Università di Bologna Dipartimento di Filosofia e comunicazione

Università di Bologna
Dipartimento di Filosofia e comunicazione
Corso di Filosofia del linguaggio LM 2013/14
da J. R. Stroop 1935, *
3ª settimana
per i corsi di laurea in
Semiotica (6 o 12 cfu), Scienze filosofiche, Geografia e processi territoriali
(6 cfu), Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche curriculum italianistica (6 cfu), Italianistica, culture letterarie europee,
scienze linguistiche – curriculum italianistica e scienze linguistiche (6 cfu),
Lingue e letterature moderne, comparate e postcoloniali(6 cfu).
* “Studies of Interference in Serial Verbal Reactions” (Journal of Experimental Psychology 18: 643-61),
Ecco il calendario del corso:
14 ottobre 2013
Linguaggio e azione 2
15 ottobre 2013
Austin su linguaggio e azione
16 ottobre 2013
Linguaggio e percezione 1
21 ottobre 2013
22 ottobre 2013
Linguaggio e percezione 2
Fare filosofia: la lingua come immagine nel Tractatus logico-philosophicus di
Ludwig Wittgenstein
23 ottobre 2013
Lingua e attenzione 1
28 ottobre 2013
Gottlob Frege “Senso e significato”
29 ottobre 2013
Lingua e attenzione 2
30 ottobre 2013
Conclusioni 1
Nella settimana 4-10 novembre NON c’è lezione
11 novembre 2013
Lingua e immaginazione 1
12 novembre 2013
Lingua e immaginazione 2
13 novembre 2013
Lingua e immaginazione 3
18 novembre 2013
Kendall Walton “Thoughtwriters”
19 novembre 2013
Lingua e memoria
20 novembre 2013
Fare filosofia: un’applicazione: Guerra giusta? Guerra buona?
25 novembre 2013
Lingua e contesto 1
26 novembre 2013
François Recanati “Literalism and Contextualism: Some Varieties”
27 novembre 2013
Lingua e contesto 2
2 dicembre 2013
3 dicembre 2013
Parlare di individui
Fare filosofia: la mente degli altri – “Che cosa si prova ad essere un pipistrello”
di Thomas Nagel
4 dicembre 2013
Parlare di proprietà e relazioni
2
9 dicembre 2013
Saul Kripke “Un rompicapo sulla credenza”
10 dicembre 2013
Paradossi e rompicapi
11 dicembre 2013
Conclusioni 2
Un breve riassunto di cosa abbiamo fatto la scorsa settimana.
Abbiamo prima visto insieme un pezzo di Kant sulla prova ontologica e
sul predicato di esistenza, che essa è coinvolto pesantemente. Domani
discutiamo il pezzo di Austin, on line da più di una settimana.
A questo pezzo si collega la seconda lezione che ho dedicata a John Austin,
alla sua ricca fenomenologia di come agiamo linguisticamente. Che parlare
sia un’azione, come vedremo più avanti, è molto importante. Austin che
muove da aspetti giuridici, quando distingue semplicemente performativi da
constatativi, ha una concezione per me un po’ troppo convenzionalista
dell’azione linguistica. Anche quando facciamo rumore, cioè emettiamo
suoni che non appartengono a nessuna lingua, agiamo – foneticamente,
direbbe Austin – e, come sapeva bene lui stesso, senza seguire alcuna
convenzione. Magari imitando, riproducendo suoni che abbiamo sentito.
Il terzo giorno l’ho dedicato a discutere con voi di “Saecular Philosophy
and the Religious Temperament” di Thomas Nagel. Qui mi sarei aspettato
qualcosa di più da voi. Cosa vi aspettate dalla filosofia? La cosa che ho più
sottolineato sono i miei dubbi sul finalismo. Dare forma alla nostra vita,
senza esagerare, non è perseguire un fine. Valorizzare la vita, non è vivere
per la morte, ma per la vita. Una cosa che non ho toccata è che dare un
senso al tutto significa integrare le nostre conoscenze, metterle insieme
proponendo un orizzonte. Questo è oggi molto difficile, e fa capire bene la
difficoltà di fare filosofia nel XXI secolo. Un altro punto che non ho
toccato è che la filosofia, a differenza di tutte le altre forme di conoscenza,
si occupa del punto di partenza, di come cominciano l’agire, il conoscere, il
sentire.
Questa settimana parlerò di HP Grice e della sua dottrina sugli scambi
linguistici nota come “Logica e conversazione”. Perché questo nome?
Com’era la filosofia del linguaggio nel 1967? Mercoledì parlerò di lingua e
percezione.
SIGNIFICARE COME ATTO
3
Dal dopoguerra fino alla metà degli anni ‘60, a Oxford si sviluppò il
movimento della filosofia del linguaggio ordinario. Pochi esponenti di quel
movimento avevano come obiettivo una teoria del linguaggio; il linguaggio
ordinario era per loro, soprattutto, lo strumento principe per affrontare
problemi filosofici. Grice, invece, come Austin, oltre a servirsi del
linguaggio ordinario come strumento, ha dato dei contributi alla teoria del
linguaggio. La sua teoria si distingue per almeno le seguenti caratteristiche:
affronta il tema generale del significare; è sistematica; è non solo
consapevole delle proprie scelte metodologiche, ma le discute; inquadra
esplicitamente la teoria del linguaggio all’interno di una teoria dell’uomo;
non si presenta come una rottura con la tradizione filosofica, ma come una
sua evoluzione, che non la impoverisce di temi e argomenti, ma chiarisce
concetti e argomentazioni e ne aggiunge di nuovi.
Nel 1986, R. Grandy e R. Warner curarono un’antologia di saggi in onore
di Grice (Philosophical Grounds of Rationality, Oxford at the UP), che
oltre a contenere un lungo saggio di Grice, “Reply to Richards”, in parte
ripubblicato in The Conception of Value, e una discreta introduzione dei
curatori a tutto il lavoro di Grice, e altri 17 saggi di autori diversi, si chiude
con due elenchi, quello delle pubblicazioni e quello degli inediti di Grice.1
Ora, questi due volumi rendono disponibile al pubblico una parte delle non
pubblicazioni insieme ad alcune delle sue pubblicazioni più importanti.
Studies in the Way of Words è stato curato da Grice stesso, anche se è
apparso postumo; The Conception of Value invece è stato curato da Judith
Baker che ha per diversi anni collaborato con Grice, sopratutto su temi di
etica.
