Celebrazioni in onore del filosofo ad un secolo

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LA MOSTRA
“Antonio Labriola e la sua Università”
Celebrazioni in onore del filosofo ad un secolo dalla sua scomparsa
COMUNICATO STAMPA
«Le idee non cascano dal cielo» e la storia delle idee «non consiste nel circolo vizioso delle
idee che spieghino se stesse». La frase condensa il pensiero di Antonio Labriola, studioso
poliedrico, per trent’anni professore all’Università di Roma, dal 1874 al 1904.
La Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza ” di Roma, sotto l’Alto Patronato del
Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, in occasione delle celebrazioni
della morte di Antonio Labriola (2 febbraio 1904), ha partecipato alle suddette solennità con
sue proprie iniziative di studio e testimonianze in memoria. Tali iniziative e testimonianze
sono venute d’altra parte a coincidere con le più ampie ed articolate commemorazioni della
“Sapienza”, per i settecento anni della sua fondazione (1303-2003).
In particolare il 2 febbraio p. v., nell’Università degli Studi che fu di Labriola, nel
pomeriggio, dopo il saluto del Preside della Facoltà di Filosofia Marco Maria Olivetti, i
professori Gennaro Sasso, Giuseppe Giarrizzo e Nicola Siciliani de Cumis, hanno riferito sul
tema “Antonio Labriola critico della cultura del suo tempo”. Gli studiosi hanno svolto i loro
interventi da punti di vista tra loro differenti, tra storia della cultura, storiografia filosofica
ed educazione. Dall’insieme delle relazioni è potuto quindi risultare la complessità della
personalità e dell’opera di Antonio Labriola nel suo tempo. Inoltre sono state chiarite le
stesse idee di Labriola in fatto di critica e di cultura, ricordando anche l’efficacia polemica di
alcune sue prese di posizione nella società italiana della seconda metà dell'Ottocento. Né
sono state trascurate, nel convegno, le dimensioni pedagogiche e didattiche del Labriola
professore universitario per un trentennio nell’Ateneo romano ed educatore nella società
civile.
Il 3 febbraio, ancora alla “Sapienza”, la Facoltà di Filosofia ha avuto in agenda un
prolungamento delle attività del giorno precedente, estese a docenti e studenti di altre
Facoltà, e con l’intervento di esperti dell’opera di Labriola. Nella mattinata - coordinata da
Nicola Siciliani de Cumis – Bruno Bellerate, Giacomo Cives e Giuseppe Spadafora è stato
presentato il volume di Ignazio Volpicelli, Herbart e i suoi epigoni (Torino, Utet, 2003).
L’opera, ampiamente dedicata alla formazione labrioliana tra hegelismo, herbartismo e
marxismo, si giova, tra l’altro, di documenti inediti, che chiariscono la genesi del punto di
vista filosofico ed etico-politico-pedagogico di Labriola. Nella stessa mattina del 3 febbraio la
figura del Labriola professore universitario è stata illustrata mediante la lettura di testi
dell’autore e sull’autore. Testi che hanno trattato via via della personalità di Labriola, del suo
modo di essere in quanto docente, del giudizio degli studenti su di lui, del ricordo che ne
serbò Teresa Labriola figlia e allieva dell’illustre Maestro. Contemporaneamente alla lettura
dei testi suddetti, a cura Giorgio Spaziani e Daria Siciliani de Cumis, dell’Accademia d'Arte
Drammatica “S. D’Amico”, la presentazione di Labriola è stata arricchita dalla proiezione di
filmati sul “Mondo di Antonio Labriola 1870- 1904”, a cura di Domenico Scalzo con un
significativo commento musicale curato da Tiziana Pangrazi. Vivo e vario l’interesse dei
partecipanti.
