Università di Bologna Dipartimento di Filosofia e comunicazione Corso di Filosofia del linguaggio LM 2013/14 da J. R. Stroop 1935, * 3ª settimana per i corsi di laurea in Semiotica (6 o 12 cfu), Scienze filosofiche, Geografia e processi territoriali (6 cfu), Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche curriculum italianistica (6 cfu), Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche – curriculum italianistica e scienze linguistiche (6 cfu), Lingue e letterature moderne, comparate e postcoloniali(6 cfu). * “Studies of Interference in Serial Verbal Reactions” (Journal of Experimental Psychology 18: 643-61), Ecco il calendario del corso: 14 ottobre 2013 Linguaggio e azione 2 15 ottobre 2013 Austin su linguaggio e azione 16 ottobre 2013 Linguaggio e percezione 1 21 ottobre 2013 22 ottobre 2013 Linguaggio e percezione 2 Fare filosofia: la lingua come immagine nel Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein 23 ottobre 2013 Lingua e attenzione 1 28 ottobre 2013 Gottlob Frege “Senso e significato” 29 ottobre 2013 Lingua e attenzione 2 30 ottobre 2013 Conclusioni 1 Nella settimana 4-10 novembre NON c’è lezione 11 novembre 2013 Lingua e immaginazione 1 12 novembre 2013 Lingua e immaginazione 2 13 novembre 2013 Lingua e immaginazione 3 18 novembre 2013 Kendall Walton “Thoughtwriters” 19 novembre 2013 Lingua e memoria 20 novembre 2013 Fare filosofia: un’applicazione: Guerra giusta? Guerra buona? 25 novembre 2013 Lingua e contesto 1 26 novembre 2013 François Recanati “Literalism and Contextualism: Some Varieties” 27 novembre 2013 Lingua e contesto 2 2 dicembre 2013 3 dicembre 2013 Parlare di individui Fare filosofia: la mente degli altri – “Che cosa si prova ad essere un pipistrello” di Thomas Nagel 4 dicembre 2013 Parlare di proprietà e relazioni 2 9 dicembre 2013 Saul Kripke “Un rompicapo sulla credenza” 10 dicembre 2013 Paradossi e rompicapi 11 dicembre 2013 Conclusioni 2 Un breve riassunto di cosa abbiamo fatto la scorsa settimana. Abbiamo prima visto insieme un pezzo di Kant sulla prova ontologica e sul predicato di esistenza, che essa è coinvolto pesantemente. Domani discutiamo il pezzo di Austin, on line da più di una settimana. A questo pezzo si collega la seconda lezione che ho dedicata a John Austin, alla sua ricca fenomenologia di come agiamo linguisticamente. Che parlare sia un’azione, come vedremo più avanti, è molto importante. Austin che muove da aspetti giuridici, quando distingue semplicemente performativi da constatativi, ha una concezione per me un po’ troppo convenzionalista dell’azione linguistica. Anche quando facciamo rumore, cioè emettiamo suoni che non appartengono a nessuna lingua, agiamo – foneticamente, direbbe Austin – e, come sapeva bene lui stesso, senza seguire alcuna convenzione. Magari imitando, riproducendo suoni che abbiamo sentito. Il terzo giorno l’ho dedicato a discutere con voi di “Saecular Philosophy and the Religious Temperament” di Thomas Nagel. Qui mi sarei aspettato qualcosa di più da voi. Cosa vi aspettate dalla filosofia? La cosa che ho più sottolineato sono i miei dubbi sul finalismo. Dare forma alla nostra vita, senza esagerare, non è perseguire un fine. Valorizzare la vita, non è vivere per la morte, ma per la vita. Una cosa che non ho toccata è che dare un senso al tutto significa integrare le nostre conoscenze, metterle insieme proponendo un orizzonte. Questo è oggi molto difficile, e fa capire bene la difficoltà di fare filosofia nel XXI secolo. Un altro punto che non ho toccato è che la filosofia, a differenza di tutte le altre forme di conoscenza, si occupa del punto di partenza, di come cominciano l’agire, il conoscere, il sentire. Questa settimana parlerò di HP Grice e della sua dottrina sugli scambi linguistici nota come “Logica e conversazione”. Perché questo nome? Com’era la filosofia del linguaggio nel 1967? Mercoledì parlerò di lingua e percezione. SIGNIFICARE COME ATTO 3 Dal dopoguerra fino alla metà degli anni ‘60, a Oxford si sviluppò il movimento della filosofia del linguaggio ordinario. Pochi esponenti di quel movimento avevano come obiettivo una teoria del linguaggio; il linguaggio ordinario era per loro, soprattutto, lo strumento principe per affrontare problemi filosofici. Grice, invece, come Austin, oltre a servirsi del linguaggio ordinario come strumento, ha dato dei contributi alla teoria del linguaggio. La sua teoria si distingue per almeno le seguenti caratteristiche: affronta il tema generale del significare; è sistematica; è non solo consapevole delle proprie scelte metodologiche, ma le discute; inquadra esplicitamente la teoria del linguaggio all’interno di una teoria dell’uomo; non si presenta come una rottura con la tradizione filosofica, ma come una sua evoluzione, che non la impoverisce di temi e argomenti, ma chiarisce concetti e argomentazioni e ne aggiunge di nuovi. Nel 1986, R. Grandy e R. Warner curarono un’antologia di saggi in onore di Grice (Philosophical Grounds of Rationality, Oxford at the UP), che oltre a contenere un lungo saggio di Grice, “Reply to Richards”, in parte ripubblicato in The Conception of Value, e una discreta introduzione dei curatori a tutto il lavoro di Grice, e altri 17 saggi di autori diversi, si chiude con due elenchi, quello delle pubblicazioni e quello degli inediti di Grice.1 Ora, questi due volumi rendono disponibile al pubblico una parte delle non pubblicazioni insieme ad alcune delle sue pubblicazioni più importanti. Studies in the Way of Words è stato curato da Grice stesso, anche se è apparso postumo; The Conception of Value invece è stato curato da Judith Baker che ha per diversi anni collaborato con Grice, sopratutto su temi di etica. Grice è famoso specialmente per la sua teoria del linguaggio, che è presentata integralmente in Studies in the Way of Words. Ma questa era parte, seppure una parte preminente, di una più generale teoria dell’essere razionale, nel tratteggiare la quale toccò con piglio classico-barocco la metafisica, l’etica, la psicologia filosofica, la teoria della conoscenza, in particolare la filosofia della percezione, questioni di metodo filosofico. La classicità della filosofia di Grice è testimoniata anche dall’interesse costante per quell’argomentazione filosofica autodistruttiva, quella argomentazione filosofica cioè che distrugge innanzitutto il lavoro filosofico, che è l’argomentazione scettica. Senza che l’argomentazione scettica diventi mai un tema