Grice è famoso specialmente per la sua teoria del linguaggio, che è
presentata integralmente in Studies in the Way of Words. Ma questa era
parte, seppure una parte preminente, di una più generale teoria dell’essere
razionale, nel tratteggiare la quale toccò con piglio classico-barocco la
metafisica, l’etica, la psicologia filosofica, la teoria della conoscenza, in
particolare la filosofia della percezione, questioni di metodo filosofico. La
classicità della filosofia di Grice è testimoniata anche dall’interesse costante
per quell’argomentazione filosofica autodistruttiva, quella argomentazione
filosofica cioè che distrugge innanzitutto il lavoro filosofico, che è
l’argomentazione scettica. Senza che l’argomentazione scettica diventi mai
un tema principale, Grice in molti lavori dedica un certo sforzo, di fronte a
1
Come molti elenchi, il primo è incompleto, e gli manca almeno “Metaphysics” (in Metaphysics, D.
Pears ed., Oxford at the UP). Nel secondo almeno alcune indicazioni sono incomplete. Sospetto,
per esempio, che le Lectures on Formal Semantics di Irvine 1971 siano state presentate, più o meno
immodificate qualche anno dopo (nel 1973?) a Urbana, Illinois
4
problemi specifici, a rielaborare l’argomentazione scettica perché possa
essere ancora più forte, e a controargomentare contro lo scettico.
La teoria del linguaggio.
La si ricava dai seguenti saggi di Studies in the Way of Words: “Logic and
Conversation”, che costituisce da solo la parte prima del volume e che
presenta le famose William James Lectures tenute a Harvard nel 1967;
“Meaning”, il famosissimo articolo del 1957; “Presupposition and
Conversational Implicature” del 1971-1981; “Meaning Revisited” del 1982;
e naturalmente da gran parte del “Retrospective Epilogue” del 1987. Le
William James Lectures sono suddivise in 7 sezioni, 5 delle quali erano
apparse, alcune profondamente riviste, come singoli articoli, in sedi diverse.
Questo testo finale aggiunge qualche ulteriore revisione e una parte, la
sezione 7, è completamente nuova. “Retrospective Epilogue” è stato
scritto appositamente per questo volume. Gli altri tre saggi erano già stati
pubblicati, e a volte anche ripubblicati in diverse antologie, come articoli.
Da sempre si distinguono almeno due accezioni differenti del verbo
‘significare’.
(1.1) Quegli occhi gialli significano itterizia.
(1.2) Quelle tracce significano lepre.
(1.3) L’attuale livello del deficit pubblico significa nuove tasse e nuovi tagli di
spesa.
(2.1) Il suono della campanella significa che la lezione è finita.
(2.2) L’osservazione “Bianchi non può fare a meno del suo tormento” significa
che Bianchi trova sua moglie indispensabile.
Quando due cose sono naturalmente correlate, possiamo trattarle una
come segno dell’altra. Diciamo che un segno naturale ha un significato
naturale (significaton). Un’impronta è un segno naturale. ‘Significare’ in
(1.1), (1.2) e (1.3) vale ‘significare naturalmente’. Una legge di natura
(fisica, biologica, economica, sociologica, psicologica, ecc.) pone delle
correlazioni naturali. Quando due cose sono arbitrariamente, ovvero
non naturalmente, correlate l’una all’altra, possiamo trattarne una come
un segno, appunto arbitrario, dell’altra. In questo caso parleremo di
significato non naturale (significatonn). In (2.1) e (2.2) ‘significare’ vale
‘significare non naturalmente’.
Riproponendo questa distinzione, Grice, in “Meaning”, suggerisce due
test per riconoscere il significaren dal significare nn. Il primo test. Se
l’enunciato in cui ricorre significaren è vero, se non è usato
atemporalmente per esprimere una regolarità o una generalizzazione ma
per parlare di un evento particolare, se si dà il significanten, allora è un
5
fatto che si dà anche il significaton. Siccome “Quegli occhi gialli
significano itterizia” è vero, se ha quegli occhi gialli è un fatto che ha
l’itterizia. Questo non vale per gli enunciati veri in cui ricorre
significarenn. Se la campanella ha suonato, è un fatto che la lezione
dovrebbe essere finita. Ma non: se la campanella ha suonato, è un fatto
che la lezione è finita. La campanella potrebbe aver suonato per errore,
essere stato uno scherzo, ecc. Un altro modo di mostrare questa
differenza è la seguente. Tutti gli esempi proposti possono essere più o
meno riformulati, continuando ad avere lo stesso significato, usando
enunciati che cominciano con “Il fatto che …”. (1.1) per esempio
diventa allora “Il fatto che abbia quegli occhi gialli significa che ha
l’itterizia”. Non possiamo invece riformulare così (2.1) e (2.2). “Il fatto
che la campanella ha suonato significa che la lezione è finita”. Questa
non è una riformulazione di (2.1). È un fatto se non è stato un errore,
uno scherzo, ecc.
Il secondo test. Non possiamo riscrivere (1.1) così: “Quegli occhi gialli
significano ‘itterizia’.” Mentre possiamo riscrivere (2.1) così “Il suono
della campanella significa ‘la lezione è finita’.”2 Cioè, significaren a
differenza di significarenn non accetta come complemento nomi
citazionali. Insomma, ciò che ha significatonn è un’espressione; ciò che
ha significaton no. Una versione leggermente diversa del secondo test è
questa. Da “Quegli occhi gialli significano itterizia” non possiamo
passare, secondo Grice, a “ciò che è significato da quegli occhi gialli è
l’itterizia”. Da (2.1) invece possiamo passare a “ciò che è significato dal
suono della campanella”, cioè appunto a “la lezione è finita”. Da (1.1)
non possiamo ricavare che qualcuno ci dice qualcosa con quegli occhi.
Da (2.1) invece possiamo ricavare che qualcuno (e precisamente il bidello
per conto del preside) dice che la lezione è finita. Mentre possiamo dire
“‘Driin’ [il suono della campanella] significa la fine della lezione”, non
possiamo dire “‘[gli occhi gialli]’ significano itterizia”: il ‘driin’ della
campanella è un’espressione, mentre ‘[gli occhi gialli]’ no.
Una volta distinto il significatonn, come caratterizzarlo? Grice distingue 3
stadi nella costituzione del significatonn: (a) (il parlante) P significann
qualcosa con x (in un’occasione particolare) e P significann che così e così
con x (in un’occasione particolare); (b) x significann qualcosa (in
un’occasione particolare) e x significann che così e così (in un’occasione
particolare); (c) x significann qualcosa (atemporalmente) e P significann
qualcosa con x (atemporalmente). Quindi caratterizza il significarenn da
parte del parlante in un’occasione particolare, il primo stadio, (a), e da
2
Seguendo Searle [1958] e Kaplan [1969] potremmo usare delle virgolette speciali che mostrano che
ciò di cui si parla non è l’espressione virgolettata ma il suo significato.
6
questa caratterizzazione ricava quella dei 2 stadi successivi, e dunque
quella generale del significatonn.
