Simone Tosi, “L’azione locale. Tra lavoro di comunità e rigenerazione urbana”, in Passaggi. Rivista italiana di scienze transculturali, 4, 2002, pp. 11-38. Abstract Da qualche decennio sono ricomparse in tutti i paesi industrializzati forme di azione locale, sia come manifestazione di esperienze spontanee, “dal basso”, sia come iniziative promosse da politiche pubbliche. L’idea che l’azione locale possa essere una base fondamentale per l’azione organizzata coinvolge differenti campi di politiche, differenti discipline e pratiche professionali. Essa ha conquistato uno spazio tale da costituirsi come un vero e proprio paradigma. L’enfasi sempre più diffusa sul valore delle azioni locali rende oggi particolarmente urgente approfondire le condizioni di efficacia di questo tipo di azioni. La popolarità che il modello dell’azione locale ha conseguito, fino a farne quasi il modello dell’intervento sociale, rischia di favorirne una applicazione che non si fa carico di verificarne i criteri di efficacia. Per questa verifica risultano di particolare interesse due tipi di operazioni. Da una parte sembra utile sviluppare il confronto tra l’attuale fase del lavoro locale o di comunità e la fase “originaria”, quella che si colloca nei due decenni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Dall’altra occorre riflettere sul ruolo che i recenti sviluppi delle scienze sociali hanno svolto nella costituzione del nuovo paradigma e sul potenziale che esse possono offrire per una migliore comprensione delle condizioni di efficacia dell’azione locale. In questa seconda direzione tre concetti – risultati dall’ “esplosione” del concetto di comunità - appaiono particolarmente utili: quelli di empowerment, di locale e di network sociali/capitale sociale. 1 L’azione locale: tra lavoro di comunità e rigenerazione urbana 1. La riemersione del lavoro di comunità 1.1. Da qualche decennio sono ricomparse in tutti i paesi industrializzati forme di azione locale, sia come manifestazione di esperienze spontanee, “dal basso”, sia come iniziative promosse da politiche pubbliche. In esse é possibile individuare temi tra i più caratteristici di quel lavoro di comunità che aveva caratterizzato molto lavoro sociale negli anni del secondo dopoguerra in Italia. Questa ripresa va al di là di quanto suggerisca la terminologia. Il termine comunità non ha oggi un ruolo centrale nella costruzione dell’azione locale e nelle pratiche del lavoro locale. Il termine è di solito sostituito da altri semanticamente limitrofi o tesi a sottolineare particolari dimensioni dell’azione locale, per esempio “quartiere”, “partecipazione”, “empowerment”, “cittadinanza”. Ciò è dovuto a diversi ordini di ragioni. Innanzitutto alla maggiore articolazione delle teorizzazioni e delle esperienze di azione locale, che ora non passano necessariamente – o non passano esplicitamente – per una tematizzazione dell’idea di comunità. Inoltre lo scostamento dalla terminologia comunitaria rivela la necessità di prendere le distanze dalle connotazioni ideologiche e dalle implicazioni teoriche che hanno tradizionalmente accompagnato il concetto di comunità. Quello che importa è che, anche quando non usa il linguaggio comunitario, la pratica attuale dell’azione locale fa riferimento ad alcuni dei principali elementi costitutivi del dibattito teorico all’origine del “lavoro di comunità” (1). 1.2. La “riemersione” del lavoro di comunità, dopo l’eclisse degli anni ‘60-’70 deve essere compresa all’interno della vicenda storica che ha costituito le alterne fortune dell’azione locale. Il riferimento al locale è stato un riferimento importante per l’azione e le politiche sociali nei due decenni successivi al secondo conflitto mondiale. Questo è il periodo in cui si verifica una rapida ascesa, e un altrettanto rapido declino, del lavoro di comunità [Martini e Sequi 1988; AA.VV. 1996]. Decisamente influenzato dalle ideologie anglosassoni e americane dello “sviluppo di comunità” e dell’ “organizzazione di comunità” e dalla riflessione sociologica classica sulle forme di socialità (da Tonnies alla sociologia americana di quegli anni), il lavoro di comunità ha costituito anche in Italia una importante variante dell’azione locale. Ben presto tuttavia, nel nuovo clima ideologico che ha accompagnato il miracolo economico e la modernizzazione del paese, il riferimento al locale – e a maggior ragione il riferimento alla comunità – perdono di importanza sia come chiavi interpretative dei processi di organizzazione sociale sia come basi per l’azione sociale. Ma già dalla metà degli anni ’70 l’azione locale trova nuove ragioni e riemerge come riferimento dell’azione e del lavoro sociale: ciò comporta anche una ripresa degli interessi che erano stati alla base del lavoro di comunità e delle pratiche che lo avevano caratterizzato [Rei 1996]. Dagli anni ’70 l’idea che la comunità possa costituire una base per l’azione riacquista credito tra studiosi, operatori e politici. Sebbene, come si è detto, con terminologie a volte differenti da quelle utilizzate negli anni ‘50, gli elementi del dibattito richiamano ampiamente i concetti propri del lavoro di comunità. Ciò che caratterizza questa nuova fase del lavoro di comunità è la sua collocazione in un contesto favorevole, nel senso che i presupposti sui quali il lavoro di comunità si basa – i principi dell’azione locale integrata e partecipativa – sono ora ampiamente condivisi (Conseille de l’Europe 2001). Si tratta di un vero movimento, che coinvolge sia le politiche pubbliche sia l’azione autorganizzata e nel quale le tradizionali motivazioni alla base dell’azione locale si combinano con nuove ragioni e atteggiamenti. Tale movimento ha avuto diversi campi di applicazione (community care, sviluppo sociale di quartiere, rigenerazione urbana, progetti locali di lotta contro la povertà ecc.) e coinvolge tanto i metodi del lavoro di comunità quanto le sue prospettive teoriche e lo stesso modo di rappresentarsi e di perseguire l’efficacia del lavoro sociale. 