principale, Grice in molti lavori dedica un certo sforzo, di fronte a 1 Come molti elenchi, il primo è incompleto, e gli manca almeno “Metaphysics” (in Metaphysics, D. Pears ed., Oxford at the UP). Nel secondo almeno alcune indicazioni sono incomplete. Sospetto, per esempio, che le Lectures on Formal Semantics di Irvine 1971 siano state presentate, più o meno immodificate qualche anno dopo (nel 1973?) a Urbana, Illinois 4 problemi specifici, a rielaborare l’argomentazione scettica perché possa essere ancora più forte, e a controargomentare contro lo scettico. La teoria del linguaggio. La si ricava dai seguenti saggi di Studies in the Way of Words: “Logic and Conversation”, che costituisce da solo la parte prima del volume e che presenta le famose William James Lectures tenute a Harvard nel 1967; “Meaning”, il famosissimo articolo del 1957; “Presupposition and Conversational Implicature” del 1971-1981; “Meaning Revisited” del 1982; e naturalmente da gran parte del “Retrospective Epilogue” del 1987. Le William James Lectures sono suddivise in 7 sezioni, 5 delle quali erano apparse, alcune profondamente riviste, come singoli articoli, in sedi diverse. Questo testo finale aggiunge qualche ulteriore revisione e una parte, la sezione 7, è completamente nuova. “Retrospective Epilogue” è stato scritto appositamente per questo volume. Gli altri tre saggi erano già stati pubblicati, e a volte anche ripubblicati in diverse antologie, come articoli. Da sempre si distinguono almeno due accezioni differenti del verbo ‘significare’. (1.1) Quegli occhi gialli significano itterizia. (1.2) Quelle tracce significano lepre. (1.3) L’attuale livello del deficit pubblico significa nuove tasse e nuovi tagli di spesa. (2.1) Il suono della campanella significa che la lezione è finita. (2.2) L’osservazione “Bianchi non può fare a meno del suo tormento” significa che Bianchi trova sua moglie indispensabile. Quando due cose sono naturalmente correlate, possiamo trattarle una come segno dell’altra. Diciamo che un segno naturale ha un significato naturale (significaton). Un’impronta è un segno naturale. ‘Significare’ in (1.1), (1.2) e (1.3) vale ‘significare naturalmente’. Una legge di natura (fisica, biologica, economica, sociologica, psicologica, ecc.) pone delle correlazioni naturali. Quando due cose sono arbitrariamente, ovvero non naturalmente, correlate l’una all’altra, possiamo trattarne una come un segno, appunto arbitrario, dell’altra. In questo caso parleremo di significato non naturale (significatonn). In (2.1) e (2.2) ‘significare’ vale ‘significare non naturalmente’. Riproponendo questa distinzione, Grice, in “Meaning”, suggerisce due test per riconoscere il significaren dal significare nn. Il primo test. Se l’enunciato in cui ricorre significaren è vero, se non è usato atemporalmente per esprimere una regolarità o una generalizzazione ma per parlare di un evento particolare, se si dà il significanten, allora è un 5 fatto che si dà anche il significaton. Siccome “Quegli occhi gialli significano itterizia” è vero, se ha quegli occhi gialli è un fatto che ha l’itterizia. Questo non vale per gli enunciati veri in cui ricorre significarenn. Se la campanella ha suonato, è un fatto che la lezione dovrebbe essere finita. Ma non: se la campanella ha suonato, è un fatto che la lezione è finita. La campanella potrebbe aver suonato per errore, essere stato uno scherzo, ecc. Un altro modo di mostrare questa differenza è la seguente. Tutti gli esempi proposti possono essere più o meno riformulati, continuando ad avere lo stesso significato, usando enunciati che cominciano con “Il fatto che …”. (1.1) per esempio diventa allora “Il fatto che abbia quegli occhi gialli significa che ha l’itterizia”. Non possiamo invece riformulare così (2.1) e (2.2). “Il fatto che la campanella ha suonato significa che la lezione è finita”. Questa non è una riformulazione di (2.1). È un fatto se non è stato un errore, uno scherzo, ecc. Il secondo test. Non possiamo riscrivere (1.1) così: “Quegli occhi gialli significano ‘itterizia’.” Mentre possiamo riscrivere (2.1) così “Il suono della campanella significa ‘la lezione è finita’.”2 Cioè, significaren a differenza di significarenn non accetta come complemento nomi citazionali. Insomma, ciò che ha significatonn è un’espressione; ciò che ha significaton no. Una versione leggermente diversa del secondo test è questa. Da “Quegli occhi gialli significano itterizia” non possiamo passare, secondo Grice, a “ciò che è significato da quegli occhi gialli è l’itterizia”. Da (2.1) invece possiamo passare a “ciò che è significato dal suono della campanella”, cioè appunto a “la lezione è finita”. Da (1.1) non possiamo ricavare che qualcuno ci dice qualcosa con quegli occhi. Da (2.1) invece possiamo ricavare che qualcuno (e precisamente il bidello per conto del preside) dice che la lezione è finita. Mentre possiamo dire “‘Driin’ [il suono della campanella] significa la fine della lezione”, non possiamo dire “‘[gli occhi gialli]’ significano itterizia”: il ‘driin’ della campanella è un’espressione, mentre ‘[gli occhi gialli]’ no. Una volta distinto il significatonn, come caratterizzarlo? Grice distingue 3 stadi nella costituzione del significatonn: (a) (il parlante) P significann qualcosa con x (in un’occasione particolare) e P significann che così e così con x (in un’occasione particolare); (b) x significann qualcosa (in un’occasione particolare) e x significann che così e così (in un’occasione particolare); (c) x significann qualcosa (atemporalmente) e P significann qualcosa con x (atemporalmente). Quindi caratterizza il significarenn da parte del parlante in un’occasione particolare, il primo stadio, (a), e da 2 Seguendo Searle [1958] e Kaplan [1969] potremmo usare delle virgolette speciali che mostrano che ciò di cui si parla non è l’espressione virgolettata ma il suo significato. 