Antologia Testi Istituzioni di Storia della FIlosofia Antica

Università di Pisa
Corso di Laurea in Filosofia
Antologia di Testi del Corso di
Istituzioni di Storia della Filosofia Antica
a.a. 2006-2007
(prof. Bruno Centrone)
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Istituzioni di storia della filosofia antica
a.a. 2006-2007
Nascita della filosofia
Diogene Laerzio (III d.C.?), Vite dei filosofi I 1-3 (trad. M. Gigante)
PROEMIO
Affermano alcuni che la ricerca filosofica abbia avuto inizio dai barbari. Ed infatti Aristotele nel
libro Magico e Sozione nel libro ventitreesimo della Successione dei filosofi dicono che gli
iniziatori furono i Magi presso i Persiani, i Caldei presso i Babilonesi e gli Assiri, e i Gimnosofisti
presso gl'Indiani, i così detti Druidi e Semnotei presso i Celti ed i Galli. E che inoltre nella Fenicia
nacque Oco, nella Tracia Zamolsi e nella Libia Atlante. Gli Egizi dal canto loro sostengono che sia
stato Efesto, figlio di Nilo, a dare inizio alla filosofia, che fu in modo preminente coltivata dai
sacerdoti e dai profeti j che da questo fino ad Alessandro il Macedone trascorsero quarantottomilaottocentosessantatré anni, nel quale periodo si verificarono trecentosettantatré eclissi di sole,
ottocentotrentadue eclissi di luna. Il platonico Ermodoro nel libro Delle scienze matematiche
afferma che dai Magi - di cui il persiano Zoroastre fu il principe - fino alla conquista di Troia
trascorsero cinquemila anni; Santo di Lidia afferma che ne trascorsero seimila da Zoroastre fino al
passaggio di Serse e che a lui successero molti altri Magi dai nomi di Ostane, Astrampsico, Gobria
e Pazata, fino alla distruzione dell'impero persiano da parte di Alessandro. Ma codesti dotti non si
avvedono che attribuiscono ai barbari le nobili e perfette creazioni dei Greci, dai quali effettivamente ebbe origine non soltanto la filosofia, ma la stessa stirpe degli umani; ché Museo nacque in
Atene e Lino in Tebe.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi I 12
Questo è quanto concerne l'invenzione della filosofia. Per primo Pitagora usò il termine' filosofia' e
per primo si chiamò filosofo, discorrendo in Sicione con Leonte tiranno dei Sicionii o dei Fliasii,
come attesta Eraclide Pontico (385-320 a.C. ?.)nell'opera Sulla femmina esanime: nessuno infatti è
saggio, eccetto la divinità. Più anticamente si chiamava sapienza, e sapiente chi la professasse, ed
eccellesse nell'estrema cura dell'anima; filosofo era colui che accoglie la sapienza. I sapienti si
chiamavano anche sofisti e non solo i sapienti, ma anche i poeti; così chiama lodandoli Cratino
negli Archilochi Omero ed Esiodo ed i loro seguaci.
Cicerone (I a.C.), Tusculanae disputationes V 3,7-4,10
[3, 7] Questa attività filosofica risulta antichissima, però dobbiamo riconoscere che il suo nome è
recente. Chi può negare invero che la sapienza in sé sia antica, non solo di fatto, ma anche di nome?
Questo bellissimo nome le era attribuito dagli antichi per la conoscenza di tutte le cose divine ed
umane e dei princìpi e delle cause di ciascuna. Pertanto sia quei famosi sette, che dai Greci sono
chiamati sophòi e dai nostri connazionali sapienti, sia molte generazioni prima Licurgo, che la
tradizione fa contemporaneo di Omero in età anteriore alla fondazione della nostra città, sia già nei
tempi eroici Ulisse e Nestore sappiamo che furono sapienti e ne ebbero la fama. [8] Del resto la
tradizione non parlerebbe di Atlante che sostiene il cielo, né di Prometeo inchiodato al Caucaso, né
di Cefeo trasformato in costellazione insieme con la moglie il genero e la figlia, se intorno al loro
nome non si fosse creato il mito per la loro straordinaria competenza in astronomia. Tutti coloro
che, seguendo il loro esempio, dedicavano la propria attività alla contemplazione della natura, erano
ritenuti e chiamati sapienti, e tale nome si estese fino al tempo di Pitagora. Di lui narra Eraclide del
Ponto (IV a.C.), un alunno di Platone, uomo insigne per dottrina, il seguente episodio. Pitagora si
era recato a Fliunte e con Leonte, principe di quella città, aveva tenuto delle dissertazioni
dimostrando dottrina e facondia. Leonte, ammirato del suo ingegno e della sua eloquenza, gli chiese
in quale arte (ars=techne) fosse specializzato; e quello: « Io non conosco nessuna arte, ma sono
filosofo». Leonte fu meravigliato della novità del nome e gli chiese chi mai fossero i filosofi e che
differenza ci fosse fra loro e le altre persone. [9] Allora Pitagora rispose: « A mio parere la vita
umana è simile a una di quelle fiere che si tengono con grande apparato di giochi e sono frequentate
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da tutta la Grecia. Ivi infatti alcuni cercano la gloria e la fama di un premio nelle gare sportive, altri
sono attirati dal guadagno trafficando a comprare o a vendere, e c'è poi una categoria di persone, ed
è la più nobile, che non cercano né l'applauso né il guadagno, ma ci vanno come spettatori e
osservano attentamente quel che avviene e come avviene. Lo stesso è la vita umana: noi siam partiti
per questa vita da un'altra vita e da un'altra natura, come da una città verso un mercato affollato,
alcuni schiavi della gloria, altri del danaro; e vi sono certe rare persone che trascurano completamente tutto il resto e studiano attentamente la natura. Questi si chiamano amanti della sapienza,
cioè filosofi, e come nella fiera l'atteggiamento più nobile è fare da spettatore senza cercar
vantaggio alcuno, così nella vita lo studio e la conoscenza della natura è di gran lunga superiore a
tutte le attività»
[4, 10] Invero Pitagora non fu solo l'inventore del nome, ma diede sviluppo all'attività stessa. Dopo
la conversazione a Fliunte venne in Italia e sia nella vita pubblica che in quella privata arricchì la
Magna Grecia di splendide arti e istituzioni. In altra occasione forse parleremo della sua dottrina.
Ma l'antica filosofia fino a Socrate, che aveva seguito le lezioni di Archelao, discepolo di
Anassagora, si occupava dei numeri e dei movimenti, come pure dell'origine e della dissoluzione di
tutte le cose, e studiava accuratamente la grandezza, la distanza e le orbite delle stelle e tutti i
fenomeni celesti. Socrate fu il primo che fece scendere la filosofia dal cielo, la trasferì nelle città, la
introdusse anche nelle case e la rivolse ad interessarsi della vita e dei costumi, del bene e del male.
Platone, Apologia di Socrate, 20c-23c (trad. M. Valgimigli)
V. A questo punto potrebbe saltar su qualcuno di voi e dire: "Ma allora, o Socrate, che cos’è che fai
tu? da che parte sono venute fuori queste calunnie ? Ché certamente non già perché non facevi
niente di straordinario furono poi messe in giro tante dicerie sul conto tuo; questa voce non sarebbe
venuta fuori, se tu non avessi fatto niente di diverso da quello che fanno tutti. E dunque raccontaci
[d] che cos’è questo - ché non vogliamo di te giudicar così alla leggera". Chi dice così a me pare
dica bene; e io mi proverò a mostrarvi che cos’è che dette origine a tal voce e calunnia contro di me.
Ascoltatemi dunque. Forse a taluno di voi potrà, sembrare ch’io scherzi; no, voi lo sapete bene, io vi
dirò tutta intera la verità. E’ vero, o cittadini di Atene: non per altro motivo io mi sono procacciato
questo nome se non per una certa mia sapienza. E qual è questa sapienza? Quella che io direi
sapienza umana. Realmente, di questa, può darsi ch’io sia sapiente. Quei tali [e] invece di cui
parlavo or ora, o saranno sapienti di una sapienza più che umana, o io non so che cosa dire: certo la
sapienza di costoro io non la conosco; e chi dice il contrario mente, e dice così per calunniarmi. E
qui vi prego di non rumoreggiare, o cittadini ateniesi, neanche se vi sembri ch’io pronunci parola
troppo grande: ché non mia è la parola che sono per dirvi, quale ella possa essere; bensì è da riferire
a tale che è ben degno della vostra fiducia. Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che
natura, io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto certo Cherefonte.
Egli fu mio [21a] compagno fino dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e con voi
esulò nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto
a qualunque cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare
all’oracolo questa domanda: - ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiante: - domandò
se c’era nessuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno. Di
tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto.
[b] VI. Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la
calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in questo modo: "Che cosa mai vuole
dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma? Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser
sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuoi dire il dio quando dice ch’io sono il più sapiente
degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire". - E per lungo tempo rimasi in questa
incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente, sebbene assai contro voglia, mi misi a farne
ricerca, in questo modo. Andai da uno di [c] quelli che hanno fama di essere sapienti; pensando che
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solamente così avrei potuto smentire l’oracolo e rispondere al vaticinio: "Ecco, questo qui è più
sapiente di me, e tu dicevi che ero io". - Mentre dunque io stavo esaminando costui, - il nome non
c’è bisogno ve lo dica, o Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici questo tale con cui,
esaminandolo e ragionandoci insieme, feci l’esperimento che sono per dirvi; - ebbene, questo
brav’uomo mi parve, sì, che avesse l’aria, agli occhi dì altri molti e particolarmente di se medesimo,
di essere sapiente, ma in realtà non fosse; e allora mi provai a farglielo capire, che [d] credeva
essere sapiente, ma non era. E così, da quel momento, non solo venni in odio a colui, ma a molti
anche di coloro che erano quivi presenti. E, andandomene via, dovetti concludere meco stesso che
veramente di cotest’uomo ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva
pur darsi non sapesse niente né di buono, né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io
invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola
cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo. E quindi
me ne andai da un altro, fra coloro che avevano fama di essere più sapienti di quello; [e] e mi
accadde precisamente lo stesso; e anche qui mi tirai addosso l’odio di costui e di altri molti.
VII. Ciò nonostante io seguitai, ordinatamente, nella mia ricerca; pur accorgendomi, con dolore e
anche con spavento, che venivo in odio a tutti: e, d’altra parte, non mi pareva possibile ch’io non
facessi il più grande conto della parola del dio. - "Se vuoi conoscere che cosa vuol dire l’oracolo,
dicevo tra me, bisogna tu vada da tutti coloro che hanno fama di essere sapienti". - Ebbene, o
cittadini [22a] ateniesi, - a voi devo pur dire la verità, - questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio
esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ricerca
secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di
gente da poco, migliori di quelli e più saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregrinazioni e
le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo. - Dopo
gli uomini politici andai dai poeti, sì da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli [b] altri;
persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità.
Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi
domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O
cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si
può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli
argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, [c] che
non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come
gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che
dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E
insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più
sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche
da loro, convinto che ero da più di loro per la stessa ragione per cui ero da più degli uomini politici.
VIII. Alla fine mi rivolsi agli artisti: tanto più che dell’arte loro sapevo benissimo di non intendermi
affatto, [d] e quelli sapevo che gli avrei trovati intendenti di molte e belle cose. E non m’ingannai:
ché essi sapevano cose che io non sapevo, e in questo erano più sapienti di me. Se non che, o
cittadini di Atene, anche i bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti: per ciò solo
che sapevano esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presumeva di essere sapientissimo anche in
altre cose assai più importanti e difficili; e questo difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza.
Sicché io, in nome dell’oracolo, [e] domandai a me stesso se avrei accettato di restare così come
ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o di essere l’una cosa e l’altra,
com’essi erano: e risposi a me e all’oracolo che mi tornava meglio restar così come io ero.
IX. Or appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, [23a] molte inimicizie sorsero contro di me,
fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente:
perché, ogni volta che disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose
in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente
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sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza
dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma
solo usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire così: "O uomini, quegli
tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non
ha nessun valore". - Ecco perché ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la
parola del dio se ci sia alcuno fra i cittadini e tra gli stranieri che io possa ritenere sapiente; e poiché
sembrami non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste
nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa
veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema [c] miseria per questo mio
servigio del dio.
Platone, Liside 218 a-b (trad. B. Centrone)
«Per questo potremmo senz'altro dire anche che coloro i quali sono già sapienti non desiderano più
sapere, siano costoro dei o uomini; né d'altra parte desiderano sapere quelli che si trovano in una
condizione di ignoranza tale da essere cattivi: nessuno infatti che sia cattivo e insipiente desidera
sapere. Restano dunque coloro che hanno questo male, l'ignoranza, e tuttavia non sono ancora resi
da esso stolti né stupidi, ma [b] ancora ritengono di non sapere ciò che non sanno. Perciò
sicuramente desiderano sapere coloro che non sono ancora né buoni né cattivi; quanti invece sono
cattivi non desiderano sapere, e neppure i buoni; nei precedenti ragionamenti, infatti, ci si mostrò
che né il contrario è amico del contrario né il simile del simile. O non vi ricordate?» «Certamente»
risposero.
Platone, Simposio 201e-204c (trad. P. Pucci)
XXII. Ma te, ormai, ti lascerò stare; e invece, il discorso [d] intorno ad Amore, che già sentii da
una donna di Mantinea, Diotima - la quale era esperta di queste e di molte altre cose, e che una volta
agli Ateniesi, nell'imminenza della peste, procurò con un sacrificio un indugio di dieci anni del
morbo: quella stessa che istruì anche me nelle cose d'amore -, il discorso ch'essa mi tenne, dico,
cercherò di riferirvelo da me e a mio modo, per quanto mi riuscirà, movendo da ciò che s'è
convenuto tra me ed Agatone. E veramente occorre, Agatone, come tu dicevi, parlar prima di
Amore in sé, spiegando [e] chi sia e che natura abbia, e poi delle sue opere. Ora, mi sembra che il
metodo più agevole di discorrerne sia quello che la straniera seguì allora con me, interrogandomi.
Infatti anch'io le avevo detto cose simili, più o meno, a quelle che ora Agatone diceva a me, come
cioè Amore fosse un gran dio, e fosse amore della bellezza; ed essa mi dimostrò, confutandomi con
quegli stessi argomenti che io ho ora usati contro costui, come egli, secondo lo stesso mio
ragionamento, non fosse né bello né buono.
Ed io: - Che mai dici, o Diotima? Amore, quindi, è brutto e cattivo?
E lei: - Non dire eresie, bada! Pensi forse che, ciò che non sia bello, debba essere necessariamente
brutto?
- Ma certo. [202a]
- E quel che non sia sapiente, per forza ignorante? O non avverti che c'è qualcosa di mezzo fra
sapienza ed ignoranza?
- Che cosa?
- L'opinare rettamente, senza aver modo di darne ragione, non sai, disse, che non è sapere?
Perché, una cosa irrazionale, come mai potrebbe essere scienza? Ma neppure, d'altra parte, è
ignoranza; perché, come potrebb'essere ignoranza ciò che coglie il vero? Quindi, la retta opinione è
una cosa di questo genere: un che di mezzo fra comprensione ed ignoranza.
- E vero, risposi, quel che dici.
- Non costringere dunque ciò che non è bello ad esser [b] senz'altro brutto, e ciò che non è buono
ad esser cattivo. Così anche Amore, perché tu stesso convieni che non è né buono né bello,
cionondimeno non credere che debba esser brutto e cattivo: bensì qualcosa di mezzo tra questi
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estremi.
- Eppure, osservai, son tutti d'accordo nel dire che è un gran dio.
- Che intendi per tutti? ribatté: quelli che non sanno, o anche quelli che sanno?
- Tutti quanti, senz'altro.
E lei, ridendo: - Ma come, o Socrate, possono ammettere concordemente che sia un gran dio,
coloro che [c] dicono che non è nemmeno un dio?
- E chi son questi?
- Uno tu, rispose, e un'altra, io.
- Come fai a dir questo?
- E' facile. Rispondimi infatti: non dici tu che tutti gli dei sono felici e belli? o avresti il coraggio
di dire che qualcuno di loro non è né bello né felice?
- Io no certo, per Zeus!
- E felici chiami quelli che possiedono la bontà e la bellezza?
- Appunto.
- Ma per Amore hai già ammesso che, per la sua [d] mancanza di bontà e di bellezza, desidera
queste stesse qualità, di cui è privo.
- L'ho ammesso, infatti.
- E allora come potrebbe mai esser dio, chi non partecipa di bellezza e di bontà?
- In nessun modo, a quanto pare.
- Vedi dunque che anche tu non credi che Amore sia un dio?
XXIII. Ma allora, dissi, che mai sarebbe Amore? un mortale?
- Niente affatto.
- E allora che cosa?
- Come prima, rispose: qualcosa di mezzo fra il mortale e l'immortale.
- E cioè, Diotima?
- Un gran demone, o Socrate; infatti ogni natura demonica sta di mezzo fra il divino e il mortale.
[e]
- E che potenza ha? domandai.
- D'interprete e messaggero per gli dei da parte degli uomini, e per gli uomini da parte degli dei,
degli uni trasmettendo le preghiere e i sacrifizi, degli altri gli ordini e le ricompense dei sacrifizi.
Stando in mezzo tra loro, colma l'intervallo, in modo che l'universo risulti intrinsecamente
collegato. Dalla sua mediazione procede anche tutta la mantica, e l'arte dei sacerdoti concernente i
sacrifici, le iniziazioni e gl'incantesimi, e ogni specie di divinazione e di magia. Ché la divinità
[203a] non viene a contatto con l'uomo, e solo per opera d'Amore ha luogo ogni commercio e
colloquio dei numi coi mortali, sia nella veglia che nel sonno; e chi s'intende di tali cose è un uomo
demonico, mentre chi è pratico d'altro, di qualsiasi arte o mestiere, è un volgare profano. Ora, questi
demoni sono molti e di varia natura; e uno di essi è, anche, Amore.
- E chi sono, interruppi, suo padre e sua madre?
- E' piuttosto lungo, rispose, a raccontare, tuttavia te lo [b] dirò. In occasione della nascita di
Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto, e tra gli altri c'era anche il figlio di Saggezza, Ingegno
(Pòros). Dopo che ebbero pranzato, venne a chieder l'elemosina, come accade quando c'è un
festino, Povertà (Penìa); e stava vicino alla porta. Ingegno, intanto, ubriaco di nettare (ché il vino
non c'era ancora), entrato nel giardino di Zeus, vi era stato colto da un sonno profondo. Allora
Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto e
concepisce Amore. Ecco perché Amore, [c] generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin
dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo
anche Afrodite. E come figlio d'Ingegno e di Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzitutto, è
povero sempre, e tutt'altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi ruvido e ispido e scalzo
e senza tetto; [d] e abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire a ciel sereno sulle soglie
e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la
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miseria. Per parte del padre, d'altronde, è ardente insidiatore del bello e del buono, valoroso e
impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di
capire e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore ed esperto di filtri e sofista.
E non è nato né immortale né mortale, ma nello stesso giorno ora [e] germoglia e vive, quando gli
va bene, ora muore, e poi di nuovo risuscita grazie alla natura del padre; e quel che acquista gli
sfugge subito di mano, sicché Amore non è mai né povero né ricco. Anche tra sapienza (sophìa) ed
ignoranza (amathìa), egli sta in mezzo: e la ragione è questa. Nessuno degli dei filosofa, né aspira a
[204a] diventar sapiente; lo è già, infatti; e se mai altri sia sapiente, non filosofa. D'altra parte,
nemmeno gl'ignoranti filosofano, né desiderano diventar sapienti; ché proprio questo, anzi,
l'ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto (kalòs kai agathòs) né saggio (phrònimos) si crede
invece perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il
bisogno.
- Ma allora, o Diotima, domandai, chi è che filosofa, se non sono né i sapienti né gl'ignoranti?
- Chiaro anche per un bambino questo, ormai: son [b] quelli che stanno in mezzo tra gli uni e gli
altri, e tra cui è anche Amore. La sapienza infatti è tra le cose più belle, e Amore è amore del bello;
sicché è forza che Amore sia filosofo, e tale essendo stia nel mezzo tra il sapiente e l'ignorante. E
anche di questo il motivo è nella sua nascita: perché è nato di padre sapiente e ricco di mezzi, e di
madre non sapiente e povera. Questa dunque, caro Socrate, è la natura del demone. Che tu l'abbia,
d'altronde, immaginato altrimenti, non è cosa da [c] meravigliarsi: tu hai creduto, per quanto mi
sembra di poter congetturare dalle tue parole, che Amore fosse l'amato, non l'amante. Per questo,
penso, l'Amore ti appariva bellissimo. E difatti l'oggetto dell'amore è ciò che è veramente bello e
soave e perfetto e beato; mentre, chi ama, ha tutt'altro aspetto, quale io t'ho descritto.
Platone, Fedro 278 b-e (trad. P. Pucci)
LXIV. SOCR. Bene! Abbastanza è continuato il nostro svago sui discorsi! Ora tornandotene da
Lisia, digli che noi due, scesi alla fonte e al recesso delle Ninfe, abbiamo udito parole che ci hanno
imposto di inviare questo messag-[c] gio a Lisia e a quanti altri scrivono discorsi e a Omero e a
coloro che compongono poesia con o senza musica, e infine a Solone e a coloro che scrivono
componimenti politici ai quali danno nome di leggi: se ciascuno d’essi ha composto queste opere
con piena conoscenza della verità e può difenderle, dovendo venire alla prova di quanto ha scritto, e
se può dimostrare l’inferiorità dei suoi scritti in confronto della sua parola, quest’uomo non
dovrebbe essere chiamato con un nome tratto da questi scritti, ma con uno tratto da ciò in cui ha
posto il suo severissimo impegno. FEDR. [d] E qual nome gli assegni? SOCR. Chiamarlo sapiente
(sophòs) mi sembra, Fedro, eccessivo, e conveniente solo a un dio; ma chiamarlo amico della
sapienza (philòsophos) o qualcosa di analogo, meglio si adatterebbe e converrebbe all’essere suo.
FEDR. E gli starebbe del tutto a modo. SOCR. Ma colui che invece non ha nulla di più prezioso che
le sue composizioni o i suoi scritti, e passa le ore ad elaborarle sopra e sotto, [e] con aggiunte e
tagli, non lo chiamerai, e con ragione, poeta o logografo e legislatore? FEDR. Perché no?
Aristotele, metafisica I (A) 982b11-983a23 (trad.G. Reale)
Che, poi, essa (sc. la scienza cercata che ricerca i principi e le cause) non tenda a realizzare
qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato
filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in orìgine, a causa della
meraviglia (thaumàzein); mentre da principio restavano meravigliàti dì fronte alle difficoltà più
semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, 15 giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per
esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi
riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia
riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo,
filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. 20 Cosicché, se
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Nascita della filosofia
gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere
(epìstasthai) solo al fine di sapere (eidènai) e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo
stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava
alla vita ed anche all’agiatezza e al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di
conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo
25 ad essa; e,anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è
asservito ad altri, cosi questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine
a se stessa. Per questo, anche, a ragione si potrebbe pensare che il possesso di essa non sia proprio
dell'uomo; infatti, per molti 30 aspetti la natura degli uomini è schiava, e perciò Simonide dice che
« Dio solo può avere un tale privilegio» e che non è conveniente che l'uomo ricerchi se non una
scienza a lui adeguata. 983 a E se i poeti dicessero il vero, e se la divinità fosse veramente
invidiosa, è logico che se ne dovrebbero vedere gli effetti soprattutto in questo caso, e che
dovrebbero essere sventurati tutti quelli che eccellono nel sapere. In realtà, non è possibile che la
divinità sia invidiosa, ma, come afferma il proverbio, i poeti dicono molte bugie; né bisogna pensare
che esista altra scienza più degna di onore. Essa, infatti, fra 5 tutte, è la piu divina e la piu degna di
onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: (a) o perché essa è scienza che
Dio possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora, solo
la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una
causa e un principio, e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di
scienza. Tutte le altre scienze saranno più 10 necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore.