Immaginiamoci che il signor Carraro dica, rientrando, “Sono di pessimo
umore”. Se pensiamo che Carraro dicendolo intenda innanzitutto
indurci a credere che è di pessimo umore, pensiamo che dicendo “Sono
di pessimo umore” significa che è di pessimo umore. Carraro potrebbe
perseguire lo stesso scopo -- indurci a credere che è di pessimo umore -anche ricorrendo ad altri mezzi: essendo scontroso, alzando la voce, ecc.
Qualunque sia il mezzo cui ricorre per farlo, Carraro intende farci
credere che è di pessimo umore. Ma dicendo “Sono di pessimo umore”,
piuttosto che alzando la voce o essendo scontroso, Carraro sembra
volerci far riconoscere quell’intenzione.
Ci sono cose diverse dal significarenn che facciamo con l’intenzione di far
credere qualcosa e con l’intenzione che si riconosca quell’intenzione. Se
porgo al signor Verdi una foto del signor Rossini che mostra un’indebita
familiarità con la signora Verdi, certo Verdi penserà che intendo fargli
credere che Rossini mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi, e
che voglio che lui riconosca questa mia intenzione. Ma di fronte alla
foto queste mie intenzioni non sono fondamentali, perché Verdi creda
che Rossini mostra un’indebita familiarità con la signora Verdi. Basta
che veda la foto. Se invece mostro a Verdi un disegno con lo stesso
soggetto, non sarà indotto a credere che Rossini mostra un’indebita
familiarità con la signora Verdi, se non mi attribuirà l’intenzione di
indurlo a credere appunto ciò. Potrebbe limitarsi a considerare il mio
disegno un tentativo artisticheggiante, involontariamente malizioso.
Tanto nell’esibire il disegno, quanto nell’avvertimento verbale -- “Tua
moglie ha un’indebita familiarità con Rossini” -- ma non nell’esibire la
foto, il riconoscimento dell’intenzione di far credere che la signora Verdi
mostra un’indebita familiarità con Rossini, e l’intenzione che questa
intenzione sia riconosciuta sono la ragione per cui Verdi è portato a
credere che la signora Verdi mostri un’indebita familiarità con Rossini.
Nell’avvertimento verbale, ma non nel disegno, questa intenzione non
può non essere attribuita, anche se può essere messa fra parentesi,
supponendo o accorgendosi che si tratti di uno scherzo.
Insomma, dicendo “Sono di pessimo umore” Carraro significa che è di
pessimo umore se lo dice intendendo:
(i) che chi lo ascolta creda che lui, Carraro, è di pessimo umore;
(ii) che chi lo ascolta riconosca l’intenzione (i);
(iii) che questo riconoscimento sia parte della ragione per cui chi lo ascolta crede
che è di pessimo umore.
Dunque, in generale, le caratteristiche di significarenn in “P significavann
7
qualcosa con x (in un’occasione particolare)” e “P significavann che così
e così con x (in un’occasione particolare)” sembrano essere le seguenti:
(S-I) Dicendo “x” P significa qualcosa (o, che così e così) se lo dice intendendo:
(i) produrre un particolare effetto e in chi lo ascolta (A);
(ii) che A riconosca che P intende (i);
(iii) produrre in A l’effetto di cui alla condizione (i) in parte sulla base della
condizione (ii).
Avere tutte e tre queste intenzioni è S-intendere (intendere-significare).
Per la connessione tra significare e intendere, dirò questa la teoria del
significato basata sulla nozione di intenzione.
Caratterizzato lo stadio (a) del significatonn, è facile passare a una
caratterizzazione degli stadi (b) e (c). x significann qualcosa (o, che così e
così) è approssimativamente equivalente a: qualcuno significann qualcosa
(o, che così e così) con x. P significann (atemporalmente) qualcosa (o,
che così e così) con x è approssimativamente equivalente a cosa P
significann di solito con x. Infine, x significann (atemporalmente) qualcosa
(o, che così e così) è approssimativamente equivalente a un’asserzione
circa cosa la gente significann, di solito, con x.3
Questo è il nucleo della teoria del significato di Grice, esposto in
“Meaning”. “Logic and Conversation”, cioè le William James Lectures,
raffinano e articolano quella teoria.
Un raffinamento minore di (S-I). Bisogna distinguere due tipi di effetti
S-intesi: quelli dei proferimenti indicativi e quelli dei proferimenti
imperativi. Dire qualcosa perché chi ci ascolta creda qualcosa o perché
faccia qualcosa. (“Meaning”, 219-20) O, meglio, dire qualcosa perché chi
ci ascolta pensi che crediamo qualcosa o perché intenda fare qualcosa.
(“Logic and Conversation” 5, 110, e 6, 120) In effetti, poi, una volta
chiarita la distinzione nella formulazione di (S-I) è possibile esprimere (SI) in modo del tutto generale, senza fare specifico riferimento a una forza
indicativa piuttosto che a una imperativa, usando un indicatore di forza
‘generico’ che in alcuni casi vale credere, in altri intendere. Chi parla
intende far credere o far fare, e può esprimersi con un indicativo o un
imperativo.
Per S-intendere bastano tre intenzioni, per così dire, costruite una
sull’altra, o ce ne vogliono di più? Le clausole di (S-I) sono davvero
sufficienti per introdurre il significatonn? O ci sono dei controesempi che
richiedano di riformulare qualche clausola o di aggiungerne di nuove?
3
I passaggi analitici da (a) a (c) si trovano descritti in “Logic and conversation” 6, 124 e sgg.
8
Supponiamo che qualcuno, per ottenere una licenza edilizia, entri
nell’ufficio comunale apposito, chieda del capufficio, gli presenti il
progetto relativo e in mezzo ai fogli del progetto metta 10 milioni di lire.
Certo, il corruttore intende in questo modo far sì che l’impiegato gli
rilasci la licenza, vuole che questa sua intenzione sia riconosciuta, e vuole
che il riconoscimento di questa sua ulteriore intenzione sia almeno in
parte una ragione per concedergli la licenza. Non siamo però disposti ad
ammettere che ‘dieci milioni di lire’ significhi, neanche occasionalmente,
‘Mi rilasci una licenza edilizia’.
La soluzione standard è quella di modificare la clausola (ii) di (S-I), per
garantire che l’intenzione di P sia che A riconosca la sua intenzione (i) in
parte in base al proferimento di x, al fatto cioè che x venga proferito, e
non in base alla qualità, per così dire, intrinseche di ciò che viene
proferito. Si sostituisce dunque (ii’) a (ii):
(ii’) che chi lo ascolta riconosca l’intenzione (i) in parte sulla base del proferimento di
x. (“Logic and Conversation” 5, 94)
D’ora in poi, parlando di (S-I), intenderò sempre (S-I) con (ii’) al posto di
(ii).