6 questa caratterizzazione ricava quella dei 2 stadi successivi, e dunque quella generale del significatonn. Immaginiamoci che il signor Carraro dica, rientrando, “Sono di pessimo umore”. Se pensiamo che Carraro dicendolo intenda innanzitutto indurci a credere che è di pessimo umore, pensiamo che dicendo “Sono di pessimo umore” significa che è di pessimo umore. Carraro potrebbe perseguire lo stesso scopo -- indurci a credere che è di pessimo umore -anche ricorrendo ad altri mezzi: essendo scontroso, alzando la voce, ecc. Qualunque sia il mezzo cui ricorre per farlo, Carraro intende farci credere che è di pessimo umore. Ma dicendo “Sono di pessimo umore”, piuttosto che alzando la voce o essendo scontroso, Carraro sembra volerci far riconoscere quell’intenzione. Ci sono cose diverse dal significarenn che facciamo con l’intenzione di far credere qualcosa e con l’intenzione che si riconosca quell’intenzione. Se porgo al signor Verdi una foto del signor Rossini che mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi, certo Verdi penserà che intendo fargli credere che Rossini mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi, e che voglio che lui riconosca questa mia intenzione. Ma di fronte alla foto queste mie intenzioni non sono fondamentali, perché Verdi creda che Rossini mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi. Basta che veda la foto. Se invece mostro a Verdi un disegno con lo stesso soggetto, non sarà indotto a credere che Rossini mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi, se non mi attribuirà l’intenzione di indurlo a credere appunto ciò. Potrebbe limitarsi a considerare il mio disegno un tentativo artisticheggiante, involontariamente malizioso. Tanto nell’esibire il disegno, quanto nell’avvertimento verbale -- “Tua moglie ha un’indebita familiarità con Rossini” -- ma non nell’esibire la foto, il riconoscimento dell’intenzione di far credere che la signora Verdi mostra un’indebita familiarità con Rossini, e l’intenzione che questa intenzione sia riconosciuta sono la ragione per cui Verdi è portato a credere che la signora Verdi mostri un’indebita familiarità con Rossini. Nell’avvertimento verbale, ma non nel disegno, questa intenzione non può non essere attribuita, anche se può essere messa fra parentesi, supponendo o accorgendosi che si tratti di uno scherzo. Insomma, dicendo “Sono di pessimo umore” Carraro significa che è di pessimo umore se lo dice intendendo: (i) che chi lo ascolta creda che lui, Carraro, è di pessimo umore; (ii) che chi lo ascolta riconosca l’intenzione (i); (iii) che questo riconoscimento sia parte della ragione per cui chi lo ascolta crede che è di pessimo umore. Dunque, in generale, le caratteristiche di significarenn in “P significavann 7 qualcosa con x (in un’occasione particolare)” e “P significavann che così e così con x (in un’occasione particolare)” sembrano essere le seguenti: (S-I) Dicendo “x” P significa qualcosa (o, che così e così) se lo dice intendendo: (i) produrre un particolare effetto e in chi lo ascolta (A); (ii) che A riconosca che P intende (i); (iii) produrre in A l’effetto di cui alla condizione (i) in parte sulla base della condizione (ii). Avere tutte e tre queste intenzioni è S-intendere (intendere-significare). Per la connessione tra significare e intendere, dirò questa la teoria del significato basata sulla nozione di intenzione. Caratterizzato lo stadio (a) del significatonn, è facile passare a una caratterizzazione degli stadi (b) e (c). x significann qualcosa (o, che così e così) è approssimativamente equivalente a: qualcuno significann qualcosa (o, che così e così) con x. P significann (atemporalmente) qualcosa (o, che così e così) con x è approssimativamente equivalente a cosa P significann di solito con x. Infine, x significann (atemporalmente) qualcosa (o, che così e così) è approssimativamente equivalente a un’asserzione circa cosa la gente significann, di solito, con x.3 Questo è il nucleo della teoria del significato di Grice, esposto in “Meaning”. “Logic and Conversation”, cioè le William James Lectures, raffinano e articolano quella teoria. Un raffinamento minore di (S-I). Bisogna distinguere due tipi di effetti S-intesi: quelli dei proferimenti indicativi e quelli dei proferimenti imperativi. Dire qualcosa perché chi ci ascolta creda qualcosa o perché faccia qualcosa. (“Meaning”, 219-20) O, meglio, dire qualcosa perché chi ci ascolta pensi che crediamo qualcosa o perché intenda fare qualcosa. (“Logic and Conversation” 5, 110, e 6, 120) In effetti, poi, una volta chiarita la distinzione nella formulazione di (S-I) è possibile esprimere (SI) in modo del tutto generale, senza fare specifico riferimento a una forza indicativa piuttosto che a una imperativa, usando un indicatore di forza ‘generico’ che in alcuni casi vale credere, in altri intendere. Chi parla intende far credere o far fare, e può esprimersi con un indicativo o un imperativo. Per S-intendere bastano tre intenzioni, per così dire, costruite una sull’altra, o ce ne vogliono di più? Le clausole di (S-I) sono davvero sufficienti per introdurre il significatonn? O ci sono dei controesempi che richiedano di riformulare qualche clausola o di aggiungerne di nuove? 3 I passaggi analitici da (a) a (c) si trovano descritti in “Logic and conversation” 6, 124 e sgg. 8 Supponiamo che qualcuno, per ottenere una licenza edilizia, entri nell’ufficio comunale apposito, chieda del capufficio, gli presenti il progetto relativo e in mezzo ai fogli del progetto metta 10 milioni di lire. Certo, il corruttore intende in questo modo far sì che l’impiegato gli rilasci la licenza, vuole che questa sua intenzione sia riconosciuta, e vuole che il riconoscimento di questa sua ulteriore intenzione sia almeno in parte una ragione per concedergli la licenza. Non siamo però disposti ad ammettere che ‘dieci milioni di lire’ significhi, neanche occasionalmente, ‘Mi rilasci una licenza edilizia’. La soluzione standard è quella di modificare la clausola (ii) di (S-I), per garantire che l’intenzione di P sia che A riconosca la sua intenzione (i) in parte in base al proferimento di x, al fatto cioè che x venga proferito, e non in base alla qualità, per così dire, intrinseche di ciò che viene proferito. Si sostituisce dunque (ii’) a (ii): (ii’) che chi lo ascolta riconosca l’intenzione (i) in parte sulla base del proferimento di x. (“Logic and Conversation” 5, 94) D’ora in poi, parlando di (S-I), intenderò sempre (S-I) con (ii’) al posto di (ii). Nonostante questa riformulazione, bastano le 3 clausole di (S-I) per determinare un significatonn? Vediamo un altro esempio. Il signor Carraro e il signor Scrovegni, un uomo questo famoso per la sua avarizia ma non privo di orgoglio, sono nel salotto del primo. Carraro vuole liberarsi di Scrovegni. Perciò getta platealmente un biglietto da 100 mila lire fuori della finestra. Vuole che Scrovegni pensi questo: “Carraro vuole che me ne vada, e pensa che rincorrerò il biglietto da 100 mila. Ma non