D'altra parte, il possesso di questa scienza deve porci in uno stato contrario a quello in cui eravamo
all'inizio delle ricerche. Infatti, come abbiamo detto, tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose
stiano in un determinato modo. Così, ad esempio, di fronte alle marionette che si muovono 15 da sè
nelle rappresentazioni, o di fronte alle rivoluzioni del sole o alla incommensurabilità della diagonale
al lato: infatti, a tutti coloro che non hanno ancora conosciuto la causa, fa meraviglia che fra l'una e
l'altro non vi sia una unità minima di misura comune. Invece, bisogna pervenire allo stato di animo
contrario, il quale è" anche il migliore, secondo che dice il proverbio. E cosi avviene, appunto, per
restare agli esempi fatti, una volta che si sia imparato: di nulla un geometra si meraviglierebbe di
più che se la diagonale fosse 20 commensurabile al lato. Si è detto, dunque, quale sia la natura della
scienza ricercata, e quale sia lo scopo che la nostra ricerca e l'intera trattazione devono raggiungere.
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Essere
Platone, Protagora 331c4-d1 (trad. F. Adorno)
SOCR. Eh no!, esclamai, non ho bisogno di mettere in discussione questo “se vuoi” questo ‘se ti
sembra’, ma ‘me’ e ‘te’, e dico ‘me’ e ‘te’, essendo convinto che solo allora il [d] ragionamento
potrà essere ottimamente discusso, qualora sarà levato via il ‘se’.
PARMENIDE fr. B 2 Diels-Kranz
"Orsù, io dirò –e tu porgi orecchio alle parole che odiquali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare:
l'una che è e che non è possibile che non sia (ouk esti mè èinai),
e questa è la via della Persuasione (giacché segue la verità),
l'altra che non è (hos ouk esti)e che è necessario che non sia (chrèon èsti mè èinai),
e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca.
Perché il non-essere (tò mè eòn) non puoi né conoscerlo
(è infatti impossibile), né esprimerlo."
(Trad. Pasquinelli).
"Ecco dunque che ti dirò, e tu ascolta e intendi il mio discorso,
quali sole vie di ricerca sia possibile concepire:
l'una, secondo cui è e non è dato non-essere,
è il cammino della persuasione la quale infatti tiene dietro alla verità
l'altra, secondo cui non è ed è lecito e necessario non essere
questa davvero ti dico che è un sentiero in cui non ci si orienta:
giacché non potresti conoscere quel che appunto non è (è infatti impossibile)
né potresti farne parola." (trad. G. Calogero)
"Suvvia, io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione, cioè quali sole via di ricerca siano
logicamente pensabili: e precisamente, in quale modo una esista e che non è possibile che non esista
–è il cammino della persuasione (infatti accompagna la verità)- e che l'altra non esiste e che è logico
che non esista: io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare; infatti non
potresti conoscere il non essere –che ciò non è fattibile- né esprimerlo." (trad. M. Untersteiner)
"Ecco che ora ti dico, e tu fa' tesoro del detto,
quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili:
l'una com' "è" e come impossibile sia che "non sia,
di persuasione è la strada, ché a verità s’accompagna,
l’altra come “non è”, come sia necessario “non sia”,
che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere:
mai capiresti ciò che “non è”, è cosa impossibile,
né definirlo potresti… (trad. G. Cerri)
PARMENIDE fr. B 6 Diels-Kranz
"Per la parola e il pensiero bisogna che l'essere sia (chrè to lèghein te noèin to eòn emmenai): solo
esso infatti è possibile che sia (èsti gàr èinai), e il nulla non è (medèn d’ouk èstin): su questo ti
esorto a riflettere.
Poiché da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,
ma anche da quella su cui errano i mortali che niente sanno,
uomini a due teste: poiché è l'incertezza
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Essere
che dirige nei loro petti l'oscillante mente". (trad. Pasquinelli)
"di necessità segue che esiste il dire e l'intuire l'essere –infatti esiste la loro esistenza- invece non
esiste il dire e l'intuire il nulla: a queste proposizioni ti comando di riflettere. Perciò da questa prima
via di ricerca ti tengo lontano; ma poi anche da quella ove uomini che nulla sanno sbandano, uomini
con due teste." (trad. Untersteiner)
"Questo va detto e pensato: quel che è è. Essere infatti è dato, mentre nulla non è: tali cose ti esorto
a ripetere a te medesimo. Quella via di ricerca è la prima da cui ti tengo lontano, e la seconda è
quella per cui mortali che nulla sanno errano, forniti di due teste." (trad. Calogero)
“Dire e capire dev’essere “essere”; l’”essere” esiste,
nessuna cosa “non è”; su questo ti invito a riflettere.
Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima,
poi da quest’altra, la quale persone che nulla sanno
s’inventano, gente a due teste:..” (trad. G. Cerri)
Platone, Sofista 235b-241 b (trad. A. Zadro)
LO STRANIERO Seguendo dunque il metodo d’analisi [d] diairetica fino ad ora usato, anche nel
caso presente mi pare di vedere due specie dell’arte che è oggetto d’indagine, dell’arte di imitare
(mimetikè). Però il carattere preciso che andiamo cercando di scoprire debbo dire che ancora non mi
pare d’essere in grado di sapere in quale di queste due specie sia. TEETETO Ma intanto tu comincia
col dire e col distinguere per noi le due specie di cui parli. LO STR. Dell’arte dell’imitare, una parte
ch’io vedo è l’arte del rappresentare (eikastikè). Questa si trova specialmente quando uno realizza
una imitazione rappresentando il suo modello in modo da mantenerne le interne proporzioni in
lunghezza, larghezza e profondità, e, oltre a ciò, fornisce all’imitazione anche i [e] colori che
convengono a ciascun particolare. TEET. Ma come? Forse che non cercano di far ciò tutti coloro
che imitano qualcosa? LO STR. Non direi che lo facciano tutti quelli almeno che foggiano o
dipingono opere grandi. Se infatti realizzassero le imitazioni rispettando veramente i rapporti
proporzionali interni alle cose belle imitate, tu sai bene che le parti superiori apparirebbero più
piccole [236a] del dovuto, e più grandi quelle inferiori, per il fatto che quelle noi vediamo da
maggior distanza, queste più da vicino. TEET. Certamente. LO STR. Non si deve dunque pensare
che oggi gli artefici, trascurando la verità, realizzano nelle immagini che essi fanno, non le
proporzioni che sono reali, ma invece quelle che possano apparire belle volta per volta? TEET.
Assolutamente. LO STR. Non è quindi giusto chiamare l’altro tipo di opere, dato che è [b] simile al
vero, ‘rappresentazione’? TEET. Sì. LO STR. E non è giusto chiamare la parte dell’arte dell’imitare
che vi si riferisce, come pure prima dicemmo, ‘arte del rappresentare’? (eikastikè) TEET. Bisogna
dire così. LO STR. Ebbene? Come chiamare ciò che appare somigliante al bello a chi giudichi da un
punto di vista che non è quello della vera bellezza, ma a chi avrà avuto modo di osservarlo bene, in
opere di tali dimensioni, non apparirà neppure somigliante a ciò cui pretende di somigliare? Non
dovremo chiamarlo ‘apparenza’ (phàntasma), se appunto appare somigliante al bello, ma di fatto
non lo è? TEET. Direi di sì. LO STR. Non è [c] questo un aspetto molto vasto ed importante sia
della pittura sia di tutta l’arte dell’imitare? TEET. Come no? LO STR. L’arte che realizza apparenze
e non rappresentazioni non sarebbe giusto allora denominarla ‘arte dell’apparenza’? TEET.
Giustissimo. LO STR. Sono dunque queste due le specie dell’arte del fare immagini, quelle di cui
parlavo, l’arte del rappresentare e quella dell’apparenza (phantastikè). TEET. Giusto. LO STR.
Quanto a ciò poi su cui anche allora ero incerto, in quale delle due includere la sofistica, nemmeno
ora so vederci chiaramente; il sofista [d] è proprio un uomo strano, difficilissimo a scorgersi; anche
ora proprio in modo abile ed astuto ci è sfuggito, andando a rifugiarsi in una specie che offre
estrema difficoltà a chi la vuole investigare. TEET. Pare di sì. LO STR. Ma tu mi dai il tuo
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assentimento perché conosci che è vero quanto dico, oppure un certo slancio ti ha trascinato, per
abitudine di rispondere così, ad assentire immediatamente? TEET. Che intendi dire e a quale scopo?
XXIV. LO STR. Mio caro, ci troviamo veramente nel corso di una ricerca piena di difficoltà. Il
fatto che una [e] cosa appaia e sembri (phàinesthai, dokèin)in qualche modo, ma non sia (mè èinai),
che si dica qualche cosa e non sia cosa vera, tutto questo comporta difficoltà (aporìas)
innumerevoli, e ciò sempre nel passato e ciò oggi ancora. Come debba uno che parla affermare e
pensare che il falso veramente sia, senza cadere così in una [237a] contraddizione (enantiologhìa),
questo, Teeteto, è assolutamente difficile da indicare. TEET. Perché? LO STR. Perché quel discorso
osa fondarsi sull’ipotesi che è ciò che non è (tò mè on èinai). Non altrimenti che su questa base
infatti sarebbe il falso, se fosse. Il grande Parmenide, figlio mio, dal principio alla fine della sua
opera questo ha testimoniato per noi che allora, eravamo bambini, così dicendo ogni volta in prosa e
pure in versi:
Mai tu costringerai ad essere ciò che non è,
tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano il pensiero.
Egli ci dà questa testimonianza. Ma più di ogni altra [b] cosa è il discorso stesso, se giustamente
analizzato, che ci potrebbe rivelare ciò. Vediamo dunque questo prima di ogni altra cosa, a meno
che tu non sia d’altro parere. TEET. Tu decidi pure per me come vuoi e quale sia la via per cui
possa meglio procedere il discorso vedi tu e tu stesso di là prosegui e conduci anche me sulla stessa
strada.
XXV. LO STR. Allora bisogna fare così. Dimmi: dobbiamo osare di pronunciare queste parole: ‘ciò
che assolutamente non è’ (tò medamòs òn)? TEET. Come no? LO STR. Se uno dei nostri
ascoltatori, non certo per amore di disputare né [c] per gioco, ma seriamente invece dovesse,
interrogato, rispondere, dopo aver ben meditato, a qual cosa mai va riferita questa denominazione,
‘ciò che non è’, per quale oggetto noi pensiamo ch’egli ne farebbe uso e quest’uso indicherebbe a
chi l’abbia interrogato? TEET. E’ una domanda difficile e direi anche che è impossibile rispondere
per uno come me. LO STR. Ma questo però è chiaro: che ‘ciò che non è’ (tò mè on) non si può
riferire a qualche cosa che sia compreso fra le cose che sono (ti tòn ònton). TEET. E come si
potrebbe? LO STR. Se dunque non si può riferire a quanto indichiamo con il ‘che è’ (tò òn), non
sarebbe giusto porlo in relazione neppure a ciò che noi indichiamo col ‘qualche [d] cosa’. TEET. E
perché? LO STR. Anche questo è chiaro per noi, e cioè che anche il ‘qualche cosa’ (ti), questa
espressione, noi l’usiamo, ogni volta che l’usiamo, per qualche cosa che è; dire il solo ‘qualche
cosa’, nudo, staccato da tutte le cose che sono, è impossibile. Non è vero? TEET. Impossibile. LO
STR. Allora tu esaminando così consenti con me che è necessario che chi dice qualche cosa, dica
almeno un qualche cosa (hen ti)? TEET. Certo. LO STR. Tu infatti puoi dire che il ‘qualche cosa’
serve ad indicare una cosa singola, ed il suo duale, due cose, e il suo plurale, molte cose. TEET.
Come no? LO STR. [e] Ed è quindi strettamente necessario, come pare, che chi non dice qualche
cosa (mè ti), niente (medèn) dica assolutamente. TEET. Necessario in modo assoluto. LO STR. Ma
allora non dobbiamo nemmeno ammettere questo: che uno dica qualche cosa e non dica niente; non
bisogna invece affermare che nemmeno dice, chi vuol dire l’espressione ‘ciò che non è’? TEET. Il
tuo discorso così toccherebbe il culmine delle difficoltà.
[238a] XXVI. LO STR. Non dirlo troppo forte; difficoltà, uomo beato, ce ne sono ancora, e anzi
rimane, fra queste, la difficoltà principale, la più grande. Essa verte infatti sul principio stesso di ciò
di cui parliamo. TEET. Che dici? Parla e non indugiare. LO STR. A ciò che è potrebbe in qualche
modo unirsi un’altra cosa che è? TEET. Come no? LO STR. E diremo possibile invece che a
qualche cosa che non sia si unisca mai qualche cosa che è? TEET. E come? LO STR. Il numero
inteso come complesso di tutti i numeri naturali, noi lo consideriamo fra le cose che sono. TEET.
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[b] Si, se infatti vogliamo considerare come una cosa che è anche qualche altra cosa. LO STR. Non
proviamo neppure dunque a riferire a ciò che non è, il numero uno o gli altri numeri. TEET. Non
sarebbe un giusto tentativo, come pare e come il discorso nostro vuole. LO STR. Ma come potrebbe
un uomo proferirne dalle sue labbra la denominazione o col suo pensiero senz’altro afferrare le cose
che non sono o ciò che non è, così senza il numero? TEET. Di’ tu come. LO STR. D’altra parte
quando noi diciamo ‘che non sono’ (mè ònta), non si deve ammettere che noi tentiamo [c] in tal
caso di attribuire a quelle l’essere numericamente molteplici (plèthos arithmoù)? TEET. Certo. LO
STR. E quando diciamo ‘che non è’, non attribuiamo invece ad esso, ciò che non è, l’unità? TEET.
Chiaro. LO STR. Ma noi affermiamo che non è né giusto né corretto voler adattare qualcosa che è a
ciò che non sia. TEET. Questo che dici è assolutamente vero. LO STR. Comprendi allora con me
che di ciò che non è non è possibile pronunciare (phtènxasthai) né dire (eipèin) la denominazione e
nemmeno pensarlo (dianoethènai), ciò che non è, senza errore, per sé solo, in senso assoluto (autò
kath’hautò), e che anzi è impensabile (adianòeton), e la sua denominazione indicibile (àrreton),
impronunciabile, che esso è al di fuori di ogni discorso (àlogon)? TEET. Assolutamente è così. [d]
LO STR. Dunque non ebbi a mentire io poco fa dicendo che stavo per enunciare la più grande
difficoltà su questo problema, avendone invece qualche altra più grande da dire? TEET. E quale?
LO STR. O straordinario amico, non capisci, e proprio da quanto si è detto, che ciò che non è mette
in difficoltà anche chi ne confuta la nozione e la denominazione, cosicché quando uno si prova a
farne la confutazione è costretto a dire di esso cose che nel suo discorso stanno in reciproca
opposizione? TEET. Come dici? Sii ancora più chiaro. LO STR. Non bisogna per [e] nulla cercarla
in me la maggior chiarezza. Io, nel porre come premessa che ciò che non è non deve partecipare né
dell’uno né dei molti, poco fa e pure ora sono venuto a dirlo uno: dico infatti ‘ciò che non è’ (tò mè
on). Tu mi comprendi. TEET. Sì. LO STR. E d’altra parte anche poco fa dicevo ciò che non è essere
tale che non se ne può pronunciare né dire la denominazione, né può trovar posto nel discorso.
Segui? TEET. Seguo. Hai ragione. LO STR. Dunque non dicevo cose in opposizione a quelle
[239a] dette in precedenza, provando ad attribuire ad esso l’essere? TEET. Pare di sì. LO STR.
Proprio in quanto attribuivo ad esso l’essere non mi rivolgevo verso ciò che non è come verso una
unità? TEET. Sì. LO STR. E senza dubbio anche nel dire che ciò che non è è ‘ciò’ di cui non si può
far discorso, che la sua denominazione è ‘indicibile’ ed ‘impronunciabile’, dirigevo su di esso il
discorso come su di una unità. TEET. Come no? LO STR. Ma noi affermiamo che se uno vuole
parlare correttamente non deve definirlo, né come unità né come molteplicità, e neppure indicarlo
con il ‘lo’ (autò), assolutamente, infatti anche questa denominazione ad esso verrebbe data sulla
base dell’unità. TEET. Giustissimo.
[b] XXVII. LO STR. E allora perché parlare ancora di me? Infatti tanto di gran lunga prima di
adesso quanto ora mi si potrebbe trovare in fallo nella confutazione dell’espressione ‘ciò che non è’.
Non esaminiamo pertanto, come dissi, nelle mie parole il modo corretto di parlare di ciò che non è,
ma invece, avanti, cominciamo ora a osservarlo nelle tue. TEET. Come dici? LO STR. Suvvia,
mostraci la tua capacità e bravura, tu che sei giovane, e tendendo le tue forze al massimo provati a
parlare correttamente di ciò che non è, senza attribuire ad esso né l’essere, né l’uno, né la pluralità
numerica. TEET. Una aspirazione all’im-[c] presa, esagerata, fuori di luogo mi terrebbe se, vedendo
te subire tali difficoltà, volessi io stesso provarmici. LO STR. E allora, se vuoi così, lasciamo
perdere sia la tua che la mia persona; finché non ci imbatteremo in qualcuno capace di assolvere a
simile compito, fino ad allora dobbiamo continuare a dire che il sofista s’è eclissato in un luogo
inaccessibile usando una abilità superiore ad ogni altro. TEET. Pare proprio che sia così. LO STR.
Se diremo infatti ch’egli possiede una certa arte dell’apparenza, facil-[d] mente egli capovolgerà i
nostri discorsi muovendo, per obiettarci, dall’uso stesso del discorso che noi avremo fatto, e cioè,
quando noi lo diremo fabbricatore d’immagini, ci domanderà che cosa intendiamo dire, in generale,
con ‘immagine’. Comunque, o Teeteto, bisogna vedere che cosa si potrà rispondere a questa
domanda del nostro giovane. TEET. E’ evidente che diremo che intendiamo le immagini che riflette
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l’acqua, che riflettono gli specchi ed inoltre quelle dipinte, quelle modellate e tutte le altre simili che
ci sono.
[e] XXVIII. LO STR. E’ chiaro, Teeteto, che non hai mai visto un sofista. TEET. E perché? LO
STR. Ti apparirà come uno che ha gli occhi chiusi o addirittura del tutto privo degli occhi. TEET.
Come dici? LO STR. Quando tu gli risponderai così, se gli indicherai cioè le immagini riflesse dagli
specchi e le immagini modellate, si metterà a ridere delle tue parole, da te rivolte a lui come ad uno
[240a] che vede e fingerà di non conoscere né specchi né acqua, nemmeno la vista ed invece egli
interrogherà te senza uscire da ciò che risulta dai soli termini del discorso. TEET. Su che cosa? LO
STR. La domanda verterà su ciò che, in tutte queste cose che tu dicesti esser molte ed hai ritenuto
giusto indicare con un solo nome, chiamandole tutte ‘immagine’ (èidolon), tu hai così supposto
come una unica realtà presente in tutte. Parla dunque, e respingi il sofista senza cedergli di un passo.
TEET. Che cosa, straniero, potremmo dire che sia l’immagine, se non una cosa che, fatta a
somiglianza di una cosa vera, è distinta da questa e tale quale la vera? LO STR. Tu intendi indicare
con questo ‘tal quale distinto’ (hèteron), alcunché di vero o a che cosa [b] invece applichi qui
l’espressione ‘tal quale’? TEET. Non vero per nulla, ma simile al vero. LO STR. Tu dici "vero"
(alethinòn) di quanto è realmente (òntos òn)? TEET. Così. LO STR. E ciò che non è vero, è ciò che
è l’opposto (enantìon) del vero? TEET. Certamente. LO STR. Dunque con ‘ciò che è simile al vero’
non intendi tu un qualche cosa che non è realmente, se appunto dici che non è vero? TEET. Ma in
qualche maniera esso pure è, di certo. LO STR. Ma non veramente: lo dici tu. TEET. No, infatti; è
realmente solo come rappresentazione somigliante (eikòn). LO STR. Ciò che diciamo che realmente
è rappresentazione somigliante non è quindi qualche cosa che è non realmente? TEET. Può [c] darsi
che ciò che non è sia intrecciato a ciò che è in un simile intreccio, e tutto ciò è assurdo. LO STR. E
come infatti non assurdo? Non vedi almeno questo, che cioè anche ora con questo incrocio il
sofista, dalle cento teste, ci ha costretti ad ammettere contro nostra volontà, che ciò che non è in
qualche modo è (tò mè on èinai pos)? TEET. Vedo proprio. LO STR. Ebbene? Si potrà mai allora
definire la sua arte senza contraddirsi? TEET. Ma perché proprio e riguardo [d] a che cosa tu temi sì
da parlar così? LO STR. Quando noi diremo che egli ci inganna con l’apparenza e che l’arte sua è
un’arte degli inganni, ammetteremo in tal caso che l’anima nostra opina il falso sotto l’azione
dell’arte sua stessa, o che cosa mai dovremo dire? TEET. Questo, che cosa mai infatti potremmo
dire? LO STR. Falsa sarà d’altra parte l’opinione che opina in opposizione alle cose che sono
(tanantìa tois oùsi), o non è vero? TEET. Appunto, in opposizione. LO STR. Ammetti dunque che
l’opinione falsa (pseudès dòxa) opina le cose che non sono (tà mè ònta doxàzei)? TEET.
Necessariamente. LO STR. Opi-[e] nando che le cose che non sono non siano, oppure che siano in
qualche modo le cose che non sono per nulla? TEET. Se mai uno si inganna, anche minimamente,
deve certo opinare che in qualche modo siano le cose che non sono. LO STR. Ebbene? Chi si
inganna non opina pure che non siano per niente le cose invece che senza alcun dubbio sono?
TEET. Sì. LO STR. Non vi è il falso anche qui? TEET. Anche qui. LO STR. Penso che così
analogamente il discorso sarà da ritenersi falso quando dirà [241a] che le cose che sono non sono
(tà ònta mè èinai) e quando dirà che sono invece quelle che non sono (tà mè ònta èinai). TEET.
Come potrebbe riuscire falso altrimenti? LO STR. Direi in nessun altro modo; ma il sofista non
ammetterà tutto questo, a meno che tu non conosca una qualche via per cui uno di costoro che
sanno ben ragionare possa accettarlo, anche se ciò su cui in precedenza ci accordammo sia cosa di
cui, secondo il nostro stesso accordo precedente, la denominazione è impronunciabile, indicibile,
cosa che non può essere oggetto né di discorso, né di pensiero. Comprendiamo ora, Teeteto, ciò che
il sofista ci vuol dire? TEET. Come infatti non capire che egli affermerà che noi diciamo cose
opposte a quelle dette poco fa, osando noi ammettere che esiste il falso nelle opinioni e nei discorsi?
Dirà che per [b] questa ammissione più volte siamo costretti ad attribuire ciò che è a ciò che non è,
proprio noi che poco fa abbiamo convenuto che questo è l’assolutamente impossibile.
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Essere
Platone, Sofista 245e-249d
XXXIII. LO STR. Senza dubbio noi non abbiamo esaminato tutti quelli che con sottigliezza
particolare hanno trattato di ciò che è e di ciò che non è, pure possiamo ritenere di aver fatto
abbastanza per questi che abbiamo trattato. Dobbiamo, d’altra parte, vedere ancora coloro che
parlano diversamente da questi ultimi, in modo che da tutti, quelli e questi, possiamo inferire che
non è per nulla più agevole [246a] dire cos’è ciò che è piuttosto che ciò che non è. TEET. Bisogna
dunque avviarci anche verso di questi. LO STR. E par proprio che fra loro sia quasi una battaglia di
giganti (ghigantomachìa perì tès ousìas) svolgentesi attraverso il dibattito sull’essere, dibattito che
fra gli uni e gli altri avviene. TEET. Come? LO STR. Gli uni dal cielo e dall’invisibile tutto
trascinano a terra quasi si trattasse di rocce e querce ed essi le afferrassero proprio con le loro mani.
E, infatti, attaccandosi a tutte le cose simili a queste, con forza sostengono che soltanto è ciò che
offre qualche possibilità di essere afferrato e toccato, ed identificano nella loro definizione [b]
l’essere al corpo, e, se qualcuno afferma che qualche altra cosa è ed è senza corpo, essi lo spregiano
da ogni punto di vista e non vogliono per nulla ascoltare altro da lui. TEET. Tu parli davvero
d’uomini terribili; anch’io infatti ho già avuto occasione di incontrarne un grande numero. LO STR.
