e un tempo di pace.
9 E quale vantaggio, per chi agisce, da ciò per cui si affanna?
10 Ho visto l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino.
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11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo: egli ha posto nel loro cuore anche la nozione di eternità, tuttavia l’uomo non riesce a scoprire da capo a fondo l'opera fatta da Dio.
12 Così ho capito che per loro non c'è niente di meglio che starsene allegri e fare il bene nella vita,
13 e ancora: che un uomo mangi e beva e veda il bene nella sua fatica, questo è un dono di Dio.
14 Ho capito che tutto ciò che Dio fa, sarà per sempre, non c’è niente da aggiungervi e niente da togliervi. Dio ha fatto così perché lo si tema.
15 Ciò che già è stato, è [adesso], ciò che sarà, già è stato. Dio cerca ciò che è passato.
Il poeta e scrittore brasiliano Paulo Cohelo lo ha riproposto come poesia in questi termini
Un tempo per nascere, un tempo per morire.
Un tempo per piantare, un tempo per sradicare la pianta.
Un tempo per uccidere, un tempo per guarire.
Un tempo per distruggere, un tempo per costruire.
Un tempo per piangere, un tempo per ridere.
Un tempo per gemere, un tempo per ballare.
Un tempo per scagliare pietre, un tempo per raccogliere sassi.
Un tempo per abbracciare, un tempo per separarsi.
Un tempo per cercare, un tempo per perdere.
Un tempo per conservare, un tempo per gettare via.
Un tempo per strappare, un tempo per ricucire.
Un tempo per tacere, un tempo per parlare.
Un tempo per amare, un tempo per odiare.
Un tempo per la guerra, un tempo per la pace.
1.3.7
DANTE – PARADISO – INVOCAZIONE DI S. BERNARDO ALLA VERGINE
Dante – Paradiso – XXXIII
Vergine madre, figlia del tuo Figlio
umile ed alta più che creatura
termine fisso d’eterno consiglio
tu sé colei che l’umana natura
nobilitasti sì che il suo Fattore
non disdegnò di farsi sua fattura
nel ventre tuo si riaccese l’amore
per lo cui caldo nell’eterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali
sei di speranza fontana vivace.
Donna, sei tanto grande e tanto vali
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che, qual vuol grazia ed a te non ricorre
sua disianza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al domandar precorre,
in te misericordia, in te pietate
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
1.3.8
BRANO DALL’ESODO – CAPITOLO III
13
Allora Mosè disse a DIO: Ecco, quando andrò dai figli d'Israele e dirò loro: "Il DIO dei vostri padri mi ha mandato da voi", se essi mi dicono "Qual'è il suo nome?", che risponderò loro?. 14 DIO disse a Mosè: IO SONO COLUI CHE SONO. Poi disse: Dirai così ai figli d'Israele: "L'IO SONO mi ha mandato da voi". 15 DIO disse ancora a Mosè: Dirai così ai figli d'Israele: "L'Eterno. il DIO dei vostri padri, il DIO di Abrahamo, il DIO d'Isacco e il DIO di Giacobbe mi ha mandato da voi. Questo è il mio nome in perpetuo. Questo sarà sempre il mio nome col quale sarò ricordato per tutte le generazioni". 16 Va' e raduna gli anziani d'Israele e di' loro: "L'Eterno, il DIO dei vostri padri, il DIO di Abrahamo, di Isacco e di Giacobbe mi è apparso, dicendo: Io vi ho certamente visitato 1.3.9
HANS JONAS – DIRE DIO DOPO AUSCHWITZ
Per notizie su Hans Jonas si veda il sito http://it.wikipedia.org/wiki/Hans_Jonas
A proposito della frase citata, si veda il seguente commento, tratto dal sito http://mondodomani.org/dialegesthai/dt01.htm
Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 2004.
L'attualità de Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Jonas non risiede tanto nell'analisi di ciò che è stato, di ciò che è accaduto nell'ambito della «soluzione finale» prospettata dal nazismo; quanto di ciò che si intende per male assoluto. Un male portato alle estreme conseguenze da risultare quasi al di sopra di ciò che umana mente possa concepire.
Auschwitz rappresenta l'incarnazione perfetta di quello che Giobbe subisce e il fallimento di quello che Giobbe ostenta fieramente e senza nessun momento di cedimento: la fede verso Dio nonostante tutto: «Se da Dio si accetta il bene, il male non si deve accettare?» (Giobbe 2,10). Dio «guarda» ad Auschwitz attraverso gli stessi occhi di chi, in quel luogo, ha incontrato la morte, impotente e addolorato, forse pentito dell'assoluta libertà concessa all'uomo. Jonas si sofferma sul concetto di un Dio sofferente che ha in sé l'onnipotenza ma anche il dolore che lo avvicina a quegli occhi che hanno visto la morte e sofferto in silenzio.