Nonostante questa riformulazione, bastano le 3 clausole di (S-I) per
determinare un significatonn? Vediamo un altro esempio. Il signor
Carraro e il signor Scrovegni, un uomo questo famoso per la sua avarizia
ma non privo di orgoglio, sono nel salotto del primo. Carraro vuole
liberarsi di Scrovegni. Perciò getta platealmente un biglietto da 100 mila
lire fuori della finestra. Vuole che Scrovegni pensi questo: “Carraro
vuole che me ne vada, e pensa che rincorrerò il biglietto da 100 mila. Ma
non voglio umiliarmi inseguendo la banconota. Me ne andrò, ma me ne
andrò perché vuole che me ne vada. Non m’ interessa stare dove non
sono desiderato.” Le clausole di (S-I) sono soddisfatte: dunque,
gettando le 100 mila lire fuori dalla finestra, Carraro significann
“(Scrovegni,) se ne vada”? No. Gettando la banconota Carraro non
significann alcunché.
Aggiungendo una o due clausole a (S-I) si potrebbe eliminare questo
controesempio. Certo, Carraro intende anche che Scrovegni se ne vada
almeno in parte perché pensa che Carraro vuole che se ne vada (cioè che
soddisfi (i) perché è soddisfatta (ii’)). Ma Carraro non vuole che questa
sua intenzione venga riconosciuta. (“Logic and Conversation” 5, 95-6.)
Le intenzioni di (S-I) sono costruite una sull’altra: (ii’) su (i), (iii) su (ii’).
L’ultimo controesempio che abbiamo visto può essere superato
chiedendo che P abbia altre due intenzioni, una costruita su (iii) e un’altra
costruita su quella costruita su (iii). Schiffer ([1972], 74-6) ha sostenuto
che si può sempre costruire un nuovo controesempio, qualunque sia il
9
numero delle clausole, Grice (“Logic and Conversation” 5, 99) ne dubita.
In effetti, già l’esempio considerato sembra richiedere un’eccessiva
capacità di calcolo da parte di A. Forse, siccome tutte le intenzioni di P
che servono a costruire controesempi come l’ultimo sono intenzioni che
vogliono nascondere qualcosa o ingannare in qualche modo A,
basterebbe aggiungere una sola altra clausola a (S-I) che neghi l’esistenza
di simili intenzioni devianti in P. Basterebbe forse aggiungere insomma
una clausola come la seguente:
Nel dire x, P non voleva in alcun modo ingannare A o nascondergli alcunché
rispetto a (i)-(iii).
(Cfr. “Logic and Conversation” 5, 99, 104, 114-5. La formulazione che adotto qui
è tratta da Kemmerling [1986] 147.)
Anche una clausola del genere, però, per quanto più semplice ed elegante,
per essere verificata richiede di considerare un numero infinito di casi
(perché contiene i quantificatori “in alcun modo” o “alcunché”). In
“Meaning Revisited” (299 e sgg.; ma cfr. anche Grice [1986] 82 e 85-86),
Grice, riconoscendo in qualche modo un problema di infinitezza, ha
preferito introdurre un elemento di valutazione. Di fatto è impossibile
intrattenere un numero infinito di intenzioni o effettuare un numero
infinito di controlli; è dunque da seguire la prassi di considerare un
comportamento che si avvicini a soddisfare quell’ideale, un
comportamento effettivamente ideale o ottimo. Si ascrive l’intenzione
appropriata quando nulla osta a farlo, per esempio quando non c’è il
sospetto che P voglia nascondere ad A qualcosa rispetto a (i)-(iii).
Logica e conversazione. Nel famosissimo capitolo 2 di “Logic and
Conversation” Grice introduce una distinzione, in ciò che viene
significato, tra ciò che viene detto e ciò che viene implicato:4
una distinzione fra ciò che il parlante ha detto (in un certo senso preferito, e forse in
una certa misura artificiale, di ‘detto’), e ciò che ha ‘implicato’ (per es., implicato,
indicato, suggerito, ecc.), tenendo conto del fatto che ciò che ha implicato può essere
implicato convenzionalmente (implicato in virtù del significato di qualcuna delle
parole o delle espressioni che ha usato) o implicato non-convenzionalmente (nel qual
caso la specificazione dell’implicatura cade al di fuori della specificazione del
significato convenzionale delle parole usate). (“Logic and Conversation” 6, 118)
4
Questa idea era stata già abbozzata in “The Causal Theory of Perception”, del 1961 (riprodotto in
Studies in the Way of Words, come saggio 15, anche se la sezione 3, dove tale idea era stata
originariamente presentata, è stata purtroppo qui omessa).
10
Proviamo a chiarire i due termini dire e implicare. Con ‘dire’ s’intende
ciò che uno letteralmente dice, in base alle parole che usa. Ciò che viene
detto serve a determinare anche ciò che viene implicato. Se dico “Lei è
un universitaria; quindi è coraggiosa”, implico che il suo essere
coraggiosa sia una conseguenza del suo essere un’universitaria, ma non
ho detto nel senso qui inteso che ne è una conseguenza. Questa è
un’implicazione convenzionale, di ‘quindi’, come è convenzionale per
esempio l’implicatura di affettuosità nell’uso di ‘mamma’. Oltre alle
implicazioni convenzionali ce ne sono altre connesse con un principio
proprio dell’interazione discorsiva o conversazionale, il principio di
cooperazione. Queste implicazioni sono chiamate implicature
conversazionali.
Il principio di cooperazione recita così: “il vostro contributo alla
conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo
scopo o dall’orientamento accettato dello scambio linguistico in cui siete
impegnati.” (“Logic and Conversation” 2, 26) Allegate al principio ci
sono una serie di massime, seguendo le quali, si ottengono risultati
conformi ad esso. Le massime raccolte, kantianamente, sotto i nomi di
quantità, qualità, relazione e modo, sono le seguenti. Quantità: date un
contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non minore e
(ii) non maggiore) in base a quanto è richiesto. Qualità: date un
contributo appropriato. Cioè date un contributo che vi ritenete in diritto
o in dovere di dare, e date solo un contributo che vi ritenete di poter
provare di avere il diritto o il dovere di dare.5 Relazione: siate pertinenti.
Modo: siate perspicui, cioè: (i) evitate oscurità d’espressione; (ii) evitate
ambiguità; (iii) siate brevi; (iv) siate ordinati nell’esposizione.