Perciò quelli che nel dibattito si oppongono loro molto prudentemente si difendono appoggiandosi
alle regioni superiori, a certa zona dell’invisibile e con pertinacia il vero essere riducono a certe
forme pensabili e incorporee. Quanto ai corpi dei primi, quanto alla verità [c] dai primi affermata,
questi frantumano tutto ciò in minutissimi pezzi nei loro discorsi, e invece di essere, essi
definiscono tale realtà un mobile divenire. Nello spazio che li separa, su questi problemi, da sempre,
o Teeteto, c’è stata una battaglia implacabile dei due gruppi avversari. TEET. E’ vero. LO STR. Da
ambedue i gruppi, allora, uno dopo l’altro, cerchiamo di conoscere le ragioni di quell’essere che essi
pongono come reale. TEET. E come faremo? LO STR. E’ più facile da quelli che pongono l’essere
nelle forme. Sono infatti più mansueti. Da quelli [d] invece che riducono tutto al corpo con la
violenza, è più difficile, e forse è anche, direi, impossibile. Ma io penso che con loro si debba far
così. TEET. Come? LO STR. E’ certo che, se ciò fosse in qualche modo possibile, sarebbe
assolutamente preferibile renderli di fatto migliori; ma se questa è una possibilità da escludersi
cerchiamo di farlo almeno a parole, ponendo come ipotesi che essi vogliano rispondere alle nostre
domande in maniera più civile di quello che avviene al giorno d’oggi. Una conclusione comune
raggiunta coi migliori è, direi, cosa più importante di una raggiunta coi peggiori; e noi non badiamo
a costoro, [e] noi cerchiamo la verità. TEET. Giustissimo.
XXXIV. LO STR. Posto che sian diventati dunque migliori, chiedi loro di risponderti, e poi
interpreta e spiega le loro parole. TEET. Farò così. LO STR. Dicano se ammettono che vi sia il
vivente mortale. TEET. Come no? LO STR. Forse che non saranno d’accordo di definirlo corpo
animato? TEET. Certamente. LO STR. Ponendo fra le [247a] cose che sono l’anima? TEET. Sì. LO
STR. Ebbene? Non diranno forse che un’anima è giusta, un’altra ingiusta, una saggia, un’altra
stolta? TEET. Come no? LO STR. Ma ciascuna di queste anime non diviene giusta per il possesso e
la presenza della giustizia, e ingiusta per il possesso e la presenza di ciò che è opposto alla
giustizia? TEET. Sì, anche questo ammettono. LO STR. Ma allora ammetteranno pure che sia
veramente qualche cosa che è ciò che può aggiungersi a qualche cosa e da qualche cosa staccarsi.
TEET. Lo ammettono. LO STR. Se dunque [b] sono e la giustizia e l’intelligenza e ogni altro simile
valore, e così tutto ciò che è opposto a queste, e se pure è l’anima, in cui viene ad esserci quanto
sopra, forse che affermano che v’ha di tutto ciò qualche cosa di visibile e tangibile oppure, secondo
loro, si tratta di cose tutte invisibili? TEET. Io direi che debbono ammettere che di tutte queste
realtà nessuna è visibile. LO STR. E così quale sarà la condizione di tali realtà? Dicono forse che
hanno corpo? TEET. Essi non danno più una sola ed identica risposta, una risposta valida per tutto
ciò, ma l’anima stessa secondo loro ha una certa corporeità, mentre l’intelligenza e ciascuna delle
altre cose di cui hai chiesto [c] essi hanno vergogna di osare sia di escluderle dalle cose che sono,
sia di sostenere che sono tutte corporee. LO STR. E’ chiaro, Teeteto, che questi nostri uomini si
sono migliorati; perché altrimenti non esiterebbero di fronte a nessuna di queste asserzioni, quelli
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Essere
almeno che furono veramente seminati nella terra e dalla terra sono sorti, ma andrebbero fino in
fondo a sostenere che ciò che essi non possono serrare in mano, tal cosa assolutamente non ha
nessuna realtà. TEET. Tu enunci, direi, proprio ciò che essi pensano. LO STR. Poniamo dunque a
loro delle nuove domande: se infatti essi vogliono concedere l’incorporeità anche di una, una
piccola cosa, fra le cose [d] che sono, è già sufficiente. Ciò che è connaturale a queste realtà così
come a quelle altre che hanno corpo, ciò a cui guardando essi dicono, delle une e delle altre cose,
‘che sono’, questo è ciò di cui essi ci debbono parlare. Essi forse saranno in difficoltà. E ammesso
appunto che siano in questa situazione, vedi bene, se, proponendolo noi, vorrebbero accettare e
riconoscere che ciò che è è questo. TEET. Che cosa? Dillo e noi lo verremo a sapere. LO STR. Io
dico allora che ciò che possiede una potenza, [e] quale si sia, o di fare un’altra cosa qualsiasi, o di
subire anche la più piccola azione da parte dell’agente meno importante, anche se solo per una volta
sola, ciò, in ogni caso, è una cosa che realmente è. Infatti io pongo come definizione delle cose che
sono, questa: le cose che sono non sono altro che potenza. TEET. Poiché quelli non hanno al
presente niente di meglio da dire, questo viene accettato da loro. LO STR. Benissimo; e forse più
tardi sia a noi che a loro le cose potrebbero apparire diverse. Ma [248a] ora lasciamo che questo
resti così convenuto fra noi e loro. TEET. Resta così.
XXXV. LO STR. Andiamo ora dagli altri, dagli amici delle forme (eidòn phìloi); sii tu per noi
interprete anche delle loro opinioni. TEET. Sarà così. LO STR. Voi parlate del divenire (ghènesis) e
dell’essere (ousìa) distinguendoli e separandoli in qualche modo, non è così? TEET. Sì. LO STR. E
col corpo, per mezzo delle sensazioni, noi comunichiamo col divenire, con l’anima, per mezzo del
ragionamento (logismòs), noi comunichiamo con l’essere vero, che voi dite essere sempre identico a
se stesso (aèi katà tautà hosàutos èchein), mentre il divenire sarebbe diverso da un momento ad un
[b] altro del tempo. TEET. Questo è appunto quanto noi affermiamo. LO STR. Ma che cosa
dobbiamo dire che significhi, o nobilissimi fra tutti, questo comunicare che voi affermate nell’un
piano e nell’altro? Non questo che fu detto or ora da noi? TEET. E che cosa? LO STR. Un’azione
fatta o subìta, determinata da una certa potenza, azione che si verifica nell’incontro reciproco di due
termini. Forse, Teeteto, la loro risposta a queste mie parole tu non riesci ad intenderla chiaramente,
ed io forse la intendo per la mia consuetudine con loro. TEET. Che dicono dunque? LO STR. Non
concordano con noi [c] su quanto, intorno all’essere, abbiamo detto ai figli della terra. TEET. Su
che cosa? LO STR. Ritieni in qualche modo sufficiente definire, come abbiamo fatto, le cose che
sono come quelle cui inerisce la potenza di subire o di fare (dynamis toù pàschein kài poièin), anche
quando si tratti di azione che, fatta o subìta, sia la più insignificante? TEET. Sì. LO STR. Essi
obiettano pertanto che mentre al divenire appartiene la potenza di fare o di subire, all’essere non si
addice la potenza né dell’una né dell’altra cosa. TEET. E ha senso questo che dicono? LO STR. E’
una cosa per cui noi dobbiamo dire [d] che abbiamo bisogno di conoscere da loro ancora più
chiaramente se ammettono che l’anima conosca (gignòskein) e che l’essere sia conosciuto. TEET.
Questo almeno lo ammettono. LO STR. Ebbene? Dite voi che il conoscere o l’essere conosciuto è
un’azione fatta, oppure subìta, oppure ciascuno di essi è l’uno e l’altro? Oppure ancora uno di essi è
azione subìta, l’altro azione fatta? Oppure nessuno di essi due partecipa per nulla di ciò che è azione
fatta e azione subìta? TEET. E’ chiaro che vale quest’ultimo caso; altrimenti ammetterebbero cose
opposte a quanto dicevano prima. LO STR. Comprendo. Dicono questo: "Se il conoscere ha da
esse-[e] re un fare, per necessità consegue che ciò che viene conosciuto subisca. E così l’essere,
appunto per questa ragione, essendo esso conosciuto dalla conoscenza, per tanto, per quanto è
conosciuto, si muove perché subisce un’azione, la qual cosa noi affermiamo non poter accadere per
ciò che sta in quiete". TEET. Giusto. LO STR. E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così
facilmente che in realtà il moto (kìnesis), la vita (zoè), l’anima (psychè), l’intelligenza (phrònesis)
non ineriscono a [249a] ciò che assolutamente è, ch’esso né vive né pensa, ma invece venerabile e
santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto? TEET. Straniero, noi accetteremmo un discorso
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a.a. 2006-2007
Essere
che senza dubbio è gravissimo. LO STR. Ma dobbiamo dire che ha intelletto (noùs) ma non ha vita
(zoè)? TEET. E come potremmo? LO STR. Allora noi ammettiamo che ambedue queste cose
ineriscano ad esso; non diremo ch’esso le possiede in quanto risiedono nell’anima? TEET. E in
quale altro modo le potrebbe avere? LO STR. E’ però possibile che avendo intelletto, vita, anima,
stia assolutamente immobile, pur essendo appunto animato? TEET. [b] Mi pare che tutto ciò sia
assurdo. LO STR. Dobbiamo dunque ammettere che anche ciò che si muove e il moto stesso sono
cose che sono? TEET. E come no? LO STR. Ne consegue dunque, Teeteto, che per le cose che sono
immobili, non vi è in nessuna, in nessun luogo, intelletto assolutamente. TEET. Certamente. LO
STR. E, d’altra parte, se noi ammettiamo che tutte le cose si spostino, si muovano, per questo stesso
discorso noi verremo ad escludere ancora per le cose che sono, la stessa cosa, l’intelletto. TEET. E
come? LO STR. Forse ti pare che po-[c] trebbe mai venire ad essere in altro modo che in quiete
l’essere secondo le identiche condizioni, nello identico modo, in relazione all’identico oggetto?
TEET. In nessun altro modo. LO STR. E allora? Forse tu riesci a vedere che in un qualche luogo,
mai, l’intelletto sia o sia stato senza questa condizione nel suo oggetto? TEET. Per nulla. LO STR.
Ora è certo che bisogna che noi rivolgiamo ogni nostro discorso a combattere chi, in qualunque
modo lo faccia, si sforzi di annullare la scienza (epistème), l’intelligenza (phrònesis), o l’intelletto
(noùs), in relazione a qualche oggetto. TEET. Sicuramente. LO STR. Per chi è filosofo dunque, ed
onora questi valori sopra ogni altro, evidentemente v’ha stretta necessità, per quanto s’è visto, di
non accettare il tutto immobile di quelli che sostengono l’unità di esso o di quegli [d] altri che
affermano la molteplicità delle forme, e d’altra parte neppure ascoltare, assolutamente, coloro che
muovono da tutti i punti di vista ciò che è, ma, come la preghiera dei fanciulli vuole che "quanto è
immobile anche si muova", bisogna dire che ciò che è (tò òn) ed il tutto (tò pan) sono immobili ed
in movimento. TEET. Verissimo.
252e-253c [e] XXXVIII. LO STR. Ora, una di queste ipotesi è necessariamente vera: o tutto si
mescola, o nulla si mescola, oppure alcune cose ammettono la mescolanza fra loro, altre no. TEET.
Senza dubbio. LO STR. E due di queste noi abbiamo già trovato che sono impossibili. TEET. Sì.
LO STR. Chiunque allora vorrà rispondere correttamente dovrà ammettere la rimanente delle tre
ipotesi. TEET. Perfettamente. LO STR. Io dico che se alcune cose ammettono la mescolanza, e altre
no, avverrà presso a poco [253a] come per le lettere dell’alfabeto. Infatti alcune di queste,
comunque ciò avvenga, non si accordano fra loro, altre sì, invece, si accordano. TEET. Come no?
LO STR. Le vocali, differentemente dalle altre lettere, scorrono attraverso tutte le altre come un
legame, in modo che senza qualcuna di esse è impossibile anche combinare due delle altre fra loro.
TEET. E’ proprio così. LO STR. Dobbiamo dire allora che ognuno conosce quali lettere possono
essere unite ad altre determinate, oppure v’ha bisogno d’un’arte a chi si appresta a far ciò e vuole
farlo bene? TEET. D’un’arte. LO STR. Di quale? TEET. Della grammatica. LO STR. Ebbene? Non
è lo stesso per l’accordo [b] dei suoni acuti e gravi? Non è il musicista colui che possiede l’arte di
riconoscere quali si accordano e quali no? E chi non ha questa conoscenza non é forse privo del
dono delle Muse? TEET. Certo. LO STR. Noi potremo trovare anche altri esempi di ciò sulla base
della presenza o della assenza di altre arti. TEET. Come no? LO STR. E allora? Poiché noi abbiamo
convenuto sul fatto che anche i generi (tà ghène) si mescolano fra loro secondo lo stesso principio,
non è forse ora necessario che svolga il suo discorso sulla via segnata da una qualche scienza chi
vuole dimostrare con precisione e correttamente quali sono i generi che si accordano con altri
determinati e quali invece [c] fra loro non ammettono di collegarsi? E così vedere se ce ne sono
alcuni che mantengono la loro continuità attraverso tutti gli altri, in modo che questi possano
mescolarsi e poi invece, dove vi è separazione, vedere se ci sono altri generi cause della
suddivisione fra complesso e complesso appunto di generi? TEET. E come non v’è bisogno infatti
di una scienza, e direi, forse, della scienza più importante?
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Essere
Platone, Sofista 254b-258c
XL. LO STR. Poiché dunque abbiamo convenuto che alcuni generi ammettono di entrare in
comunicazione fra loro, altri no, e alcuni in brevi limiti, altri in una molteplicità di relazioni, e
ancora ce ne sono alcuni che nulla impedisce [c] a che si colleghino a tutti gli altri in tutte le cose,
noi tutti insieme, tiriamo a noi col nostro discorso ciò che ne segue e vediamo, non certo per tutti i
generi, per non essere noi tutti messi in confusione dalla loro moltitudine, ma scegliendo alcuni fra
quelli che sono detti i più importanti, vediamo prima di tutto che cosa è ciascuno di questi che
sceglieremo, e poi vediamo quale potenza di comunicazione reciproca (koinonìa) essi hanno,
affinché, anche se non possiamo cogliere con perfetta chiarezza "ciò che è" e "ciò che non è",
almeno non lasciamo in nulla incompleto su di essi il nostro discorso, per quanto è possibile fare ciò
seguendo il metodo della nostra presente ricerca, sempre che in qualche modo sia permesso a noi
che affermiamo [d] che "ciò che non è" è realmente ciò che non è, di uscirne senza gravi danni.
TEET. Bisogna far così. LO STR. Tra i generi dunque, i più importanti sono quelli di cui noi
abbiamo trattato poco fa, "ciò che è", in quanto tale, la quiete e il moto. TEET. Certo. LO STR. E
noi affermiamo che due di questi non si possono mescolare fra loro. TEET. Sicuramente. LO STR.
E "ciò che è" è mescolabile ad ambedue; ambedue infatti sono. TEET. Come no? LO STR. Quindi
vengono ad essere tre. TEET. Certo. LO STR. Ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due, e
[e] identico a se stesso. TEET. Appunto. LO STR. Ma che cosa abbiamo noi mai inteso dire ora,
dicendo ‘identico’ (tautòn) e ‘diverso’ (hèteron)? Sono questi forse due generi, altri dai tre di prima,
sempre necessariamente misti a quelli? Dobbiamo così ricercare su cinque e non su tre, per essere
essi ap-[255a] punto cinque, oppure invece noi ci inganniamo chiamando coi nomi ‘identico’ e
‘diverso’ qualcuno di quei tre generi? TEET. Forse. LO STR. Ma il moto e la quiete non sono per
niente né il diverso né l’identico. TEET. Perché? LO STR. Perché qualsiasi termine noi attribuiamo
insieme sia alla quiete che al moto, questo termine non può indicare né l’uno né l’altro di essi due,
quiete e moto. TEET. E perché? LO STR. Perché il moto starebbe e la quiete si muoverebbe. Uno
dei due infatti, quale si sia, nell’un caso e nell’altro, sopravvenendo ad essi due, [b] costringerà
l’altro a mutarsi nell’opposto, in quanto esso sarà venuto a partecipare del suo opposto. TEET.
Proprio così. LO STR. Partecipano quindi ambedue dell’identico e del diverso. TEET. Sì. LO STR.
Non diciamo dunque che il moto è l’identico o il diverso e neppure, d’altra parte, diciamo così della
quiete. TEET. No. LO STR. Ma forse dobbiamo pensare come una cosa sola "ciò che è" e
l’identico? TEET. Forse. LO STR. Ma se non significano nulla di diverso ‘ciò che è’ e ‘identico’,
allora dicendo che sia il moto che la quiete, ambedue, sono, di nuovo noi [c] verremo così a dire che
ambedue sono la stessa cosa. TEET. Questo è certamente impossibile. LO STR. E’ quindi
impossibile che l’identico e "ciò che è" siano una cosa sola. TEET. Direi di sì. LO STR. Poniamo
quindi come quarto genere oltre ai primi tre, l’identico? TEET. Certamente. LO STR. Ebbene?
Dobbiamo dire che quinto è il diverso? O dobbiamo pensare che questo e "ciò che è" sono due
denominazioni applicate ad un solo genere? TEET. Forse. LO STR. Ma io credo che tu mi conceda
che delle cose che sono si danno due generi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in
relazione a se stesse, altre sempre [d] in relazione ad altro (pros hèteron). TEET. E come no? LO
STR. Il diverso è sempre in relazione al diverso. Non è vero? TEET. Certo. LO STR. Ciò non
avverrebbe se "ciò che è" e il diverso non differissero totalmente; se però il diverso partecipasse di
ambedue questi generi, come "ciò che è" si potrebbe dare il caso di un diverso che non sarebbe
diverso rispetto ad un’altra cosa, ma invece ora ci risulta certissimamente che ciò che è diverso, è
questo che è, necessariamente in relazione ad altro. TEET. E’ proprio così come dici. LO STR.
Dobbiamo dunque porre la na-[e] tura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti. TEET.
Sì. LO STR. Ed essa è diffusa attraverso tutti gli altri, dobbiamo affermare; infatti ciascuno di essi è
diverso dagli altri, non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso. TEET.
Perfettamente.
XLI. LO STR. Diciamo dunque questo sui cinque generi, vedendoli uno alla volta. TEET. Che
cosa? LO STR. Prima di tutto il moto è assolutamente diverso dalla quiete. O come dire? TEET.
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Essere
Certo, così. LO STR. Non quindi [256a] quiete? TEET. In nessun modo. LO STR. Ma è in quanto
partecipa di "ciò che è"? TEET. E’. LO STR. E poi ancora: il moto è diverso dall’identico. TEET.
Direi di sì. LO STR. Quindi non è l’identico. TEET. Non lo è, infatti. LO STR. Ma noi dicevamo
che il moto è identico perché tutto partecipa dello identico. TEET. Proprio così. LO STR. Allora
bisogna che noi conveniamo, senza protestare, che il moto è identico e pure non è identico. Infatti
quando diciamo che esso è identico e non è identico, ciò non diciamo dal medesimo punto di vista,
ma quando [b] diciamo che è identico lo diciamo così per la sua partecipazione all’identico, quando
diciamo che non è identico, lo diciamo per la sua comunicazione col diverso, per la quale esso si
trova ad essere distinto dall’identico e non identico così ma diverso, onde giustamente lo si dice
d’altra parte anche non identico. TEET. Giustissimo. LO STR. E se mai il moto come tale
partecipasse in qualche modo della quiete, non sarebbe per nulla assurdo dire che il moto è statico?
TEET. Sarebbe giustissimo, sempre che noi vogliamo riconoscere che alcuni dei generi ammettono
una reciproca mescolanza, altri no. LO STR. E’ vero, [c] noi giungemmo a questa dimostrazione
prima che arrivassimo alle nostre dimostrazioni di ora, ed abbiamo sostenuto polemizzando che ciò
avviene secondo natura. TEET. Come no? LO STR. Diciamo ancora; il moto è diverso dal diverso,
come lo vedemmo essere altra cosa rispetto all’identico ed alla quiete? TEET. Necessariamente. LO
STR. In un certo senso quindi non è diverso, e nel senso del discorso testé fatto lo è. TEET. E’ vero.
LO STR. E che diremo dopo di ciò? Diremo, da una parte, che esso è diverso da tre generi, e invece
non da un quarto, avendo noi convenuto che cinque fossero i generi, sui quali e nei [d] quali, a
preferenza di tutti gli altri, noi dovessimo condurre la nostra ricerca? TEET. E come? E’
impossibile ammetterne un numero inferiore a quello visto ora. LO STR. Quindi noi dobbiamo
senza timore sostenere decisamente che il moto è diverso da "ciò che è"? TEET. Senza il minimo
timore. LO STR. Allora è chiaro che realmente il moto non è come essere, ed è in quanto partecipa
di "ciò che è"? TEET. Chiarissimo. LO STR. E quindi necessario ammettere che "ciò che non è" ci
sia per il moto e per tutti gli altri generi. In relazione a tutti, infatti, la natura del diverso, rendendo
ciascuno di essi [e] diverso da "ciò che è", lo fa non essere, e per la stessa ragione noi potremo così
correttamente dire di tutti che non sono e di nuovo, per il fatto che partecipano di "ciò che è",
potremo anche dire che sono, e che si tratta di cose che sono. TEET. Probabilmente è così. LO STR.
Così molteplice è "ciò che è", in relazione a ciascuno dei generi, e però infinitamente molteplice
"ciò che non è". TEET. Pare di sì. LO STR. E bisogna dire che "ciò che è", [257a] come tale, è
diverso da tutti gli altri generi. TEET. Necessariamente. LO STR. Così per noi "ciò che è", per
quanti sono gli altri generi, per tante volte non è; esso infatti non essendo quegli altri generi è uno,
come tale, ma d’altra parte non è questi altri che sono infiniti di numero. TEET. Direi che è così.
LO STR. Non vi è dunque ragione di protestare neppure in ciò poiché la natura dei generi è tale da
ammettere comunicazione reciproca. E se qualcuno non ammette ciò, soltanto se ci avrà convinti
del contrario su quanto prima abbiamo detto potrà convincerci del contrario su quanto abbiamo
detto [b] dopo. TEET. Giustissimo. LO STR. Vediamo ancora questo. TEET. Che cosa? LO STR.
Quando noi parliamo di "ciò che non è", è evidente che noi non parliamo di un opposto (enantìon)
di "ciò che è", ma solo di una cosa diversa (èteron). TEET. Come? LO STR. Quando, per esempio,
parliamo di qualche cosa che non è grande; ti pare che noi indichiamo allora, col nostro dire, il
piccolo piuttosto che l’uguale? TEET. E come? LO STR. E dunque quando si dirà che negazione
(apòphasis) significa opposizione, noi non concederemo questo, ma soltanto invece ammetteremo
che qualche cosa di altro indicano le particelle negative, come mh/ (non) [c] e ou) (non), preposte ai
nomi che le seguono, o piuttosto poste davanti alle cose alle quali sono applicati i nomi pronunciati
dopo la negazione. TEET. Assolutamente.
XLII. LO STR. Riflettiamo su questo, se anche tu sei d’accordo. TEET. Su che? LO STR. A me
pare che la natura del diverso si spezzetti come la scienza (epistème). TEET. Com’è a dire? LO
STR. Anche la scienza è una, direi, ma ciascuna sua parte, distinta in quanto si applica a qualche
oggetto, porta una denominazione particolare, che [d] è una denominazione della scienza; è così che
si parla di molte arti e scienze. TEET. E’ vero pienamente. LO STR. Così anche le parti della natura
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Essere
del diverso, che è una, presentano la stessa affezione. TEET. Forse è così, ma vogliamo dire come
avviene ciò? LO STR. Vi è una certa parte del diverso contrapposta al bello? TEET. Vi è. LO STR.