Nelle mani dell'uomo è tutta la vita, Dio è il mondo, nel mondo, ma il mondo è nelle mani dell'uomo. La presenza dell'uomo come risultato della creazione, legittima l'onnipotenza di Dio anche se: «Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più niente da dare; ora tocca all'uomo dare» dice Jonas. E ciò che l'uomo ha dato giustifica quasi il non intervento divino, Dio pur essendoci non interviene, mostrando quanto l'uomo possa fare del male, un male spietato e privo di motivazioni valide, un male che non ha nessun obiettivo se non quello di mettere alla prova l'umanità stessa: «Forse non per nulla teme Giobbe Iddio? [...] Ma e ... stendi un poco la tua mano e tocca tutto quel ch'è suo: vedrai... se non ti benedice in faccia!» (Giobbe 1,11). Le parole di Satana rivolte a Dio affinché metta Pagina 12 di 13
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alla prova la fede di Giobbe, trovano la giusta collocazione nella vicenda ebraica del nazismo. Il popolo di Abramo (l'umanità tutta) è stato messo alla prova da un male che viene dall'uomo stesso, da un'ideologia che sacrifica ogni sentimento di compassione e pietà. «In tutto questo non peccò Giobbe con le sue labbra...» (Giobbe 2,10) e nella tragedia di Auschwitz nessun figlio di Davide pecca verso Dio, nessun atto di ribellione muove l'animo dei condannati stupiti, avviliti del non intervento divino. Dov'è la Sua forza? perché ha abbandonato il Suo popolo? La risposta è tutta nelle Sue parole: «Io non maledirò più la terra a causa dell'uomo, poiché i pensieri del cuore umano sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; non colpirò più ogni cosa vivente come ho fatto» (Genesi 8,21). Perché salvare l'uomo da sé stesso in ogni momento se la sua natura è costantemente votata alla perdita del bene? Jonas sottolinea un fatto importante; «il concetto di un Dio totalmente nascosto è conseguentemente inammissibile per la fede ebraica». Ma Dio non si nasconde anche durante le torture inflitte a Gesù? durante la sua crocifissione? persino quando Gesù, sofferente per il suo destino, è annientato dai dubbi nel Getsemani. E Gesù è Suo figlio.
«Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile». Potenza e onnipotenza sono due diversi concetti, per Jonas il primo è attribuibile a Dio e non il secondo, in quanto «il male c'è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c'è il male». Per Jonas la bontà Divina quindi, non esclude l'esistenza del male; e come se Dio si fosse privato di qualcosa, della sua assoluta onnipotenza per dare all'uomo determinati caratteri (la conoscenza del bene e del male) che gli permettessero di agire nella più completa libertà; e questo, nonostante tutto, potrebbe essere considerato un atto d'amore: «Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza». Il non intervento non dà la misura di un limite Divino, casomai di una penosa, dolorosa incapacità nel ristabilire l'ordine del mondo attraverso l'esercizio di un miracolo. Perché farlo? Oggi, in questi ultimi anni non sarebbe stato costretto a rifarlo ancora ed ancora? Dio è imperscrutabile, il mistero che lo caratterizza riduce, secondo Jonas, ogni teoria, ogni illazione ad un misero (umano, io direi) balbettio dove solo la responsabilità umana può dare a Dio ciò che gli viene tolto attraverso il male da noi compiuto. Nei confronti del male Dio reagirebbe come con Giobbe e direbbe a Satana: «Egli è ancora saldo nell'interezza sua, e tu mi hai spinto su lui, senza ragione, per rovinarlo». (Giobbe 2,3) Il silenzio del dolore è tutto ciò che ha risuonato ad Auschwitz. Non un grido, non un lamento, ma un mutismo di rassegnazione di chi, all'oscuro di tutto, non può immaginare il motivo di tanto odio, perché troppo impegnato a cercare di comprendere il volere di Dio, il suo sentimento per l'uomo.
Ma a questo non c'è stata risposta, «Dio tacque, [...] non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo». Quale potrebbe essere la risposta? «Voi chi dite che io sia?» dice Gesù ai discepoli: «Maestro la mia bocca non è assolutamente in grado di dire chi tu sia.» (Vang. di Tommaso 14, Vangeli apocrifi, Einaudi 1990, a cura di Marcello Craveri) risponde Tommaso forse vicino a quel mistero che nemmeno Giobbe era riuscito a penetrare. Dio non è in condizione di aiutare l'uomo perché l'uomo non è in condizione di comprendere Dio; ed anche il popolo ebraico, abituato, come dice Jonas, alla visione di Dio, al suo costante contatto, perde questo privilegio, resta attonito e non riesce più ad afferrare la presenza del divino che nella storia ebraica si è sempre mostrato. Il male assoluto diventa ad Auschwitz la pietra angolare, getta le fondamenta di una perpetua non presenza di Dio che, credo, ci porteremo fino alla fine dei tempi. Il mistero Divino non deve però diventare un triste alibi; quello che ha colto Tommaso in Gesù non è necessariamente inviso al resto dell'umanità, almeno fino alla conoscenza dell'aldilà, bensì intuibile già in questa nostra vita. Il balbettio che Jonas assegna, come unico risultato dell'umana intellezione del Divino è preferibile ad un osceno silenzio.
Copyright © 2005 Dario Torre
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