voglio umiliarmi inseguendo la banconota. Me ne andrò, ma me ne andrò perché vuole che me ne vada. Non m’ interessa stare dove non sono desiderato.” Le clausole di (S-I) sono soddisfatte: dunque, gettando le 100 mila lire fuori dalla finestra, Carraro significann “(Scrovegni,) se ne vada”? No. Gettando la banconota Carraro non significann alcunché. Aggiungendo una o due clausole a (S-I) si potrebbe eliminare questo controesempio. Certo, Carraro intende anche che Scrovegni se ne vada almeno in parte perché pensa che Carraro vuole che se ne vada (cioè che soddisfi (i) perché è soddisfatta (ii’)). Ma Carraro non vuole che questa sua intenzione venga riconosciuta. (“Logic and Conversation” 5, 95-6.) Le intenzioni di (S-I) sono costruite una sull’altra: (ii’) su (i), (iii) su (ii’). L’ultimo controesempio che abbiamo visto può essere superato chiedendo che P abbia altre due intenzioni, una costruita su (iii) e un’altra costruita su quella costruita su (iii). Schiffer ([1972], 74-6) ha sostenuto che si può sempre costruire un nuovo controesempio, qualunque sia il 9 numero delle clausole, Grice (“Logic and Conversation” 5, 99) ne dubita. In effetti, già l’esempio considerato sembra richiedere un’eccessiva capacità di calcolo da parte di A. Forse, siccome tutte le intenzioni di P che servono a costruire controesempi come l’ultimo sono intenzioni che vogliono nascondere qualcosa o ingannare in qualche modo A, basterebbe aggiungere una sola altra clausola a (S-I) che neghi l’esistenza di simili intenzioni devianti in P. Basterebbe forse aggiungere insomma una clausola come la seguente: Nel dire x, P non voleva in alcun modo ingannare A o nascondergli alcunché rispetto a (i)-(iii). (Cfr. “Logic and Conversation” 5, 99, 104, 114-5. La formulazione che adotto qui è tratta da Kemmerling [1986] 147.) Anche una clausola del genere, però, per quanto più semplice ed elegante, per essere verificata richiede di considerare un numero infinito di casi (perché contiene i quantificatori “in alcun modo” o “alcunché”). In “Meaning Revisited” (299 e sgg.; ma cfr. anche Grice [1986] 82 e 85-86), Grice, riconoscendo in qualche modo un problema di infinitezza, ha preferito introdurre un elemento di valutazione. Di fatto è impossibile intrattenere un numero infinito di intenzioni o effettuare un numero infinito di controlli; è dunque da seguire la prassi di considerare un comportamento che si avvicini a soddisfare quell’ideale, un comportamento effettivamente ideale o ottimo. Si ascrive l’intenzione appropriata quando nulla osta a farlo, per esempio quando non c’è il sospetto che P voglia nascondere ad A qualcosa rispetto a (i)-(iii). Logica e conversazione. Nel famosissimo capitolo 2 di “Logic and Conversation” Grice introduce una distinzione, in ciò che viene significato, tra ciò che viene detto e ciò che viene implicato:4 una distinzione fra ciò che il parlante ha detto (in un certo senso preferito, e forse in una certa misura artificiale, di ‘detto’), e ciò che ha ‘implicato’ (per es., implicato, indicato, suggerito, ecc.), tenendo conto del fatto che ciò che ha implicato può essere implicato convenzionalmente (implicato in virtù del significato di qualcuna delle parole o delle espressioni che ha usato) o implicato non-convenzionalmente (nel qual caso la specificazione dell’implicatura cade al di fuori della specificazione del significato convenzionale delle parole usate). (“Logic and Conversation” 6, 118) 4 Questa idea era stata già abbozzata in “The Causal Theory of Perception”, del 1961 (riprodotto in Studies in the Way of Words, come saggio 15, anche se la sezione 3, dove tale idea era stata originariamente presentata, è stata purtroppo qui omessa). 10 Proviamo a chiarire i due termini dire e implicare. Con ‘dire’ s’intende ciò che uno letteralmente dice, in base alle parole che usa. Ciò che viene detto serve a determinare anche ciò che viene implicato. Se dico “Lei è un universitaria; quindi è coraggiosa”, implico che il suo essere coraggiosa sia una conseguenza del suo essere un’universitaria, ma non ho detto nel senso qui inteso che ne è una conseguenza. Questa è un’implicazione convenzionale, di ‘quindi’, come è convenzionale per esempio l’implicatura di affettuosità nell’uso di ‘mamma’. Oltre alle implicazioni convenzionali ce ne sono altre connesse con un principio proprio dell’interazione discorsiva o conversazionale, il principio di cooperazione. Queste implicazioni sono chiamate implicature conversazionali. Il principio di cooperazione recita così: “il vostro contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o dall’orientamento accettato dello scambio linguistico in cui siete impegnati.” (“Logic and Conversation” 2, 26) Allegate al principio ci sono una serie di massime, seguendo le quali, si ottengono risultati conformi ad esso. Le massime raccolte, kantianamente, sotto i nomi di quantità, qualità, relazione e modo, sono le seguenti. Quantità: date un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non minore e (ii) non maggiore) in base a quanto è richiesto. Qualità: date un contributo appropriato. Cioè date un contributo che vi ritenete in diritto o in dovere di dare, e date solo un contributo che vi ritenete di poter provare di avere il diritto o il dovere di dare.5 Relazione: siate pertinenti. Modo: siate perspicui, cioè: (i) evitate oscurità d’espressione; (ii) evitate ambiguità; (iii) siate brevi; (iv) siate ordinati nell’esposizione. Le violazioni di queste massime sembrano la regola. Ma per lo più sono violazioni apparenti. Tali violazioni apparenti generano implicature conversazionali. A mezzogiorno A chiede a B di uscire insieme a cena, e B risponde: “Stasera c’è un concerto.” La risposta, a prima vista, sembra irrilevante: che stasera diano un concerto non impedisce di andare a cena fuori. Forse B non rispetta la massima della pertinenza. No, più probabilmente, B la rispetta, e segue il principio di cooperazione: B vuole andare al concerto stasera; a quel concerto non si può andare un altro giorno, mentre a cena fuori sì; andare al concerto e andare fuori a cena sono due attività (quasi) incompatibili; B sa che A è in grado di capire che questo è il caso; dunque, B implica (conversazionalmente) che 5 Le massime sono state date originariamente per contributi conversazionali informativi, ed erano state formulate pressapoco così: (Quantità) Dare un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non meno (ii) né più informativo) di quanto è richiesto. (Qualità) Dare un contributo che sia vero. Cioè non dite ciò che credete essere falso e non dite ciò per cui non avete prove adeguate. 