Diremo che è senza nome oppure che ne ha uno? TEET. Ce l’ha; ciò infatti che noi volta a volta
diciamo non bello, questo di nient’altro è diverso se non della natura [e] del bello. LO STR. Avanti,
dimmi questo ora. TEET. Che cosa? LO STR. Ciò che non è bello viene ad essere qualche cosa di
distinto nell’ambito di un certo genere e d’altra parte contrapposto a qualche altra delle cose che
sono? TEET. Certo. LO STR. Come risulta, dunque, ciò che non è bello viene ad essere una
contrapposizione di ciò che è a ciò che è. TEET. Giustissimo. LO STR. Ebbene? Su questa base
forse dobbiamo dire che per noi il bello è a maggior ragione una cosa che è di ciò che bello non è?
TEET. Per nulla. LO STR. Analogamente allora bisogna [258a] dire che sono il grande come tale e
ciò che non è grande. TEET. Analogamente. LO STR. Dunque sono anche da porre in analogo
rapporto il giusto e ciò che non è giusto nel senso che per nulla l’uno è più dell’altro qualche cosa
che è. TEET. Senza dubbio. LO STR. Analogamente diremo per tutto il resto poiché la natura del
diverso ci apparve appartenere alle cose che sono; essendo infatti questa, è necessario ammettere
che anche le sue parti non sono meno di nient’altro cose che sono. TEET. Come no, infatti? LO
STR. Dunque, evidentemente, nella contrapposizione di una parte del diverso a una parte di "ciò
che [b] è" , posti questi due termini in contrapposizione fra loro, non è, se è lecito dirlo, quella
parte, meno essere di "ciò che è", in quanto tale, poiché non ha il valore di opposto di questo, ma
solo di diverso da esso. TEET. Chiarissimo. LO STR. Come la chiameremo dunque? TEET. E’
chiaro che "ciò che non è", ciò che noi cercavamo studiando il sofista, non è altro che questo. LO
STR. Come hai detto, ciò non è inferiore, quanto all’essere, a nessuna altra cosa. E non occorre dire
ormai coraggiosamente che "ciò che non è" è saldamente ed ha una sua [c] propria natura, come
vedemmo che il grande è grande, e che il bello è bello, e ciò che non è grande non-grande, e ciò che
non è bello non-bello? Anche "ciò che non è", per la stessa ragione, vedemmo essere, ed è non
essendo, ed è un genere da annoverare fra i molti altri che sono. Oppure, Teeteto, v’è ancora
qualche perplessità in ciò? TEET. Nessuna.
XLIII. LO STR. Lo sai che noi abbiamo abbandonato Parmenide e siamo andati assai al di là del
suo divieto? TEET. E perché? LO STR. Più di quello ch’egli ci proibì di prendere in esame, noi
ricercammo, procedendo oltre il limite e anche più avanti, e gliene demmo dimostrazione. [d]
TEET. Ma come fu? LO STR. Perché egli in qualche luogo dice:
Tu infatti mai costringerai ad essere ciò che non è,
tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano
[il pensiero.
TEET. Parmenide si esprime proprio così. LO STR. E noi invece non solo abbiamo dimostrato che
sono le cose che non sono, ma siamo giunti persino a scoprire quel genere che è proprio di ciò che
non è. Dimostrando infatti che la natura del diverso è ed è distribuita a tutte quelle cose [e] che sono
e che hanno rapporti reciproci, noi osammo affermare che ciascuna parte di questa natura del
diverso in quanto contrapposta a una parte di "ciò che è", proprio essa è realmente "ciò che non è".
TEET. Ed io, straniero, penso che noi abbiamo detto il vero, assolutamente. LO STR. Ma nessuno
dica di noi che, indicando in "ciò che non è" l’opposto di "ciò che è", osiamo sostenere che esso in
tal senso è. Noi infatti è già gran tempo che diciamo di non occuparci di un opposto di "ciò che è",
se è o non è, se si tratta di cosa che ammetta d’essere oggetto di un di-[259a] scorso, o che ogni
discorso rifiuti. Quanto a quello invece che noi ora abbiamo detto essere "ciò che non è", o uno
confutatici ci convincerà che sbagliamo, oppure, fino a che non sappia far ciò, anch’esso dovrà dire,
come diciamo noi, e che i generi si mescolano fra loro, e che "ciò che è" e il diverso a tutti i generi
si estendono e pure l’uno all’altro, e che il diverso è in quanto partecipa di "ciò che è", proprio per
questa partecipazione, e non è ciò di cui lo dicemmo partecipare, ma ne è diverso, ed essendo
diverso da "ciò che è", per necessità evidentis-[b] simamente deve essere non essere; "ciò che è", a
sua volta partecipando del diverso, sarà diverso da tutti gli altri generi, ed essendo diverso da tutti
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questi non è ciascuno di essi, e neppure tutti questi meno lui stesso, cosicché "ciò che è", senza
alcun dubbio, innumerevoli volte non è, in innumerevoli circostanze, e così gli altri generi, uno per
uno e tutti insieme analogamente, in mille modi sono, e in mille modi non sono.
Aristotele, Metafisica B (II) 1001a4-15; a29-b6
Più difficile di tutte da esaminare e più di tutte necessaria per conoscere il vero è la questione, se
l'essere e l'uno siano essenze delle cose che sono (ousìai tòn ònton) e ciascuno di essi sia, l'uno
essere, l'altro uno, non essendo qualcos'altro, o se si debba cercare che cosa sono l'essere e l'uno,
essendovi un'altra natura che soggiace (o che funge da soggetto, hypokeimène physis); gli uni infatti
ritengono che la natura (dell’essere e dell’uno) sia in un modo, gli altri nell’altro. Platone, infatti, e i
Pitagorici sostengono che l’essere e l’uno non sono qualcos’altro, ma che proprio questa è la loro
natura, essendovi l’essenza dell’uno in sé e dell’essere in sé; diversamente, invece, quelli (che
ricercarono) intorno alla natura, come Empedocle, che spiega che cos’è l’uno riconducendolo a
qualcosa di maggiormente noto; sembrerebbe infatti dire che esso è l’amicizia, da cui tutti gli enti
sono e sono venuti ad essere. …. Ma se vi sarà qualcosa che è essere di per sé e che è uno di per sé
(ti autò on kai hen), si verificherà una grande aporia: come potrà esserci qualcosa di diverso accanto
a questi; intendo dire, come potranno gli enti essere più di uno. Infatti, ciò che è diverso dall’essere
non è, cosicché conseguirà di necessità, secondo il discorso di Parmenide, che tutte le cose si
ridurranno a una e questo sarà l’essere. In entrambi i casi ci saranno difficoltà; sia infatti che l’uno
non sia sostanza, sia che esista l’uno di per sé, risulterà impossibile che il numero sia sostanza; se
infatti l’uno non è sostanza, si è già detto prima per quale motivo ciò accadrà; se lo è, si avrà la
stessa aporia che si ha per l’essere; come potrà esservi, infatti, accanto all’uno, un altro uno per sé?
Sarebbe infatti necessario che non fosse uno; ma tutte le cose che sono, o sono uno o sono molti,
ciascuno dei quali è uno.
Platone, Repubblica 506b-509c
XVIII. - Per forza, rispose. Ma tu ora , Socrate, dici che il bene sia scienza o piacere o qualcosa di
diverso? - Oh!, caro il mio uomo, replicai, lo sapevo bene, ed era palese da tempo che non ti
avrebbe soddisfatto l’opinione degli altri a questo proposito. - Non mi sembra giusto, Socrate, disse,
che uno che da tanto tempo si occupa di questi argomenti sappia riportare le opinioni altrui e la [c]
propria no. - E ti sembra giusto, feci io, che uno parli delle cose che non sa come se le sapesse? Come se le sapesse, rispose, no, affatto. E’ giusto però voler parlare da uomo veramente convinto
della sua opinione. - E non ti sei accorto, continuai, che le opinioni non accompagnate dalla scienza
sono tutte brutte? Di esse le migliori sono cieche. Ti sembra che coloro che hanno una vera
opinione su qualcosa, ma sono sprovvisti di intelletto, presentino qualche differenza da ciechi che
camminano dritto per una strada? - Nessuna differenza, rispose. [d] - Vuoi dunque contemplare cose
brutte, cieche e storte, quando ti è possibile sentirne da altri di splendide e belle? - No, per Zeus!,
Socrate, fece Glaucone, non ritirarti come se fossi alla fine. Noi ci sentiremo soddisfatti se tratterai
del bene allo stesso modo con cui hai trattato della giustizia, della temperanza e delle altre virtù. Anch’io, risposi, mio caro amico, ne sarò molto soddisfatto, ma temo che non ci riuscirò e che, pur
mettendocela tutta, farò una brutta figura e mi esporrò allo scherno. Sù, benedetti [e] amici,
lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo alta perché
possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente, il concetto che ne ho io. Invece voglio dire, se ne
siete contenti pure voi, quello che sembra la prole del bene, cui molto somiglia. Se però non ne siete
contenti, lasciamolo perdere. - Sù, dillo!, fece. Pagherai il tuo debito un’altra volta, spiegan-[507a]
doci che cosa è il padre. - Vorrei poter pagarvelo, risposi, e che voi poteste riscuoterlo tutto,
anziché, come adesso, i soli frutti. Prendetevi dunque questo frutto e la prole del bene in sé. State
però attenti che, senza volere, in qualche modo non vi imbrogli, rendendovi falsificato il computo
del frutto. - Staremo attenti, rispose, come potremo. Ma tu limitati a parlare. - Lo farò, dissi,
soltanto quando mi sarò messo d’accordo con voi e vi avrò fatto ricordare quello che s’è detto prima
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e quello che già s’è detto più volte in altre occasioni. - Che cosa?, [b] chiese. - Noi affermiamo che
ci sono molte cose belle, e belle le definiamo col nostro discorso; e diciamo che ci sono molte cose
buone e così via. - Lo affermiamo. - E poi anche che esistono il bello in sé e il bene in sé; e così
tutte le cose che allora consideravamo molte, ora invece le consideriamo ciascuna in rapporto a una
idea, che diciamo una, e ciascuna chiamiamo ‘ciò che è’. - E’ così. - E diciamo che quelle molte
cose si vedono, ma non si colgono con l’intelletto, e che le idee invece si colgono con l’intelletto,
ma non si vedono. - Sen-[c] za dubbio. - Ora, qual è in noi l’organo che ci fa vedere le cose visibili?
- La vista, rispose. - E, continuai, non è l’udito che ci fa udire le cose udibili? E non sono gli altri
sensi a farci sentire tutte le cose sensibili? - Sicuramente. - Ora, hai riflettuto, feci io, quanto
maggiore pregio l’artefice dei sensi abbia voluto conferire a quello di vedere e di essere visti? - No
proprio, rispose. - Ma esamina la cosa in questo modo. L’udito e la voce richiedono il concorso di
un elemento diverso, il primo per udire, la seconda per essere udita? E se questo [d] terzo elemento
non è presente, forse che l’uno non udirà e l’altra non sarà udita? - Non richiedono il concorso di
nulla, rispose. - E, credo, feci io, nemmeno molte altre facoltà, per non dire nessuna, richiedono
alcunché di simile. O ne puoi citare qualcuna? - Io no, rispose. - Ma non pensi che lo richiede la
facoltà della vista e del visibile? - Come? - Ammettiamo che negli occhi abbia sede la vista e che
chi la possiede cominci a servirsene, e che in essi si trovi il colore. Ma se non è presente un terzo
elemento, che la natura riserva proprio [e] a questo còmpito, tu ti rendi conto che la vista non vedrà
nulla e che i colori resteranno invisibili. - Qual è questo elemento di cui parli? - Quello, risposi, che
tu chiami luce. - Dici 1a verità, ammise. - Di una specie non insignificante sono dunque il senso
della vista e la facoltà [508a] di essere veduti, se sono stati congiunti con un legame più prezioso di
quello che tiene insieme le altre combinazioni, a meno che non sia cosa spregevole la luce. Spregevole?, disse. Tutt’altro!
XIX. - A quale dunque tra gli dèi del cielo puoi attribuire questo potere? un dio la cui luce permette
alla nostra vista di vedere nel miglior modo e alle cose visibili di farsi vedere? - Quello, rispose, che
tu e gli altri riconoscete: è chiaro che la tua domanda si riferisce al sole. - Ora, il rapporto tra la vista
e questo dio non è per natura così? - Come? - La vista, né come facoltà in se stessa né come organo
in cui ha sede e che chiamiamo [b] occhio, non è il sole. - No, certamente, - Eppure, a mio parere,
tra gli organi dei sensi è quello che più ricorda nell’aspetto il sole. - Sì, certo. - E la facoltà di cui
dispone non l’ha perché dispensata dal sole, come un fluido che filtra in essa? - Senza dubbio. - E
non è vero anche che il sole non è la vista, ma, essendone causa, è da essa stessa veduto? - E’ così,
ammise. - Puoi dire dunque, feci io, che io chiamo il sole prole [c] del bene, generato dal bene a
propria immagine. Ciò che nel mondo intelligibile (noetòn )il bene è rispetto all’intelletto (noùs) e
agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili. Come?, fece, ripetimelo. - Non sai, ripresi, che gli occhi, quando uno non li volge più agli oggetti
rischiarati nei loro colori dalla luce diurna, ma a quelli rischiarati dai lumi notturni, si offuscano e
sembrano quasi ciechi, come se non fosse nitida in loro la vista? - Certamente, rispose. - Ma [d]
quando, credo, uno li volge agli oggetti illuminati dal sole, vedono distintamente e la vista, che ha
sede in questi occhi medesimi, appare nitida. - Sicuro! - Allo stesso modo considera anche il caso
dell’anima, così come ti dico. Quando essa si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e
dall’essere, ecco che lo coglie e lo conosce, ed è evidente la sua intelligenza; quando invece si fissa
su ciò che è misto di tenebra e che nasce e perisce, allora essa non ha che opinioni e s’offusca,
rivolta in sù e in giù, mutandole, le sue opinioni e rassomiglia a persona senza intelletto. - Le
somiglia proprio. - Ora, que-[e] sto elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi
conosce dà la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene (idèa toù agathoù); e devi pensarla
causa della scienza (epistème) e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue,
conoscenza (gnòsis) e verità, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia
quell’elemento. E [509a] come in quell’altro àmbito è giusto giudicare simili al sole la luce e la
vista, ma non ritenerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al bene (agathoeidès)
ambedue questi valori, la scienza e la verità, ma non ritenere il bene l’una o l’altra delle due. La
condizione del bene dev’essere tenuta in pregio ancora maggiore. - Straordinaria deve essere,
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rispose, la bellezza che gli attribuisci, se è il bene a conferire scienza e verità e se le supera in
bellezza; perché dicendo "bene" non intendi certo riferirti al piacere. - Zitto, feci io; continua
piuttosto a esaminare la sua [b] immagine, così. - Come? - Dirai, credo, che agli oggetti visibili il
sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il
nutrimento, pur senza essere esso stesso generazione. - E come potrebbe esserlo? - Puoi dire dunque
che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne
ottengono ancora l’esistenza (èinai) e l’essenza (ousìa), anche se il bene non è essenza, ma qualcosa
che per dignità e potenza trascende l’essenza (epèkeina tès ousìas).
[c] XX. E Glaucone assai comicamente: - O Apollo, disse, che sovrumana eccellenza! - Sì, feci io,
e ne sei tu responsabile, perché mi costringi a dire il mio parere su questo punto. - Non desistere,
rispose; se non altro, riprendi almeno a spiegare la similitudine del sole, per vedere se lasci qualche
lacuna. - Certo, replicai, ne lascio parecchie. - Non trascurarne nemmeno una, disse, per quan-to
piccola. - Credo anzi, feci io, che saranno molte. Tuttavia, per quanto posso in questo momento, non
ne lascerò apposta. - Il cielo te ne guardi!, disse
Platone, Sofista 261d-263d
XLV. LO STR. Prendiamo dunque prima di tutto il discorso e l’opinione, come fu detto or ora, e
con maggior chiarezza cerchiamo di vedere se viene ad unirsi ad essi "ciò che non è", oppure se
ambedue questi sono veri assolutamente e né l’uno né l’altro mai costituiscono falsità. TEET.
Giusto. LO STR. Avanti dunque, come già si faceva [d] per i generi delle cose e per le lettere
dell’alfabeto, allo stesso modo ora riprendiamo in esame anche i nomi. E’ per questa via infatti che
si rende manifesto ciò che ora noi stiamo cercando. TEET. A quale questione sui nomi dunque
dobbiamo dare una risposta? LO STR. Se tutti si accordano fra loro o nessuno, oppure se alcuni di
loro ammettono un reciproco accordo, altri no. TEET. Ma questo sì è chiaro, che alcuni lo
ammettono, altri no. LO STR. Tu intendi forse dire che alcuni si accordano fra di loro [e] perché,
detti di seguito, significano così qualche cosa, altri non si accordano perché posti di seguito non
significano nulla. TEET. Ma che cosa vuoi dire con questo? LO STR. Ciò che pensavo tu avessi
compreso, quando ti dichiarasti d’accordo con me. Io direi infatti che c’è un duplice genere dei
nostri segni fonici che indicano l’essere di qualche cosa. TEET. Come? LO STR. L’uno si chiama
[262a] ‘genere dei nomi’ (ònoma), l’altro dei ‘verbi’ (rhèma). TEET. Dicci in che cosa consiste
ciascuno dei due. LO STR. Diciamo ‘verbo’, mi pare, quello che indica le azioni. TEET. Sì. LO
STR. E ‘nome’ quel segno fonico che viene riferito a coloro che compiono quelle azioni. TEET.
Perfettamente. LO STR. E così da soli nomi detti uno di seguito all’altro non risulta mai il discorso,
né risulta d’altra parte da verbi detti senza accompagnamento di nomi. TEET. Questo non [b] lo
sapevo. LO STR. Allora è evidente che poco fa tu hai detto d’essere d’accordo con me pensando ad
altro. Perché io volevo dire proprio questo, che cioè queste cose dette di seguito così non
costituiscono un discorso. TEET. Come ‘così’? LO STR. Per esempio ‘cammina’ ‘corre’ ‘dorme’ e
quanti altri verbi ci sono che nel discorso significano un’azione, anche se tutti di seguito uno li
pronunciasse non per questo metterebbe insieme discorso alcuno. TEET. Evidente. LO STR. E così
dunque anche se si dice ‘leone’ ‘cervo’ ‘cavallo’, e quanti nomi ci [c] sono per indicare il soggetto
di un’azione, anche da una tale serie non risulta in nessun modo un discorso. I segni fonici infatti
non indicano nessuna azione, né nel primo né nel secondo caso, e neppure l’assenza di azione, non
indicano né l’essere di ciò che è, né di ciò che non è, fino a che ai nomi non vengano collegati dei
verbi. Solo in tal caso si realizza l’accordo e diventa discorso immediatamente il più elementare
collegamento, direi anzi che questo è il primo e il più breve di tutti i discorsi. TEET. A che cosa ti
riferisci dunque? LO STR. Parlo di quando uno dice: "l’uomo sa"; non dirai anche tu che questo
discorso è il [d] più breve ed il primo? TEET. Certamente. LO STR. Infatti così esso ha già valore
indicativo di qualche cosa, a proposito delle cose che sono, o divengono, o sono divenute, o stanno
per divenire e non solo denomina, ma esprime un senso compiuto, collegando i verbi ai nomi. E’
per questo che noi affermiamo che un tale discorso non solo denomina ma pure discorre, e così ad
un tale collegamento noi abbiamo applicato il nome ‘discorso’. TEET. Giusto.
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XLVI. LO STR. Così, come abbiamo visto che delle cose alcune fra di loro si accordano, altre no,
anche fra i segni [e] fonici alcuni fra di loro non si accordano, e gli altri che si accordano danno il
discorso. TEET. Assolutamente giusto. LO STR. Ancora questa piccola cosa. TEET. Quale? LO
STR. E’ necessario che il discorso, quando c’è, sia discorso di qualche cosa; è impossibile che non
sia discorso di qualche cosa. TEET. Esatto. LO STR. E allora non è necessario che esso sia anche
qualitativamente determinato? TEET. Come no? LO STR. Rivolgiamo la mente su noi stessi.
TEET. Bisogna farlo. LO STR. Io dirò a te un discorso collegando una cosa a un’azione mediante
nome e verbo, tu mi dovrai dire di che cosa discorre il mio discorso. [263a] TEET. Lo farò per
quanto potrò. LO STR. ‘Teeteto siede’. Non è mica un discorso lungo, vero? TEET. No, non lo è
eccessivamente. LO STR. Compito tuo è dire quale è il suo oggetto e a che cosa si riferisce. TEET.
E’ chiaro che io sono il suo oggetto e si riferisce a me. LO STR. E questo, invece? TEET. Quale?
LO STR. ‘Teeteto’, al quale ora io parlo, ‘vola’. TEET. Anche in questo caso nessuno potrebbe
rispondere altrimenti se non che si riferisce a me ed io sono il suo soggetto. LO STR. Affermiamo
noi che ciascuno di questi due discorsi deve essere necessariamente qualitativamente determinato?
TEET. Sì. [b] LO STR. E allora quale dovremo dire che sia la qualità di questi due? TEET. L’uno è
falso, direi, l’altro è vero. LO STR. Quello che di essi è vero dice le cose come sono nei tuoi
confronti (hos èsti perì sou)? TEET. Certamente. LO STR. E allora quello falso dice cose diverse da
quelle che sono. TEET. Sì. LO STR. Dice quindi che sono le cose che non sono. TEET. Mi pare di
si. LO STR. Si tratta di cose che sono e sono diverse da quelle che ti riguardano (onta hètera perì
soù). Abbiamo infatti detto che in relazione a ciascuno in certo modo vi sono molte cose che sono,
molte che non sono. TEET. Perfet-[c] tamente. LO STR. L’ultimo discorso che ho fatto su di te
dobbiamo dire prima di tutto che necessarissimamente, sulla base di quanto abbiamo affermato
definendo che cos’è il discorso, è uno dei più brevi. TEET. Or ora almeno abbiamo convenuto in
questo. LO STR. E poi deve essere discorso di qualche cosa. TEET. Certamente. LO STR. Se
quello non è di te, non è di nessun altro. TEET. Come potrebbe infatti esserlo? LO STR. Non
essendo di nessuno, nemmeno sarà discorso, in nessun modo; abbiamo infatti dichiarato che è
impossibile che un discorso sia discorso di [d] nulla. TEET. Giustissimo. LO STR. E allora le cose
dette di te, cose certo diverse dette come si trattasse di cose identiche a quelle che ti riguardano,
cose che non sono quasi fossero cose che sono, una simile connessione fatta di nomi e di verbi,
assolutamente, mi pare, senza alcun dubbio, costituisce realmente e veramente un discorso falso.
TEET. Verissimo.
Aristotele, metafisica, V 7, 1017 a7-b9 (trad. G. Reale)
L'essere si dice (l) in senso accidentale (katà symbebekòs) e (2) per sé (kath’autò). ( l) In senso
accidentale diciamo per esempio: (a) che il « giusto è musico o (b) che 1'« uomo è musico » o (c)
che il « musico è uomo », nello stesso modo che diciamo che « il musico costruisce una casa »,
perché può accadere che il « musico » sia « costruttore », o che il « costruttore » sia « musico »:
infatti, « questo è quest'altro» significa che questo è accidente di quest'altro. Lo stesso deve dirsi a
proposito degli esempi di cui sopra: quando diciamo «l'uomo è musico» o « il musico è uomo », « il
bianco è musico » o « il musico è bianco », diciamo così perché, nell'ultimo caso, i due attributi
sono accidenti di una stessa cosa, mentre, nel primo caso, l'attributo è accidente di ciò che
veramente esiste. E si dice «il musico è uomo» perché «musica » è accidente dell'uomo; nello stesso
modo si dice anche « il non-bianco è », perché è ciò di cui esso è accidente. Dunque le cose che si
dicono essere in senso accidentale, si dicono così: (a) o perché si tratta di due attributi che
appartengono ad una medesima cosa che è, ( b) oppure perché si tratta di un attributo che appartiene
alla cosa che è, (c) oppure, ancora, perché ciò cui appartiene come accidente quello di cui è esso
stesso predicato, è ciò che propriamente è 2.