2 Oggi l’idea che l’azione locale possa essere una base fondamentale per l’azione organizzata coinvolge differenti campi di politiche, differenti discipline e pratiche professionali. Essa ha conquistato uno spazio tale da costituirsi come un vero e proprio paradigma. Con la crisi dell’ideologia della modernizzazione – che tanta parte aveva avuto nel relegare la comunità al ruolo di residuo premoderno, destinato alla marginalizzazione o all’estinzione – si determina un clima favorevole alla ripresa dell’azione locale. A ciò concorre la ri-valorizzazione del locale, essa stessa conseguenza in qualche modo della “crisi del moderno”. D’altra parte la stessa evoluzione delle scienze sociali in questi decenni ha fornito gli strumenti teorici per ripensare e ri-legittimare l’azione locale. Nella stessa direzione operano anche le “domande” poste dalla nuova fase storica. Il nuovo interesse per l’azione locale e per la comunità può essere facilmente messo in relazione con un insieme di circostanze storiche che segnano la crisi degli anni ’70 e il passaggio al post-industriale. Nel campo delle politiche sociali, il riferimento generale è la ricerca di una maggiore efficacia nelle politiche pubbliche. A tale nuova domanda, posta in particolare in relazione alla “crisi del welfare state”, le nuove forme di lavoro sociale cercano di fornire delle risposte [de Leonardis 1998; Donati 1998; Ranci 1999]: che si fanno carico, ad esempio, della nuova domanda di servizi da parte dei cittadini, delle nuove preferenze espresse dagli utenti [Melucci 1990; Barnes 1999] e della richiesta di una maggiore partecipazione da parte degli utenti e delle stesse istituzioni [Sgroi 1997]. Infine è possibile leggere il nuovo interesse in relazione alle dinamiche proprie della postmodernità: nei cambiamenti osservabili a livello dei sistemi produttivi, dei nuovi movimenti sociali, e dell’incremento di “complessità sociale” ecc. [Touraine 1993]. Questi temi non rappresentano soltanto dei nuovi “dati” che costituiscono nuovo spazio per l’azione locale/comunitaria: sono stati anche oggetto, da parte di interpreti o sostenitori del nuovo lavoro di comunità, di teorizzazioni specifiche che su queste basi hanno portato, più o meno esplicitamente, argomenti a favore del nuovo lavoro di comunità. 1.3. I contesti urbani caratterizzati da eterogeneità etnica o da conflitto interetnico sono ambiti in cui queste azioni locali hanno trovato ampia applicazione. Molte delle esperienze che hanno fatto da apri pista alle attuali versioni del lavoro sociale locale nascono proprio in relazione all’esigenza di gestire situazioni nelle quali la complessità, e spesso la conflittualità etnicamente connotata, rendevano problematico l’utilizzo dei tradizionali strumenti delle politiche sociali e urbane (si pensi ai progetti Urban nell’Inghilterra della fine degli anni ’60 [Brammidge 2000]). In questo senso, le potenzialità dell’azione locale sono state investite in due principali direzioni. Da un lato l’approccio negoziale, che è tipico dei nuovi modelli dell’azione locale ha fornito gli strumenti per il trattamento del conflitto “interetnico”, ma più in generale è sembrato utile come principio generale per programmare e gestire in modo appropriato, in situazioni di multietnicità, le questioni relative allo sviluppo della comunità locale. Dall’altro lato l’idea di empowerment ha trovato un campo di applicazione esemplare nei tentativi di “rafforzare” le minoranze etniche dentro la comunità - sia nelle situazioni di quartiere etnico sia in quelle di quartieri etnicamente compositi (2). Se il primo tema esemplifica le virtù dell’azione locale partecipativa in situazioni di complessità, imponendosi questa con una particolare forza ed evidenza in contesti etnicamente eterogenei, nei quali le politiche tradizionali evidenziano i limiti maggiori, il secondo tema istituisce una relazione tra l’azione locale e i temi dell’integrazione delle persone straniere nei contesti urbani. Come è evidente, tale relazione presuppone che sia avvenuto il superamento del concetto tradizionale di comunità: essa rende infatti ancora più irrealistiche le rappresentazioni non conflittuali della comunità mutuate dalla sociologia classica. 2. La costruzione dell’azione locale: problemi 2.1. L’enfasi sempre più diffusa sul valore delle azioni locali rende oggi particolarmente urgente approfondire le condizioni di efficacia di questo tipo di azioni. La popolarità che il modello dell’azione locale ha conseguito, fino a farne quasi il modello dell’intervento sociale, rischia di favorirne una 3 applicazione che non si fa carico di verificarne i criteri di efficacia. Per questa verifica risultano di particolare interesse due tipi di operazioni. Da una parte sembra utile sviluppare il confronto tra l’attuale fase del lavoro locale o di comunità e la fase “originaria”, quella che si colloca nei due decenni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Dall’altra occorre riflettere sul ruolo che i recenti sviluppi delle scienze sociali hanno svolto nella costituzione del nuovo paradigma e sul potenziale che esse possono offrire per una migliore comprensione delle condizioni di efficacia dell’azione locale. La riemersione del lavoro di comunità nell’attuale fase si caratterizza per notevoli elementi di continuità rispetto agli anni ’50, ma anche per elementi di discontinuità così forti da fare apparire una realtà storicamente differente, che mantiene molti riferimenti ideali riportabili alla tradizione del lavoro di comunità, ma anche si innova in modo sostanziale per quanto riguarda concetti, metodi, professioni. Se da un lato gli elementi di continuità sono tali da autorizzare la narrazione che vede nell’attuale lavoro locale una “riemersione” di una tradizione, tuttavia, ricollocandosi tali elementi nell’attuale contesto – storico, delle politiche sociali, organizzativo e sociale – il nuovo lavoro sociale di comunità assume elementi di originalità che occorre mettere in evidenza. La sottolineatura delle differenze non deve d’altra parte indurre nell’errore di contrapporre in termini di bianco e nero gli approcci dei due periodi. La pluralità e l’estrema differenziazione delle esperienze, allora quanto oggi, permetterebbe certamente di individuare negli anni ‘50 elementi che anticipano aspetti qualificanti delle attuali novità, così come nella fase attuale non mancano esperienze che riproducono modalità tra le più caratteristiche del lavoro di comunità del dopoguerra. 