Nello stesso pomeriggio del giorno 3 si è svolta una sessione di lavoro del “Laboratorio
Labriola” sul tema Labriola e noi. Sono state presentate alcune attività didattiche e scientifiche
caratterizzanti il Laboratorio e concordate alcune forme di partecipazione al Convegno di
Cassino dei giorni dall’8 al 10 ottobre 2004. Si è detto, inoltre, di alcune ricerche labriolane
prodotte in Facoltà negli ultimi anni ed è stata presentata la Collana editoriale “Diritto di
stampa”, della casa editrice Aracne, che tali ricerche ha cominciato a rendere pubbliche.
In questo quadro, ed a titolo di esempio, si è discusso con Luigi Punzo, l’Autore e
l’Editore del volume di Alessandro Sanzo dal titolo L’officina comunista. Enrico Berlinguer e
l’educazione dell’uomo (1945-1956), Roma, Aracne Editrice, 2003. Un libro, questo, che è
labrioliano almeno in due sensi: perché era convinzione di Labriola che il marxismo potesse
e dovesse essere oggetto di ricerca scientifica e didattica nell’università; e perché è evidente
il debito culturale di un uomo politico come Enrico Berlinguer nei confronti del Labriola.
Nei due giorni sono stati presenti ed hanno variamente partecipato ai lavori alcuni
professori, che hanno insegnato o insegnano tuttora nella Facoltà di Filosofia: Giuseppe
Boncori, Marco Antonio D’Arcangeli, Marta Fattori, Irene Kajon, Pietro Lucisano, Mario
Alighiero Manacorda, Stefano Miccolis, Lucio Pagnoncelli, Maria Serena Veggetti, Aldo
Visalberghi, ecc.
Riproduciamo qui di seguito alcuni stralci della relazione di Nicola Siciliani de Cumis.
Antonio Labriola critico della cultura del suo tempo.
I concetti, le parole, i segni
Volendo dire dell'Antonio Labriola uomo di “cultura” e maestro di “critica” nel suo
tempo, occorre probabilmente prendere le mosse dal suo stesso modo d’intendere i due
concetti di cultura e di critica, e dal suo percepirsi, nei diversi momenti della vita, quale critico
della cultura del proprio tempo: quindi anche – come egli precisa nel pieno della maturità quale professore universitario nell’«esercizio di questa funzione affatto definita, che non è da
confondere con quella dell’apostolo, del predicatore, del propagandista, del giornalista».
Una funzione “scientifica”, che si traduce in una tecnica peculiare d’intervento nelle “cose”, in
un’etica della cultura, in un’educazione alla critica. E dunque, a suo modo socraticamente, in
una politica.
Infatti è precisamente di questo che Labriola si occupa in un modo o nell’altro
pubblicamente per circa un quarantennio, ed ex Cathedra nella sua Università per trent’anni,
in quanto critico di quella cultura, accademica e non, che per l’appunto lo concerne più da
vicino: e che, anche al di là degli standard linguistici dell’epoca, egli preferisce designare
come “coltura”, con riferimento anche alla funzione del coltivare, dell’educare, dell’istruire. E
dunque del formarsi e del formare, mediante l’insegnamento e l’apprendimento che gliene ne
deriva anche come docente:
Chi sta sulla cattedra universitaria, non deve occuparsi di cronaca quotidiana, non deve
esporre la sua opinione su cose particolari, non deve arringare né agitare, ma insegnare, cioè
dimostrare, spiegare, interpretare le cose. Egli deve chiarire i concetti, le parole, i segni,
sceverare le regole fondamentali, formulare le dottrine, presentare le modalità dello
sviluppo, condurre ad unità i singoli processi, per quanto più questo gli può riuscire
possibile.
[…] Ma che cosa significa critica secondo Labriola? Che vogliono dire per lui coltura e
cultura del suo tempo? C’è la possibilità, nell’insieme dell’opera labrioliana da un capo all’altro
del suo prodursi nel tempo, di rintracciare i termini di una risposta in qualche modo unitaria
a tali interrogativi? E, anche al di là degli scatti d’umore del professor «Rabbiola» e delle
caratteristiche “esecuzioni capitali” del «piccolo Robespierre del Caffè Aragno», come
bisogna intendere più in generale, in Labriola, la nettezza, la drasticità e crudezza di talune
sue opinioni ed espressioni su alcuni uomini di cultura del proprio tempo?
