Università e buone pratiche da Habermas a Derrida

attualità
Università e buone pratiche
da Habermas a Derrida
andrea lombardinilo – Docente di Sociologia dell’educazione e Sociologia dei processi culturali, Università degli studi “G. d’Annunzio”, Chieti
più moderna, dinamica, funzionale. Ma
soprattutto più democratica, aperta, partecipativa. Questa l’Università disegnata da Jürgen
Habermas all’alba del sessantotto, allorquando
i mutamenti politici e sociali impongono ai sistemi formativi uno scatto in avanti in termini
di attrattività e innovazione. in primo piano vi è
la necessità di soddisfare le istanze socioeducative di un capitale umano atteso dalle sfide della
complessità, ormai incombente. sono gli anni
del boom economico, della guerra fredda, delle accelerazioni tecnologiche, che imprimono
all’esistenza cambiamenti sostanziali sul piano
dei consumi e dei comportamenti, e non solo
culturali. in presenza di mutamenti epocali, i
giovani studenti universitari avvertono un diffuso senso di disorientamento, incapaci (come
sono) di esperire una lettura soddisfacente delle
trasformazioni che investono la sfera sociale.
all’interno del corpo docente non mancano
le voci critiche, che denunciano i limiti funzionali di un’istituzione sovente più preoccupata
degli equilibri interni che del destino occupazionale dei propri stakeholder. tra queste voci critiche vi è proprio Habermas: in seguito
all’uccisione dello studente Benno ohnesorg,
avvenuta il 2 giugno 1967 a Berlino nel corso
delle manifestazioni di piazza contro la visita
dello scià di persia, il sociologo si rivolge ai giovani di Hannover invocando un maggior ruolo
politico per gli studenti, a loro volta impegnati in un’azione rivendicativa volta a reclamare
un’Università sganciata da interessi economici
esterni, più disposta a comunicare con l’esterno, più propensa a incentivare le opportunità per i giovani di svolgere attività di ricerca1.
Una sfida ambiziosa, volta a indebolire il fronte
comune costituito da stampa, partiti, governo,
organi accademici, uniti nel respingere l’assalto
generazionale di giovani studenti alle prese con
la costruzione di un futuro quanto mai incerto
e indefinito.
Di lì a poco il movimento studentesco si
propagherà in tutta europa, segnando così il
passaggio dall’Università borghese di primo
novecento all’Università di massa della modernità. Habermas intuisce perfettamente l’importanza di questa fase storica: «spogliati del
loro colorito locale, i conflitti scoppiati all’Università di Berlino e resi di pubblico dominio
sono tuttavia della stessa natura di quelli che
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sembrano annunciarsi in altre Università: si
tratta ogni volta, in poche parole, della funzione politica degli studenti, della riorganizzazione dell’insegnamento e della democratizzazione dell’Università nel suo complesso.
Berlino fa in questo da modello» (Habermas
1968, p. 99-100).
L’introduzione di commissioni paritetiche
docenti-studenti e la proposta di revisione degli
statuti non contribuiscono a ridimensionare la
vitalità del movimento studentesco, proiettato
verso un ruolo sempre più politico. Del resto,
gli studenti non sono disposti a rinunciare ai
tre capisaldi programmatici cui dovrebbe ispirarsi la riforma universitaria: partecipazione,
comunicazione e informazione. Una missione
ambiziosa, che a sua volta implica la definizione di tre finalità fondamentali, che l’Università
deve perseguire per formare e riformare le coscienze dei giovani: trasmettere loro le capacità «extrafunzionali» necessarie per affrontare
con successo il mondo del lavoro; impartire
«certe tradizioni culturali», indispensabili per
focalizzare gli universi simbolici di cui si nutre
la società; formare la «coscienza politica» dei
giovani, chiamati a rivendicare un ruolo attivo
nelle organizzazioni sociali di appartenenza.
ecco perché l’Università non può più concedersi il privilegio di assistere passivamente alle
innovazioni in atto, ma è chiamata piuttosto a
recuperare il ruolo di volano culturale e formativo universalmente riconosciutole, un ruolo
consolidato da una tradizione millenaria, ma
messo a serio rischio dalla situazione di stasi
venutasi a determinare con l’avvento della complessità. Habermas non ha dubbi: «tuttavia l’Università potrà mantenere la sua posizione nella
vita democratica soltanto se studi debitamente
riformati garantiranno una formazione anche
formalmente ineccepibile a quel livello che solo
rende possibile agli studenti di partecipare, nel
corso dei loro studi fondamentali, e non solo
nominalmente ma effettivamente, allo svolgimento della ricerca» (Habermas 1968, p. 134).