2.2. Proprio il concetto di comunità è quello intorno a cui è possibile evidenziare, in modo paradigmatico, i principali elementi di discontinuità tra il lavoro di comunità degli anni ‘50/’60 e la fase attuale. Il nuovo lavoro di comunità mantiene in generale l’atteggiamento “positivo” nei riguardi della comunità, ma, a differenza delle esperienze degli anni ’50, ora la comunità non è considerata né il luogo naturale delle relazioni umane né un valore in sé. Essa diventa piuttosto una opportunità. Correlatamente, acquista preminenza una dimensione che nelle esperienze passate aveva presenza più debole: il carattere “strumentale” della comunità. La comunità (i suoi “valori”) viene vista in molti casi come strumento per obiettivi esplicitabili. Ciò costituisce la possibilità di distinguere tra la comunità come mezzo e la comunità come fine: anche se si tratta, in realtà, di una distinzione relativa, e nella maggior parte dei progetti la comunità è considerata sia come mezzo che come fine. Denominatore comune delle impostazioni post-belliche del lavoro sociale di comunità era un concetto di comunità fortemente caratterizzato da implicazioni valoriali positive. Esse utilizzavano le classiche formulazioni di derivazione tönniesiana e le teorizzazioni della sociologia americana di quegli anni, e la maggior parte degli approcci partiva dal presupposto che la comunità fosse “naturalmente” il luogo di una positiva interazione tra individui. I progetti e le azioni che venivano messi in atto si fondavano su una generica fiducia nel carattere positivo di tutto ciò che sorgeva dalla comunità. Questo atteggiamento si fondava su di una serie di convinzioni comuni tra i sociologi dell'epoca: che il gruppo locale fosse in ogni caso appunto una “comunità”, luogo cioè di processi di integrazione e di rapporti caratterizzati da sentimenti di solidarietà; che quello locale fosse ambito privilegiato delle relazioni personali; e che la prossimità fosse una base fondamentale nel costituire relazioni comunitarie o personali. A partire da questi presupposti l'idea della naturalità delle relazioni fondate sulla prossimità nello spazio avrebbe fortemente segnato la riflessione sul locale. Nell’attuale lavoro di comunità, la contrapposizione – la rigida distinzione dicotomica tra comunità e società, ma anche l’opposizione della comunità al libero elemento associativo come meccanismo di costruzione di legami interindividuali – non appare una concettualizzazione utile. Sempre più si sono evidenziati i caratteri 4 di sovrapposizione, di coesistenza tra forme comunitarie assimilabili a quelle descritte da Tönnies e nuove strutture aggregative in grado di fornire le basi di moderne appartenenze [Touraine 1988; Maffesoli 1988]. L’uso del concetto di comunità risulta dunque ampiamente (ma non totalmente) svincolato dalle accezioni naturalistiche e positive che caratterizzavano il dibattito classico. La nostalgia per la comunità perduta non costituisce più un elemento cardine comune ai diversi approcci del lavoro sociale. La comunità non è più dunque un fine definito eticamente, ma assume più il carattere di un mezzo, di uno strumento attraverso cui è possibile raggiungere altri tipi di obiettivi (l’efficacia delle politiche, la pratica democratica ecc.). 2.3. Come si vede, si tratta di un passaggio che accomuna l’evoluzione del lavoro di comunità e quella delle scienze sociali. Il nuovo lavoro di comunità è consapevole delle condizioni di esistenza della comunità nelle moderne società complesse e del modo in cui il lavoro di comunità può svilupparsi efficacemente in tali società. La comunità viene vista come un sistema aperto, non esaustivo, e come “costruzione” che deve contare su opzioni libere e investimento da parte dei membri – non cioè come un “dato” [Bauman 2001]. Ciò è in linea con l’evoluzione che si è verificata nelle scienze sociali. Le relazioni comunitarie sono concepite dalle moderne scienze sociali, nel quadro delle società complesse, come qualcosa di molto più ampio e differenziato di quanto immaginato dalla sociologia classica. La comunità non è necessariamente definita dalle relazioni (prevalentemente) ascrittive, “primarie”, stabili (quando non immutabili), cui facevano riferimento le sociologie classiche. Anche i legami che la sociologia tradizionalmente definiva “superficiali” oppure strumentali (quelli associativi), tipici delle forme moderne di relazione, assumono un ruolo centrale nella costruzione delle strategie individuali e di gruppo nella società moderna, e la “comunità” può alimentarsi anche di queste forme. Il ruolo dei legami deboli evidenziato da Granovetter [1973] costituisce un esempio dell’importanza che relazioni diverse da quelle comunitarie in senso classico possono avere. La comunità viene così ad assumere una connotazione dinamica e mutevole. Diviene un sistema aperto in grado di adattarsi alla complessità della società globale e di flettersi in modo da continuare a svolgere importanti funzioni, sia in termini identitari – nell’ambito di una pluralità identitaria caratteristica delle società complesse, ma anche in una pluralità di identità individuali – che, conseguentemente, in termini operativi, in quanto capacità di connettere e mobilitare risorse per l’azione. Il carattere costruito della comunità, la sua dinamicità, il suo variare al variare di ciò che essa è chiamata a “fare” diviene in questo modo un nodo centrale del lavoro sociale di comunità. Ciò permette anche di aggirare un rischio insito in alcune impostazioni degli anni ’50, quello cioè di lavorare a una comunità che – immaginata in intrinseca opposizione alla società – si poneva di fronte a un’anacronistica e probabilmente impraticabile rinuncia ai vantaggi della modernità (in termini di apertura, di scambio culturale e materiale ecc.). 2.4. In relazione con questa visione “laica” del problema, avviene una “esplosione” del concetto di comunità, esplosione che può contare su di un ventennio di avanzamenti delle scienze sociali nel trattare dimensioni che tradizionalmente erano compattate nel concetto di comunità: identità, reti di relazioni positive e significative, località, ecc. L’abbandono (relativo) del termine (in Italia in particolare), se da un lato segnala la difficoltà storica di usarlo dopo la sua compromissione in sistemi ideologici ormai consumati, riflette anche questo passaggio a nozioni parziali. Dall’ambiguità e dalla densità ideologica in cui il concetto di comunità era calato sono emersi, a partire dalla fine degli anni ’60, diversi orientamenti tesi a tematizzare i nodi tipici del dibattito sulla comunità secondo prospettive specifiche e parziali. Con riferimento al significato operativo della comunità assumono una rilevanza centrale il concetto di empowerment, il concetto di “locale”, e i concetti costruiti attorno alle nozioni di “legame sociale”, “rete sociale”, “capitale sociale”. La loro importanza deriva dal contributo che possono dare nel ridefinire la comunità in termini dinamici e consapevoli del suo carattere costruito, nella 5 elaborazione di quel rapporto tra comunità come fine o come mezzo che abbiamo visto essere fondamentale per i nuovi approcci al lavoro sociale di comunità. Il concetto di empowerment, che rispetto ai due precedenti è più direttamente e strettamente legato al lavoro sociale consente inoltre di individuare la dimensione processuale del lavoro di