(2) Essere per sé sono dette, invece, tutte le accezioni che ha l'essere secondo le figure delle
categorie; tante sono le figure delle categorie e altrettanti i significati dell'essere. Poiché, dunque,
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Essere
alcune delle categorie significano l'essenza, altre la qualità, altre la qùantità, altre la relazione, altre
l'agire o il patire, altre il dove e altre il quando: ebbene, l'essere ha significati corrispondenti a
ciascuna di queste. Non c'è differenza, infatti, fra le proposizioni « l'uomo è vivente» e « l'uomo
vive », e fra «l'uomo è camminante o tagliante» e «l'uomo cammina o taglia »; e lo stesso vale per
gli altri casi.
( 3) Inoltre, l'essere e l'è significa, ancora, che una cosa è vera e il non-essere e il non-è significa che
non-è vera, ma falsa; e questo vale tanto per l'affermazione quanto per la negazione. Per esempio, si
dice «Socrate è musico », in quanto questo è vero, oppure «Socrate è non-bianco », in quanto questo
è vero; e si dice che « la diagonale non-è commensurabile », in quanto questo non è vero ma falso.
(4) Inoltre, l'essere o l'ente significa, da un lato, l'essere in potenza e, dall'altro, l'essere in atto. e
questo nell'ambito di ciascuno dei significati sopra detti. 1017 b Infatti, noi diciamo che è veggente
e chi è veggente in potenza e chi è veggente in atto; e similmente diciamo che sa, e colui che può
fare uso del sapere e colui che ne fa uso in atto, e diciamo che è in riposo e colui che è già in riposo
e colui che può essere in riposo. Similmente dicasi anche per le sostanze: infatti, diciamo che un
Ermete è nella pietra e che la semiretta è nella retta, e diciamo che è frumento anche quello che non
è ancora maturo.
La questione, poi, della determinazione del quando un essere sia in potenza e quando non lo sia
ancora, dovremo trattarla in altro luogo.
Aristotele, metafisica V (Δ) 1025a14-34 (trad. G. Reale)
(1) Accidente significa ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della
cosa, ma non di necessità né per lo più: per esempio, se uno scava una fossa per piantare un albero
e trova un tesoro. Questo ritrovamento del tesoro è, dunque, un accidente per chi scava una fossa:
infatti, l'una cosa non deriva dall'altra né fa seguito all'altra necessariamente; e nemmeno per lo piu
chi pianta un albero trova un tesoro. E un musico può anche essere bianco, ma, poiché questo non
avviene né sempre né per lo piu, noi diciamo 20 che è un accidente. Pertanto, poiché ci sono
attributi che appartengono ad un soggetto, e poiché alcuni di questi attributi appartengono al
soggetto solo in certi luoghi e in certi tempi, allora, tutti gli attributi che appartengono ad un
soggetto, ma non in quanto il soggetto è questo soggetto e il tempo questo determinato tempo e il
luogo questo determinato luogo, saranno accidenti. Dell'accidente non ci sarà quindi neppure una
causa determinata, ma ci sarà solo una causa fortuita, cioè indeterminata . È per accidente che uno
25 giunge ad Egina, se non è partito con l'intento di giungere in tal luogo, ma se è giunto perché
spinto dalla tempesta, o preso dai pirati. Dunque, l'accidente è prodotto ed esiste non per se stesso
ma per altro: la tempesta, infatti, è stata causa che si giungesse dove non si voleva giungere, cioè ad
Egina.
(2) Accidente si dice anche in un altro senso. Tali sono 30 tutti gli attributi che appartengono a
ciascuna cosa di per sé, ma che non rientrano nella sostanza stessa della cosa. Per esempio,
accidente in questo senso è la proprietà di un triangolo di avere la somma degli angoli uguale a due
retti. Gli accidenti di questo tipo possono essere eterni, nessuno degli accidenti dell'altro tipo,
invece, lo può essere.
Abbiamo chiarito altrove 8 la ragione di questo.
Aristotele, Metafisica E 4, 1027b17-28
Per quanto concerne l’essere come vero e il non-essere come falso, dobbiamo dire che essi
riguardano la connessione e la divisione di nozioni e l’uno e l’altro insieme (20) abbracciano le due
parti della contraddizione. Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente diviso; il falso è , invece,
la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione. In quale modo, poi, avvenga che noi
pensiamo cose unite o separate, e unite in modo da formare non una semplice consecuzione, (25)
ma qualcosa di veramente unitario, è questione che esula da quella che stiamo trattando. Infatti, il
vero e il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso),
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Essere
ma solo nel pensiero; anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze, non sono neppure
nel pensiero.
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Anima
Platone, Cratilo 399d1-e3 (trad. F. Aronadio)
ERMOGENE Una cosa mi pare venga senz'altro subito dopo queste. Infatti, proprie dell'uomo noi
diciamo la psychè (anima) e il sòma (corpo)
SOCRATE E come no?
ERM. Proviamo allora ad analizzare anche questi nomi come i precedenti.
SOCR. Intendi dire di esaminare la psychè, come appropriatamente gli è toccato questo nome, e poi
a sua volta il sòma.
ERM. Sì
SOCR. Dunque, per dirla sul momento, penso che coloro che hanno dato tale nome alla psychè
pensassero qualcosa del genere, e cioè che essa, quando è presente nel corpo, è causa della vita per
esso, fornendogli la capacità di respirare e anapsychon (rinfrescandolo); ma, non appena vien meno
l' anapsychon , il corpo va in rovina e muore; perciò, appunto, mi pare che l'abbiano chiamata
psychè.…
Omero, Odissea XI 218-22 (trad. R. Calzecchi Onesti)
“questa è la sorte degli uomini, quando uno muore:
i nervi non reggono più l'ossa e la carne,
ma la forza gagliarda del fuoco fiammante
li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita;
e l'anima (psychè), come un sogno fuggendone, vaga volando..”
Omero, Iliade XVI 855-7 (trad. R. Calzecchi Onesti)
“Mentre parlava così la morte l'avvolse,
la vita (psychè) volò via dalle membra e scese nell'Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore”
Omero, Iliade IX 408-9
“…ma la vita (psychè) di un uomo, perché torni indietro, rapir non la puoi
e nemmeno afferrare, quando ha passato la siepe dei denti.”
Omero, Iliade XXIII 65-68
Ed ecco a lui venne l'anima del misero Patroclo,
gli somigliava in tutto, grandezza, occhi belli,
voce, e vesti uguali vestiva sul corpo;
gli stette sopra la testa e gli parlò parola.
Omero, Iliade XXIII 99-104
Tese le braccia, parlando così,
ma non l'afferrò: l'anima come fumo sotto la terra
sparì stridendo; saltò su Achille, stupito,
battè le mani insieme e disse mesta parola:
“Ah! c'è dunque, anche nella dimora dell'Ade,
un'ombra, un fantasma (èidolon), ma dentro non c'è più la mente (phrènes)”
Omero, Odissea XIX 138-9
E prima un manto mi ispirò in cuore (phrènes) un dio, ordita nelle mie stanze un gran tela, di
tessere.
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Anima
Erodoto, Storie II 123
Gli egizi sono coloro che per primi hanno sostenuto questa idea, che l'anima dell'uomo è
immortale,e e che alla distruzione del corpo penetra in un altro vivente di quelli che nascono
continuamente, e quando li ha passati tutti, terrestri, marini, volatili, penetra nuovamente nel corpo
nascente dell'uomo, e questo ciclo avviene in tremila anni. Vi furono alcuni tra i Greci che, alcuni
prima, altri dopo, sostennero questa dottrina, come fosse loro propria; di costoro so i nomi, ma non
li scrivo.
Diogene Laerzio VIII 36= Pitagora 14 A 1 D.-K.
Senofane testimonia esser rinato Pitagora sotto vari aspetti; ecco quel che dice di lui: “E narrano che
una volta passadno per dove maltrattavano un cagnolino, impietosito pronunziasse queste parole: Smetti di battere, poiché è certo l’anima di un amico mio: l’ho riconosciuta udendone la voce”.
Eraclito, B 45 Diels-Kranz
"I confini dell'anima (psychès peirata) non li potrai trovare, quando pur li cercassi per ogni via,
tanto profondo è il suo logos"
Eraclito, B 107 D.-K.
Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che abbiano anime barbare.
Eraclito, B 117 D.-K.
Quando un uomo è ubriaco, è condotto da un fanciullo imberbe, barcollando, senza capire in che
direzione va, dal momento che ha l'anima umida (hygren psychèn)
Eraclito, B 118 D.-K.
L'anima asciutta è sapientissima ed eccellente (aue psychè sophotàte kai arìste)
Platone, Apologia di Socrate 40c-41c
Vediamo la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho così grande speranza che
morire sia un bene. Una di queste due cose è il morire: o è come un non esser più nulla, e chi è
morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di
mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. Ora, se il morire
[d] equivale a non aver più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede
più niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che
se uno, dopo aver come trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato così
profondamente da non vedere neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonate a questa le altri notti e
gli altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e quante notti in tutto il
corso della sua vita egli abbia vissuto più felicemente e più piacevolmente di quella notte; io penso
che colui, fosse pure non dico un [e] privato qualunque ma addirittura il Gran Re, troverebbe assai
pochi e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altre
notti. Se dunque tal cosa è la morte, io dico che è un guadagno; anche perché la eternità stessa della
morte non apparisce affatto più lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar
sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i
morti, quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? [41a] Che se uno, giunto nell’Ade,
libero ormai da coloro che si spacciano per giudici qui da noi, troverà colà i giudici veri, quelli
appunto che nell’Ade si dice esercitino officio di giudici, e Minos e Radamanti e Eaco e Trittolèmo
e quanti altri fra i semidei furono giusti nella lor vita; sarebbe forse codesto un mutamento di sede
spregevole? E ancora, per starsene insieme con Orfeo e con Musèo, con Omero e con Esiodo,
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Anima
quanto non pagherebbe ciascuno di voi? Io per me non una volta soltanto vorrei morire, se questo è
vero. Che consolazione straordinaria avrei io di [b] tal soggiorno colà, quando, m’incontrassi con
Palamède, e con Aiace figlio di Telamòne, e con tutti quegli altri antichi eroi che ebbero a morire
per ingiusto giudizio; e quale gioia, penso, paragonare i miei casi ai loro! E il piacere più grande
sopra tutti sarebbe di seguitare anche colà, come facevo qui, a studiare e a ricercare chi è davvero
sapiente e chi solo crede di essere e non è. Quanto darebbe uno di voi, o giudici, per interrogare e
conoscere colui che condusse contro Troia il grande esercito, oppure Odìsseo, [c] o Sìsifo, e quanti
altri innumerevoli si possono ricordare, uomini e donne? Ragionare colà con costoro e viverci
insieme e interrogarli, sarebbe davvero il sommo della felicità. Senza dire poi che, per codesto, non
c’è pericolo quelli di là mandino a morte nessuno; essi che, oltre a essere, per altri motivi, più felici
di noi, anche sono oramai per tutta l’eternità immortali, se è vero quel che si dice.
Platone, Fedone 70 a-b (trad. M. Valgimigli)
“O Socrate, quanto al resto pare a me che si dica bene, ma quanto all'anima c'è negli uomini molta
incredulità: perché temono che, quand'ella si sia distaccata dal corpo, non esista più in nessun
luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l'uomo muore; temono cioè che, nell'atto
medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo (pneuma, kapnòs) si
dissipi e voli via, e così cessi dall'esistere del tutto…Ma questo appunto, mi sembra, è ciò che
bisogna di non piccola conferma e dimostrazione: e cioè, primo, che l'anima seguita ad esistere pur
quando l'uomo è morto; secondo, che ella conserva potere e intelligenza (dynamis, phronesis)”
Platone, Fedone 85e-86d (trad. M. Valgimigli)
C’è un punto, disse Simmia, in cui codesto tuo medesimo ragionamento si potrebbe ripetere anche a
proposito di accordo musicale e di lira e di corde: e dire cioè che questo accordo, in una lira bene
accordata, è qualche cosa di invisibile e di incorporeo, di perfettamente [86a] bello e divino; mentre
la lira e le corde sono corpi, e di forma corporea, e composti e terreni, e insomma congeneri del
mortale. Ora, se uno, rotta la lira o tagliate e strappate le corde, si facesse forte del tuo stesso
ragionamento, e dicesse, come tu dici, che quel tale accordo deve necessariamente seguitare a
esistere e non può perire: - perché certo non ci sarà modo che si conservi la lira dopo spezzate le
corde, e si conservino le corde, che sono cose tutte mortali, e viceversa perisca l’accordo, che è
della stessa [b] natura e della stessa origine del divino e dell’immortale, e perisca prima del mortale;
ma anzi, dice, sarà proprio questo accordo che dovrà in qualche modo conservarsi, e infradiceranno
prima i legni e le corde innanzi che patisca esso di alcuna perturbazione... - Del resto io credo bene,
o Socrate, che ti sarai avveduto anche tu di questo, che noi ci figuriamo dell’anima a un di presso
qualche cosa di simile: che cioè, come se il nostro corpo fosse teso e tenuto insieme dal caldo e dal
freddo, dal secco e dall’umido e da altrettali elementi, l’anima sia appunto una temperanza [c] e un
accordo di codesti elementi; quando, s’intende, essi siano mescolati gli uni con gli altri in misura
eguale e perfetta. Se dunque l’anima è una specie di accordo, è ben chiaro che, quando il nostro
corpo da morbi o da altri mali sia rilassato o teso fuori del suo giusto equilibrio, necessariamente
l’anima deve sùbito cessare di esistere, per quanto divinissima ella sia, allo stesso modo degli altri
accordi che osserviamo nei suoni e in tutte generalmente le opere degli artisti; e dureranno invece
per un tempo assai lungo i residui di ciascun corpo fino a che siano arsi [d] dal fuoco e consumati
dalla putrèdine. Vedi tu dunque ora che cosa potremo rispondere a questo argomento, se uno ritenga
che l’anima, essendo una temperanza degli elementi onde è costituito il corpo, sia proprio essa,
nella così detta morte, la prima a morire.
Platone, Repubblica 365d-366b (trad. F. Sartori)
Ma sono proprio questi poeti a dirci che gli dèi si lasciano persuadere, con sacrifici, dolci preghiere
e offerte a mutare d’avviso. A questi poeti si deve prestar fede o su ambedue i punti o su nessuno; e
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se si deve farlo, dobbiamo commettere ingiustizie e poi fare sacrifici ado-[366a] perando i beni
male acquistati. Se saremo giusti, resteremo impuniti dagli dèi, ma perderemo i guadagni derivanti
dall’ingiustizia; se ingiusti, guadagneremo e, pur colpevoli di prevaricazioni e di errori, con
preghiere persuaderemo gli dèi sì da cavarcela senza castighi. "Ma le ingiustizie commesse in
questo mondo le sconteremo nell’Ade, noi stessi o i figli dei figli". E l’altro calcolando risponderà:
"Mio caro, molto possono a loro volta le cerimonie di iniziazione e gli dèi liberatori". Così attestano
gli [b] stati più grandi e i figli di dèi che sono diventati poeti e interpreti degli dèi: essi dichiarano
che le cose stanno così.
Platone, Repubblica 436b-441c
XII. - Il punto difficile da conoscere è invece questo: se è lo stesso principio che ci fa compiere le
nostre singole azioni o se, essendo tre i princìpi, un’azione è dettata da uno, un’altra da un altro; se
cioè dei princìpi che sono in noi, uno ci fa imparare, l’altro provare impeti d’animo, il terzo bramare
i piaceri della tavola e della procreazione [b] e ogni altro godimento affine; oppure se in ciascuno di
questi casi è l’anima tutta intera a farci agire, quando ci mettiamo in azione. Saranno distinzioni
difficili a farsi bene. - Sembra anche a me, disse. - Ebbene, tentiamo di definire, nel modo seguente,
se sono identici o diversi tra loro. - Come? - E’ chiaro che l’identico soggetto nell’identico rapporto
e rispetto all’identico oggetto non potrà contemporaneamente fare o patire cose opposte. Sicché, se
per caso scoprissimo che in quei principi si verificano questi fatti, sapremo che non erano il
medesimo [c] principio, ma più principi diversi. - Bene. - Esamina quello che dirò adesso. - Dillo,
rispose. - E’possibile, ripresi, che l’identico soggetto nell’identico rapporto stia fermo e insieme si
muova? - No affatto. - Mettiamoci dunque d’accordo in maniera ancora più precisa, ad evitare che
procedendo ci troviamo imbarazzati. Se, parlando di un uomo che sta fermo, ma muove le mani e la
testa, si dicesse che lo stesso individuo sta fermo e insieme si muove, noi lo riterremmo, credo, un
discorso [d] errato, ma diremmo che una parte di lui sta ferma e un’altra si muove. Non è così? Così. - Ebbene, supponiamo che chi parla così voglia divertirsi ancora di più e sostenga,
argutamente, che le trottole, considerate nel loro insieme, stanno ferme e al tempo stesso si
muovono quando girano attorno con la punta piantata nel medesimo luogo; o che così si comporta
anche un qualsiasi altro oggetto che ruoti nello stesso punto. Questo non lo potremmo ammettere,
perché la quiete e il moto di tali [e] oggetti non vanno considerati in relazione alle loro parti stesse.
Diremmo invece che essi hanno asse e circonferenza e che rispetto all’asse stanno fermi perché non
sbandano da nessun lato, rispetto alla circonferenza ruotano. Quando poi l’oggetto gira e nel
contempo inclina la direzione assiale verso destra o sinistra o sul davanti o all’indietro, allora in
qualunque sua parte manca la quiete. - Sì, e avremmo ragione. - Dunque, nessuno di quei discorsi ci
stupirà né ci persuaderà più che l’identico oggetto possa mai patire [437a] o essere o fare insieme
cose opposte, nell’identico rapporto e rispetto all’identico oggetto. - Io almeno non ne sarò
persuaso, rispose. - Pure, ripresi, per non trovarci costretti a dilungarci discutendo punto per punto
tutte codeste incertezze e assodandone la falsità, supponiamo che le cose stiano così e andiamo
avanti; restiamo però d’accordo che se mai la questione ci apparirà sotto diversa luce, si dovranno
considerare nulle tutte le eventuali conseguenze. - Bene, rispose, bisogna fare così.
[b] XIII. - Ora, dissi, annuire e ricusare, bramare di prendere una cosa e rifiutarla, attirarsela e
respingerla, tutte queste non le considererai cose tra loro opposte, si tratti di farle o di subirle? Su
quest’ultimo punto non c’è nessuna differenza. - Ma certo, fece lui, opposte. - E poi?, ripresi;
provare sete e fame, e in genere gli appetiti materiali, e volere e desiderare, tutto questo non lo [c]
farai rientrare in qualche modo nelle categorie or ora dette? Per esempio: non dirai che l’anima di
chi appetisce brama volta a volta ciò che appetisce, o che attira a sé ciò che desidera possedere? o
ancora, in quanto vuole ottenere qualcosa, per questa cosa annuisce a se stessa come se la si
interrogasse, e si strugge per la sua realizzazione? - Io sì ancora: non desiderare, non volere e non
provare appetiti non le considereremo maniere di respingere e ricacciare dall’anima, da far rientrare
nella serie degli atti [d] opposti ai precedenti? - Come no? - Se dunque le cose stanno così, diremo
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che esiste una determinata specie di appetiti e che i più evidenti di essi sono quelli che chiamiamo
sete e fame? - Lo diremo, ammise. - E uno dei desideri non sarà quello della bevanda, l’altro quello
del cibo? - Sì. - Ora, in quanto sete, potrà far desiderare all’anima qualcosa di più di quello che
diciamo? Per esempio: la sete è sete di bevanda calda o fresca, o di molta o poca, o anche in una
parola, di un determinato tipo di bibita. Oppure, se alla sete si aggiungesse un certo [e] calore, non
farebbe desiderare una bevanda fresca? e se invece le si aggiungesse una certa frescura, una
bevanda calda? E se poi, in ragione della sua quantità, la sete è molta, non farà desiderare molta
bevanda? se poca, poca bevanda? Ma potrà mai avvenire che in se stesso il fatto di sentire sete sia
voglia d’altro che della cosa dì cui è naturalmente sete, cioè di una bibita in quanto bibita? e l’avere
fame quella di un alimento? - E’ così, rispose; ciascun desiderio, considerato in sé, è desiderio
solamente di quella cosa in sé di cui esso è naturale desiderio; desideri di questa o quell’altra qualità
sono circostanze acces-[438a] sorie. - Stiamo attenti però, ripresi, che, sprovveduti come siamo, uno
non ci venga a sconcertare dicendo che nessuno desidera la bevanda, ma la bevanda buona, e non il
cibo, ma il cibo buono. Tutti, non è vero?, desiderano le cose buone. Se dunque la sete è desiderio,
lo sarà di una cosa buona, bevanda o altro che desideri, e così si dica per gli altri desideri. - Chi
dicesse così, rispose, forse avrebbe una certa ragione, come sembra. - Ma, feci io, tutte le cose che
sono in relazione con un oggetto, se [b] presentano una determinata qualità, hanno relazione, a mio
parere, con un oggetto che ha quella qualità; ma le medesime cose, considerate per se stesse, hanno
relazione ciascuna solamente con il suo singolo oggetto in sé. - Non ho compreso, disse. - Non hai
compreso, replicai, che ciò che è maggiore è tale perché è maggiore di qualche cosa? - Senza
dubbio. - Non forse di ciò che è minore? - Sì. - E ciò che è molto maggiore lo è di ciò che è molto
minore; non è vero? - Sì. - E ciò che è stato maggiore non lo sarà stato dì ciò che era minore? E ciò
che sarà maggiore non lo sarà di ciò che sarà minore? [c] - Ma certamente, ammise. - E non è lo
stesso se si considera il più rispetto al meno, il doppio rispetto alla metà, e ogni caso consimile? e
ancora, oggetti più pesanti rispetto a più leggeri, più veloci rispetto a più lenti, e poi i caldi rispetto
ai freddi, e ogni altro caso simile a questi? - Senza dubbio. - E per le scienze non è lo stesso? La
scienza in sé è scienza della cognizione in sé o di quel qualunque oggetto che le si deve dare; ma
una scienza particolare e determinata è scienza di un oggetto determinato e particolare. Voglio dire
questo: quando ebbe origine la [d] scienza di fabbricare le case, non si distinse dalle altre scienze al
punto da essere chiamata architettura? - Certo. - E ciò non fu perché era una scienza determinata,
come nessuna delle altre? - Sì. - E non divenne una scienza determinata perché era scienza di un
determinato oggetto? e così le altre arti e scienze? - E’ così.
XIV. - Questo, ripresi, intendevo allora dire, puoi bene affermarlo, se adesso hai compreso: tutte le
cose che sono in relazione con un oggetto, considerate in sé e da sole hanno relazione con gli
oggetti presi in sé e da soli; ma cose dotate di una determinata qualità l’hanno con oggetti [e] dotati
di quella qualità. E non dico che siano esattamente quali sono i loro oggetti; non dico che, per
esempio, la scienza delle cose sane e malate è sana e malata, e quella delle cattive e buone cattiva e
buona; ma poiché essa è divenuta scienza non di ciò che costituisce l’oggetto della scienza, ma di
un oggetto determinato, ossia del sano e del malato, eccola divenuta anch’essa una scienza
determinata; e perciò non la si è più chiamata semplicemente scienza, ma, per l’aggiunta della
specificazione, scienza medica. - Ho compreso, rispose, e mi sembra che sia così. [439a] - E la sete,
feci io, non porrai tu che quello che essa è, lo è nel numero delle cose "che sono di qualcosa"? Essa
è, non è vero?, sete di... - Sì che la porrò, rispose; è sete di una bevanda. - Ora, per una bevanda
determinata non c’è anche una determinata sete? E non è vero che la sete in sé non è sete né di
molta né di poca bevanda, né di una bevanda buona né di una cattiva, né, in una parola, di una
bevanda determinata? E invece, sete come sete, non è per natura soltanto sete di una bevanda in
quanto bevanda? - Assolutamente. - Perciò l’anima di chi ha sete, in quanto ha sete, non desidera
altro [b] che bere e tende e mira a questo. - E’ chiaro. - Ebbene, se, quando ha sete, c’è qualche altra
cosa che la tira in senso opposto, non ci sarà in lei un elemento diverso da quello che ha sete e che,
come una bestia, la spinge a bere? Perché, come s’è detto, l’identico oggetto non può effettuare nel
medesimo tempo azioni opposte con la stessa sua parte e rispetto all’identico oggetto. - No
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certamente. - Così, credo, se si parla dell’arciere, non sta bene dire che le sue mani al tempo stesso
allontanano e avvicinano al corpo l’arco, ma dovremo dire che una lo allontana, l’altra lo avvicina. Perfetta-[c] mente, ammise. - Ora, possiamo dire che ci sono persone che, per quanto assetate, non
vogliono bere? - Certo, rispose, ce ne sono molte, e non di rado. - E che se ne potrà dire?, feci io.