Se è vero infatti, secondo Labriola, che «le idee non cascano dal cielo» e che la storia delle
idee «non consiste nel circolo vizioso delle idee che spiegano se stesse», sarà anche vero che
occorre cercare altrimenti nell’esperienza la loro fonte. Ed è altrettanto vero che le idee,
quelle che son frutto del positivo lavoro della critica, non si trovano con lo sconto ai mercati
generali, magari con quelle facilitazioni culturali e semplificazioni concettuali che, al tempo
di Labriola, vengono a suo parere praticando nella «Scienza» (che per Labriola in principio
vuol dire filosofia) i neokantiani e gli idealisti, gli spiritualisti e i positivisti acritici.
Specialmente i positivisti niente affatto “positivi”, di varie nazionalità e generazioni, con cui
egli variamente polemizza. […]
Il che avviene fin dal primo momento in cui la dimensione scientifica si affaccia
consapevolmente in Labriola, come ricerca del criterio di verità filosofiche, di valori culturali
e spinte deontologiche fondanti. E, per la pars destruens, come critica delle semplificazioni
spiritualistiche, degli onniscienti razionalismi, degli empirismi volgari, dei positivismi
trionfanti; per la pars construens, come ricerca del “proprio e nuovo” nell’ambito del
«principio dello Hegellismo» e nell’ottica di una evidente «curvatura herbartiana», quindi
nel quadro del «materialismo storico»; e dunque, dall’inizio alla fine, come impegno storico
e politico ed etico-pedagogico a costruire una cultura della critica, individuale e sociale,
effettivamente “altra”. E, oltre che all’università, nella scuola, in famiglia, nella cultura
media diffusa, dovunque possibile. A cominciare da se stesso, dalle proprie categorie
mentali. […]
Su questo registro etico-politico-educativo, nonostante i “salti” della teoria, da un tempo
all'altro della vita di Labriola (dallo hegelismo allo herbartismo al marxismo, dal liberalismo
alla democrazia radicale al socialismo), non si può dire ci sia in lui alcuna soluzione di
continuità nella forma dell’acquisizione culturale e nei modi della contrapposizione storica
al portato ideologico, acritico, del proprio tempo. Ciò che in Labriola si mantiene ben ferma,
invece, è la sua opposizione di sempre ai «pregiudizi» d’ogni sorta. A cominciare da quelli
suoi propri, a suo tempo esorcizzati tra gli hegeliani di Napoli, facendo polemicamente i
conti con i «pregiudizi speculativi» (gli «speculativen Vorurtheilen») di Augusto Vera, che
derivano insieme da mancanza di «scienza» e da carenza di «buona fede», sicché «la critica
non può farci nulla». E difatti:
quando poi vediamo che qualcuno s’immagina che si possano prendere i fatti del sapere
storico, alla cui ricerca critica e elaborazione scientifica tante discipline si affaticano, e con un
paio di parole magiche gettarli nel vortice dell’idealismo assoluto, e che si possa inoltre
passar sopra orgogliosamente a tutte le questioni della linguistica e della mitologia, della
storia del diritto e della statistica, dell’etica storica e comparata, noi pensiamo che un tal
procedere confina con la temerità; ovvero dobbiamo astenerci da ogni diritto di pronunziare
un giudizio sulla coscienziosità dell’autore”.
Quanto agli sviluppi di questa posizione “di principio”, da Labriola in seguito sempre
confermata, essi finiscono col coincidere con le stesse formulazioni e riformulazioni
labrioliane dei concetti di “critica” e di “cultura”, nelle diverse dimensioni a cui gli è
possibile accedere: in filosofia, in pedagogia, in politica. Comunque in forza del criterio
ermeneutico di sempre, dall’anti-Zeller e dall’anti-Vera in avanti. E che senza dubbio viene
confermandosi nei Saggi sul materialismo storico:
Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, virtuosità a tenersi
equilibratamente in un campo di specializzata ricerca, dall’altra parte: - ecco il risultato. Per
poco che s’esca da questa linea, o si ricade nel semplice empirismo (la non-filosofia), o si
trascende alla iper-filosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l’Universo, come chi ne
possedesse la intuizione intellettuale.