comunità, contribuendo ad evidenziarne le finalità attuali e a suggerire gli aspetti operativi delle nuove dimensioni affiorate dal dibattito recente (la multidimensionalità della comunità, la possibile conflittualità interna, di nuovo la sua dinamicità). Come si è sopra accennato, gli stessi cambiamenti del contesto che rendono plausibile oggi il lavoro locale contengono anche le indicazioni a favore di nuove nozioni di comunità. Nello stesso tempo essi contengono elementi problematici nuovi: ad esempio l’organizzazione degli aggregati “trattati” dal lavoro locale o di comunità presenta novità per la cui comprensione non possono bastare le schematizzazioni tradizionali del lavoro locale. Ad esempio, per quanto riguarda la composizione e la qualità della domanda di servizi quale si è determinata negli anni più recenti, si osserva una sorta di “sfilacciamento” delle reti di cura di tipo familiare, in seguito all’aumento della mobilità geografica [Taylor 1998 e 2000]; inoltre i network sociali appaiono generalmente meno coesi e stabili, con prevalenza delle relazioni deboli. Ciò ha importanti implicazioni, oltre che sull’organizzazione dei servizi, anche sulla configurazione che la comunità viene ad assumere. Queste novità rendono ancora meno attendibile che nel passato le definizioni tradizionali della comunità. La dimensione etnica diviene in questo senso di rilevanza cruciale. Risulta sempre più chiaro che la comunità non può essere definita sulla base di quelle dimensioni che avevano lungamente prevalso nelle teorie formulate da scienziati sociali e assunte nella cassetta degli attrezzi degli operatori e dei promotori del lavoro di comunità. Non solo l’omogeneità – e ancora meno la naturalezza – della comunità non possono più essere considerate dimensioni fondanti del concetto di comunità. Anche l’assenza di conflitto e di tensione diventano in modo sempre più evidente elementi più prossimi a una versione tradizionale – quando non ideologica tout court – che non a caratteristiche reali della comunità. Le fratture interne alle comunità si impongono quindi alla comune attenzione. E, se da una parte si diffonde la convinzione che le diversità porteranno all’esplosione di tensioni e conflitti (3), dall’altra prendono piede e si diffondo esperienze tese a cercare di risolvere tali conflitti, proprio a partire dai luoghi del vivere quotidiano. 2.5. I dati problematici in effetti non riguardano soltanto i dati “oggettivi” del nuovo contesto, ma anche la costruzione sociale del modello dell’azione locale. I limiti “teorici”, gli elementi di debolezza che accompagnano la rinascita dell’azione locale - e che costituiscono rischi notevoli per lo sviluppo del dibattito e per una sua traduzione in termini di politiche - rimandano all’incertezza delle definizioni e delle categorie (ed è in questo senso che si impone una migliore integrazione con la parallela riflessione delle scienze sociali): incertezza che a sua volta è riferibile da un lato ad una prevalenza della dimensione operativa dall’altro alla collocazione ideologica di molte riproposte dell’azione locale. Il punto critico è la scarsa riflessione sulle condizioni di efficacia dell’azione locale, la identificazione dei fattori che discriminano tra diversi tipi di azione diversamente efficaci. Il tema dell’efficacia delle politiche sociali è al centro del discorso sull’azione locale. È su questa base che viene riproposta – nel contesto del dibattito sulla “crisi del welfare”– l’idea che la “comunità” possa offrire importanti soluzioni ai problemi dei policy makers. Come è stato osservato, prevale un approccio pragmatico, che mira a risultati di breve periodo, che cerca di dare risposte pratiche al bisogno dei policy makers di trovare “alternative praticabili ai modelli esistenti di decision making”: senza tematizzare in maniera approfondita in quali accezioni la comunità possa svolgere questo ruolo [Butcher 1993, 56]. Questo pragmatismo è del tutto coerente con le logiche della ripresa neo-liberistica, di cui molte versioni dell’azione locale oggi risentono. Esso rafforza gli effetti negativi della popolarità dell’idea di azione locale: rischia di offuscare le ragioni e la riflessione circa le condizioni della sua efficacia. Tutto ciò concorre a de-problematizzare la riflessione, a confortare una 6 fiducia nel locale e nella comunità simile a quella che nel passato si reggeva sulle virtù “naturali” della comunità. Lo stesso concetto di efficacia può certamente assumere definizioni differenti. Willmott, ha cercato di legare il problema dell’efficacia ad una classica distinzione propria del dibattito sui processi di decisione: quella tra iniziative top down e iniziative bottom up. Secondo Willmott l’idea stessa di efficacia e il successo delle iniziative ha significati differenti nelle due prospettive. Nelle iniziative top down successo significa “offrire servizi (per esempio nel caso del community care) […] più fattivi o agire sulle risorse proprie delle persone per integrare le risorse pubbliche” [Willmott 1989, 34]. Nelle attività bottom up il criterio di valutazione dell’efficacia dell’azione consiste in “quanto le vite delle persone si sono effettivamente arricchite o quanto sono migliorate come risultato della loro partecipazione” [ibidem]. Osservazioni simili si possono fare per il rapporto che esiste tra la riproposta dell’idea di comunità, così come ritematizzata a partire dagli anni novanta, e le implicazioni della post-modernità [Butcher 1993] – delle nuove tendenze che annunciano forme post-moderne di società e delle nuove riflessioni che convergono nella costruzione di una teoria della post-modernità. In questa chiave assumono rilevanza i vari temi che sono al centro del dibattito sul passaggio al post-industriale e al post-moderno: in particolare il ruolo delle nuove tecnologie, nel quadro del superamento del modello di produzione fordista, e il ruolo dei nuovi movimenti sociali, in quanto rivelatori e fattori delle nuove forme sociali che caratterizzano la postmodernità: il pluralismo politico e culturale, le nuove etiche dei consumi, i nuovi localismi. Anche questo tema si presta a valutazioni e applicazioni pratiche diverse. Se non si discute delle alternative interpretazioni - e se non si riconosce l’ambivalenza dei processi in gioco – c’è il rischio che la fiducia nel pluralismo culturale, nel locale, nella virtù dei network si riproduca con gli stessi automatismi che caratterizzavano la fiducia nella “comunità” negli anni ’50-’60. In effetti, se è vero che il passaggio da un’organizzazione di tipo fordista ad una di tipo post-fordista ha avuto manifestazioni anche