Le violazioni di queste massime sembrano la regola. Ma per lo più sono
violazioni apparenti. Tali violazioni apparenti generano implicature
conversazionali. A mezzogiorno A chiede a B di uscire insieme a cena, e
B risponde: “Stasera c’è un concerto.” La risposta, a prima vista, sembra
irrilevante: che stasera diano un concerto non impedisce di andare a cena
fuori. Forse B non rispetta la massima della pertinenza. No, più
probabilmente, B la rispetta, e segue il principio di cooperazione: B vuole
andare al concerto stasera; a quel concerto non si può andare un altro
giorno, mentre a cena fuori sì; andare al concerto e andare fuori a cena
sono due attività (quasi) incompatibili; B sa che A è in grado di capire
che questo è il caso; dunque, B implica (conversazionalmente) che
5
Le massime sono state date originariamente per contributi conversazionali informativi, ed erano
state formulate pressapoco così: (Quantità) Dare un contributo conversazionale di misura
opportuna (cioè (i) non meno (ii) né più informativo) di quanto è richiesto.
(Qualità) Dare un contributo che sia vero. Cioè non dite ciò che credete essere falso e non dite ciò
per cui non avete prove adeguate.
11
preferisce uscire a cena un altro giorno. La sua risposta è rilevante. Il
punto è che non tutto ciò che vogliamo intendere è codificato
esplicitamente in quello che diciamo. Una parte è strutturalmente
scaricato su un meccanismo inferenziale che ha come assioma proprio il
principio di cooperazione (o le massime ad esso allegate).
Un’implicatura conversazionale viene colta, di solito, intuitivamente, ma
una condizione essenziale, appunto perché c’è dietro un meccanismo
inferenziale, è che l’intuizione possa essere sostituita da un ragionamento
analogo a quello esemplificato poco fa. Se non è sostituibile, allora o
non c’è alcuna implicatura o ce n’è una convenzionale.
Oltre alla condizione essenziale appena indicata, ci sono due test per
controllare se ci troviamo di fronte a un’implicatura conversazionale.
Un’implicatura del genere è esplicitamente cancellabile. B, nell’esempio
che abbiamo visto prima, potrebbe aggiungere “Ma verrò lo stesso
volentieri a cena con te.” (Allora, il suo parlare del concerto, indica che
bisognerà andare a cena tardi, dopo il concerto, o fare una cena rapida, o
che ci tiene molto all’invito di A, ecc.) Inoltre, un’implicatura
conversazionale non è separabile. Non è possibile cioè trovare un altro
modo di dire esattamente quanto è stato detto (a meno che non si venga
così a violare la massima del modo) che non consenta di trarre
l’implicatura.
Le implicature conversazionali possono essere particolari, ricavabili cioè
da quanto è stato detto in base ad alcune peculiarità del contesto in cui è
stato detto, come l’implicatura di non voler andare a cena che A ricava
quando B gli dice: “Stasera c’è un concerto.” Le implicature possono
però essere anche generalizzate, tali cioè da poter essere tratte, in
circostanze normali, da ogni uso di una certa forma linguistica. Esempi
caratteristici di forme che comportano implicature conversazionali
generalizzate sono, secondo Grice, le controparti nei linguaggi naturali
delle costanti logiche. Vediamo tre esempi, ‘o’, ‘se ..., ___’ e ‘il F’
(controparti rispettivamente di ‘v’, ‘...-->___’ ‘ x (F(x))). Il significato
(vero-funzionale) di “A o B” è che “A o B” è vero se e solo se è vero A
o è vero B. Ma, per la massima della qualità, chi sappia quale tra A e B è
vero, dicendo “A o B” risulterebbe meno informativo che se dicesse
semplicemente “A”, se è A che sa vero. L’uso di “A o B”, sempre
attribuendo a ‘o’ il suo significato vero-funzionale, risulta però
conversazionalmente appropriato quando si vuole implicare che si hanno
ragioni non vero-funzionali per sostenere che A o B -- per non dire
quanto non è in grado di provare. Una cosa del genere la facciamo, per
esempio, quando diciamo “Lucia arriva col treno delle 7 o con quello
delle 8.”
La distinzione fra ciò che viene detto e ciò che viene implicato, che è alla
12
base di “Logic and Conversation”, è stata costruita originariamente
sull’assunto che il comportamento di chi conversa sia intenzionale -- che
ciascuno scambio linguistico sia un’attività ordinata ed abbia un punto -o più in generale che sia razionale -- si ricordi che la possibilità di
ricostruire l’implicatura (conversazionale) come un’inferenza è una
condizione essenziale per affermare che c’è una tale implicatura. Sulle
stesse assunzioni è costruita anche la teoria del significato basata,
appunto, sulla nozione di intenzione. La razionalità di questa emerge
immediatamente se si riflette sul fatto che il parlante per significare
occasionalmente qualcosa, cerca, con un proferimento, di conseguire un
effetto su chi lo ascolta -- di fargli credere o di fargli fare qualcosa. La
scelta dei mezzi appropriati allo scopo è probabilmente un tratto
indispensabile già per qualificare un comportamento come intenzionale,
o se si vuole l’intenzionalità è un tratto costitutivo della razionalità.
Questa è la teoria del linguaggio di Grice, cui i saggi non pubblicati o
quelli qui non ripubblicati aggiungono perfezionamenti di dettaglio.
L’idea centrale, quella di derivare il significare dall’intendere, non è in sé
affatto nuova. Si ritrova per esempio in un gran numero di studiosi
medievali. Nuovi sono semmai il modo in cui tale idea è argomentata e
il dettaglio con cui è articolata.
Per valutare la teoria del linguaggio di Grice può essere opportuno
confrontarla con altre, come quella di Frege o quella di Davidson.
Confrontiamola con la prima, quella abbozzata da Frege. Innanzitutto,
l’architettura delle due teorie. Frege distingue tre livelli nella teoria del
significato: tono o colore, senso e forza. La teoria griceiana basata sul
concetto d’intenzione fa una distinzione preliminare, fra ciò che viene
detto e ciò che viene implicato, e distingue ciò che viene implicato in
implicature convenzionali e implicature conversazionali (generalizzate o
particolari). Il senso e la forza vengono ricondotti al significato di
quanto è stato detto. Il colore e il tono, invece, appaiono implicature
convenzionali di quanto viene detto. A differenza di Frege, però, Grice
è in grado di rendere conto del fatto che un’espressione dotata di un
certo senso e di una certa forza, può avere, localmente o in generale,
delle implicature, che potrebbero essere esplicitate servendosi di
espressioni dotate a loro volta di senso o di forza. Un esempio lo
forniscono gli atti linguistici indiretti -- proferimenti di enunciati che
hanno una certa forza letterale ma che per un’implicatura valgono anche
quanto può essere espresso da enunciati dotati di un’altra forza, per
esempio la domanda “Puoi passarmi il sale?” può implicare
conversazionalmente, e spessissimo implica, la richiesta “Passami il sale”.