Di qui, secondo Labriola, la necessità di quel tipo di operosità critica, che se incomincia col
significare osservazione, disamina, analisi e notazione di difetti di una determinata
posizione mentale o azione pratica, finisce anche col voler dire iniziativa pedagogica
positivamente finalizzata alla risoluzione di un problema politico. E che, rispetto alla cultura
del proprio tempo, si esprime ora come biasimo, censura, correzione, rimprovero,
discussione, negazione, opposizione, polemica, ora come capacità di informazione,
notazione, recensione, rassegna, trattazione, giudizio, integrazione, cooperazione,
formazione, approfondimento, interpretazione. E si tratta, in ogni caso, di un’attività
intellettuale criticamente qualificata, selettiva, alta, e tuttavia composita, ibrida, impura.
Un’attività culturale, che non è mai fine a se stessa, ma sempre e comunque diretta a
produrre altra attività dello stesso tipo. E, per ciò fare, ad intervenire pedagogicamente nelle
realtà umane le più diverse.
E per esempio, nella vita di tutti i giorni, come stroncatura di questo o di
quell’intellettuale, «stranissimo ma assai simpatico goliardo», «minchione» oppure
«minchionatore», «coglione» o «coglionatore»; additando all’attenzione i «turpemente
corrotti», gli «artisti impulcinelliti», la «ciarlataneria cretina», i «paolotti», ecc.; ovvero
demolendo quell’altro saggista «somarello, prosuntuosello, intrigantello, farabuttello, le cui
opinioni non contano nemmeno per riderci». O ancora censurando le azioni di quei
giornalisti «mascalzoni» e «marmaglia», «di solito tanto ignoranti» e con «la sensibilità della
malizia»; ovvero bollando senza peli sulla lingua le azioni di quei «socialisti» e
«internazionalisti» nostrani, che si dimostrano «asini», «rigattieri della letteratura socialista»,
«cretini», «volgari», «confusionisti ed amorfisti».
Un’attività formativa, morfologica, questa di Labriola, che sorgendo nella sua quotidianità
all’incrocio di teoria e pratica, viene a costituirsi come conoscenza e come etica e politica; e,
nella propria ambivalente peculiarità, a rispecchiarsi nell’opera formativa e quindi a
riflettersi nella storia degli uomini. Cioè nella vita concreta, individuale e collettiva di essi e
nella loro capacità di storicizzazione del “se”. Quindi (hegelianamente) in una autobiografia
che è (herbartianamente) un’educazione.
Proprio come, ancora all’inizio della carriera, gli era successo lavorando al Socrate. Dove
non a caso, assieme all’idea-guida di una critica della cultura, era comparso il concetto,
intrinsecamente pedagogico, di una cultura della critica. Un concetto che chiamava in causa le
nozioni di civiltà e progresso, di individuale e sociale, di civismo ed arte, di «tradizione
letteraria come mezzo di coltura» e di «paideia» («lettura, recitazione, canto, ginnastica»).
Un’idea di genesi e di formazione critica in rapporto alle cose: e, dunque, l’idea di un’autocritica
delle cose come momento imprescindibile del loro ipotetico rovesciamento.
E aveva tirato in ballo, Labriola, le «vedute» del singolo ed il loro radicamento
interpersonale, collettivo, nei «bisogni e nella coltura del tempo»; e, quanto a Socrate, messo
in relazione il «meramente scientifico» ed il «concretamente pratico», le «condizioni della
coltura ateniese» e «il risultato cui pervenne Socrate con le sue ricerche», la religiosità di
Socrate ed il concetto di utilità e di eudaimonia «nella storia della coltura greca», l’«antitesi
così pronunziata» che rappresentò Socrate nel suo tempo e l’assoluta novità dell’oggetto e
del risultato della ricerca socratica che, nelle sue stratificazioni storiche ed elementarità
quotidiane, procedette ben oltre il suo tempo.