nell’ambito dei servizi e degli orientamenti pratici nelle politiche sociali, in linea diretta ciò che può essere osservato nel campo dei servizi è tuttavia soltanto una generica enfasi sull’importanza di procedure decisionali snelle, semplici e il meno possibile centralizzate. Ciò ha a che fare in qualche modo con le idee di partecipazione, di diffusione di potere, di empowerment. Ma più spesso la logica soggiacente a questo discorso rimanda a concezioni prettamente di mercato che difficilmente si possono applicare con successo all’ambito dei servizi (Taylor e al. 1992). Invece, di nuovo, l’incremento di “complessità sociale” che è caratterizzazione fondamentale delle società post-moderne e post-industriali [Lyotard 1985] è una condizione le cui “esigenze” dovrebbero essere adeguatamente valutate anche per quanto concerne le forme del progetto locale. La necessità di introdurre processi decisionali e forme di legittimazione che richiamano la comunità è stata spesso affermata nel rivendicare le ragioni degli approcci partecipativi alla progettazione. Le ragioni di quella che viene presentata come una vera e propria necessità sono numerose. Le politiche convenzionali appaiono sempre meno adatte a trattare i problemi che emergono nelle società attuali: si rende necessario il confronto tra una molteplicità crescente di interessi e di attori, e in particolare con i destinatari finali delle politiche urbane e sociali. Inoltre occorre che sul piano dei processi di costruzione delle politiche si cerchino pratiche sperimentali che prevedano una più ampia flessibilità normativa e gestionale [Paba 2000, 18]. Il tema si intreccia con quello dell’efficacia delle politiche e dei servizi. La ricerca di qualità nelle politiche, in effetti, appare sempre meno misurabile attraverso parametri e indicatori delle prestazioni fornite. Sempre più la qualità si afferma come proprietà relazionale, per cui diviene importante il modo attraverso cui i risultati vengono raggiunti, e principalmente le relazioni tra fornitori di servizi e utenti, tra governo della città e cittadini. 7 3. L’esplosione del concetto di comunità: apprendere dalle scienze sociali 3.1. Si sono manifestate nelle scienze sociali di questi decenni alcune linee di riflessione, che sono parte integrante della costituzione del nuovo paradigma dell’azione locale. Una più attenta considerazione di queste linee potrebbe aiutare a rendere meno casuali e frammentari i riferimenti utilizzati dal lavoro di comunità e dall’azione locale, e ad affrontare con maggiore rigore il problema della loro efficacia. A questo fine sembrano utili in particolare, come si è detto, tre tipi di concetti (e aree di ricerca) tra quelli che sono risultati dall’ “esplosione” del concetto di comunità: quelli di empowerment, di locale e di network sociali/capitale sociale. Di questi concetti, empowerment è quello maggiormente legato alla dimensione operativa del lavoro sociale. L’approccio centrato sull’empowerment enfatizza quello che possiamo considerare la chiave di volta del nuovo lavoro di comunità: considerare la comunità locale come soggetto/attore, non come destinatario di azioni o come bacino di utenza di una serie di servizi ecc. Non quindi “di che cosa ha bisogno la comunità locale?”, ma piuttosto “chi è? che cosa sa fare? che cosa può fare la comunità locale?”. Gli strumenti (che costituiscono anche obiettivi di breve periodo) dell’azione fondata sull’empowerment sono costruiti attorno all’idea di fare leva sulle risorse della comunità locale [Martini e Sequi 1995], di favorirne la crescita, l’identità, l’autonomia, la responsabilità. Empowerment assume allora contemporaneamente la doppia valenza di obiettivo e di processo. Di obiettivo, essendo il rafforzamento della comunità il fine cui le azioni sono orientate (non necessariamente il rafforzamento della comunità come tale, quanto piuttosto della sua capacità di costruire azioni che ne migliorino la qualità della vita o le possibilità di sviluppo). Di processo, dato che è attraverso l’azione che la comunità sperimenta e apprende le modalità di lavoro comune, le dinamiche cooperative, la partecipazione che costituiscono elementi essenziali della sua forza. Il concetto di empowerment oggi è diventato un tema chiave pressoché universale nel discorso pubblico sui progetti locali e sui progetti di sviluppo. Ora, nel campo del servizio sociale l’empowerment sembra riassumere le aspirazioni e le idee del lavoro di comunità [Warren 1996, 107]. Tuttavia l’uso che del concetto viene fatto è spesso indiscriminato e vago, e dietro l’apparente consenso ci sono significati diversi e interessi spesso divergenti. 3.2. Per quanto riguarda l’offerta delle scienze sociali, possiamo pensare che una migliore comprensione delle condizioni di efficacia del lavoro locale potrebbe essere ottenuta con un più equilibrato utilizzo delle diverse tematizzazioni che sono state proposte. Il concetto di empowerment è stato elaborato in due distinti ambiti disciplinari. Il primo – che trova un notevole seguito sia nel dibattito teorico che nelle applicazioni pratiche – è quello della psicologia di comunità. L’attenzione in questo caso è posta in particolare sugli aspetti individuali dell’empowerment: sulla necessità, in particolare, che gli individui disempowered intraprendano un percorso teso a rafforzare la loro autostima, le loro competenze ecc. Il secondo ambito, meno noto, è quello sviluppato negli “studi di sviluppo alternativo”, punto di incrocio tra differenti tradizioni delle scienze sociali (economia, sociologia, scienza politica). L’analisi del potere e dei processi di empowerment sviluppata in questo ambito è centrata sulla relazione tra dimensione locale e caratteristiche “macro” del sistema. Ora, dei due tipi di elaborazione il lavoro di comunità utilizza prevalentemente quella di derivazione psicosociale. E’ lecito pensare che una riflessione maggiormente centrata sugli aspetti sociologici, legati a dimensioni macro dell’empowerment, possa portare al dibattito e alla pratica del lavoro locale apporti essenziali. Possiamo illustrare il punto con riferimento al contributo di J. Friedmann [1992], il cui lavoro rappresenta la più sistematica elaborazione di questa impostazione. 