Non forse che nell’anima loro c’è un elemento che incita e un altro che vieta di bere? e che questo è
diverso e prevale sul primo? - Mi sembra di sì, rispose. - E quello che così vieta, quando sorge, [d]
non sorge dalla ragione? E gli impulsi e le attrazioni non sono dovuti a passioni e sofferenze? - E’
evidente. - Non avremo torto, dunque, continuai, a giudicare che si tratti di due elementi tra loro
diversi: l’uno, quello con cui l’anima ragiona, lo chiameremo il suo elemento razionale; l’altro,
quello che le fa provare amore, fame, sete e che ne eccita gli altri appetiti, irrazionale e appetitivo,
compagno di soddisfazioni e piaceri materiali. - No, anzi [e] così avremmo ragione, rispose. - Ecco
dunque definiti, ripresi, questi due aspetti che sono nell’anima nostra. Il terzo è forse quello
dell’animo, quello che ci rende animosi? o avrà esso la stessa natura di uno dei due precedenti? Forse, rispose, del secondo, l’appetitivo. - Però, dissi, una volta sentii raccontare un aneddoto, per
me attendibile: Leonzio, figlio di Aglaione, mentre saliva dal Pireo sotto il muro settentrionale dal
lato esterno, si accorse di alcuni cadaveri distesi ai piedi del boia. E provava desiderio di vedere, ma
insieme non tollerava quello spettacolo e ne distoglieva lo sguardo. Per un poco lottò [440a] con se
stesso e si coperse gli occhi, poi, vinto dal desiderio, li spalancò, accorse presso i cadaveri
esclamando: "Eccoveli, sciagurati, saziatevi di questo bello spettacolo". - L’ho sentito raccontare
anch’io, rispose. - Ora, conclusi, questo racconto significa che talvolta l’impulso dell’animo
contrasta con i desideri: si tratta di cose tra loro diverse. - Sì, significa questo, ammise.
XV. - E non notiamo, ripresi, - anche in numerose [b] altre occasioni che, quando una persona è
dominata da violenti desideri che contrastano con la ragione, essa si rimprovera e prova un senso di
sdegno contro l’elemento violento che è in lei? e che, in questo contrasto a due, il suo animo si allea
alla ragione? Ma quando esso fa causa comune con i desidèri, in quanto la ragione decide che non
deve contrastarli, non credo tu possa affermare di accorgerti che sia mai accaduto in te e nemmeno
in altri alcunché di simile. - No, per Zeus!, disse. - E [c] che succede, feci, quando uno crede di
essere in torto? Non è vero che, quanto più è nobile di cuore, tanto meno è capace di arrabbiarsi per
la fame, il freddo o qualsiasi altro simile disagio gli venga da chi, secondo lui, fa questo
giustamente? e che, come dico, l’animo suo non vuol eccitarsi contro codesta persona? E’ vero,
rispose. - E quando uno pensa di subire un torto? Non è vero che allora ribolle d’ira, si stizzisce e si
fa alleato di quella che gli sembra giustizia? e, attraverso la fame, il freddo [d] e ogni simile
patimento, tenacemente resistendo vince, senza desistere dai suoi nobili sforzi finché non riesce o
muore o si ammansisce alla voce della ragione che è in lui, come si ammansisce un cane alla voce
del pastore? - Il paragone è senza dubbio calzante, rispose; e veramente nel nostro stato abbiamo
stabilito che gli ausiliari, come cani, siano soggetti ai governanti, come a pastori dello stato. - Tu
comprendi bene, dissi, il mio pensiero. Ma vuoi ri-[e] flettere su quest’altro punto? - Quale? L’elemento animoso si rivela l’opposto di come pensavamo poco fa. Allora noi lo credevamo una
specie di appetito, adesso invece affermiamo che c’è notevole differenza e preferiamo assai dire che
quando l’anima è discorde, esso combatte in difesa della ragione. - Senz’altro, disse. - Ed è diverso
anche da questa o ne è un aspetto, sì che nell’anima esistono non tre, ma due aspetti, il razionale e
l’appetitivo? Oppure, come nello stato erano tre classi a costi-[441a] tuirlo (affaristi, ausiliari e
consiglieri), così anche nell’anima questo terzo elemento è l’animoso? E non aiuta esso
naturalmente la ragione, a meno che non la guasti una cattiva educazione? - E’ necessariamente il
terzo, rispose. - Sì, feci io, sempre che risulti diverso dall’elemento razionale, come risultò
differente dall’appetitivo. Ma non è difficile questo, disse; anche nei bambini si potrebbe notare che
fino dalla nascita sono pieni d’animo, ma, in quanto alla ragione, taluni di essi, a mio parere, [b] ne
sono totalmente privi, i più ne acquistano col tempo. - Sì, per Zeus!, risposi, hai detto bene. E il
fenomeno che citi si potrebbe constatare anche nelle bestie. Lo confermerà ulteriormente il verso di
Omero che più sopra abbiamo ripetuto: "percotendosi il petto rimproverava il suo cuore". Lì Omero,
come se si trattasse di due cose di cui una rimbrotta l’altra, ha chiaramente rappresentato l’elemento
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[c] razionale, che riflette sul meglio e sul peggio, mentre rimbrotta quello che s’eccita
irragionevolmente. Parli benissimo, disse. XVI. - Ecco, feci io, che, pur a stento, abbiamo superato
queste difficoltà e ci siamo resi ben conto che le parti che costituiscono lo stato e le parti che
costituiscono l’anima di ciascun individuo, sono le stesse e in numero eguale. - E’ così.
Platone, Repubblica 611c-612a
Dunque l’anima è immortale. E’ la conclusione necessaria del nostro recente discorso e degli altri.
E per vederla quale è nella sua vera [c] natura, non bisogna contemplarla, come invece la
contempliamo noi ora, lordata dal contatto con il corpo e da altri mali. Dobbiamo invece osservare
attentamente con il raziocinio quale essa è allo stato di perfetta purezza. Il raziocinio la troverà
molto più bella e splendida e ne distinguerà le varie forme di giustizia e ingiustizia, e tutte le qualità
che or ora abbiamo elencate. Però ora abbiamo detto il vero rispetto al modo in cui essa ci appare
presentemente. L’abbiamo vista in quella condizione in cui si trova Glauco marino; chi lo vedesse
non ne ricono-[d] scerebbe più tanto facilmente la pristina natura, perché le parti antiche del corpo
sono in parte spezzate, in parte corrose e completamente sfigurate dai flutti. Altre poi vi sono
aggiunte, conchiglie alghe sassi; e così rassomiglia più a una bestia qualsiasi che al suo essere
naturale. Anche l’anima noi la contempliamo così ridotta da innumerevoli mali. Eppure, Glaucone,
è lì che occorre guardare. [e] - Dove?, chiese. - Al suo amore di sapere. E occorre riflettere quali
siano gli oggetti che coglie e quali le relazioni che ricerca per la sua affinità con il divino e
immortale ed eterno; e quale potrebbe divenire se tutta seguisse questo essere e dallo slancio fosse
portata fuori del pelago in cui ora si trova e si scrollasse via i sassi e le con-[612a] chiglie che ora,
come se banchettasse con terra, le formano attorno una crosta spessa e scabra di terra e pietre,
effetto di quei cosiddetti felici banchetti. E allora si potrà vederne la vera natura, se molti ne siano
gli aspetti o uno solo, in che cosa consista e come sia. Ma ora, come io credo, abbiamo a sufficienza
considerato le sue condizioni e i suoi aspetti durante la vita umana. - Senz’altro, rispose.
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Bene
Platone, Repubblica 352e-353d
Dimmi: esiste secondo te una [e] funzione (èrgon) propria del cavallo? - Secondo me, sì. - Ora,
come funzione di un cavallo o di un altro essere od oggetto qualunque non porrai tu quello che si
può fare esclusivamente o meglio di tutto per suo mezzo? - Non comprendo, disse. - Allora così:
potresti tu vedere con organi diversi dagli occhi? - No certamente. - E udire con organi diversi dalle
orecchie? - No davvero. - Non sarebbe dunque giusto dire che queste sono le funzioni di tali organi?
- Senza dubbio. [353a] - E un tralcio di vite lo potresti potare con un coltello o con un trincetto o
con vari altri strumenti? - Come no? - Ma con nessuno, credo, tanto bene quanto con la roncola che
è fabbricata apposta. - E’ vero. - Non dovremo dunque considerare questa la funzione della roncola?
- Sì. XXIV. - Adesso, a mio avviso, potrai meglio comprendere la domanda di poco fa, quando
cercavo di sapere se la funzione di ciascuna cosa consistesse in ciò che essa sola può compiere, o,
comunque, meglio di ogni altra. - Certo che lo comprendo, disse, e secondo me la fun-[b] zione di
ciascun oggetto consiste in questo. - Bene, ripresi. E non credi che a ogni cosa cui sia propria una
funzione sia propria pure una virtù (aretè)? Torniamo agli esempi di prima: c’è, diciamo, una
funzione propria degli occhi? - C’è. - E non c’è allora anche una loro virtù? - Sì, anch’essa. E c’è
una funzione propria delle orecchie? - Sì. - E dunque anche una virtù? - Sì, anch’essa. E non è così
per tutte le altre cose? [c] - Così. - Ebbene, potrebbero mai gli occhi compiere bene la loro funzione
se al posto della virtù loro propria avessero un vizio (kakìa)? - E come potrebbero?, rispose.
Probabilmente tu parli della cecità al posto della vista. - Quale sia la loro virtù, feci io, non importa.
Non è ancora questo che ti domando: ti chiedo invece se i soggetti che svolgono una certa funzione
la svolgeranno bene con la virtù loro propria e male con il vizio. - E’ vero quello che dici, ammise. E anche le orecchie, private della loro virtù, non compiranno male la loro funzione? - Sen-[d] za
dubbio. - E per tutte le altre cose consideriamo valido lo stesso discorso? - Mi sembra di sì. Platone, Repubblica 504e-506c
Ma veniamo a quella che tu dici la massima disciplina e al suo oggetto. Credi che ti si potrà lasciar
andare, continuò, senza chiederti che cosa è? - No certamente, feci io, ma chiedilo pure. Comunque
ne hai sentito parlare non di rado: adesso o non ci rifletti oppure mediti di crearmi delle [505a] noie
con le tue obiezioni. E inclino piuttosto a questa seconda supposizione, poiché hai sentito dire
spesso che oggetto della massima disciplina è l’idea del bene; è da essa che le cose giuste e le altre
traggono la loro utilità e il loro vantaggio. E pressappoco tu sai ora che voglio dire questo, e inoltre
che di essa non abbiamo una conoscenza adeguata; ma se non ne abbiamo conoscenza, anche
ammesso che conoscessimo perfettissimamente tutto il resto senza di questa, vedi bene che non ne
ritrarremmo alcun giovamento, come non lo ritrarremmo se possedessimo una cosa senza il bene.
[b] Credi che ci sia vantaggio a possedere una qualunque cosa, se non è buona? o a intendere tutto
ad eccezione del bene, senza intendere per nulla il bello e il bene? Per Zeus!, rispose, io no.
XVII. - D’altra parte tu sai anche che per i più il bene è piacere, ma per i più raffinati è intelligenza.
- Come no? - E che, mio caro, coloro che pensano così, non possono spiegare che cosa sia
l’intelligenza, ma sono costretti infine a dichiarare che è quella del bene. - Ed è molto ridicolo!,
rispose. - Come non può esserlo, feci [c] io, se, mentre ci rimproverano di non conoscere il bene, ce
ne parlano come se lo conoscessimo? Dichiarano che è intelligenza del bene, come se noi
comprendessimo ciò che intendono dire quando pronunciano il nome del ‘bene’. - Verissimo,
rispose. - E coloro che definiscono bene il piacere? Forse che sbagliano meno degli altri? Non sono
costretti anche loro a riconoscere che esistono piaceri cattivi? - Sicuro. - Si trovano dunque a
riconoscere, credo, che le identiche cose sono buone e cattive. Non è [d] vero? - Indubbiamente. - E
qui non sorgono evidentemente grandi e numerose dispute? - E come no? - Ancora: non è pure
evidente che, trattandosi di cose giuste e belle che sono soltanto apparenza senza essere
effettivamente tali, molti tuttavia sceglierebbero di farle, di possederle e di far credere di
possederle? mentre, se si tratta di beni, nessuno si contenta più di ottenere i beni apparenti, ma cerca
quelli effettivi? e che, in questo àmbito, ognuno non esita a sprezzare l’apparenza? - Certo, rispose.
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Bene
- Ora, l’oggetto che ogni anima persegue e che pone come mèta di tutte le sue azioni,
indovinandone [e] l’importanza, ma sempre incerta e incapace di coglierne pienamente l’essenza e
di averne una salda fede come ha negli altri oggetti, onde perde anche l’eventuale vantaggio [506a]
di questi, dobbiamo dire che un tale oggetto, tanto importante, deve rimanere ugualmente ignorato
anche da quelle eminenti personalità dello stato alle quali rimetteremo ogni cosa? - No, affatto,
rispose. - Credo però, continuai, che per le cose giuste e belle, se si ignora in che relazione siano
con il bene, sarebbe un guardiano ben scarso chi ignorasse tale relazione. E profetizzo che prima di
conoscere questa relazione nessuno le conoscerà bene. - Giusta profezia, rispose. - Godrà dunque
[b] di un ordine perfetto la nostra costituzione, se le sovrintende un simile guardiano, che abbia
queste conoscenze?
XVIII. - Per forza, rispose. Ma tu ora , Socrate, dici che il bene sia scienza o piacere o qualcosa di
diverso? - Oh!, caro il mio uomo, replicai, lo sapevo bene, ed era palese da tempo che non ti
avrebbe soddisfatto l’opinione degli altri a questo proposito. - Non mi sembra giusto, Socrate, disse,
che uno che da tanto tempo si occupa di questi argomenti sappia riportare le opinioni altrui e la [c]
propria no. - E ti sembra giusto, feci io, che uno parli delle cose che non sa come se le sapesse?
Platone, Menone 77a-78c (trad. F. Adorno)
77a X. SOCR. Non lascerò nulla d’intentato per venire incontro a te e a me con le mie parole, ma
non sarò forse capace di poter reggere a lungo simili ragionamenti. Ad ogni modo, ora, cerca anche
tu di mantenere la tua promessa, definendo in generale cosa sia la virtù, e smetti di far dell’uno una
molteplicità, come scherzando sì dice di chi manda in pezzi un oggetto; lascia intera ed intatta la [b]
virtù, e dimmi in che consiste. Già ti ho dato esempio di come devi fare. MEN. Mi sembra, Socrate,
che la virtù, come dice il poeta, consista nel "godere le cose belle e nell’aver potere". Ecco, dunque,
la mia definizione della virtù: desiderio di cose belle e capacità di procurarsele. SOCR. Vuoi dire
che il desiderio delle cose belle è tutt’uno con il desiderio delle cose buone? MEN. Senza dubbio.
SOCR. Ma tu dici questo pensando che vi siano alcuni che [c] desiderano il male, altri il bene? Non
ti sembra, invece, che tutti desiderino il bene? MEN. Secondo me, no! SOCR. Vi è, dunque, chi
desidera il male? MEN. Sì. SOCR. Ma, secondo te, perché si ritiene che il male sia bene? o, pur
sapendo che è male, lo si desidera ugualmente? MEN. Secondo me si dà l’uno e l’altro caso. SOCR.
Ma allora, Menone, secondo il tuo parere si può desiderare il male pur conoscendo che è male?
MEN. Certo! SOCR. Cosa intendi dire con ‘desiderare’? Che la cosa avvenga? [d] MEN. Che
avvenga! Cosa mai potrebbe essere? SOCR. Ma si desidera il male credendo ch’esso sia di
giovamento a chi tocca, o sapendo che il male è dannoso a chi l’ha? MEN. C’è chi crede che il male
sia di giovamento, e chi sa che dannoso è il male. SOCR. Ma ti sembra conoscano che il male è
male coloro che ritengono che il male sia di giovamento? MEN. Proprio no! SOCR. Evidentemente,
dunque, costoro non desiderano i mali, dal momento che [e] non li conoscono affatto, ma quelli
ch’essi ritengono beni, pur essendo mali. Chi, dunque, ignora i mali e li ritiene beni, evidentemente
desidera i beni. No? MEN. Sotto questo aspetto sembra di sì. SOCR. Ma allora, chi desidera i mali,
come tu dici, pur ritenendo che i mali arrechino danno a chi ne sia colpito, non sa bene che ne sarà
danneggiato? MEN. Necessariamente. SOCR. Ma [78a] tali persone non credono che i danneggiati
siano infelici proporzionalmente al danno ricevuto? MEN. Per forza anche questo! SOCR. E che
uno sventurato è infelice? MEN. Lo credo bene! SOCR. Ma esiste uno che voglia essere infelice e
sventurato? MEN. Non mi sembra, Socrate. SOCR. E allora, Menone, nessuno vuole il male, a
meno che non voglia essere infelice e sventurato. Cos’altro mai, difatti, è essere infelice se non
desiderare e acquisire [b] il male? MEN. Sì, Socrate, sembra che tu dica la verità: nessuno vuole il
male.
XI. SOCR. Un momento fa dicevi, dunque, che la virtù consiste nel volere i beni e nel potere di
procurarseli? MEN. Così ho detto. SOCR. Solo che impostata così la questione, il volere si trova in
tutti, per cui, sotto questo aspetto nessuno è migliore di un altro. MEN. Sembra! SOCR. E’ chiaro,
dunque, che se uno è migliore di un altro, lo è in virtù del potere. MEN. Senza dubbio. SOCR.
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Bene
Secondo il tuo ragionamento, dunque, la virtù, sembra, [c] consiste nel potere di procurarsi i beni.
MEN. Sì, Socrate, in tutto e per tutto mi sembra che la cosa stia proprio come tu adesso l’hai còlta.
Platone, Fedone 98b-99c (trad. M. Valgimigli)
XLVII. Ed ecco invece, o amico, che da così alta speranza io mi sentivo cader giù e portare via man
mano che, procedendo nella lettura, vedevo quest’uomo non valersi affatto della mente, non
assegnarle alcun principio di cau-[c] salità nell’ordine dell’universo, bensì presentare come cause e
l’aria e l’etere e l’acqua e altre cose molte, e tutte quante fuori di luogo. E mi parve fosse proprio lo
stesso che se uno, pur dicendo che Socrate tutto quello che fa lo fa con la mente, quando poi si
provasse a voler determinare le cause di ogni cosa ch’io faccio, incominciasse col dire che ora, per
esempio, io sono qui seduto per ciò che il mio corpo è composto di ossa e di nervi; e che le ossa
sono rigide, ma hanno articolazioni che le separano le [d] une dalle altre; e che i nervi sono capaci
di tendersi e di allentarsi, e che avvolgono tutt’intorno le ossa insieme con la carne e con la pelle
che li ricopre; e dunque, siccome le ossa sono come sospese e oscillanti nelle loro proprie giunture,
e i nervi, allentandosi e tendendosi, fanno sì che ora io sia in grado di piegare in qualche modo le
mie membra, questa appunto è la causa per cui ho potuto piegarmi e sedermi qui. E lo stesso anche
sarebbe di questo mio conversare con voi chi lo attribuisse ad altrettali cause, allegando, per
esempio, la voce l’aria l’udito e infinite altre [e] dello stesso genere, senza curarsi affatto di dir
quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro,
per questo anche a me è parso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere non
andarmene via, e affrontare quella qualunque pena che costoro abbiano decretato. Perché da un
[99a] pezzo, lo so bene, questi miei nervi e queste mie ossa sarebbero o a Mègara o in Beozia,
menate colà dalla opinione di ciò che per esse era il meglio, se io non avessi ritenuto più giusto e
più bello, invece di andare in esilio e di darmela a gambe, pagare alla mia città la pena, qualunque
essa sia, che ella m’impone. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha che fare
assolutamente. Ché se uno dice che, senza avere di codeste cose, e ossa e nervi e tutto quello che io
ho, non sarei capace di fare quello che mi sembri dover fare, sta bene, costui dirà il vero; ma dire
che queste sono la causa per cui io faccio quello che faccio, e dire al tempo stesso che io opero con
[b] la mente ma senza che ci sia per la mia parte la scelta del meglio, questo in verità è il più
grossolano e insensato modo di parlare. E significa essere incapaci di discernere che altro è la causa
vera e propria, altro quel mezzo senza cui la causa non potrà mai esser causa. E tuttavia proprio
questo, quasi fosse la vera causa, la più parte degli uomini, brancolando come nel buio, chiamano
causa: e le danno un nome che non è suo. Ecco perché, per esempio, c’è chi, ponendo intorno alla
terra un movimento vorticoso, immagina ch’ella sia tenuta ferma da questo moto del firmamento; e
c’è chi immagina la terra come una madia piatta, e sotto le pone l’aria come sua base e sostegno.
Ma quel [c] potere onde cielo e terra si trovano oggi disposti come fu possibile un giorno fossero
disposti nel modo migliore, codesto potere né lo ricercano essi né credono abbia alcuna sua forza
divina; bensì credono di poter ritrovare un Atlante assai più forte e più immortale di questo, e
meglio capace di contenere in sé l’universo; e ciò che è il bene, che è ciò che lega ogni cosa al suo
fine, non pensano affatto né che veramente colleghi cosa veruna né che la contenga.
Platone, Protagora 352 b-e (trad. F. Adorno)
Co-[b] raggio, Protagora, metti a nudo anche questo lato del tuo pensiero: qual è il tuo punto di vista
nei confronti della scienza? Ne hai la stessa opinione della maggioranza, o altra? questa è,
all’incirca, l’opinione della maggioranza: la scienza non ha alcun vigore, capacità coordinatrice e di
governo. E non solo i più ne hanno un simile concetto, ma sovente pensano che, pur nell’uomo che
la possiede, non sia la scienza ad avere il governo, ma altro, ora la passione, ora il piacere, ora il
dolore, talvolta l’amore, più [c] spesso la paura, in una parola si mettono in testa che la scienza sia
come un servo, trascinata di qua e di là da tutti gli altri. Anche tu pensi in questo modo, o ritieni che
la scienza sia qualcosa di bello, capace di avere in mano il governo dell’uomo, tanto che se
qualcuno conosce i beni e i mali non può essere dominato da null’altro, né può comportarsi se non
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Bene
come gli comanda la scienza, e che la sola saggezza basti a soccorrere l’uomo? - Mi sembra,
Socrate, affermò, che sia proprio come tu dici; non solo, ma che, ad un tempo, più che ad alcun altro
sia per me brutto non sostenere che la sapienza e la scienza sono, tra [d] le più umane cose, le più
potenti. - Giuste parole e vere!, esclamai. Ad ogni modo sai che la maggior parte degli uomini non
crede né a me né a te; dicono, anzi, che, pur conoscendo il meglio e potendolo seguire, non lo
vogliono, ma agiscono in tutt’altra maniera; e a quanti ho domandato quale ne sia la causa, hanno
risposto che lo fanno perché sopraffatti o dal piacere o dal dolore o perché [e] dominati da
qualcun’altra di quelle azioni di cui dianzi parlavo.
Platone, Repubblica 357a-358a
[357a] I. Con questo credevo di avere finito di parlare, ma, sembra, non si era che al preludio.