Ma le concezioni filosofiche alla base delle due teorie sono assai diverse.
13
Frege concepisce il senso come oggettivo ed insiste moltissimo nel
distinguerlo dalle rappresentazioni soggettive. La semantica, come la
logica, per Frege non ha niente a che fare con la psicologia. La teoria
griceiana basata sul concetto d’intenzione invece è fondata su una teoria
(di psicologia filosofica) della razionalità. Inoltre, il principio di
contestualità introdotto da Frege nei Fondamenti dell’aritmetica -- “è
soltanto nel contesto di una proposizione [un enunciato] che le parole
hanno un significato” -- chiaramente non vale nella teoria del significato
basata sul concetto d’intenzione, in cui il significato di ogni espressione
semplice (o non strutturata) è introdotto per conto suo, in un contesto
appropriato. La teoria griceiana, a differenza di quella fregeana, non è
affatto una teoria olistica del significato. Non si tratta affatto di
interpretare, tutta in una volta, un’intera lingua o un intero frammento di
una lingua. Il principio di contestualità è un principio olistico, perché
dice che la minima unità interpretabile è un intero complesso,
precisamente una proposizione (un enunciato).6
Comunque, come capita con tutte le buone teorie, alcuni elementi della
teoria del significato di Grice sono ormai una parte istituzionale, per così
dire, delle teorie del significato. Innanzitutto, la teoria delle implicature
conversazionali, con la distinzione tra ciò che viene detto e ciò che viene
ricavato da ciò che viene detto aggiungendo le massime della
conversazione come assiomi propri. L’idea del significato occasionale
del parlante è un altro elemento della teoria di Grice che è divenuta parte
quasi istituzionale di una teoria analitica del significato. E’ difficile però
capire come la parte di logica e conversazione possa integrarsi in una
teoria che non integri anche qualche meccanismo intenzionale.7
Fin qui mi sono soffermato soprattutto su come, secondo Grice, ha
(concettualmente) origine il linguaggio e su come si articola una lingua.
Temi tutti “interni” o quasi alla filosofia del linguaggio. Come
testimonia già l’interesse centrale della teoria griceiana per l’origine
concettuale del linguaggio, il significato occasionale del parlante, Grice
aveva anche tutta una serie di interessi “esterni”, che presenterò fra poco
sotto l’etichetta “teoria dell’essere razionale”, che toccano diversi temi di
metafisica, etica, psicologia filosofica, e altri temi generalmente
fondazionali e metodologici. Ci sono comunque due primi temi “esterni”
che si presentano ancora immediatamente come riflessioni sul linguaggio:
la relazione fra significaton e significatonn, e il problema del perché gli
6
7
La teoria fregeana è solo moderatamente olistica, perché prende in considerazione un complesso
relativamente piccolo. Esempi di olismo radicale sono invece la teoria di Quine e quella di
Davidson. Forme di olismo che pensano all’interpretazione di un’intera lingua in un colpo solo.
Kripke [1977] prospetta un’integrazione del genere, e non ha problemi perché la sua teoria del
riferimento già usa la nozione di intenzione.
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uomini hanno sviluppato il linguaggio.
La relazione fra significaton e significatonn, viene affrontato in “Meaning
Revisited”. Supponete che una creatura possa produrre volontariamente
un comportamento che, prodotto involontariamente, è (parte di) un
comportamento di dolore. Potrebbe allora produrlo per ingannare gli
altri. Ma supponete che gli altri si rendano conto che un simile
comportamento può essere simulato. Questo potrebbe portarli a
pensare che, quando quel particolare comportamento viene prodotto, chi
lo produce non prova effettivamente dolore. Chi produce quel
comportamento volontariamente allora potrebbe, nel produrlo, cercare
di far capire agli altri che lo produce volontariamente, portandoli dunque
a escludere che si tratti propriamente di simulazione. Perché però
produrre un comportamento del genere? Per conseguire quale effetto
sugli altri? Il candidato più “naturale” è proprio lo stesso effetto che
quel comportamento produce quando è involontario, cioè far credere
che prova dolore. Più esattamente, producendo quel comportamento
volontariamente, vuole non solo dare delle ragioni per credere che prova
dolore, cosa che accade anche quando lo produce involontariamente, ma
mettere sotto gli occhi, far sì che ci si accorga, appunto comunicare, che
prova dolore. Dunque, il significatonn nascerebbe come uso non-naturale
di un segno dotato di significaton.
Nello stesso articolo, ma anche in altri saggi, Grice inventa poi una storia
per mostrare il valore, e la razionalità, dell’avere un linguaggio.
Immaginiamo di dover costruire una creatura complessa, anzi una serie
di creature via via più complesse. Ciascun tipo è caratterizzato dall’avere
certi scopi, il problema sta nel precisare che abilità deve avere per poterli
realizzare. Supponiamo di aver costruito creature tali che, fra l’altro: (i)
se desiderano P e credono che se P allora q, allora desiderano q; (ii) se
desiderano P e desiderano q, allora se agiranno, agiranno spinti dal più
forte dei due desideri; (iii) che siano in grado di modificare i propri
principî valutativi. Se più creature del genere vivono nello stesso
ambiente, sarà importante per la loro sopravvivenza, oltre che per la loro
felicità (perché cioè possano soddisfare i propri desideri) che possano sintendere, ovvero significare, ovvero usare una lingua dotata di
significato. Se dobbiamo dotarli di un capacità del genere per
ottimizzarli, è, secondo Grice, razionale che esseri del genere posseggano
un’abilità del genere. Ora, noi siamo creature del genere. (I valori
intervengono, forse, anche nell’usare il linguaggio, come avevamo visto,
precisamente nel significato occasionale del parlante: questi si serve di
valori per giudicare soddisfacente una serie finita di intenzioni e fermare
così il potenziale regresso all’infinito).
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Teoria dell’essere razionale
Grice considera la teoria del linguaggio parte di una teoria dell’essere
razionale, o degli esseri razionali. Molti spunti sono già emersi qua e là in
quanto s’è visto -- per esempio quando poco fa ho parlato di intenzioni e
razionalità nella logica e conversazione e nella teoria del significato. Altri
possono essere colti riflettendoci sopra. Grice cerca di spiegare la
nozione di significato servendosi di alcuni atteggiamenti psicologici -l’intendere (o volere) e il credere, nonché il valutare. Con questo va
subito al di là di una teoria tutt’interna del linguaggio. Altri spunti, infine,
sono stati introdotti esplicitamente, come quelli presentati per spiegare
perché avere un linguaggio.