sono lontani i tempi di Humboldt, caratterizzati dalle ben note modalità di trasmissione
lineare del sapere, che generavano condizioni di accesso al sapere, per così dire, “elitarie”.
nella fase di passaggio all’Università di massa
l’homo academicus descritto negli anni ottanta
da Bourdieu deve fare i conti con le profonde
prospettiva
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trasformazioni di una società che sta scoprendo
il villaggio globale dell’informazione preconizzato da McLuhan, con tutto quel che ne consegue in termini di dinamicizzazione dell’apprendimento, dell’educazione, della ricerca2.
nello stigmatizzare la chiusura incondizionata
dell’accademia di fronte a sussulti di cambiamento non più eludibili, Habermas sottolinea,
del resto, che «la situazione storico-politica del
mondo è cambiata e non può più essere intesa con le categorie interpretative del secolo
scorso», richiamando il governo ad ispirare il
proprio operato non più ai parametri obsoleti
della politica di potenza, ma alle istanze sempre
più cogenti della politica sociale.
tra queste istanze vi è quella di superare la
fase di cieco dominio sperimentata negli anni
della guerra e di costruire le fondamenta di una
democrazia aperta allo scambio delle opinioni
pubbliche riflessive su cui Habermas è tornato
anche di recente3. L’obiettivo è realizzare una
infrastruttura della sfera pubblica scevra dalla
influenza dominante dei grandi network, in
cui gli attori sociali più organizzati possano
esprimere liberamente pareri, riflessioni, giudizi, facendo leva sulla gestione del potere della
conoscenza. per riuscire in questa missione è
necessario liberare le coscienze dal rischio di
eterodirezione informativa del soggetto, dal
tentativo di manipolazione occulta esercitata
dai sistemi formativi registrato dai fondatori
della scuola di Francoforte negli anni dell’occupazione nazista4.
La costruzione di un’Università democratica richiede la piena partecipazione dei giovani
ai processi deliberativi, nel segno di una apertura nuova al contributo fornito dagli stakeholder
principali dei sistemi formativi: «il principio
della pubblicità deve in questo escludere ogni
altra istanza che non sia quella del miglior argomento; le decisioni della maggioranza valgono,
in forza dell’idea, solo come surrogato di quel
consenso spontaneo che alla fine si profilerebbe, se la discussione non dovesse ogni volta
interrompersi per la necessità di prendere una
decisione» (Habermas 1968, 121). L’Università
si configura allora come spazio libero di idee,
come piattaforma di condivisione di giudizi
critici e contributi epistemologici: una struttura inclusiva legittimata ad esercitare la propria
azione comunicativa senza limitazioni di sorta,
facendo leva sul valore euristico del sapere.
Una visione dell’accademia che in qualche modo anticipa l’idea di «università senza
condizione» enunciata da Jacques Derrida allo
prospettiva
•persona•
scoccare del ventunesimo secolo, trent’anni dopo la disamina svolta da Habermas al cospetto
degli studenti di hannover. non è forse un caso
che anche «l’appello in forma di professione di
fede» svolto dal padre del decostruzionismo si
svolga al cospetto di una platea universitaria, e
sotto forma di conferenza, dapprima all’Università di stanford (1998) e poi di Francoforte
(2001)5. Quasi un passaggio di consegne, tra
due eminenti studiosi (oltre che filosofi) impegnati nel definire il ruolo sociale dell’Università,
nel delinearne limiti ma anche nel valorizzarne le prerogative formative e culturali. si tratta
del resto di prerogative irrinunciabili nell’era
della globalizzazione e della digitalizzazione
delle conoscenze, destinate a imprimere cambiamenti profondi nei profili identitari degli
attori e a stravolgere le categorie interpretative
della realtà. per questa ragione Derrida sottolinea che «l’università moderna dovrebbe essere
senza condizione. […] Questa università esige
e dovrebbe vedersi riconoscere per principio,
oltre a quella che si chiama libertà accademica, una libertà incondizionata di interrogazione e di proposizione o, più ancora, il diritto di
dire pubblicamente tutto ciò che una ricerca,
un sapere e un pensiero della verità esigono»
(Derrida 2001, pp. 9-10).
il diritto alla interazione comunicativa è
legato al requisito necessario della trasparenza
e dell’inclusione, su cui l’Università deve far
leva aprendo gli studi umanistici al confronto
pubblico e all’approfondimento scientifico ad
opera delle giovani leve di studiosi e ricercatori,
chiamati a far parte di una comunità aperta e
dinamica, non più settaria ed esclusiva come
nel recente passato. Una libertà di espressione
che Derrida ritiene a buon diritto incondizionata, presupposto irrinunciabile della missione
formativa di un sistema deputato a instillare il
lume della verità: «L’università fa professione
della verità. essa dichiara, promette un impegno senza limiti nei confronti della verità»
(Derrida 2001, p. 10).