Perché Glaucone, sempre coraggioso com’è con chiunque, anche allora non approvò la rinuncia di
Trasimaco e: - Socrate, disse, ti contenti di averci apparentemente persuasi? o preferisci [b]
persuaderci davvero che il giusto è in ogni caso migliore dell’ingiusto? - Questo io vorrei, risposi,
se lo potessi. - Però non lo fai, riprese. Dimmi: esiste secondo te un bene che saremmo lieti di
possedere perché ci è caro per sé, e non perché bramiamo i vantaggi che ne conseguono? Di tal
modo sono il provare gioia e tutti quegli innocui piaceri che non comportano nulla in futuro se non
la gioia di provarli. - Sì, dissi, secondo me un simile bene esiste. - Ancora., c’è un bene che amiamo
per se stesso [c] e per i suoi vantaggi, come ad esempio avere intelligenza, vista e salute? Questi
beni, a mio avviso, ci sono cari per tutte due le ragioni. - Sì, risposi. - E non vedi, riprese, che esiste
una terza specie di beni, come fare ginnastica, essere curati in caso di malattia, esercitare la
medicina e praticare le altre attività rivolte a far denari? Tutto questo, dobbiam dirlo, ci costa fatica
e pure ci è utile; e noi siamo lieti di possederlo non per se stesso, [d] ma per le mercedi e gli altri
suoi vantaggi. - Esiste sì, ammisi, anche questa terza specie di beni. E con ciò? - E in quale poni la
giustizia? chiese. - Nella miglio-[358a] re, credo, dissi; quella che chi aspira alla felicità deve amare
per se stessa e per i vantaggi che comporta. - Non è certo così che pensa la gente comune, rispose.
La pongono nella specie dei beni che costano fatica, di quei beni che si devono praticare per avere
mercede e buona reputazione, ma che per se stessi sono da evitare come molestia.
Platone, Repubblica 353d-354a
Sù, esamina ancora questo punto. Non c’è una funzione dell’anima che non potresti compiere con
nessun’altra tra le cose che sono? Questa per esempio: sorvegliare, governare, deliberare e tutte le
attività consimili, c’è altri cui potremmo a buon diritto affidarle se non all’anima? e potremmo non
dirle proprie di essa? No, non c’è altri. - E vivere? Non è, diremo, funzione propria dell’anima? - Sì,
in modo particolare, rispose. C’è allora, possiamo dire, anche una virtù dell’anima? Possiamo dirlo.
- Ora, [e] Trasimaco, potrà mai l’anima compiere bene le sue funzioni, se viene privata della virtù
che le è propria? O è impossibile? - Impossibile. - Un’anima, cattiva deve per forza governare e
sorvegliare male, e un’anima buona compiere bene tutto questo. - Per forza. - Ora, non abbiamo
convenuto che virtù dell’anima è la giustizia e vizio l’ingiustizia? - Sì, l’abbiamo convenuto. Perciò l’anima giusta e l’uomo giusto vivranno bene, e l’ingiusto male. - E’ evidente, disse, dal tuo
discorso. [354a] - D’altra parte chi vive bene è beato e felice, chi non vive bene l’opposto. - Come
no? - Quindi il giusto è felice e l’ingiusto infelice. - Ammettiamolo, disse, - Non v’è però profitto a
essere infelici, mentre c’è a essere felici. - Come no? - Mai dunque, benedetto Trasimaco,
l’ingiustizia dà più profitto della giustizia.
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Bene
Platone, Gorgia 507c1-5
cosicchè è necessario, Callicle, che l'uomo temperante, essendo, come abbiamo detto, giusto e
coraggioso e pio, sarà un uomo perfettamente buono (agathòs); ma il buono farà bene e in modo
bello (eu kai kalòs pràttein) ciò che fa, e chi fa/agisce bene (eu pràttonta) è beato e felice, il
malvagio e chi agisce male (kakòs pràttonta) infelice";
Platone, Leggi 631 b-d (trad. A. Zadro)
ATEN. "Ospite", dovevi dire tu, "le leggi dei Cretesi non sono senza ragione ritenute fra le migliori
di tutti i Greci. Esse sono giuste e rendono felici quelli che vivono in loro. Esse sanno dare ogni
bene, e i beni sono di due specie: quelli umani e quelli divini. Dai divini dipendono gli umani, [c] e
se uno stato possiede quelli, che sono maggiori, anche questi, i minori, possiede, e se no, né quelli
né questi. Fra i beni umani vien prima la salute e poi la bellezza e terza la forza di correre e di fare
tutti gli altri movimenti del corpo, e quarto l’essere ricchi d’una ricchezza non cieca, ma di vista
acuta, quando cioè si accompagni all’intelligenza. Dei beni divini invece il primo, e la guida, è
l’intelligenza, e poi, secondo, la saggia e temperante condizione dell’anima, che si accompagni
all’intelletto; procedente da questi fusi insieme con il coraggio, terza è la giustizia, [d] quarto il
coraggio. Tutte queste cose divine sono state già ordinate e preposte ai beni mortali nella natura
delle cose. Il legislatore deve far osservare quest’ordine nella stessa misura. E dopo di ciò ogni altra
norma ch’egli impartirà ai suoi cittadini dovrà annunciarla in funzione di questi valori, e dire che,
ovunque, i valori umani si ordinano ai divini e questi all’intelletto, che tutti li governa
Platone, Repubblica 443c-444a
- Un’immagine della giustizia e insieme una fonte di utilità era, Glaucone, in questa norma: chi è
per natura calzolaio è giusto che faccia il calzolaio, senza svolgere altre attività, e chi è falegname il
falegname, e così via. - E’ evidente. - E la giustizia, come sembra, era davvero qualcosa di simile:
essa però consiste nell’adempire i propri cómpiti non esteriormente, ma inte-[d] riormente, in
un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non
permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima
s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo,
diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua
anima, come perfettamente sintonizzano le tre armonie di una nota fondamentale, bassa alta media,
anche se per caso se ne inseriscono altre in mezzo: allora, dopo aver-[e] le legate tutte ed essere
divenuto uno di molti, temperante e armonico, eccolo ormai agire così, sia che la sua attività si
rivolga ad acquistare beni materiali o a curare il corpo, sia che si svolga nell’àmbito politico o in
contratti privati; e in tutto questo suo agire giudica e denomina giusta e bella l’azione che conserva
e contribuisce a realizzare questo intimo equilibrio, e sapienza la scienza che la [444a] dirige;
ingiusta l’azione che via via distrugge quell’equilibrio, e ignoranza l’opinione che la dirige. - Le tue
affermazioni, Socrate, disse, sono assolutamente veraci. - Ebbene, feci io, non dovremmo sembrare
affatto mentitori, credo, se dicessimo di aver trovato l’uomo giusto, lo stato giusto e che cosa è in
essi la giustizia. - No, per Zeus!, rispose. - Allora, possiamo dirlo? - Diciamolo pure.
Aristotele, Etica Nicomachea 1105a26-b12 (trad. C. Natali)
Inoltre, le cose non stanno nello stesso modo nel caso delle arti e in quello delle virtù: i prodotti
dell' arte hanno il loro bene in sé, e quindi basta che si generino dotati di una certa qualità, invece le
azioni virtuose non sono compiute giustamente o in modo temperante, 30 quando hanno una certa
qualità, ma lo sono, se, inoltre, colui che agisce lo fa trovandosi in certe condizioni (pòs èchon):
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Bene
prima di tutto se agisce consapevolmente (eidòs), poi se ha compiuto una scelta (prohairoùmenos) e
l'atto virtuoso è stato scelto per se stesso (di’autà), in terzo luogo se agisce con una disposizione
salda e insieme immutabile (bebàios kài ametakinètos). Queste condizioni 1105b non vengono
aggiunte nel caso del possesso delle altre arti, tranne il sapere; ma riguardo alle virtù il sapere (tò
eidènai) conta poco o nulla, mentre le altre condizioni hanno non poca influenza, anzi, possono
tutto; e sono proprio esse, quelle che si sviluppano a partire dal compiere spesso gli atti giusti e 5
temperanti.
Ora, le azioni compiute si dicono giuste e temperanti quando sono tali, quali le compirebbe il
giusto e il temperante. Uomo giusto e temperante non è semplicemente colui che compie azioni
simili, ma colui che, in più, le compie al modo dei giusti e dei temperanti. Si dice bene, dunque, che
dal compiere azioni giuste si genera il giusto, 10 e dal compiere azioni sagge il saggio: a partire dal
non compiere tali azioni nessuno mai potrà nemmeno avvicinarsi a diventare saggio.
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Conoscenza
Platone, VII lettera 344a-c (trad. A. Maddalena)
In una parola, chi non ha natura congenere alla cosa, né la capacità d’apprendere né la memoria
potrebbero renderlo tale (ché questo non può assolutamente avvenire in nature allotrie); perciò
quanti non sono affini e congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a
conoscere, per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtù e sulla colpa, anche se abbiano capacità
d’apprendere e buona memoria chi per questa e chi per quella cosa, né la conosceranno quelli che,
pur avendo tale natura, man-[b] cano di capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti insieme
si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con
molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi,
definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità,
viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione (phrònesis kai noùs) di ciascuno
brillino a chi com-[c] pie tutti gli sforzi che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda bene
dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini.
Platone, Simposio 211 c-e (trad. P. Pucci)
Questo, caro Socrate, diceva la straniera di Mantinea, è il [d] momento della vita che merita, se altro
mai, d'esser vissuto dall'uomo: quando contempla la bellezza in sé. La quale, se mai tu la veda una
volta, non ti parrà comparabile né con oggetto d'oro, né con veste, né con quei bei fanciulli e
giovinetti, alla cui vista ora rimani sgomento, e saresti pronto, tu e molti altri, pur di godere
ininterrottamente della vista e della convivenza loro, a durare, se fosse possibile, senza mangiare e
senza bere, solo a rimirarli e a star loro insieme. Che dunque dovremo credere che accada, diceva,
se ad uno avvenisse di vedere proprio il bello in sé, schietto, puro, immune [e], e non già
contaminato da carni umane né da colori né dalle molte altre vanità mortali: se proprio gli riuscisse
di scorgere la bellezza in sé, divina e uniforme?
Platone, Repubblica 517 b-c
Se poi tu consideri che l’ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono
all’elevazione dell’anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me, dal
momento che vuoi conoscere il mio parere. Il dio sa se corrisponde al vero. Ora, ecco il mio parere:
nel mondo conoscibile, punto estremo e dif-[c] ficile a vedersi è l’idea del bene; ma quando la si è
veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello; e nel
mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell’intelligibile largisce essa stessa, da
sovrana, verità e intelletto. E chi vuole condursi saggiamente in privato o in pubblico deve vederla.
- Sono d’accordo anch’io, rispose, come posso.
Platone, Gorgia 455 c-e
SOCR. Avanti, allora, ed esaminiamo quest’altro punto. C’è qualcosa che tu chiami ‘sapere
scientifico’ (memathekenai)? GORG. Sì. SOCR. E ancora, c’è qualcosa che chiami ‘credere’
(pepisteukènai)? GORG. Io sì! SOCR. E secondo te, sapere scientifico e credere, [d] scienza
(màthesis) e credenza (pìstis), sono una stessa cosa o cose diverse? GORG. Personalmente, Socrate,
credo che siano diverse. SOCR. Giusto, e potrai convincertene con questa osservazione. Se uno ti
chiedesse: "Gorgia, può esserci credenza falsa e credenza vera?", tu, secondo me, dovresti
rispondere di sì. GORG. Sì. SOCR. Ancora: può esserci una scienza (epistème) falsa e una scienza
vera? GORG. Assolutamente no! SOCR. E’ chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la
stessa cosa. GORG. Vero! SOCR. [e] Eppure tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono,
sono persuasi. GORG. Proprio così! SOCR. Vuoi allora che poniamo due specie di persuasione,
l’una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l’altra frutto di scienza? GORG.
Senz’altro!
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Conoscenza
Platone, Teeteto 187b (trad. M. Valgimigli)
SOCRATE …Dimmi dunque, ancora una volta, che cosa è conoscenza?
XXXI. TEET. Dire che conoscenza è qualunque opinione non è possibile, o Socrate, perché ci sono
anche opinioni false: direi che conoscenza è la opinione vera; e sia questa la mia risposta. Se poi,
procedendo nel ragionamento, quel che ci pare ora non ci paia più, proveremo a dire qualche
cos’altro.
Platone, Menone 80d-81a (trad. F. Adorno)
XIV. MEN. Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale
delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti
che è proprio quella che cercavi, [e] se non la conoscevi? SOCR. Capisco quel che vuoi dire,
Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! l’argomento secondo cui non è possibile
all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha
bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. MEN. E non ti [81a] sembra,
Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? SOCR. A me no!
Platone, Repubblica 475e-480a
XX. - Ma quali sono per te i veri filosofi?, chiese. - Quelli, feci io, che amano contemplare la verità.
- Anche in questo, ammise, hai ragione; ma che intendi dire? - Non è facile rispondere, ripresi,
davanti a un’altra persona, ma credo che sarai d’accordo con me su questo. - Su che cosa? - Che
bello e brutto, essendo opposti, [476a] sono cose distinte. - Come no? - E se sono due, ciascuna di
esse non sarà anche una? - Giusto anche questo. - Lo stesso discorso vale per il giusto e l’ingiusto,
per il bene e il male, e per ogni altra idea: ciascuna in sé è una, ma, comparendo dovunque in
comunione con le azioni, con i corpi e l’una con l’altra, ciascuna si manifesta come molteplice. Hai ragione, disse. - Ecco dunque la mia distinzione, feci io; da un lato metto gli individui che or
ora dicevi amatori di spettacoli, amanti delle arti e uomini di azione; dall’altro quelli di cui stiamo
par-[b] lando, gli unici che si potrebbero dire rettamente filosofi. Come dici?, chiese. - Secondo me,
risposi, gli amanti delle audizioni e degli spettacoli amano i bei suoni, i bei colori, le belle figure e
tutti gli oggetti che risultano composti di elementi belli; ma il loro pensiero è incapace di vedere e di
amare la natura della bellezza in sé. così, appunto, rispose. - E coloro che sono capaci di giungere
alla bellezza in sé e di vederla unicamente come [c] bellezza non saranno rari? - Certamente. - Chi
dunque riconosce che esistono oggetti belli, ma non crede alla bellezza in sé e, pur guidato a
conoscerla, non è capace di tenere dietro alla sua guida, ti sembra che viva in sogno o sveglio? Sù,
esamina. Sognare non vuole dire che uno, sia dormendo sia vegliando, crede che un oggetto
somigliante a una cosa non è simile, ma identico a ciò cui somiglia? - Io direi proprio, fece, che una
tale persona sta sognando. - E chi invece crede all’esistenza del bello in sé ed è ca- [d] pace di
contemplare sia questo bello sia le cose che ne partecipano, e non identifica le cose belle con il
bello in sé né il bello in sé con le cose belle, costui ti sembra che viva sveglio o in sogno? - Sveglio,
certamente, rispose.; - E il suo pensiero (diànoia), in quanto pensiero di uno che conosce, non
avremmo ragione di chiamarlo conoscenza (gnòme)? e quello di un altro, in quanto pensiero di uno
che opina, opinione (doxa)? - Senza dubbio. - E se costui al quale attribuiamo opinione e non
conoscenza, si arrabbiasse con noi e soste-[e] nesse che non diciamo il vero? Potremo un po’
calmarlo e persuaderlo con le buone, nascondendogli la sua infermità mentale? - Sì, rispose, è
nostro dovere. - Sù dunque, esamina che cosa gli diremo; o vuoi che, dicendogli che nessuno gli
invidia ciò che eventualmente sappia, e che anzi saremmo lieti di trovare chi sappia qualcosa, lo
interroghiamo così: "Sù, rispondi a questa nostra domanda: chi conosce, conosce qualcosa o
niente?". Rispondimi tu al suo posto. - Risponderò, disse, che conosce qualcosa. - Una cosa che è o
una che non è? [477a] - Che è: come potrebbe conoscerne una che non è? - Ecco dunque un punto
bene acquisito, anche se più volte ripetessimo il nostro esame: ciò che è in maniera perfetta è
perfettamente conoscibile, ma ciò che assolutamente non è, è completamente inconoscibile. 40
Istituzioni di storia della filosofia antica
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Conoscenza
Conclusione perfettamente soddisfacente. - Bene: ma se una cosa è tale da essere e non essere nello
stesso tempo, non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo? Intermedia. - Ora, la conoscenza non si riferisce a ciò che è, e la non conoscenza, necessariamente,
a ciò che non è? E per questa forma intermedia non si deve cercare anche qualcosa di intermedio [b]
tra l’ignoranza e la scienza, sempre che esista qualcosa di simile? - Senza dubbio. - E l’opinione,
diciamo, è qualcosa? - Come no? - Una facoltà diversa dalla scienza o la medesima? - Diversa. Quindi, a una cosa è ordinata l’opinione e a un’altra la scienza: ciascuna secondo la facoltà sua
propria. - Così. - Ora, per sua natura la scienza non ha per oggetto ciò che è, ossia conoscere come è
ciò che è? Mi sembra anzi che occorra una distinzione preliminare, così. - Come?
[c] XXI. - Definiremo le facoltà un genere di enti che permettono, sia a noi sia a qualunque altro
soggetto che possa, di fare ciò che possiamo. Dico, ad esempio, che alle facoltà appartengono la
vista e l’udito, se pur comprendi quale specie intendo dire. - Ma sì che comprendo, rispose. - Senti
dunque che cosa penso delle facoltà. Di una facoltà io non vedo né colore né figura alcuna né
alcuna simile proprietà, come invece la vedo di molte altre cose che mi basta guardare per definirle
fra me, queste in un modo, quelle in un altro. Quanto alla facoltà, ne [d] guardo soltanto l’oggetto e
l’effetto, e in questa maniera a ciascuna facoltà ho dato il suo nome: questa, ordinata all’identico
oggetto e dotata dell’identico effetto, la chiamo identica; quella, ordinata a un oggetto diverso e
dotata di diverso effetto, la chiamo diversa. E tu, come fai? - Così, disse. - Torniamo dunque al
punto, mio ottimo amico, ripresi. La scienza, per te, è una facoltà? O come la classifichi? - Così,
rispose, anzi tra tutte le facoltà è la più [e] potente. - E l’opinione, la riporteremo a una facoltà o a
un’altra specie? - Per nulla, disse; perché ciò che ci permette di opinare non è altro che opinione. Ma poco prima convenivi che scienza e opinione non s’identificano. - Già, rispose, come potrebbe
mai chi ha senno identificare l’infallibile con quello che non lo è? - Bene, feci io; noi siamo
evidentemente d’accordo che [478a] l’opinione differisce dalla scienza. - Sì, ne differisce. - Ora,
ciascuna di esse, dato che diverso è il suo potere, non ha naturalmente un oggetto diverso? - Per
forza. - E la, scienza non ha per oggetto ciò che è, ossia conoscere come è ciò che è? - Sì. - E
l’opinione quello, diciamo, di opinare? - Sì. - Conosce forse l’identico oggetto della scienza? e
l’identico sarà conoscibile e insieme opinabile? O è una cosa impossibile? - Impossibile, rispose, in
base a quello che s’è convenuto: se una facoltà, per sua natura, ha un oggetto e un’altra un altro, e
se opinione e scienza sono ambedue facoltà e ambedue, come [b] diciamo, diverse, queste premesse
non ci autorizzano a concludere per l’identità di conoscibile e opinabile. - E se il conoscibile è ciò
che è, l’opinabile non sarà diverso da ciò che è? - Diverso. - Ora, l’opinione opina forse ciò che non
è? O è pure impossibile opinare ciò che non è? Sù, rifletti. Chi ha un’opinione non la riferisce a una
cosa? O è possibile avere un’opinione anche senza riferirla a un oggetto? - Impossibile. Ma chi ha
un’opinione l’ha di una cosa almeno? Sì. - D’altra parte, a rigore, si potrebbe dire che ciò che non è,
non è una cosa, [c] ma è nulla? - Senza dubbio. - Però a ciò che non è, non abbiamo dovuto per
forza assegnare l’ignoranza, e a ciò che è, la conoscenza? - Esattamente, disse. - Allora, l’opinione
non opina né ciò che è né ciò che non è. - No. - E l’opinione non potrà dunque essere né ignoranza
né conoscenza. - Sembra di no. - E’ forse al di fuori di esse, superando in chiarezza la conoscenza o
in oscurità l’ignoranza? - Non è né questo né quello . - E allora, feci io, l’opinione ti sembra più
oscura della conoscenza, ma più luminosa dell’ignoranza? [d] - Sì, certo, rispose. - E sta tra le due?
- Sì. - L’opinione sarà dunque intermedia tra scienza e ignoranza. - Precisamente. - Ma prima non
affermavamo che, se una cosa risultasse, per modo di dire, nel medesimo tempo come essere e non
essere, sarebbe intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è affatto? e che non sarebbe
l’oggetto né della scienza né dell’ignoranza, ma di ciò che risultasse a sua volta come intermedio tra
l’ignoranza e la scienza? - Giusto. - E ora appunto non risulta intermedia tra le due quella che
chiamiamo opinione? Sì, risulta.
[e] XXII. Ci rimane dunque da scoprire, sembra, quest’altro elemento, che partecipa insieme
dell’essere e del non essere e che, rettamente parlando, non si potrebbe dire né l’uno né l’altro in
senso assoluto, affinché, se si manifesterà, possiamo dire a buon diritto che è l’opinabile, e
assegnare quindi ai termini estremi gli estremi, agli intermedi gli intermedi; non è così? - Così. 41
Istituzioni di storia della filosofia antica
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Conoscenza
Con queste premesse, dirò, mi dica e mi risponda quel bravo [479a] uomo che non crede al bello in
sé né ad alcuna idea del bello in sé che permanga sempre invariabilmente costante; e che invece
ammette la molteplicità delle cose belle; quell’amatore di spettacoli che non sopporta in nessun
modo chi eventualmente gli vada a parlare dell’unicità del bello e del giusto, e così via. Di queste
molte cose belle, diremo, ce n’è qualcuna, nostro ottimo amico, che non ti apparirà brutta? e tra le
giuste qualcuna che non ti apparirà ingiusta? e tra le pie qualcuna che non ti apparirà empia? - No,
disse, è inevitabile che le stesse cose [b] belle sotto qualche aspetto appaiano anche brutte, e così
tutte le altre che mi chiedi. - E le molte cose doppie? Non appaiono tanto mezze quanto doppie? Sicuro. - E per le cose grandi e piccole, e per le leggere e pesanti si useranno di più questi nomi che
diciamo che i nomi opposti? - No, rispose, ma per ciascuna andranno bene sia questi sia quelli. - E
ciascuna di queste molte cose, piuttosto che non essere, è forse ciò che la si dice essere? - Questo,
disse, sembra uno di quei giochi a doppio senso che si fanno nei banchetti, e quell’enigma che si
propone [c] ai bambini sull’eunuco e sul colpo tirato al pipistrello, dove c’è da indovinare con quale
oggetto e dove lo colpisce’. Anche queste cose sembrano a doppio senso, e di nessuna di esse si può
avere certezza che sia o non sia, né che sia le due cose insieme, né alcuna delle due. - Ebbene, feci
io, sai ciò che ne dovrai fare? Dove meglio le potrai collocare che tra l’essere e il non essere?
Perché non appariranno [d] più scure di ciò che non è, in quanto non ne superano il grado di non
essere, né più luminose di ciò che è, in quanto non ne superano il grado di essere. - Verissimo,
disse. - Allora, sembra, abbiamo scoperto che i molti luoghi comuni della maggioranza a proposito
della bellezza e di tutto il resto vagano, in certo modo, nella zona intermedia tra ciò che
assolutamente non è e ciò che assolutamente è. - L’abbiamo scoperto. - Ma prima avevamo
convenuto che, se una simile cosa fosse venuta fuori, bisognava definirla opinabile, ma non
conoscibile, perché a coglierla vagante nella zona intermedia è la facoltà intermedia. - Sì,
d’accordo. - Allora, coloro che contemplano la [e] molteplicità delle cose belle, ma non vedono il
bello in sé e non sono capaci di seguire chi colà li guidi, e che contemplano la molteplicità delle
cose giuste, ma non il giusto in sé, e così via, diremo che su tutto hanno opinioni, senza però
conoscere niente di quello che opinano. - E’ una conclusione necessaria, disse. - E coloro che
contemplano le singole cose in sé, sempre invariabilmente costanti? Non diremo che conoscono e
non opinano? - Conclusione necessaria anche questa. - E non diremo pure che essi fanno festa e
amano gli oggetti della conoscenza, e gli altri [480a] invece quelli dell’opinione? Non ricordiamo di
avere detto che questi ultimi amano e apprezzano belle voci, bei colori e simili cose, ma non
tollerano affatto che il bello in sé sia una cosa reale? - Ce ne rammentiamo. - Sbaglieremo dunque
se li chiameremo amanti d’opinione, cioè filodossi, anziché amanti di sapienza, cioè filosofi? E se la
prenderanno molto con noi se li definiremo così? - No, se mi danno retta, rispose; ché non è lecito
prendersela per ciò che è vero. - E quelli che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa, li
dobbiamo chiamare filosofi, ma non filodossi? - Senz’altro.