I due saggi più importanti, da questo punto di vista così generale, mi
sembra siano “Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” e
“Method in Philosophical Psychology (From the Banal to the Bizarre)”,
entrambi in The Conception of Value (il primo ripresenta la sezione
finale di “Reply to Richards”, cioè di Grice [1986]). “Method in
Philosophical Psychology” discute la primitività di due atteggiamenti
psicologici, giudicare (generico atteggiamento che ha come esempio
marcato il credere) e volere. In effetti, quando ci si prova a definirli
siamo costretti a usare, magari addirittura entrambi, gli atteggiamenti nel
definiens. Si prenda, per esempio, nella definizione disposizionale di
“credere”: una persona crede che P solo se è disposta, quando vuole
conseguire un certo fine F, quando crede che P sia vero, ad agire in modi
che, quando P è vero, la portano a realizzare F. Questa definizione è
circolare. Grice, poi, mostra come si possono sviluppare per stadi
atteggiamenti psicologici complessi, con un processo di internalizzazione.
Prima ci sono cose e atteggiamenti verso cose, poi ci sono atteggiamenti
verso cose mediati dalle rappresentazioni di esse, fino ad atteggiamenti
che riguardano altri atteggiamenti propri ed altrui mediati anch’essi da
rappresentazioni. Gli atteggiamenti psicologici sono il tratto distintivo,
essenziale, dell’essere razionale.
“Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” offre
un’argomentazione più strettamente metafisica dello sviluppo di esseri
razionali, mostrando come la razionalità stessa possa essere un valore.
La procedura fondamentale è una procedura metafisica costruttiva (o
razionalmente ricostruttiva)che introduce dei “genitori”, che poi siamo
noi stessi, che affiniamo riflettendo su noi stessi la nostra razionalità
come strumento fondamentale per la nostra sopravvivenza e per
realizzare al meglio i nostri fini. Tanta è la parte che la razionalità viene
ad avere così per noi che il suo sviluppo viene a costituire il nostro fine
16
proprio e un valore assoluto.
Non tratterò qui di nessun altro saggio, anche se alcuni si raccomandano
vivamente al lettore. Come “Postwar Oxford Philosophy” (sul metodo
filosofico-linguistico), “In Defense of a Dogma” (scritto insieme a P.F.
Strawson) (in difesa della distinzione analitico/sintetico), “The Causal
Theory of Perception” (in difesa di questa teoria della percezione, ma
anche di certe locuzioni fenomenistiche) e “Retrospective Epilogue”
(che inquadra molto del lavoro fatto).
Alcune osservazioni.
Comincerò con l’evidenziare alcune delle peculiarità della teoria del
linguaggio di Grice.
Riprendendo e ampliando una famosa idea di Austin, da questi sostenuta
con vigore, la teoria griceiana del significato presenta innanzitutto il
significare come un agire, primariamente come un agire in una situazione
sociale minima, una situazione faccia a faccia. Così cerca di spiegare la
nascita e la dinamica del significato, e cerca di farlo non mettendo giù
alcune considerazioni generali -- limitandosi a parlare, per esempio,
dell’origine sociale del linguaggio -- ma presentando l’atto del significare
come il produrre un effetto su un ascoltatore paradigmaticamente in una
situazione faccia a faccia.
Trattando insieme dell’origine e della dinamica del significato, la teoria di
Grice è, mi sembra, indipendente dalle situazioni originarie. Ogni
singolo significare è un atto che può introdurre un significato
(parzialmente) nuovo. Ciò che è successo prima certo lo condiziona, in
due modi. Primo, il proferimento cui chi parla ricorre può essere il
proferimento di una frase che normalmente riesce a conseguire l’effetto
che chi parla vuole conseguire. Questo gli garantisce la massima
possibilità di essere correttamente inteso da chi lo ascolta. Secondo,
sfruttando, combinatoriamente, il significato atemporale delle espressioni
della lingua, si possono dire cose che difficilmente si potrebbero dire
altrimenti e si può generare significato a partire da significato.
Un altro tratto interessante della teoria di Grice è il suo psicologismo
filosofico. Diversi filosofi analitici del linguaggio sono stati psicologisti,
ma l’immagine che ci è tramandata dai manuali è quella di una serie di
teorie antipsicologistiche, a cominciare da quelle di Frege e Wittgenstein.
Comunque, la posizione di Grice si distingue anche da altre posizioni,
come quella di Quine, perché il suo psicologismo è filosofico e non
scientistico. L’ineliminabile infondatezza degli atteggiamenti psicologici
17
basilari (o il regresso all’infinito che si ritrova nei tentativi di definirli)
mostra semplicemente che sono concettualmente primitivi.
Specificamente, cercare di spiegare l’origine del linguaggio a partire da
atteggiamenti psicologici potrebbe consentire di spiegare l’introduzione
del linguaggio senza prima richiedere una qualche capacità
rappresentativa.8
La teoria del linguaggio è, per Grice, parte di una teoria degli esseri
razionali. Il dotare un essere razionale del linguaggio è dargli maggiori
possibilità per conseguire il proprio fine, per esercitare e articolare cioè la
propria razionalità. Contemporaneamente, porre degli esseri razionali,
dotati di razionalità e dunque innanzitutto di atteggiamenti psicologici e
di valori (la razionalità stessa essendo il valore fondamentale) consente di
spiegare la nascita e lo sviluppo del linguaggio.
Alcune delle tesi sono però solo abbozzate e difese spesso da pezzi di
argomentazioni e non da argomentazioni complete, e la teoria di Grice
richiederebbe del lavoro ulteriore che, in filosofia, è difficile immaginare
che qualcun altro possa fare.
Ci sono del resto anche problemi specifici all’interno delle parti finite
della teoria del linguaggio di Grice che sono stati risolti in maniera, a mio
avviso, tutt’altro che soddisfacente. Per prima cosa la formulazione
finale di (S-I) (che non ho riprodotta e che si trova in “Logic and
Conversation” 5, 114-5) è assai poco soddisfacente. Questa attribuisce
in un colpo a chi parla un’intenzione estremamente complessa che
quantifica su proprietà di persone, caratteristiche di enunciati, modi di
correlazione (iconici, associativi, convenzionali), un’intenzione con tre
clausole, la prima delle quali ha quattro sottoclausole e la terza delle quali
ha due sottoclausole. Come sempre, lo scopo è quello di superare alcuni
presunti controesempi del genere di quelli che abbiamo visto. Tale
formulazione è insoddisfacente perché è assai dubbio che i parlanti
quando intendono significare qualcosa intrattengano un atteggiamento
mentale così complesso. Una soluzione diversa, a mio avviso
perseguibile, sarebbe riesaminare i controesempi e vedere se sono
davvero tali. Credo che non lo siano, e che si possa dimostrarlo andando
8
L’internalizzazione dei contenuti negli atteggiamentilo suggerisce. (“Method in Philosophical
Psychology”, 145 e sgg.) Questo non comporta affatto che gli atteggiamenti siano presentati come
cause, se non in un senso analogico, dei contenuti linguistici. (“Logic and conversation” 7, 142)
Una critica radicale della teoria griceana si trova in Schiffer [1987]. Schiffer ritiene la teoria griceana
il miglior programma possibile, ma pensa anche che non riesca a produrre una teoria del significato.