Ma è evidente che sia l’Università nella democrazia vagheggiata da Habermas, sia l’Università senza condizione auspicata da Derrida,
costituiscono due rappresentazioni ideali, per
certi aspetti utopiche, dell’Università a venire,
ma estremamente efficaci in termini di presa
di coscienza dei problemi che affliggono una
comunità caratterizzata da tempi di reazione
sovente diluiti rispetto ai cambiamenti in corso.
Derrida non nasconde le difficoltà insite nella costruzione di questa Università moderna,
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aperta al confronto e all’interazione tra i diversi
attori della sfera sociale: «Questa università senza condizione non esiste, di fatto, lo sappiamo
anche troppo bene. Ma di principio e in conformità alla sua vocazione dichiarata, in virtù
della sua essenza professata, essa dovrebbe restare un ultimo luogo di resistenza critica – e più
che critica – a tutti i poteri di appropriazione
dogmatici e ingiusti» (Derrida 2001, pp. 11-12).
si pensi all’appello lanciato dagli studenti
berlinesi, e prontamente raccolto da Habermas,
a favore della libertà gestionale, formativa e
comunicativa dell’Università, che presuppone
l’indipendenza dal potere statale e industriale, anche (e forse soprattutto) nella definizione degli indirizzi delle attività di ricerca. Una
Università più dinamica e reattiva, che incentivi
non solo il merito e la qualità della formazione,
ma anche le azioni di sostegno all’inserimento
degli studenti nella vita universitaria, attraverso la necessaria valorizzazione del diritto allo
studio.
Del resto i due filosofi ritengono che l’università moderna debba interiorizzare le buone pratiche inclusive della democrazia senza
trascurare l’interazione con lo spazio pubblico
di riferimento, mediante la salvaguardia delle
proprie prerogative scientifiche, educative e comunicative. Ma non è tutto: «L’università dovrebbe dunque essere anche il luogo nel quale
niente è al riparo dall’esser messo in questione,
nemmeno la figura attuale e determinata della
democrazia; e nemmeno l’idea tradizionale di
critica» (Derrida 2001, p. 13). Concepita come
un sistema aperto e interattivo, l’Università
senza condizione si configura come sviluppo
dell’Università nella democrazia disegnata
all’alba del sessantotto, in uno scenario politico e sociale segnato da tensioni profonde e, per
certi aspetti, irrisolte.
a trent’anni di distanza dal richiamo del
sociologo tedesco, Derrida fonda l’incondizionatezza dell’Università moderna sul diritto
a partecipare attivamente all’agone della sfera
pubblica, senza condizioni e senza infingimenti.
non stupisce che venga meno l’anelito politico
che ispira l’appello di Habermas, che chiedeva
agli studenti di non rinunciare all’esercizio dei
propri diritti civili nella propria azione rivendicativa. Derrida invita i giovani non tanto a
esercitare un ruolo politico, quanto piuttosto
a perseguire il principio della verità, tratto distintivo irrinunciabile nell’era della comunicazione liquida, caratterizzata da una intensità
interazionale tanto estesa quanto incontrollata.
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rimangono ad ogni modo le tangenze programmatiche tra due visioni dell’Università
ispirate a un comune afflato riformistico, generato dalla consapevolezza di non poter differire
oltre il rinnovamento imposto dai cambiamenti epocali della modernità. si pensi del resto a
quanto asserisce Habermas in una conferenza
tenuta a parigi nel novembre 2000, dedicata agli
influssi del pensiero ebraico nella filosofia di
Derrida6. ed è significativo che la conferenza si
apra con il richiamo alla lezione svolta l’anno
precedente a Francoforte dal filosofo francese,
incentrata sull’idea di università: «Fu un’arringa appassionata a favore dell’obbligo incondizionato che la comunità accademica ha di ricercare e di difendere la verità. Un’università
che non rinneghi la propria concezione dello
studio deve assicurare lo spazio istituzionale
per una tale professione di princìpi e d’intenti.
a suo avviso è compito dei “professori” portare
di continuo a consapevolezza il senso performativo di questa “professione”, la “messa in atto” della verità» (Habermas 2011, pp. 135-136).
Una sfida possibile, ma a una condizione:
che la conservazione del «diritto della cattedra»
stigmatizzata da Habermas ai tempi del discorso
di Hannover, non si configuri come ancoraggio
a forme di potere oggi in dismissione, messe a
rischio dalle nuove politiche di accreditamento
e di valutazione cui i sistemi universitari postmoderni sono sottoposti oggi per rispettare
parametri qualitativi internazionali, condivisi
dalla comunità scientifica globalizzata. Questa
la sfida della «mondializzazione» delle conoscenze enunciata da Derrida in avvio del nuovo millennio, situandosi nel medesimo alveo
programmatico solcato da Habermas all’alba
del sessantotto. Due proposte autorevoli per
il futuro dei nostri atenei, destinate a incidere
significativamente sulla missione educativa e
sociale dell’Università nella democrazia.