Platone, Timeo 51d-52a (trad. Giarratano)
Così dunque esprimo il mio parere: se l’intelligenza e la vera opinione son due generi diversi,
esistono assolutamente di per sé queste specie non percepibili da noi col senso, ma solo intelligibili:
se poi, come sembra ad alcuni, la vera opinione non differisce per niente dall’intelligenza, si devono
invece ritenere come fermissime tutte le cose che percepiamo per [e] mezzo del corpo. Ma si deve
dire che quelli che quelli son due generi diversi, perché nati separatamente e aventi natura dissimile.
Infatti l’un d’essi nasce mediante l’insegnamento, l’altro dalla persuasione: e l’uno è sempre con
vera ragione, l’altro irrazionale; e l’uno immobile alla persuasione, e l’altro persuadibile; e dell’uno
si deve dire che partecipa ogni uomo, dell’intelligenza gli dèi e piccol numero d’uomini. E se queste
cose stanno così, si deve convenire [52a] che vi è una specie che è sempre nello stesso modo, non
generata, né peritura, che non riceve in sé altra cosa da altrove, né passa mai in altra cosa, e che non
è visibile, né percepibile in altro modo, ed è quella appunto che all’intelligenza fu dato di
contemplare: ma v’è una seconda specie del medesimo nome e simile ad essa, sensibile, generata,
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agitata sempre, che nasce in qualche luogo e di là nuovamente perisce, e che si comprende mediante
l’opinione accompagnata dal senso
Platone, Repubblica 509d11-511e5
- Eb-[d]bene, ripresi, immagina che, come stiamo dicendo, siano essi due princìpi, e che reggano
uno il genere e il mondo intelligibile (tò noetòn ghenos), l’altro quello visibile (tò oratòn). Mi
esprimo così perché dicendo ‘mondo celeste’ (ouranòs) non ti dìa l’impressione di sofisticare sul
nome. Ti rendi conto di queste due specie, visibile e intelligibile? - Me ne rendo conto. - Supponi
ora di prendere una linea bisecata in segmenti ineguali e, mantenendo costante il rapporto, dividi a
sua volta ciascuno dei due segmenti, quello che rappresenta il genere visibile e quello che
rappresenta il genere intelligibile; e, secondo la rispettiva chiarezza (saphèneia) e oscurità
(asàpheia), tu avrai, [e] nel mondo visibile, un primo segmento, le immagini (eikònes). Intendo per
immagini in primo luogo le ombre (skiài), poi i [510a] riflessi (phantàsmata) nell’acqua e in tutti
gli oggetti formati da materia compatta, liscia e lucida, e ogni fenomeno simile, se comprendi. Certo che comprendo. - Considera ora il secondo, cui il primo somiglia: gli animali che ci
circondano, ogni sorta di piante e tutti gli oggetti artificiali. - Lo considero, rispose. - Non vorrai
ammettere, feci io, che il genere visibile è diviso secondo verità (alètheia) e non verità, ossia che
l’oggetto simile sta al suo modello come l’opinabile (doxastòn) [b] sta al conoscibile (gnostòn)? - Io
sì, disse, certamente. - Esamina poi anche in quale maniera si deve dividere la sezione
dell’intelligibile. - Come? - Ecco: l’anima è costretta a cercarne la prima parte ricorrendo, come a
immagini, a quelle che nel caso precedente erano le cose imitate; e partendo da ipotesi (ex
hypothèseon), procedendo non verso un principio (archè), ma verso una conclusione (teleutè).
Quanto alla seconda parte, quella che mette capo a un principio non ipotetico (archè anypòthetos), è
costretta a cercarla movendo dall’ipotesi e conducendo questa sua ricerca senza le immagini cui
ricorreva in quell’altro caso, con le sole idee (èidesi, èidos) e per mezzo loro. - Non ho ben
compreso, rispose, queste tue parole. - Ebbene, [c] ripresi, torniamoci sopra: comprenderai più
facilmente quando si sarà fatta questa premessa. Tu sai, credo, che coloro che si occupano di
geometria, di calcoli e di simili studi, ammettono in via d’ipotesi il pari e il dispari, le figure, tre
specie di angoli e altre cose analoghe a queste, secondo il loro particolare campo d’indagine; e,
come se ne avessero piena coscienza, le riducono a ipotesi e pensano che non meriti più renderne
conto (lògon didònai) né a se stessi né ad [d] altri, come cose a ognuno evidenti (phanerà). E
partendo da queste, eccoli svolgere i restanti punti dell’argomentazione e finire, in piena coerenza
(homologoumènos), a quel risultato che si erano mossi a cercare. - Senza dubbio, rispose, questo lo
so bene. - E quindi sai pure che essi si servono e discorrono di figure visibili, ma non pensando a
queste, sì invece a quelle di cui queste sono copia: discorrono del quadrato in sé e della diagonale in
sé, ma non di quella che tracciano, e [e] così via; e di quelle stesse figure che modellano e tracciano,
figure che danno luogo a ombre e riflessi in acqua, si servono a loro volta come di immagini, per
cercar di [511a] vedere quelle cose in sé che non si possono vedere se non con il pensiero,
dianoeticamente.- E’ vero quello che dici, rispose.
XXI. - Ecco dunque che cosa intendevo per specie intelligibile, e dicevo che, ricercandola, l’anima
è costretta a ricorrere a ipotesi, senza arrivare al principio, perché non può trascendere le ipotesi;
essa si serve, come d’immagini, di quegli oggetti stessi di cui quelli della classe inferiore sono copie
e che in confronto a questi ultimi sono ritenuti e stimati evidenti realtà. - Comprendo, disse, che ti
[b] riferisci al mondo della geometria e delle arti che le sono sorelle. - Allora comprendi che per
secondo segmento dell’intelligibile io intendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico
(dynamis toù dialègesthai), considerando le ipotesi non princìpi, ma ipotesi nel senso reale della
parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del
tutto; e, dopo averlo raggiunto, ripiegare attenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne
derivano, e così discendere alla conclusione senza assolu-[c] tamente ricorrere a niente di sensibile,
ma alle sole idee, mediante le idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo. Comprendo, rispose, ma non abbastanza. Mi sembra che tu parli di una operazione complessa.
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Comprendo però il tuo desiderio di precisare che quella parte dell’essere e dell’intelligibile che è
contemplata dalla scienza dialettica è più chiara di quella contemplata dalle cosiddette arti, per le
quali le ipotesi sono princìpi; e coloro che osservano gli oggetti delle arti sono costretti, sì, a
osservarli con il pensiero senza ricorrere ai sensi, ma [d] poiché li esaminano senza risalire al
principio, bensì per via d’ipotesi, a te sembrano incapaci d’intenderli (noùn èchein), anche se questi
oggetti sono intelligibili con un principio (noetà metà archès). E, a mio avviso, tu chiami pensiero
dianoetico (diànoia), ma non intelletto (noùs), la condizione degli studiosi di geometria e di simili
dotti, come se il pensiero dianoetico venisse a essere qualcosa di intermedio tra l’opinione (dòxa) e
l’intelletto. - Hai capito benissimo, feci io. Ora applicami ai quattro segmenti questi quattro processi
(pathèmata) che si svolgono nell’anima: applica l’intel-[e] lezione (nòesis) al più alto, il pensiero
dianoetico (diànoia) al secondo, al terzo assegna la credenza (pìstis)e all’ultimo l’immaginazione
(eikasìa); e ordinali proporzionalmente, ritenendo che essi abbiano tanta chiarezza quanta è la verità
posseduta dai loro rispettivi oggetti. - Comprendo, rispose, sono d’accordo e li ordino come dici.
Aristotele, Etica Nicomachea 1139 b 14-36 (trad. C. Natali)
Ricominciamo il discorso facendo un passo indietro, e parliamo di nuovo di questi stati abituali
(hèxis). Poniamo quindi 15 che siano cinque di numero gli stati in virtù dei quali l'anima si trova nel
vero quando afferma e quando nega: essi sono arte (tèchne), scienza (epistème), saggezza
(phrònesis), sapienza (sophìa), intelletto (noùs); infatti può capitare che ci si trovi in errore quando
ci si serve del giudizio e dell'opinione. '
Ora, cosa sia la scienza risulterà chiaro da quanto segue, se dobbiamo essere precisi e non tenere
dietro a semplici somiglianze. Tutti noi riteniamo che ciò di cui abbiamo 20 scienza non possa
essere diversamente da come è (mè endèchesthai allos èchein), mentre le cose che possono essere
diversamente, quando si danno lontano dalla nostra vista, ci lasciano incerti se sono o non sono.
Perciò l'oggetto della scienza è per necessità. Quindi è eterno, infatti le cose che sono necessarie in
assoluto sono tutte eterne, e ciò che è eterno non si genera e non si corrompe. Inoltre è opinione che
ogni scienza sia oggetto di insegnamento (didaktè), 25 e ciò che viene insegnato è anche appreso
(mathetòn). Ma ogni insegnamento deriva da conoscenze precedenti, come abbiamo detto negli
Analitici, in parte per induzione (epagoghè), in parte per deduzione (syllogismòs). Da parte sua
l'induzione riguarda il principio e l'universale, mentre la deduzione parte da premesse universali.
Così vi sono dei princìpi da cui la deduzione deriva, e di 30 cui non si dà deduzione: quindi se ne
darà induzione.
Allora, la scienza è uno stato abituale che produce dimostrazioni (hèxis apodeiktikè), con tutte le
altre caratteristiche che abbiamo distinto negli Analitici. Infatti uno conosce scientificamente
quando ha certezza (pistèuein), e quando i princìpi (archài) sono a lui noti in un certo particolare
modo; infatti se non sono noti più della conclusione che ne deriva, si avrà scienza solo per
accidente.

Aristotele, Topici 100a25-b
Il sillogismo è un discorso argomentativo in cui poste alcune (premesse) consegue di necessità
qualcosa di diverso dalle premesse presenti, tramite le stesse cose presenti. Vi è poi dimostrazione
(apòdeixis) qualora il sillogismo risulti da premesse vere e prime, o da premesse tali che la relativa
conoscenza ha preso inizio da alcune premesse prime e vere, dialettico (dialektikòs) è invece il
sillogismo che sillogizza a partire da premesse fondate sull’opinione (èndoxa). Vere e prime sono
premesse che vengono credute (èchonta ten pìstin) non attraverso altre, ma per se stesse (non si
deve infatti ricercare il perché nei principi scientifici, ma ciascun principio è degno di essere
creduto in sé e per sé), fondate sull’opinione sono quelle che sembrano vere (dokoùnta) a tutti o alla
maggior parte delle persone o ai sapienti, e tra questi a tutti o alla maggior parte di loro o a quelli
più noti ed famosi (endoxoi).
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Conoscenza
Aristotele, Analitici primi 24b18-22
Il sillogismo è un discorso argomentativo in cui poste alcune premesse consegue di necessità
qualcosa di diverso dalle premesse presenti per il fatto stesso che tali premesse vi sono. Con ‘per il
fatto stesso che vi sono’ intendo dire che conseguono tramite queste, e ciò significa che non hanno
bisogno di nessun termine esterno (èxothen hòros) in aggiunta perché si verifichi la necessità.
Aristotele, Analitici secondi, (trad. G. Colli)
71 a 1-9 Ogni dottrina (didaskalìa)ed ogni apprendimento (màthesis), che siano fondati sul pensiero
discorsivo (dianoetikè), si sviluppano da una conoscenza (gnòsis) preesistente. Ciò risulta chiaro,
quando si consìderino tutte le dottrine e le discipline: in realtà, alle scienze matematiche ci si
accosta in questo modo, e lo stesso avviene riguardo a ciascuna delle altre arti (tèchnai). Similmente
si dica, poi, rispetto alle argomentazioni dialettiche, sia a quelle che si costituiscono mediante
sillogismi (syllogismòs), sia a quelle che procedono attraverso l'induzione (epagoghè). In entrambi i
casi, difatti, l'insegnamento viene costruito mediante elementi già conosciuti in precedenza: il primo
tipo di argomentazioni assume delle premesse, con il presupposto che l'interlocutore comprenda
quanto concede, mentre il secondo tipo fornisce la prova dell'universale (tò kathòlou) attraverso il
manifestarsi del caso singolo (tò kath’hèkaston).
…….
71a11-30 D'altro canto, la necessità di una conoscenza anteriore si presenta secondo due aspetti. In
realtà, a proposito di taluni oggetti, e necessario presupporre che siano, riguardo ad altri, bisogna
comprendere quale sia il significato dell'espressione che li indica, e. rispetto ad altri ancora,
occorrono entrambe le cose. Ad esempio, riguardo al fatto che sia vero, per una qualsiasi
determinazione, o l'essere affermata oppure l'essere negata, è necessario presupporre che ciò sia;
rispetto al triangolo, bisogna comprendere che 15 tale espressione ha un certo significato; a
proposito dell'unità, occorrono entrambe le cose, cioè bisogna comprendere che cosa significhi (tì
semàinei) questo termine, e si deve presupporre che tale oggetto sia (hoti èstin). Non si può dire
infatti che ciascuno di questi oggetti si presenti a noi con eguale chiarezza.
È inoltre possibile riuscire a conoscere (gnorìzein) qualcosa sulla base di taluni elementi già
conosciuti in precedenza, e di altri elementi, la cui conoscenza (gnòsis) si coglie nel tempo stesso in
cui si giunge al risultato. Elementi di questo secondo tipo sono, ad esempio, tutti quegli oggetti che
si trovano subordinati alla nozione universale, di cui si possiede conoscenza. In effetti, che in ogni
triangolo la somma degli angoli sia eguale a due retti, per qualcuno può già essere risaputo; tuttavia,
che una certa figura inscritta in un semicerchio sia un triangolo, costui ne viene a conoscenza nel
tempo stesso in cui sviluppa l'induzione. (In realtà, l'apprendimento (màthesis) di taluni oggetti
avviene nel modo suddetto, senza che l'ultimo termine venga reso noto attraverso il medio (mèson):
è questo il caso di tutti gli oggetti singoli, che non si predicano di alcun sostrato (mè
kath’hypokeimènou)). Per altro, prima che sia stata sviluppata l'induzione o stabilita la conclusione
del sillogismo, bisogna forse dire che l'individuo suddetto in un certo senso sa (epìstatai), ma in un
certo altro senso non sa. In effetti, dato che costui non sapeva assolutamente se l'oggetto in
questione è, come poteva sapere senz'altro che in tale oggetto la somma degli angoli è eguale a due
retti? Risulta piuttosto evidente che in un certo modo costui sa, nel senso cioè che possiede una
conoscenza universale (kathòlou epìstatai), ma non si può dire che egli sappia senz'altro (haplòs,
simpliciter). Quando non si voglia porre tale distinzione, sarà giocoforza cadere nella difficoltà, che
viene presentata nel Menone. Ci si trova invero di fronte all'alternativa: l'individuo in "questione
non imparerà nulla, oppure imparerà quanto già sa. ………….
71b5-72a18 Nulla però impedisce - io credo- che quanto viene appreso si possa in un certo senso
conoscerlo, e in un altro senso ignorarlo (agnoèin). Non vi è invero nulla di assurdo nel dire che in
un certo modo (pos) uno sa ciò che impara; sarebbe invece assurdo l'affermare che qualcuno sa già
determinatamente (hodì) ciò che impara,' proprio in quanto lo impara e nel modo in cui lo impara.
D'altro lato, noi pensiamo di conoscere (epìstasthai) un singolo oggetto assolutamente (haplòs) 45
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non già in modo sofistico, cioè accidentale (katà symbebekòs) quando riteniamo di conoscere la
causa (aitìa), in virtù della quale l'oggetto è, sapendo che essa è causa di quell'oggetto, e crediamo
che all'oggetto non possa accadere di comportarsi diversamente (mè endèchesthai allos echein ). È
dunque chiaro che il sapere (epìstasthai) è qualcosa di simile. In effetti, tanto coloro che sanno
quanto coloro che non sanno credono di essere nella suddetta situazione: senonché, i secondi lo
credono soltanto, mentre i primi, oltre a pensarlo, sono realmente in questa situazione. Di
conseguenza, è impossibile che l'oggetto di scienza assoluta (haplòs epistème) si comporti
diversamente. Orbene, la questione se il sapere possa venir considerato anche in un altro modo, sarà
trattata più oltre: ora però chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione (di’apodèixeos).
Per dimostrazione, d'altra parte, intendo il sillogismo scientifico (epistemonikòn), e scientifico
chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. Se il sapere è
dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la .scienza dimostrativa (apodeiktikè
epistème) si costituisca sul1a base di premesse vere, più note della conclusione, anteriori ad essa, e
che siano cause di essa (ex alethòn kai pròton kai amèson kai gnorimotèron kai protèron kai aitìon
tou symperàsmatos): a questo modo, infatti, pure i principi (ai archài) risulteranno propri
dell'oggetto provato. In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali premesse, ma una
dimostrazione (apòdeixis) non potrebbe sussistere, poiché allora non produrrebbe scienza. Occorre
dunque che queste premesse siano vere, in quanto non è possibile conoscere ciò che non è (tò mè
on), ad esempio, la commensurabilità della diagonale. Il sillogismo scientifico deve inoltre
costituirsi sulla base di proposizioni prime, indimostrabili (anapòdeikta), poiché altrimenti non si
avrebbe sapere, non possedendosi dimostrazione di esse. In realtà, il conoscere - non accidentalmente - gli oggetti la cui dimostrazione è possibile, consiste nel possedere la dimostrazione.
Bisogna poi che le premesse siano cause della conclusione, e risultino più note di essa ed anteriori
ad essa: debbono essere cause, poiché noi sappiamo qualcosa nel momento in cui ne conosciamo la
causa; anteriori, dato che sono cause; infine, debbono essere conosciute anteriormente, non soltanto
nel secondo dei modi detti sopra, per il fatto che venga compreso il loro significato, ma altresì nel
senso che venga risaputo che sono: D'altro canto, il dire che un qualcosa sia anteriore (pròteron) e
più noto (gnorimòteron) si può intendere secondo due significati: in effetti, ciò che è anteriore per
natura (physei) non risulta la stessa cosa di ciò che è anteriore rispetto a noi (pros hemàs), né ciò
che è più 72 a noto per natura si identifica con ciò che è più noto a noi. Dicendo , anteriori' e 'più
noti rispetto a noi', intendo riferirmi agli oggetti più vicini alla sensazione; dicendo invece' anteriori'
e ‘più noti assolutamente' (haplòs), intendo riferirmi agli oggetti più lontani dalla sensazione. I più
lontani di tutti dalla sensazione sono così gli oggetti massimamente universali (tà kathòlou màlista),
mentre i più vicini di tutti sono gli oggetti singoli (tà kath’hèkasta): gli oggetti di questi due tipi,
inoltre, risultano contrapposti gli uni agli altri. Il partire da proposizioni prime, d'altra parte,
significa prendere le mosse da princìpi propri (oikèion): in realtà, parlando di elemento primo e di
principio (pròton kai archè), io intendo la stessa cosa. Principio della dimostrazione, inoltre, è una
premessa immediata (pròtasis àmesos); immediata poi è la premessa cui nessun'altra è anteriore.
Dal canto suo, la premessa costituisce l'una o l'altra parte della contraddizione (antìphasis), ed
esprime il riferimento di una sola determinazione ad un solo oggetto (hen kath’henòs): essa è
dialettica (dialektikè), quando assume indifferentemente una qualsiasi delle due parti suddette, e
invece dimostrativa (apodeiktikè), quando stabilisce in modo determinato come vera una delle due.
Il giudizio (apòphansis), d'altro lato, è una qualsiasi delle due parti dell'antitesi. La contraddizione,
poi, è un'antitesi, che per sé esclude ogni elemento intermedio; infine, la parte della contraddizione,
che collega qualcosa a qualcosa (ti katà tinòs), è l'affermazione (katàphasis), mentre la parte, che
separa qualcosa da qualcosa, è la negazione (apòphasis). Orbene, tra i princìpi sillogistici immediati, chiamo' tesi' (thèsis) quello che non può venir dimostrato, né d'altro canto dev'essere
necessariamente posseduto da chi vuol apprendere qualcosa; chiamo invece' assioma' (axìoma)quel
principio che dev'essere necessariamente posseduto da chi vuol apprendere checchessia: sussistono
infatti taluni princìpi cosiffatti, ed è soprattutto riguardo a tali casi che siamo soliti adoperare
appunto il suddetto nome.
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88b30-89a13 D'altra parte, l'oggetto della scienza e la scienza differiscono dall'oggetto dell'opinione
e dall'opinione, in quanto la scienza è universale e si sviluppa attraverso premesse necessarie, e in
quanto ciò che è necessario non può comportarsi diversamente da come si comporta. Vi sono
d'altronde taluni oggetti veri e reali, che possono tuttavia comportarsi anche diversamente. È
dunque evidente che la scienza non si rivolge a tali oggetti: in caso contrario, infatti, sarebbe
impossibile che si comportassero altrimenti degli oggetti che possono comportarsi altrimenti. Del
resto, a tali oggetti non si rivolge neppure .l'intuizione (per intuizione intendo infatti il principio
della scienza), né il sapere indimostrabile: quest'ultimo è la rappresentazione della premessa
immediata. Vere, d'altro canto, possono essere l'intuizione, la 89 a scienza e l'opinione, e vero può
essere ciò che si dice, quando si è in possesso di queste. Non rimane dunque altro, se non affermare
che l'opinione si rivolge al vero oppure al falso, e che quanto essa esprime può anche comportarsi
altrimenti. L'opinione in altre parole è la rappresentazione della premessa immediata e non
necessaria. Tale rappresentazione si accorda inoltre con gli eventi osservabili: in realtà, come
l'opinione manca di saldezza, 5 così risulta instabile la natura dei suo contenuto. Oltre a ciò, quando
si pensa che qualcosa non può comportarsi diversamente da come si comporta, nessuno certo crede
di avere un'opinione, e tutti invece ritengono di sapere. Al contrario, quando si pensa che qualcosa
si comporta in un certo modo, ma che nulla davvero impedisce un diverso suo comportamento,
allora si ritiene di possedere un'opinione, in quanto si è convinti che l'opinione riguarda appunto un
oggetto consimile, e che la scienza si rivolge 10 invece a ciò che è necessario.
In tal caso, com'è possibile possedere opinione e scienza del medesimo oggetto, e perché l'opinione
non dovrà essere scienza, quando uno voglia stabilire che di tutto ciò che sa egli può possedere
opinione?. ……
89a23-25 Per altro, l'oggetto dell'opinione non è del tutto identico a quello della scienza; piuttosto,
come l'oggetto dell'opinione falsa è in certo modo identico a quello dell'opinione vera, così l'oggetto
della scienza è in certo modo identico a quello dell’opinione… a29-32 In un certo senso, l'oggetto
dell'opinione vera può essere identico a quello dell'opinione falsa, ma in un altro senso non può
esserlo. In realtà, il poter opinare secondo verità che la diagonale del quadrato sia commensurabile
con il lato, è assurdo; tuttavia; in quanto la diagonale, che è l'oggetto preso in considerazione
dall'opinione vera e da quella falsa, rimane nei due casi la stessa, si può certo dire che l'oggetto dell'opinione vera è identico a quello dell'opinione falsa, mentre l'essenza individuale dell'oggetto,
espressa dal discorso definitorio, non è nei due casi la stessa. ….a38-40 Da quanto abbiamo detto
risulta evidente che non è d'altronde possibile avere al tempo stesso opinione e scienza del
medesimo oggetto. In effetti, si sarebbe allora convinti che un medesimo oggetto può comportarsi
diversamente da come si comporta, al tempo stesso si sarebbe convinti che non può comportarsi b
diversamente. Ciò è impossibile.
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