11 preferisce uscire a cena un altro giorno. La sua risposta è rilevante. Il punto è che non tutto ciò che vogliamo intendere è codificato esplicitamente in quello che diciamo. Una parte è strutturalmente scaricato su un meccanismo inferenziale che ha come assioma proprio il principio di cooperazione (o le massime ad esso allegate). Un’implicatura conversazionale viene colta, di solito, intuitivamente, ma una condizione essenziale, appunto perché c’è dietro un meccanismo inferenziale, è che l’intuizione possa essere sostituita da un ragionamento analogo a quello esemplificato poco fa. Se non è sostituibile, allora o non c’è alcuna implicatura o ce n’è una convenzionale. Oltre alla condizione essenziale appena indicata, ci sono due test per controllare se ci troviamo di fronte a un’implicatura conversazionale. Un’implicatura del genere è esplicitamente cancellabile. B, nell’esempio che abbiamo visto prima, potrebbe aggiungere “Ma verrò lo stesso volentieri a cena con te.” (Allora, il suo parlare del concerto, indica che bisognerà andare a cena tardi, dopo il concerto, o fare una cena rapida, o che ci tiene molto all’invito di A, ecc.) Inoltre, un’implicatura conversazionale non è separabile. Non è possibile cioè trovare un altro modo di dire esattamente quanto è stato detto (a meno che non si venga così a violare la massima del modo) che non consenta di trarre l’implicatura. Le implicature conversazionali possono essere particolari, ricavabili cioè da quanto è stato detto in base ad alcune peculiarità del contesto in cui è stato detto, come l’implicatura di non voler andare a cena che A ricava quando B gli dice: “Stasera c’è un concerto.” Le implicature possono però essere anche generalizzate, tali cioè da poter essere tratte, in circostanze normali, da ogni uso di una certa forma linguistica. Esempi caratteristici di forme che comportano implicature conversazionali generalizzate sono, secondo Grice, le controparti nei linguaggi naturali delle costanti logiche. Vediamo tre esempi, ‘o’, ‘se ..., ___’ e ‘il F’ (controparti rispettivamente di ‘v’, ‘...-->___’ ‘ x (F(x))). Il significato (vero-funzionale) di “A o B” è che “A o B” è vero se e solo se è vero A o è vero B. Ma, per la massima della qualità, chi sappia quale tra A e B è vero, dicendo “A o B” risulterebbe meno informativo che se dicesse semplicemente “A”, se è A che sa vero. L’uso di “A o B”, sempre attribuendo a ‘o’ il suo significato vero-funzionale, risulta però conversazionalmente appropriato quando si vuole implicare che si hanno ragioni non vero-funzionali per sostenere che A o B -- per non dire quanto non è in grado di provare. Una cosa del genere la facciamo, per esempio, quando diciamo “Lucia arriva col treno delle 7 o con quello delle 8.” La distinzione fra ciò che viene detto e ciò che viene implicato, che è alla 12 base di “Logic and Conversation”, è stata costruita originariamente sull’assunto che il comportamento di chi conversa sia intenzionale -- che ciascuno scambio linguistico sia un’attività ordinata ed abbia un punto -o più in generale che sia razionale -- si ricordi che la possibilità di ricostruire l’implicatura (conversazionale) come un’inferenza è una condizione essenziale per affermare che c’è una tale implicatura. Sulle stesse assunzioni è costruita anche la teoria del significato basata, appunto, sulla nozione di intenzione. La razionalità di questa emerge immediatamente se si riflette sul fatto che il parlante per significare occasionalmente qualcosa, cerca, con un proferimento, di conseguire un effetto su chi lo ascolta -- di fargli credere o di fargli fare qualcosa. La scelta dei mezzi appropriati allo scopo è probabilmente un tratto indispensabile già per qualificare un comportamento come intenzionale, o se si vuole l’intenzionalità è un tratto costitutivo della razionalità. Questa è la teoria del linguaggio di Grice, cui i saggi non pubblicati o quelli qui non ripubblicati aggiungono perfezionamenti di dettaglio. L’idea centrale, quella di derivare il significare dall’intendere, non è in sé affatto nuova. Si ritrova per esempio in un gran numero di studiosi medievali. Nuovi sono semmai il modo in cui tale idea è argomentata e il dettaglio con cui è articolata. Per valutare la teoria del linguaggio di Grice può essere opportuno confrontarla con altre, come quella di Frege o quella di Davidson. Confrontiamola con la prima, quella abbozzata da Frege. Innanzitutto, l’architettura delle due teorie. Frege distingue tre livelli nella teoria del significato: tono o colore, senso e forza. La teoria griceiana basata sul concetto d’intenzione fa una distinzione preliminare, fra ciò che viene detto e ciò che viene implicato, e distingue ciò che viene implicato in implicature convenzionali e implicature conversazionali (generalizzate o particolari). Il senso e la forza vengono ricondotti al significato di quanto è stato detto. Il colore e il tono, invece, appaiono implicature convenzionali di quanto viene detto. A differenza di Frege, però, Grice è in grado di rendere conto del fatto che un’espressione dotata di un certo senso e di una certa forza, può avere, localmente o in generale, delle implicature, che potrebbero essere esplicitate servendosi di espressioni dotate a loro volta di senso o di forza. Un esempio lo forniscono gli atti linguistici indiretti -- proferimenti di enunciati che hanno una certa forza letterale ma che per un’implicatura valgono anche quanto può essere espresso da enunciati dotati di un’altra forza, per esempio la domanda “Puoi passarmi il sale?” può implicare conversazionalmente, e spessissimo implica, la richiesta “Passami il sale”. Ma le concezioni filosofiche alla base delle due teorie sono assai diverse. 