E questo, nonostante i limiti del “socratismo”, i limiti della stessa filosofia e dei suoi
insegnamenti, di cui il Labriola degli ultimi anni continua ad essere criticamente ed
autocriticamente cosapevole. Quando scrive a Croce:
Dopo 26 anni che insegno filosofia mi son persuaso che la filosofia non s’insegna a
nessuno. Marx ed Engels non ebbero che un solo torto, e fu quello di volere insegnare la
filosofia alle moltitudini (dei Kautsky, Bernstein, Lafargue, Turati!), alle quali basta la
logichetta formale. Tu, Sorel ed altri avete fatto bene a scoprire i volgarismi dei marxisti, ma
non per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza. Anche per questo rispetto
la storia è catastrofica. La sommazione empirica delle osservazioni parziali non dà mai la
nuova Weltanschauung - il criticismo non è tutta la filosofia. La filosofia non può esistere che
come factum già bello e compiuto.
Che però, secondo Labriola, non esaurisce affatto il compito del filosofo e dell’educatore
in quanto critico della cultura del proprio tempo. Perché al di là della filosofia e delle sue
solo temporanee compiutezze, occorre fare i conti con le urgenze della realtà e con il portato
della storia, con il dominio delle cose e le loro oggettive pesantezze e interne necessità. E con
la vita e le sue estemporaneità ed imprevedibilità, le sue passioni e contraddizioni.
Nicola Siciliani de Cumis
Domande, risposte…
• Chi fu, in ultima analisi, Antonio Labriola?
• Siciliani de Cumis: Non è possibile dare una definizione univoca di una personalità
composita quale è quella di Antonio Labriola (da non confondere con Arturo Labriola… Lo
dico perché succedeva ai loro tempi e continua a succedere ancora oggi). Tuttavia, volendo
essere telegrafico: Antonio Labriola fu notoriamente un filosofo, un filosofo della morale,
della storia, della politica, dell’educazione; un filosofo teoretico, ma a suo modo; fu uno
storico; un pedagogista; un moralista; un uomo politico; però fu anche, e forse soprattutto,
un insegnante, un educatore… questo specialmente questo, un educatore… Il maestro di
tanti uomini e donne che hanno contato… Maestro di Benedetto Croce senza dubbio, ma,
almeno in un certo senso, anche di Giovanni Gentile. Però anche Gramsci, che pur lo
contesta, gli riconosce un certo magistero marxista… E poi: Romolo Murri, Ernesto Bonaiuti,
Padre Semeria, Paolo Orano, Luigi Pirandello, Teresa Labriola, Angelica Balabanoff…
• E del Labriola marxista, che dire del Labriola marxista? E della sua fortuna editoriale
oggi?
• Siciliani de Cumis: Certamente, Labriola fu in Italia il primo marxista teorico, forse il
maggiore: il primo autore, cioè, che con i suoi Saggi sul materialismo storico (l’unica opera di
Labriola ristampata di recente, nei tipi degli Editori Riuniti, a cura del compianto Antonio A.
Santucci), il primo grande autore che abbia tradotto l’eredità di Marx ed Engels su un piano
molto alto ed originale di elaborazione teorica… I Saggi, l’unica opera di Labriola ristampata
di recente (nei tipi degli Editori Riuniti, a cura del compianto Antonio A. Santucci)… Si sta
poi ripubblicando, nei tipi di Bibliopolis, l’epistolario in cinque volumi, i carteggi che sono
una vera e propria miniera di informazioni e di idee: tenuto conto soprattutto del fatto che
Labriola è un autore “orale” e per l’appunto epistolare… Ma, per tornare al marxismo, non
dimenticherei questo: che Labriola diventa marxista a cinquant’anni: dopo cioè avere
pensato e scritto per alcuni decenni come non-marxista. Per cui mi è difficile ritenere che il
suo marxismo non risenta in vario modo del suo precedente liberalismo, radicalismo,
socialismo non marxista…
• E le altre sue opere?
