Il Pragmatismo (o Utilitarismo) Precursore di questo indirizzo filosofico fu senz’altro l’americano Charles Peirce (1839-1914) il quale per primo sottolineò che la filosofia è valida e va giudicata nel concreto, ovvero in base alle conseguenze pratiche, all’utilità che riesce a conseguire. Egli, convinto che il creato non sia deterministico ma casuale, sostiene che l’unico metodo corretto di conoscenza, anche per la filosofia, sia quello scientifico, basato sulle ipotesi (o abduzioni) fallibili (fallibilismo), cioè sempre relative e revisionabili, quindi mai assolute, e sulla verifica conclusiva. E’ considerato il padre della semiotica contemporanea, o scienza dei segni, secondo cui conoscere è sempre interpretare segni, perché senza la concretezza del segno (ciò che sta - ovvero media - tra l’oggetto e chi lo interpreta – ricordarsi del triangolo semiotico-) non ci sarebbe pensiero. Chi ha più contribuito alla diffusione del pragmatismo è William James (1842 – 1910), convinto sostenitore che il pensiero debba svilupparsi in funzione dell’azione utile, e che idee, teorie, ipotesi vadano giudicate in base alla loro riuscita pratica. D’altronde anche la nostra sensibilità seleziona tra le tante sensazioni che ci giungono in continuazione dal mondo esterno solo quelle che in quel momento ci risultano più utili. Selezioniamo e organizziamo gli elementi della realtà in funzione dei nostri bisogni dando così ordine e senso al mondo, che altrimenti sarebbe confuso e caotico. Soprattutto il senso e l’ordine li forniamo attraverso il linguaggio (ovvero la logica), che è la risorsa razionale umana più importante e potente. James concepisce il mondo come qualcosa sempre relativo e discontinuo, su cui elaboriamo teorie e a cui cerchiamo di dare risposte assiduamente, permettendone così una conoscenza migliore grazie alla nostra coscienza, che non è un’entità rigida e strutturata in maniera meccanica, ma è sempre in movimento, è sempre “flusso” incessante. Le idee non sono che ipotesi e progetti che non si riferiscono tanto a fatti dati, ma a fatti futuri che ci proponiamo di produrre con la nostra azione. “La verità di un’idea non è una sua stagnante proprietà. Un’idea diventa vera, è resa vera dagli eventi. La sua verità è di fatto un avvenimento, un processo: il processo del suo verificarsi, la sua verificazione. La sua validità è allo stesso modo il processo della sua convalidazione”. James è pragmatico anche in campo religioso: non è possibile dire se è meglio credere o non credere, né se una fede sia preferibile ad un’altra. Se credere aiuta a vivere meglio, a prescindere dalla religione scelta, allora è bene credere, altrimenti no. Tutto è sempre finalizzato all’utile esistenziale, anche quelle idee (metafisiche) che non possono beneficiare di dimostrazione scientifica. Ugualmente non è possibile dire se la vita abbia un senso o no. Per James bisogna scegliere di credere che la vita sia un’impresa dall’esito incerto, ma per la cui riuscita siamo tutti responsabili. Se avremo scommesso sul risultato positivo, contribuiremo a determinarlo. John Dewey (1859 – 1952) analizza a fondo il concetto di esperienza, che egli non ritiene semplicemente come gli stati di coscienza chiari e distinti, così come avevano fatto gli empiristi inglesi in passato, né riduce l’esperienza alla sola conoscenza. Considera invece l’esperienza come l’intero processo vitale, ovvero come l’insieme degli eventi in cui l’uomo si trova a vivere, per cui anche ciò che sfugge alla scienza (sogni, dolore, superstizione, morte, ecc.), e ciò che interpreta, registra, modifica. In definitiva l’esperienza per Dewey è tutta la storia umana, non solo la fisiologia delle sensazioni. L’uomo interagisce continuamente con natura e società: l’ambiente agisce sugli esseri umani condizionandoli, ma essi rispondono agli stimoli ricevuti e, adattandosi alle varie situazioni, modificano natura e società a loro volta. Fondamentale in questo processo è la conoscenza, che non può essere considerata semplice operazione momentanea ed attuale con cui il soggetto si limita a recepire un oggetto esterno a lui, ma un’operazione vitale tramite cui le informazioni gnoseologiche di cui si è in possesso si convertono in stimolo ad operare sulle stesse per trasformarle e per avanzare nuove ipotesi proiettate sul futuro. Il pensiero, insomma, non ha semplicemente il compito di registrare e descrivere la situazione data, ma è uno strumento (strumentalismo) per la sua trasformazione attiva, ovvero per il passaggio da una situazione dubbiosa e confusa a una nuova situazione più chiara, coerente, armoniosa. Le idee sono valide quando sono utili, ovvero quando forniscono soluzioni a problemi di carattere pubblico e oggettivo, e quando sono scientifiche, cioè quelle che guidano la ricerca, orientano l’osservazione empirica e avanzano ipotesi capaci di farci scoprire fatti nuovi. Questa logica, sempre proiettata verso il futuro, Dewey l’applica anche alla scuola, che non deve essere semplice mezzo per trasmettere nozioni aride agli studenti, ma ha il dovere di adoperarsi per far comprendere il presente, e permettere la formulazione di risposte per trovare soluzioni ai problemi attuali e futuri (scuola attiva). Ugualmente sviluppa un importante discorso sulla democrazia: essa non va considerata semplicemente come una determinata forma di governo, ma una forma di vita associata in cui, abbattendo le discriminazioni di classe, razza, nazione, venga realizzata quella comunicazione di esperienza e quella libera discussione capaci di soddisfare l’esigenza individualista della creatività personale con l’esigenza sociale del riferimento dei propri interessi a quelli di tutti gli altri. Alla democrazia è fondamentale il contributo della scienza e dell’educazione.