13 Frege concepisce il senso come oggettivo ed insiste moltissimo nel distinguerlo dalle rappresentazioni soggettive. La semantica, come la logica, per Frege non ha niente a che fare con la psicologia. La teoria griceiana basata sul concetto d’intenzione invece è fondata su una teoria (di psicologia filosofica) della razionalità. Inoltre, il principio di contestualità introdotto da Frege nei Fondamenti dell’aritmetica -- “è soltanto nel contesto di una proposizione [un enunciato] che le parole hanno un significato” -- chiaramente non vale nella teoria del significato basata sul concetto d’intenzione, in cui il significato di ogni espressione semplice (o non strutturata) è introdotto per conto suo, in un contesto appropriato. La teoria griceiana, a differenza di quella fregeana, non è affatto una teoria olistica del significato. Non si tratta affatto di interpretare, tutta in una volta, un’intera lingua o un intero frammento di una lingua. Il principio di contestualità è un principio olistico, perché dice che la minima unità interpretabile è un intero complesso, precisamente una proposizione (un enunciato).6 Comunque, come capita con tutte le buone teorie, alcuni elementi della teoria del significato di Grice sono ormai una parte istituzionale, per così dire, delle teorie del significato. Innanzitutto, la teoria delle implicature conversazionali, con la distinzione tra ciò che viene detto e ciò che viene ricavato da ciò che viene detto aggiungendo le massime della conversazione come assiomi propri. L’idea del significato occasionale del parlante è un altro elemento della teoria di Grice che è divenuta parte quasi istituzionale di una teoria analitica del significato. E’ difficile però capire come la parte di logica e conversazione possa integrarsi in una teoria che non integri anche qualche meccanismo intenzionale.7 Fin qui mi sono soffermato soprattutto su come, secondo Grice, ha (concettualmente) origine il linguaggio e su come si articola una lingua. Temi tutti “interni” o quasi alla filosofia del linguaggio. Come testimonia già l’interesse centrale della teoria griceiana per l’origine concettuale del linguaggio, il significato occasionale del parlante, Grice aveva anche tutta una serie di interessi “esterni”, che presenterò fra poco sotto l’etichetta “teoria dell’essere razionale”, che toccano diversi temi di metafisica, etica, psicologia filosofica, e altri temi generalmente fondazionali e metodologici. Ci sono comunque due primi temi “esterni” che si presentano ancora immediatamente come riflessioni sul linguaggio: la relazione fra significaton e significatonn, e il problema del perché gli 6 7 La teoria fregeana è solo moderatamente olistica, perché prende in considerazione un complesso relativamente piccolo. Esempi di olismo radicale sono invece la teoria di Quine e quella di Davidson. Forme di olismo che pensano all’interpretazione di un’intera lingua in un colpo solo. Kripke [1977] prospetta un’integrazione del genere, e non ha problemi perché la sua teoria del riferimento già usa la nozione di intenzione. 14 uomini hanno sviluppato il linguaggio. La relazione fra significaton e significatonn, viene affrontato in “Meaning Revisited”. Supponete che una creatura possa produrre volontariamente un comportamento che, prodotto involontariamente, è (parte di) un comportamento di dolore. Potrebbe allora produrlo per ingannare gli altri. Ma supponete che gli altri si rendano conto che un simile comportamento può essere simulato. Questo potrebbe portarli a pensare che, quando quel particolare comportamento viene prodotto, chi lo produce non prova effettivamente dolore. Chi produce quel comportamento volontariamente allora potrebbe, nel produrlo, cercare di far capire agli altri che lo produce volontariamente, portandoli dunque a escludere che si tratti propriamente di simulazione. Perché però produrre un comportamento del genere? Per conseguire quale effetto sugli altri? Il candidato più “naturale” è proprio lo stesso effetto che quel comportamento produce quando è involontario, cioè far credere che prova dolore. Più esattamente, producendo quel comportamento volontariamente, vuole non solo dare delle ragioni per credere che prova dolore, cosa che accade anche quando lo produce involontariamente, ma mettere sotto gli occhi, far sì che ci si accorga, appunto comunicare, che prova dolore. Dunque, il significatonn nascerebbe come uso non-naturale di un segno dotato di significaton. Nello stesso articolo, ma anche in altri saggi, Grice inventa poi una storia per mostrare il valore, e la razionalità, dell’avere un linguaggio. Immaginiamo di dover costruire una creatura complessa, anzi una serie di creature via via più complesse. Ciascun tipo è caratterizzato dall’avere certi scopi, il problema sta nel precisare che abilità deve avere per poterli realizzare. Supponiamo di aver costruito creature tali che, fra l’altro: (i) se desiderano P e credono che se P allora q, allora desiderano q; (ii) se desiderano P e desiderano q, allora se agiranno, agiranno spinti dal più forte dei due desideri; (iii) che siano in grado di modificare i propri principî valutativi. Se più creature del genere vivono nello stesso ambiente, sarà importante per la loro sopravvivenza, oltre che per la loro felicità (perché cioè possano soddisfare i propri desideri) che possano sintendere, ovvero significare, ovvero usare una lingua dotata di significato. Se dobbiamo dotarli di un capacità del genere per ottimizzarli, è, secondo Grice, razionale che esseri del genere posseggano un’abilità del genere. Ora, noi siamo creature del genere. (I valori intervengono, forse, anche nell’usare il linguaggio, come avevamo visto, precisamente nel significato occasionale del parlante: questi si serve di valori per giudicare soddisfacente una serie finita di intenzioni e fermare così il potenziale regresso all’infinito). 15 Teoria dell’essere razionale Grice considera la teoria del linguaggio parte di una teoria dell’essere razionale, o degli esseri razionali. Molti spunti sono già emersi qua e là in quanto s’è visto -- per esempio quando poco fa ho parlato di intenzioni e razionalità nella logica e conversazione e nella teoria del significato. Altri possono essere colti riflettendoci sopra. Grice cerca di spiegare la nozione di significato servendosi di alcuni atteggiamenti psicologici -l’intendere (o volere) e il credere, nonché il valutare. Con questo va subito al di là di una teoria tutt’interna del linguaggio. Altri spunti, infine, sono stati introdotti esplicitamente, come quelli presentati per spiegare perché avere un linguaggio. I due saggi più importanti, da questo punto di vista così generale, mi sembra siano “Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” e “Method in Philosophical Psychology (From the Banal to the Bizarre)”, entrambi in The Conception of Value (il primo ripresenta la sezione finale di “Reply to Richards”, cioè di Grice [1986]). “Method in Philosophical