Schiffer pone dei requisiti a una teoria filosofica del significato per poterne essere soddisfatto,
inannzitutto che offra un’analisi riduzionistica dei concetti che esamina. Schiffer vorrebbe in
particolare che un’analisi del significato riducesse la semantica alla psicologia e questa alla fisica.
Anche senza condividere queste esigenze, le sue critiche mettono in dubbio già l’elucidazione della
semantica per mezzo della psicologia filosofica perseguita, a mio avviso, da Grice.
18
ad esplorare con maggior cura quel tipo di significato che Grice in
complesso trascura, e cioè il significaton. Lo stesso Grice sembra del
resto suggerire una cosa del genere. (“Logic and Conversation” 5, 116)
Un secondo problema riguarda la caratterizzazione dell’effetto che il
parlante persegue: in “Logic and Conversation” (105 e 108), modificando
la propria versione precedente Grice sostiene che il parlante persegue
l’obiettivo di far credere che crede o di far che si voglia, piuttosto che
quello di far credere o di far fare. Perché anche non far credere che
vuole che si voglia? Mi limito a un’osservazione sul far credere che si
creda. Quello che si vuole stabilire via (S-I) è il significato
dell’espressione x, che non è che P crede x, ma appunto x. Certo chi
dice x, come mostra il paradosso di Moore, deve sostenere che crede
(che) x. Infatti, non può dire “x ma non credo che x”. Ma
evidentemente chi dice “x” non dice “Credo che x”. Inoltre, perché
quest’ultimo enunciato possa avere effettivamente un significato, bisogna,
prima, che x abbia significato.9
Recentemente, Schiffer ([1987]) ha sostenuto che i concetti semantici ci
sono e non sono riducibili a concetti psicologici. Non riusciremmo,
secondo Schiffer, a spiegare gli atteggiamenti psicologici che il parlante
vuole indurre nell’ascoltatore senza assumere come già interpretato
anche quanto del linguaggio l’atto del significare dovrebbe introdurre, ex
novo o come modificazione di linguaggi precedenti. Una difficoltà assai
simile, anche se forse non la stessa, mi pare possa essere indubbiamente
sollevata nei confronti dell’analisi griceiana. Un po’ di sfondo. Per
spiegare il significato«MDSU»nn«MDNM» delle espressioni
subenunciative -- nomi e espressioni predicative -- Grice parla di
espressioni correlate a oggetti o a insiemi di oggetti. Ora se le parti
subenunciative sono già così collegate indipendentemente dall’atto di
significare sembra proprio che abbiamo già in mano tutto quanto ci serve
per parlare almeno del significato di queste parti subenunciative, prima di
prendere in considerazione l’atto stesso di significare. Una spia della
difficoltà è la caratterizzazione riconosciutamente inadeguata della
relazione di correlazione (“Logic and Conversation” 6, 132 e sgg., in
particolare la nota 1 a p. 133.)
Come dicevo all’inizio, quasi ogni argomentazione di Grice contiene
anche una sottoargomentazione a favore dello scettico e due contro,
toccando dunque sempre uno dei grandi temi della filosofia, tipico fra
l’altro di tutto l’empirismo britannico. Tre sono le argomentazioni
9
La questione della caratterizzazione dell’effetto che il parlante persegue è discusso, per esempio, in
Bennett [1976], §§40-1.
19
ricorrenti in Grice: (a) la filosofia del linguaggio ordinario, alla Austin,
offre a un tempo una dimensione intersoggettiva e la possibilità di un
accertamento sistematico degli enunciati del senso comune, enunciati che
possono essere messi in questione solo con buone ragioni. (b) per
accettare le conclusioni scettiche -- per esempio, una posizione
fenomenista, che non richieda l’esistenza degli ordinari oggetti materiali,
piuttosto che una fisicalista -- può accadere che ci sia bisogno di
un’ulteriore teoria che esiga, a sua volta, proprio ciò alla cui esistenza
non ci si voleva impegnare -- per esempio, circa il corpo di chi
percepisce. (c) lo scettico presenta la sua argomentazione come
un’argomentazione razionale. Anche se lo scettico è forse disponibile ad
ammmettere che la razionalità localmente manchi, difficilmente può però
accettare che la razionalità venga a mancare del tutto. Ma allora deve
accettare tutte le precondizioni della razionalità -- l’esistenza del soggetto
che dubita, la libertà, ecc.
Grice fu un filosofo che pur non disdegnando affatto i compiti
descrittivi era naturalmente portato a rivedere le idee e le interpretazioni
correnti, accontentandosi a volte di introdurre modifiche di dettaglio e
altre volte puntando a cambiare alcune convinzioni diffuse cui veniva
dato una ruolo centrale. Sistematico per inclinazione, non fu abbastanza
sistematico di fatto per lasciarci qualcosa di diverso da quello che questi
due libri ci danno, e cioè dei saggi, molti dei quali però stanno così bene
insieme che sembrano scritti come parti di uno stesso libro.
Bibliografia
B. Bennett [1976] Linguistic Behavior (Cambridge at the University Press).
R. Grandy & R. Warner, eds., Philosophical Grounds of Rationality (Oxford Clarendon Press 1986).
H.P. Grice [1986] “Reply to Richards” (in Philosophical Grounds of Rationality, R. Grandy & R.
Warner eds., Oxford at the UP 45-106).
D. Kaplan [1969] “Quantifying In” (in Words and Objections, a cura di D. Davidson e G. Harman,
Dordrecht Reidel 178-214).
A. Kemmerling [1986] “Utterer’s meaning revisited” (in Philosophical Grounds of Rationality, R.
Grandy & R. Warner eds., Oxford at the UP 131-56).
S. Kripke [1977] “Speaker’s Reference and Semantic Reference” (in Midwest Studies in Philosophy, H.
Wettstein & al. eds., 1977, 1-27; tr. it. di C. Penco in Significato e teorie del linguaggio a cura di A.
Bottani e C. Penco, Milano Angeli 1991, 18-52).
S. Schiffer [1972] Meaning (Oxford at UP).
S. Schiffer [1987] Remnants of Meaning (Cambridge Mass. Bradford Books/MIT Press).
J. Searle [1958] “Russell’s Objections to Frege’s Theory of Sense and Reference” (Analysis XVIII
137-43).
Le note dell’ultima lezione di questa settimana si sovrappongono a quelle della prima
della prossima settimana.