Note
1 La conferenza è stata pubblicata in J. Habermas,
L’università nella democrazia, De Donato, Bari 1968, da
cui sono tratte le citazioni dei brani habermasiani inseriti in quest’articolo. sull’evoluzione delle riforme universitarie recenti si rimanda a a. Masia, M. Morcellini,
L’università al futuro. Sistema, progetto, innovazione,
Giuffrè, Milano 2008; a. Lombardinilo, università: la
sfida del cambiamento. analisi delle riforme e società della conoscenza, rubbettino, soveria Mannelli 2010. sul
rapporto tra Università, scuola e società nei tempi della
prospettiva
•persona•
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globalizzazione cfr. a. touraine, La globalizzazione e la
fine del sociale, il saggiatore, Milano 20122, 172-177; M.
Morcellini, v. Martino, Contro il declino dell’università.
appunti e idee per una comunità che cambia, il sole 24 ore,
Milano 2005. sul movimento studentesco si rimanda al
lavoro curato da Luisa Cortese, Il movimento studentesco.
Storia e documenti 1968-1973, Bompiani, Milano 1973.
2 Di pierre Bourdieu si raccomanda naturalmente homo academicus, Minuit, paris 1984. per quel che
concerne la visione mcluhaniana dei cambiamenti impressi all’Università dall’accelerazione tecnologica del
dopoguerra si rimanda a a. Lombardinilo, McLuhan.
L’università e l’evoluzione del sapere, «Universitas», n. 128,
aprile 2013, 37-40. per un profilo storico dei processi di
innovazione universitaria cfr. r. Moscati, L’università:
modelli e processi, Carocci, roma 2012. per una riflessione
sociologica sulla riforma dei sistemi di sapere dell’evo
moderno cfr. e. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, raffaello Cortina editore, Milano 2001.
3 Cfr. J. Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la crisi
dell’europa, Laterza, Bari 2011, 63-107. per una contestualizzazione sociopolitica dei processi comunicativi contemporanei si rimanda a id., L’occidente diviso, Laterza,
Bari 2007. sulla gestione dei processi comunicativi e
simbolici da parte del potere il riferimento obbligato è
a n. Luhmann, Potere e complessità sociale, il saggiatore,
Milano 20102.
4 M. Horkheimer, t. W. adorno, dialettica dell’illuminismo, einaudi, torino 20105, p. 193: «L’educazione
sociale e individuale rafforza l’uomo nel contegno oggettivante del lavoro e lo preserva dal lasciarsi riassorbire nel
ritmo alterno della natura ambiente. ogni diversione, anzi
ogni abbandono, ha qualcosa di mimetico. L’io, invece,
si è forgiato nell’indurimento. Con la sua formazione si
compie il passaggio dal riflesso mimetico alla riflessione
controllata».
5 La conferenza è ora pubblicata in J. Derrida, p. a.
rovatti, L’università senza condizione, raffaello Cortina
editore, Milano 2002, da cui sono tratte le citazioni inserite in questo articolo. va segnalato che di poco precedente è il lavoro di e. Morin, La testa ben fatta. Riforma
dell’insegnamento e riforma del pensiero, raffaello Cortina
editore, Milano 2000, che prende in consegna (tra le altre cose) lo studio dei processi di riforma dell’Università,
alla luce delle sfide imposte dalla complessità. per una
lettura sociologica dei cambiamenti più ampi imposti
dalla globalizzazione cfr. a. Giddens, Le conseguenze della
modernità, il Mulino, Bologna 1994.
6 pubblicata con il titolo di Come rispondere alla questione etica: derrida e la religione, in J. Habermas, Il ruolo
dell’intellettuale e il ruolo dell’europa, cit., 135-153. per
quel che concerne il nesso tra comunicazione e opinione
pubblica cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione
pubblica, Laterza, Bari 20114. Da rilevare che la prima
edizione francese de La scrittura e la differenza di Derrida è
datata 1967, anno in cui Habermas pronuncia l’Intervento
di hannover al cospetto di studenti e professori di Berlino
ovest, in un clima arroventato dalla dimostrazione del
2 giugno contro lo scià di persia e dall’uccisione dello
studente Benno ohnesorg (ora in L’università nella democrazia, cit., 137-154).
Raccolta Internazionale: Vaso di stile Polidori
prospettiva
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