Psychology” discute la primitività di due atteggiamenti psicologici, giudicare (generico atteggiamento che ha come esempio marcato il credere) e volere. In effetti, quando ci si prova a definirli siamo costretti a usare, magari addirittura entrambi, gli atteggiamenti nel definiens. Si prenda, per esempio, nella definizione disposizionale di “credere”: una persona crede che P solo se è disposta, quando vuole conseguire un certo fine F, quando crede che P sia vero, ad agire in modi che, quando P è vero, la portano a realizzare F. Questa definizione è circolare. Grice, poi, mostra come si possono sviluppare per stadi atteggiamenti psicologici complessi, con un processo di internalizzazione. Prima ci sono cose e atteggiamenti verso cose, poi ci sono atteggiamenti verso cose mediati dalle rappresentazioni di esse, fino ad atteggiamenti che riguardano altri atteggiamenti propri ed altrui mediati anch’essi da rappresentazioni. Gli atteggiamenti psicologici sono il tratto distintivo, essenziale, dell’essere razionale. “Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” offre un’argomentazione più strettamente metafisica dello sviluppo di esseri razionali, mostrando come la razionalità stessa possa essere un valore. La procedura fondamentale è una procedura metafisica costruttiva (o razionalmente ricostruttiva)che introduce dei “genitori”, che poi siamo noi stessi, che affiniamo riflettendo su noi stessi la nostra razionalità come strumento fondamentale per la nostra sopravvivenza e per realizzare al meglio i nostri fini. Tanta è la parte che la razionalità viene ad avere così per noi che il suo sviluppo viene a costituire il nostro fine 16 proprio e un valore assoluto. Non tratterò qui di nessun altro saggio, anche se alcuni si raccomandano vivamente al lettore. Come “Postwar Oxford Philosophy” (sul metodo filosofico-linguistico), “In Defense of a Dogma” (scritto insieme a P.F. Strawson) (in difesa della distinzione analitico/sintetico), “The Causal Theory of Perception” (in difesa di questa teoria della percezione, ma anche di certe locuzioni fenomenistiche) e “Retrospective Epilogue” (che inquadra molto del lavoro fatto). Alcune osservazioni. Comincerò con l’evidenziare alcune delle peculiarità della teoria del linguaggio di Grice. Riprendendo e ampliando una famosa idea di Austin, da questi sostenuta con vigore, la teoria griceiana del significato presenta innanzitutto il significare come un agire, primariamente come un agire in una situazione sociale minima, una situazione faccia a faccia. Così cerca di spiegare la nascita e la dinamica del significato, e cerca di farlo non mettendo giù alcune considerazioni generali -- limitandosi a parlare, per esempio, dell’origine sociale del linguaggio -- ma presentando l’atto del significare come il produrre un effetto su un ascoltatore paradigmaticamente in una situazione faccia a faccia. Trattando insieme dell’origine e della dinamica del significato, la teoria di Grice è, mi sembra, indipendente dalle situazioni originarie. Ogni singolo significare è un atto che può introdurre un significato (parzialmente) nuovo. Ciò che è successo prima certo lo condiziona, in due modi. Primo, il proferimento cui chi parla ricorre può essere il proferimento di una frase che normalmente riesce a conseguire l’effetto che chi parla vuole conseguire. Questo gli garantisce la massima possibilità di essere correttamente inteso da chi lo ascolta. Secondo, sfruttando, combinatoriamente, il significato atemporale delle espressioni della lingua, si possono dire cose che difficilmente si potrebbero dire altrimenti e si può generare significato a partire da significato. Un altro tratto interessante della teoria di Grice è il suo psicologismo filosofico. Diversi filosofi analitici del linguaggio sono stati psicologisti, ma l’immagine che ci è tramandata dai manuali è quella di una serie di teorie antipsicologistiche, a cominciare da quelle di Frege e Wittgenstein. Comunque, la posizione di Grice si distingue anche da altre posizioni, come quella di Quine, perché il suo psicologismo è filosofico e non scientistico. L’ineliminabile infondatezza degli atteggiamenti psicologici 17 basilari (o il regresso all’infinito che si ritrova nei tentativi di definirli) mostra semplicemente che sono concettualmente primitivi. Specificamente, cercare di spiegare l’origine del linguaggio a partire da atteggiamenti psicologici potrebbe consentire di spiegare l’introduzione del linguaggio senza prima richiedere una qualche capacità rappresentativa.8 La teoria del linguaggio è, per Grice, parte di una teoria degli esseri razionali. Il dotare un essere razionale del linguaggio è dargli maggiori possibilità per conseguire il proprio fine, per esercitare e articolare cioè la propria razionalità. Contemporaneamente, porre degli esseri razionali, dotati di razionalità e dunque innanzitutto di atteggiamenti psicologici e di valori (la razionalità stessa essendo il valore fondamentale) consente di spiegare la nascita e lo sviluppo del linguaggio. Alcune delle tesi sono però solo abbozzate e difese spesso da pezzi di argomentazioni e non da argomentazioni complete, e la teoria di Grice richiederebbe del lavoro ulteriore che, in filosofia, è difficile immaginare che qualcun altro possa fare. Ci sono del resto anche problemi specifici all’interno delle parti finite della teoria del linguaggio di Grice che sono stati risolti in maniera, a mio avviso, tutt’altro che soddisfacente. Per prima cosa la formulazione finale di (S-I) (che non ho riprodotta e che si trova in “Logic and Conversation” 5, 114-5) è assai poco soddisfacente. Questa attribuisce in un colpo a chi parla un’intenzione estremamente complessa che quantifica su proprietà di persone, caratteristiche di enunciati, modi di correlazione (iconici, associativi, convenzionali), un’intenzione con tre clausole, la prima delle quali ha quattro sottoclausole e la terza delle quali ha due sottoclausole. Come sempre, lo scopo è quello di superare alcuni presunti controesempi del genere di quelli che abbiamo visto. Tale formulazione è insoddisfacente perché è assai dubbio che i parlanti quando intendono significare qualcosa intrattengano un atteggiamento mentale così complesso. Una soluzione diversa, a mio avviso perseguibile, sarebbe riesaminare i controesempi e vedere se sono davvero tali. Credo che non lo siano, e che si possa dimostrarlo andando 8 L’internalizzazione dei contenuti negli atteggiamentilo suggerisce. (“Method in Philosophical Psychology”, 145 e sgg.) Questo non comporta affatto che gli atteggiamenti siano presentati come cause, se non in un senso analogico, dei contenuti linguistici. (“Logic and conversation” 7, 142) Una critica radicale della teoria griceana si trova in Schiffer [1987]. Schiffer ritiene la teoria griceana il miglior programma possibile, ma pensa anche che non riesca a produrre una teoria del significato. Schiffer pone dei requisiti a una teoria filosofica del significato per poterne essere soddisfatto, inannzitutto che offra un’analisi riduzionistica dei concetti che esamina. Schiffer vorrebbe in particolare che un’analisi del significato riducesse la semantica alla psicologia e questa alla fisica. Anche senza condividere queste esigenze, le sue critiche mettono in dubbio già l’elucidazione della semantica per mezzo della psicologia filosofica perseguita, a mio avviso, da Grice. 