8 Per Friedmann la mancanza di potere deriva da un processo di lungo periodo – che egli chiama di “disempowerment sistematico” – nel corso del quale si è verificata una concentrazione del potere nello Stato e nel sistema economico. Tale concentrazione (che Friedmann legge con particolare riferimento all’America Latina) ha progressivamente marginalizzato la società civile (e in parte il sistema politico), impoverendo l’intero sistema sociale. Questo processo ha generato una separazione sempre più netta tra mondi vitali, dato che la sostituzione di una sfera con un'altra produce un impoverimento del sistema sociale nella misura in cui vengono a mancare le logiche ed i sistemi di pratiche specifiche della sfera che soccombe: Ciascun ambito ha un nucleo di istituzioni autonome che governa ogni rispettiva sfera. Il nucleo dello stato consiste nelle sue istituzioni esecutive e giuridiche; il nucleo della società civile è la sfera domestica; il nucleo dell’economia e è la grande industria; e il nucleo della comunità politica sono le organizzazioni politiche indipendenti e i movimenti sociali. Per ciascuno di questi nuclei possono essere individuate forme tipiche di potere – il potere statale, il potere sociale, il potere economico e quello politico – a seconda del tipo di risorse che gli attori mobilitano in ogni diverso dominio [Friedmann 1992, 28]. Questo impoverimento ha non poche conseguenze anche per quanto riguarda le potenzialità di mobilitazione della società civile. Anche nelle situazioni di massima concentrazione del potere lungo l’asse statoeconomia, gli ambiti più deprivati tendono ad attivare forme di rivendicazione che mirano ad una riappropriazione della loro parte di potere. Nascono così organizzazioni “dal basso”, spontanee, spesso ampiamente informali, comunque indipendenti dall'intenzione e dalla volontà degli ambiti maggiormente dotati di potere. L’analisi di Friedmann presenta notevoli elementi di interesse per il lavoro di comunità. Innanzitutto essa tenta di rendere conto di una sorta di mappa del potere che vada al di là di un riferimento ai soli ambiti dello stato e dell'economia. La società civile viene infatti inclusa tra gli attori che concorrono nell'arena del potere, e nello schema teorico si colloca allo stesso livello gerarchico delle altre sfere. Non è vista, come nel modello economicistico, come un sub-attore funzionale all'esistenza e al mantenimento delle sfere politica, statale ed economica; non è dunque “bacino di voti”, o “cittadino”, o “consumatore”, ma assume un ruolo paritetico rispetto alle altre tre sfere. Il recupero della società civile come attore paritetico rispetto a stato, politica ed economia non si risolve nell'aumento numerico degli attori che economicisticamente si considererebbero in competizione per l'acquisizione di risorse scarse. É soprattutto il modello di relazione tra le quattro sfere ad essere profondamente reinterpretato. Esse vengono tutte ugualmente valorizzate nelle loro rispettive specificità. Inoltre viene messa in evidenza la permeabilità dei confini posti tra l'una e l'altra sfera, così come le aree di sovrapposizione che individuano ambiti di azione nei quali il potere deriva da una negoziazione tra attori appartenenti a sfere diverse. 3.3. Certamente lo schema di Friedmann presenta anche alcuni limiti (4) Nel suo insieme il suo contributo di Friedmann presenta grande interesse in quanto fornisce elementi teorici per riconcettualizzare una serie di elementi che fanno parte del bagaglio storico del lavoro di comunità, e al tempo stesso costituiscono caratteristiche centrali delle tematizzazioni più recenti sull’argomento. Alcune attuali tendenze delle politiche sociali (quelle rivolte alla famiglia, quelle relative alla lotta all’esclusione sociale o rivolte a specifiche fasce deboli) attribuiscono un’importanza centrale alla sfera della società civile come ambito in cui le politiche vengono costruite e al tempo stesso come soggetto della costruzione di tali politiche. L’idea è stata formulata in diversi modi: tra questi l’importanza dell’informale, sia inteso come sistema di relazioni che si radica in concetti come quello di vicinato o di parentela sia nel senso di ciò che è altro dall’istituzionale (in termini organizzativi, ad esempio, il terzo settore), assume un ruolo centrale (5). I beni e 9 le relazioni prodotti nell'ambito del sistema informale – al di là cioè delle dinamiche macro economiche e macro politiche i cui sistemi normativi mutuano i processi alla base delle citate forme di esclusione – costituiscono per Friedmann il fulcro del sistema di strategie (di negoziazione) che muovono dalla società civile. Il concetto di informale implica da un lato il rifiuto della riduzione istituzionale dei bisogni, dall’altro è una critica dell’individuazione unidimensionale delle pratiche e dell’organizzazione sociale. Nel caso di Friedmann il riferimento all’informale consente di fornire una ulteriore indicazione di grande interesse per il lavoro di comunità: l’idea che anche nelle situazioni di estremo disempowerment vi siano risorse mobilitabili. In larga misura le argomentazioni di Friedmann si basano su un motivo le cui implicazioni teoriche e pratiche sono di grande rilevanza: l’identificazione della sfera domestica come nucleo centrale della società civile. Ciò permette di connettere il carattere macro sociale in cui il discorso si inserisce con una dimensione micro che ha i suoi attori di riferimento nelle persone che compongono la sfera domestica. Gli households possono essere definiti come un gruppo residenziale di persone che vivono sotto uno stesso tetto e mangiano alla stessa tavola. Ogni household forma un insieme politico ed una economia in miniatura; è l’unità elementare della società civile. Le persone che risiedono in un household possono avere legami di sangue oppure no. Le loro vere famiglie comprendono parenti che possono vivere in household che sono spazialmente dispersi ma rimangono legati l’un l’altro attraverso modelli di mutua obbligazione [Friedmann 1992, 32]. Questo tipo di concezione, in contrasto con la teoria economica neoclassica, che assume come unità sociale fondamentale la fabbrica, restituisce alle relazioni primarie e di vicinato una funzione fondamentale in termini sia di produzione di beni e servizi che di pratiche e saperi. Infine, interessa rilevare come l’idea di empowerment di Friedmann utilizzi la distinzione tra tre fondamentali tipi di potere. Il primo è il potere sociale, cioè la capacità di accedere ad elementi di base quali l'informazione, la partecipazione ad organizzazioni sociali e alle risorse finanziarie. L'aumento dell'accesso a questo tipo di risorse si riflette in una crescita di capacità della sfera domestica di raggiungere i propri obiettivi. Il secondo tipo di potere è quello politico, che riguarda l'accesso ai processi decisionali, e che ovviamente non si esprime solamente attraverso il potere di voto ma anche attraverso più ampie strategie di azione collettiva e di voice. Infine