• Siciliani de Cumis: Labriola non scrive volentieri libri. Se lo fa, succede solo perché è
necessario che lo faccia: per ragioni pratiche, di carriera accademica, non perché gli piaccia
costruire il “volume”, il saggio, la compiutezza e sistematicità di un’opera “di carta”. Il che è
accaduto con la monografia su Socrate, con quella su Spinoza, con quelle altre su
l’insegnamento della storia, sulla morale, la libertà ecc. Labriola è invece un autore
massimamente asistematico, coerentemente contraddittorio o, se si preferisce,
contraddittoriamente coerente; è un pensatore dialettico, meglio ancora dialogico, inquieto
ed inquietante. Un pensatore, che in qualche modo viene a formarsi in presenza dei propri
“interlocutori”: che sono singoli individui o gruppi, studenti, studiosi, organizzazioni
culturali, partiti politici; ma che sono pure la storia, le idee, i “moventi” e i “movimenti”
delle “cose”…
• Cosa dire del Labriola pedagogista, educatore, insegnante?
• Siciliani de Cumis: Certo, Labriola insegnò per trent’anni materie pedagogiche
nell’Università di Roma. Non c’è dubbio che, se vogliamo capire Labriola, tutto Labriola, è
impossibile prescindere dal suo mestiere di professore. Meglio, non c’è a mio parere nessun
aspetto della sua attività che, in un modo o nell’altro, non possa essere ricondotto a quel
mestiere. Tuttavia bisogna intendersi: trattandosi di Labriola, non è il ruolo che importa, ma
la cifra euristica del suo operare. In questo senso, se è la “formazione”, una parola-chiave del
lessico labrioliano, il suo pedagogismo risulta essere in fin dei conti piuttosto il suo
contrario, cioè un antipedagogismo. O, piuttosto, una provocazione pedagogica:
un’antipedagogia, dicevo, che è insieme negazione del dedurre cose sapute e risapute, del
ripetere pedissequamente una verità, del trasmettere i contenuti di un qualsiasi sapere
precostituito. Che è invece una proposta maieutica, comunicativa; un modo aperto di
ragionare su precisi ambiti di ricerca, di produrre indagini, di indurre problemi, di insinuare
certezze poche, dubbi molti. E, dunque, di agire culturalmente e politicamente di
conseguenza.
• Perché un convegno dal titolo “Labriola e la sua Università”?
• Siciliani de Cumis: Per la verità, non si è trattato di un convegno, ma di un insieme di
proposte coordinate di studio. La prima sera abbiamo approfondito alcune delle tematiche
affiorate al mattino in Parlamento, mediante relazioni tecniche e interventi collegiali sul
tema “Antonio Labriola critico della cultura del suo tempo”. Il giorno dopo abbiamo
presentato il volume di Ignazio Volpicelli, Herbart e i suoi epigoni (UTET, uscito da poco), che,
per quel che ne so io, è l'unico contributo scientifico d’un certo impegno, apparso di recente,
sul Labriola cosiddetto herbartiano e sullo herbartismo dell’epoca. Uno studio che fa fare
qualche serio passo in avanti allo “stato dell’arte”… Nel pomeriggio del secondo giorno di
convegno, poi, presentando il libro di Alessandro Sanzo, L’officina comunista. Enrico
Berlinguer e l’educazione dell’uomo (Aracne, 2003), abbiamo in realtà fatto il punto sulle attività
del “Laboratorio Labriola”, qui alla “Sapienza”: e su ciò che, anche per iniziativa della
Cattedra di Pedagogia, vorremmo succedesse in tema di ricerca e didattica labrioliane tra il
settembre e l’ottobre prossimi, in occasione dell’impegnativo Convegno su Labriola a cento
anni dalla morte, che si svolgerà a Cassino… Ma ne riparleremo.
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