18 ad esplorare con maggior cura quel tipo di significato che Grice in complesso trascura, e cioè il significaton. Lo stesso Grice sembra del resto suggerire una cosa del genere. (“Logic and Conversation” 5, 116) Un secondo problema riguarda la caratterizzazione dell’effetto che il parlante persegue: in “Logic and Conversation” (105 e 108), modificando la propria versione precedente Grice sostiene che il parlante persegue l’obiettivo di far credere che crede o di far che si voglia, piuttosto che quello di far credere o di far fare. Perché anche non far credere che vuole che si voglia? Mi limito a un’osservazione sul far credere che si creda. Quello che si vuole stabilire via (S-I) è il significato dell’espressione x, che non è che P crede x, ma appunto x. Certo chi dice x, come mostra il paradosso di Moore, deve sostenere che crede (che) x. Infatti, non può dire “x ma non credo che x”. Ma evidentemente chi dice “x” non dice “Credo che x”. Inoltre, perché quest’ultimo enunciato possa avere effettivamente un significato, bisogna, prima, che x abbia significato.9 Recentemente, Schiffer ([1987]) ha sostenuto che i concetti semantici ci sono e non sono riducibili a concetti psicologici. Non riusciremmo, secondo Schiffer, a spiegare gli atteggiamenti psicologici che il parlante vuole indurre nell’ascoltatore senza assumere come già interpretato anche quanto del linguaggio l’atto del significare dovrebbe introdurre, ex novo o come modificazione di linguaggi precedenti. Una difficoltà assai simile, anche se forse non la stessa, mi pare possa essere indubbiamente sollevata nei confronti dell’analisi griceiana. Un po’ di sfondo. Per spiegare il significato«MDSU»nn«MDNM» delle espressioni subenunciative -- nomi e espressioni predicative -- Grice parla di espressioni correlate a oggetti o a insiemi di oggetti. Ora se le parti subenunciative sono già così collegate indipendentemente dall’atto di significare sembra proprio che abbiamo già in mano tutto quanto ci serve per parlare almeno del significato di queste parti subenunciative, prima di prendere in considerazione l’atto stesso di significare. Una spia della difficoltà è la caratterizzazione riconosciutamente inadeguata della relazione di correlazione (“Logic and Conversation” 6, 132 e sgg., in particolare la nota 1 a p. 133.) Come dicevo all’inizio, quasi ogni argomentazione di Grice contiene anche una sottoargomentazione a favore dello scettico e due contro, toccando dunque sempre uno dei grandi temi della filosofia, tipico fra l’altro di tutto l’empirismo britannico. Tre sono le argomentazioni 9 La questione della caratterizzazione dell’effetto che il parlante persegue è discusso, per esempio, in Bennett [1976], §§40-1. 19 ricorrenti in Grice: (a) la filosofia del linguaggio ordinario, alla Austin, offre a un tempo una dimensione intersoggettiva e la possibilità di un accertamento sistematico degli enunciati del senso comune, enunciati che possono essere messi in questione solo con buone ragioni. (b) per accettare le conclusioni scettiche -- per esempio, una posizione fenomenista, che non richieda l’esistenza degli ordinari oggetti materiali, piuttosto che una fisicalista -- può accadere che ci sia bisogno di un’ulteriore teoria che esiga, a sua volta, proprio ciò alla cui esistenza non ci si voleva impegnare -- per esempio, circa il corpo di chi percepisce. (c) lo scettico presenta la sua argomentazione come un’argomentazione razionale. Anche se lo scettico è forse disponibile ad ammmettere che la razionalità localmente manchi, difficilmente può però accettare che la razionalità venga a mancare del tutto. Ma allora deve accettare tutte le precondizioni della razionalità -- l’esistenza del soggetto che dubita, la libertà, ecc. Grice fu un filosofo che pur non disdegnando affatto i compiti descrittivi era naturalmente portato a rivedere le idee e le interpretazioni correnti, accontentandosi a volte di introdurre modifiche di dettaglio e altre volte puntando a cambiare alcune convinzioni diffuse cui veniva dato una ruolo centrale. Sistematico per inclinazione, non fu abbastanza sistematico di fatto per lasciarci qualcosa di diverso da quello che questi due libri ci danno, e cioè dei saggi, molti dei quali però stanno così bene insieme che sembrano scritti come parti di uno stesso libro. Bibliografia B. Bennett [1976] Linguistic Behavior (Cambridge at the University Press). R. Grandy & R. Warner, eds., Philosophical Grounds of Rationality (Oxford Clarendon Press 1986). H.P. Grice [1986] “Reply to Richards” (in Philosophical Grounds of Rationality, R. Grandy & R. Warner eds., Oxford at the UP 45-106). D. Kaplan [1969] “Quantifying In” (in Words and Objections, a cura di D. Davidson e G. Harman, Dordrecht Reidel 178-214). A. Kemmerling [1986] “Utterer’s meaning revisited” (in Philosophical Grounds of Rationality, R. Grandy & R. Warner eds., Oxford at the UP 131-56). S. Kripke [1977] “Speaker’s Reference and Semantic Reference” (in Midwest Studies in Philosophy, H. Wettstein & al. eds., 1977, 1-27; tr. it. di C. Penco in Significato e teorie del linguaggio a cura di A. Bottani e C. Penco, Milano Angeli 1991, 18-52). S. Schiffer [1972] Meaning (Oxford at UP). S. Schiffer [1987] Remnants of Meaning (Cambridge Mass. Bradford Books/MIT Press). J. Searle [1958] “Russell’s Objections to Frege’s Theory of Sense and Reference” (Analysis XVIII 137-43). Le note dell’ultima lezione di questa settimana si sovrappongono a quelle della prima della prossima settimana.