il potere psicologico, che consiste in un senso di “potenza” sia individuale che dello household come unità sociale. Esso è spesso il frutto di un positivo esito negli ambiti definiti di potere sociale e politico ma può anche precedere l'acquisizione degli altri due tipi di potere e costruirne la base. Un percorso di empowerment, secondo Friedmann, deve tenere conto in maniera integrata di queste tre forme di potere. Alcuni progetti in corso in quartieri etnicamente eterogenei prestano grande attenzione all’idea di empowerment, e in diversi casi l’applicazione al problema delle minoranze etniche ne comporta interpretazioni originali. L’intervento a Tower Hamlets (Londra) – un caso particolarmente innovativo prevede azioni specifiche di empowerment in particolare per la componente più debole della comunità: le minoranze etniche bengalesi. “A Tower Hamlets il coinvolgimento della comunità locale deve significare in particolare coinvolgimento dei gruppi etnici minoritari, dato che è proprio in questi gruppi che si riscontrano le situazioni più acute di marginalità e svantaggio sociale. I progetti di rigenerazione urbana degli ultimi anni hanno focalizzato l’attenzione su questi gruppi intervenendo con specifiche iniziative, come quella dei corsi di lingua inglese o la consulenza e il supporto per l’avviamento di imprese a carattere etnico” [Brammidge 2000, 9]. Si tratta da questo punto di vista di migliorare il livello di integrazione degli immigrati nel tessuto produttivo dell’area, in modo da renderli meno vulnerabili ai cambiamenti in corso. Oltre che da un’idea di equità sociale, questo tipo di azioni nasce dalla convinzione che la comunità sia tanto più forte nel suo complesso quanto meno sono presenti al suo interno gruppi svantaggiati. L’efficacia di queste azioni è anche finalizzata 10 a favorire una maggiore conoscenza reciproca tra immigrati e autoctoni costruendo il terreno per una maggiore collaborazione tra i due gruppi. 3.4. Per quanto riguarda il secondo concetto - quello di locale - la riflessione recente delle scienze sociali offre indicazioni particolarmente utili laddove insiste sul carattere “costruito” del locale. Non è tanto (o comunque non soltanto) la strutturazione dello spazio a determinare la delimitazione di un’area locale, ma la sua antropizzazione, la definizione soggettiva che ne danno coloro che vivono tale contesto [Pasqui 1998, 1998a]. Per questa via l’accento viene posto appunto sul carattere “costruito” del locale, sulla sua differenziazione interna, sulla sua apertura e interazione con il mondo esterno. Si rende in questo modo disponibile un concetto operativo in grado di rendere conto di come le diverse esperienze che del locale hanno i soggetti che interagiscono in un certo spazio si sovrappongono, si incrociano e si modificano. Il locale così definito costituirebbe quindi una base concreta per l’azione comunitaria in una prospettiva svincolata dalle implicazioni localistiche che spesso affiorano nel lavoro locale[Strassoldo 1992]. Inoltre – e qui il dibattito sul locale si compone con quello sulle reti – il tema del locale fornisce le ragioni e le categorie per superare le identificazioni/riduzioni delle tradizionali teorie della comunità. La stretta connessione tra l’idea di locale e quella di comunità [Bagnasco 1999], è stata intesa di solito con un prevalente riferimento alla dimensione spaziale della comunità e del locale [Willmott 1989], particolarmente evidente nel lavoro di comunità. La maggior parte delle accezioni con cui è stato utilizzato il concetto di comunità fa riferimento alla “prossimità” e alla “propinquità”: dove la “propinquità è coresidenzialità locale determinata dalle strategie di vita di individui e gruppi e la prossimità è vicinanza personale, densità morale, che deriva da relazione volontaria e comunicazione libera” [Rei 1996, 7]. In parte, a confortare questo modo di mettere in relazione locale, comunità e spazio, ha contribuito una tradizione che, dalla Scuola di Chicago in avanti, ipotizza una stretta relazione tra dinamiche spaziali e forme sociali. Più recentemente, invece, con la sottolineatura del carattere non naturale del locale, anche le sue connotazioni spaziali sono state problematizzate e in qualche misura relativizzate. In questa stessa direzione si è mosso il dibattito sulle reti sociali. La nozione di rete consente di affrontare problemi tradizionalmente mal concettualizzati nella ricerca sulla comunità. In particolare viene a ridefinirsi il rapporto tra spazio e relazioni sociali, rifiutando l’identificazione tra relazioni di prossimità e relazioni “importanti”, e aprendo a una gamma di modelli di relazioni ampia e non predeterminata [Granovetter 1973; Piselli 1995; Di Nicola 1998). Il concetto di “rete sociale” – l’immagine dell’individuo come nodo di una rete costituita dalla complessa trama delle relazioni di amicizia e di conoscenza e l’idea che le caratteristiche della rete possono essere usate per interpretare il comportamento sociale delle persone coinvolte permette di allontanarsi dall’assunto della ricerca tradizionale – che una proporzione importante delle relazioni sociali degli abitanti della città sono organizzate per località – per affidare invece all’analisi di rete la verifica di questa possibilità. Diventa allora evidente che le relazioni di vicinato o “locali” sono un tipo di legame, che può essere rilevante o meno, e più o meno significativo nell’insieme delle relazioni che costituiscono una rete sociale. La questione cruciale è di vedere in quali circostanze si costituiscono queste relazioni, e quando esse assumono quella forma “forte” – di relazione positiva e coinvolgente - che costituirebbe il vicinato secondo le identificazioni tradizionali. “Essere un vicino è un ruolo, non un'esistenza. Lo studio della neighborliness implica la valutazione delle relazioni tra un certo mondo di vicini e il più ampio sistema di reti e relazioni sociali in cui gli individui sono implicati” (Bulmer, l986, pp. l9-2l) (6). 3.5. I concetti di capitale sociale, legame sociale e rete sociale sono ampiamente interconnessi tra loro ma ognuno con la capacità di porre in evidenza aspetti differenti del problema. Nell’insieme essi forniscono gli elementi per muoversi nel rapporto tra comunità come fine e comunità come strumento e per trattare le conseguenze metodologiche che vengono da una visione non ideologica della comunità: compresi gli ostacoli che la stessa comunità può costituire nei confronti di uno “sviluppo sociale”. 11 Il rapporto tra comunità come fine – l’idea di porre come obiettivo dell’azione la costruzione della comunità – e comunità come strumento per perseguire altri obiettivi – per cui le relazioni comunitarie costituiscono uno dei possibili fattori di efficacia delle politiche – rappresenta un primo punto nevralgico. In esso si gioca buona parte della differenza tra il lavoro di comunità degli anni ’50 e le attuali impostazioni. Il capitale sociale presente in una comunità può essere considerato presupposto e risorsa per l’intervento e al tempo stesso obiettivo dell’intervento; questo secondo significato, spesso identificato come la “creazione” di legami sociali, è un obiettivo particolarmente ovvio nei progetti di sviluppo di comunità rivolti a situazioni sociali di emarginazione, disgregazione ecc. [Abrams 1977, 1980; Abrams e McCullogh 1976; Bulmer 1986, 1992]. Questa distinzione comporta una serie di problemi, soprattutto se si considera che le varie comunità locali sono diversamente dotate di capitale sociale. Alcune comunità locali presentano una fitta rete di relazioni interpersonali ed associative; il tessuto sociale è in qualche modo predisposto ad assumere un ruolo attivo e partecipativo nella comunità e per la comunità. In questi casi l’attivazione di progetti di comunità necessita solamente di una ragione contingente per avere luogo. In altri casi la qualità e la quantità dei legami sociali all’interno della comunità è più scarsa: il problema diventa allora quello dello “sviluppo” di un capitale sociale – o di una “comunità”. L’individuazione e l’iniziale coinvolgimento dei potenziali attori di un progetto di sviluppo costituisce in questi casi una fase molto importante e lo scopo del progetto di sviluppo è spesso proprio quello di innescare reticoli comunitari (a volte latenti più che assenti). Con capitale sociale d’altra parte non vanno intese solo le forme di solidarietà (o quanto meno di collegamento) rispetto alle cosiddette reti informali. Anche il rapporto e la reciproca stima tra reti informali e istituzioni costituisce un elemento di importanza fondamentale [Mutti 1994]. L’esistenza o meno di forme di relazione “sfruttabili” nel lavoro sociale, specifiche di una certa comunità – identificate come capitale sociale – individua dunque un fattore cruciale. L’idea di comunità come risorsa, già tema centrale del lavoro sociale negli anni del dopo guerra, non è però più fondata su una generica fiducia nei naturali effetti positivi della comunità, ma vengono assunte criticamente le implicazioni che i network hanno nello strutturare forme di relazione utilizzabili nell’azione di comunità. Tali network possono infatti presentare caratteri di chiusura e influenzare le dinamiche dell’azione di comunità, oltre che la redistribuzione dei benefici di tale azione, inibendo e ritardando (comunque influenzando) l’effetto dell’azione [Taylor e Hoggett 1994]. Note 1) Non mancano comunque posizioni, come il filone neocomunitarista (Etzioni 1993; Dworkin e Maffettone 1996), che hanno recuperato ampiamente – oltre a forme di pratica sociale tipica degli anni del dopoguerra – anche lo stesso linguaggio, riproponendo un’idea di comunità e di lavoro sociale di comunità prossimi a quelli tradizionali. Pur sviluppate su basi teoriche e ideologiche notevolmente diverse, le posizioni degli attuali (neo)comunitaristi hanno notevoli somiglianze con le posizioni del primo lavoro di comunità soprattutto per quanto attiene alle connotazioni valoriali della comunità [v. Siza 1998]. 2) Tra i non molti casi italiani di azioni locali integrate (di quartiere) incentrate su problemi di integrazione degli immigrati o sulla gestione di conflitti interetnici, v. l’esperienza di San Salvario a Torino [Cicsene 1996; Bocco 1997] 3) Di fatto, in alcune situazioni, i conflitti esplodono: in Gran Bretagna episodi come quello di Brixton [Hoggett 1997] divengono l’emblema della conflittualità e della problematicità interne alle comunità. Un caso italiano che ha avuto notevole eco sulla stampa nazionale è quello delle tensioni tra immigrati maghrebini e altri residenti nel quartiere di San Salvario a Torino [Cicsene 1996; Bocco 1997]. 4) Soprattutto si può notare come ciascuna delle quattro sfere, presentata come un’unità omogenea e coesa, in realtà presenta al suo interno numerose linee di distinzione, quando non fratture vere e proprie. Basti 12 pensare, ad esempio, alle classi sociali e ai gruppi etnici o religiosi, tutti parte della società civile ma portatori di istanze specifiche e spesso tra loro in contrasto. 5) In particolare il movimento antiutilitarista francese si configura come esperienza di ricerca intorno ai temi dell’informale e delle relazioni non interpretabili nei termini delle relazioni strumentali-razionali. Autori come Latouche e Caillé sono forse gli interpreti più noti di questo tipo di analisi. 6) Questo schema concettuale – intanto che consente di allontanarsi dalle interpretazioni deterministiche da cui era partita la ricerca sulla comunità – assume “positivamente” le circostanze storiche nelle quali questi legami si costituiscono: l’estensione della gamma individuale di scelta nel fare e nel mantenere le relazioni personali. L’urbanizzazione moderna ha accresciuto la varietà dei mondi sociali, li ha parzialmente svincolati dalla residenza e ha favorito il carattere elettivo e selettivo delle relazioni. In questo quadro la qualità di questi rapporti non corrisponde, nella maggior parte dei casi, a quella immaginata dalle teorie tradizionali: più spesso le relazioni tra vicini combinano interazione frequente e limitato coinvolgimento; il neighboring tende ad assumere i caratteri di quelli che nella network analysis sono chiamati legami deboli. Il che naturalmente non impedisce di riconoscere la rilevanza dell’abitare in uno stesso territorio - rilevanza che può essere apprezzata anche senza identificare il quartiere con la comunità e senza condividere gli assunti deterministici delle origini della sociologia delle sottocomunità; né impedisce di riconoscere che - se è vero che i legami sociali sono meno vincolati dallo spazio di quanto lo siano mai stati nel passato - questo non significa che la selezione delle relazioni sociali non continui ad essere influenzata dalla localizzazione (Tosi 2001). Bibliografia AA.VV. 1996 Il lavoro di comunità. La mobilitazione delle risorse nella comunità locale, Torino, Gruppo Abele. AA.VV 2000 Le culture dell’abitare, Firenze, Edizioni Polistampa. Abrams Philip 1977 Community care: some research problems and priorities, “Policy & Politics”, (6) 2, pp. 125-151. 1980 Social change, social networks and neighbourhood care, “Social Work Service”, 22, pp. 12-23. 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