L`azione locale. Tra lavoro di comunità e rigenerazione urbana

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Simone Tosi, “L’azione locale. Tra lavoro di comunità e rigenerazione urbana”, in Passaggi.
Rivista italiana di scienze transculturali, 4, 2002, pp. 11-38.
Abstract
Da qualche decennio sono ricomparse in tutti i paesi industrializzati forme di azione locale, sia come
manifestazione di esperienze spontanee, “dal basso”, sia come iniziative promosse da politiche pubbliche.
L’idea che l’azione locale possa essere una base fondamentale per l’azione organizzata coinvolge differenti
campi di politiche, differenti discipline e pratiche professionali. Essa ha conquistato uno spazio tale da
costituirsi come un vero e proprio paradigma.
L’enfasi sempre più diffusa sul valore delle azioni locali rende oggi particolarmente urgente approfondire le
condizioni di efficacia di questo tipo di azioni. La popolarità che il modello dell’azione locale ha conseguito,
fino a farne quasi il modello dell’intervento sociale, rischia di favorirne una applicazione che non si fa carico
di verificarne i criteri di efficacia.
Per questa verifica risultano di particolare interesse due tipi di operazioni. Da una parte sembra utile
sviluppare il confronto tra l’attuale fase del lavoro locale o di comunità e la fase “originaria”, quella che si
colloca nei due decenni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Dall’altra occorre
riflettere sul ruolo che i recenti sviluppi delle scienze sociali hanno svolto nella costituzione del nuovo
paradigma e sul potenziale che esse possono offrire per una migliore comprensione delle condizioni di
efficacia dell’azione locale. In questa seconda direzione tre concetti – risultati dall’ “esplosione” del concetto
di comunità - appaiono particolarmente utili: quelli di empowerment, di locale e di network sociali/capitale
sociale.
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L’azione locale: tra lavoro di comunità e rigenerazione urbana
1. La riemersione del lavoro di comunità
1.1. Da qualche decennio sono ricomparse in tutti i paesi industrializzati forme di azione locale, sia come
manifestazione di esperienze spontanee, “dal basso”, sia come iniziative promosse da politiche pubbliche. In
esse é possibile individuare temi tra i più caratteristici di quel lavoro di comunità che aveva caratterizzato
molto lavoro sociale negli anni del secondo dopoguerra in Italia.
Questa ripresa va al di là di quanto suggerisca la terminologia. Il termine comunità non ha oggi un ruolo
centrale nella costruzione dell’azione locale e nelle pratiche del lavoro locale. Il termine è di solito sostituito
da altri semanticamente limitrofi o tesi a sottolineare particolari dimensioni dell’azione locale, per esempio
“quartiere”, “partecipazione”, “empowerment”, “cittadinanza”. Ciò è dovuto a diversi ordini di ragioni.
Innanzitutto alla maggiore articolazione delle teorizzazioni e delle esperienze di azione locale, che ora non
passano necessariamente – o non passano esplicitamente – per una tematizzazione dell’idea di comunità.
Inoltre lo scostamento dalla terminologia comunitaria rivela la necessità di prendere le distanze dalle
connotazioni ideologiche e dalle implicazioni teoriche che hanno tradizionalmente accompagnato il concetto
di comunità. Quello che importa è che, anche quando non usa il linguaggio comunitario, la pratica attuale
dell’azione locale fa riferimento ad alcuni dei principali elementi costitutivi del dibattito teorico all’origine
del “lavoro di comunità” (1).
1.2. La “riemersione” del lavoro di comunità, dopo l’eclisse degli anni ‘60-’70 deve essere compresa
all’interno della vicenda storica che ha costituito le alterne fortune dell’azione locale. Il riferimento al locale
è stato un riferimento importante per l’azione e le politiche sociali nei due decenni successivi al secondo
conflitto mondiale. Questo è il periodo in cui si verifica una rapida ascesa, e un altrettanto rapido declino, del
lavoro di comunità [Martini e Sequi 1988; AA.VV. 1996]. Decisamente influenzato dalle ideologie
anglosassoni e americane dello “sviluppo di comunità” e dell’ “organizzazione di comunità” e dalla
riflessione sociologica classica sulle forme di socialità (da Tonnies alla sociologia americana di quegli anni),
il lavoro di comunità ha costituito anche in Italia una importante variante dell’azione locale. Ben presto
tuttavia, nel nuovo clima ideologico che ha accompagnato il miracolo economico e la modernizzazione del
paese, il riferimento al locale – e a maggior ragione il riferimento alla comunità – perdono di importanza sia
come chiavi interpretative dei processi di organizzazione sociale sia come basi per l’azione sociale. Ma già
dalla metà degli anni ’70 l’azione locale trova nuove ragioni e riemerge come riferimento dell’azione e del
lavoro sociale: ciò comporta anche una ripresa degli interessi che erano stati alla base del lavoro di comunità
e delle pratiche che lo avevano caratterizzato [Rei 1996].
Dagli anni ’70 l’idea che la comunità possa costituire una base per l’azione riacquista credito tra studiosi,
operatori e politici. Sebbene, come si è detto, con terminologie a volte differenti da quelle utilizzate negli
anni ‘50, gli elementi del dibattito richiamano ampiamente i concetti propri del lavoro di comunità. Ciò che
caratterizza questa nuova fase del lavoro di comunità è la sua collocazione in un contesto favorevole, nel
senso che i presupposti sui quali il lavoro di comunità si basa – i principi dell’azione locale integrata e
partecipativa – sono ora ampiamente condivisi (Conseille de l’Europe 2001). Si tratta di un vero movimento,
che coinvolge sia le politiche pubbliche sia l’azione autorganizzata e nel quale le tradizionali motivazioni
alla base dell’azione locale si combinano con nuove ragioni e atteggiamenti. Tale movimento ha avuto
diversi campi di applicazione (community care, sviluppo sociale di quartiere, rigenerazione urbana, progetti
locali di lotta contro la povertà ecc.) e coinvolge tanto i metodi del lavoro di comunità quanto le sue
prospettive teoriche e lo stesso modo di rappresentarsi e di perseguire l’efficacia del lavoro sociale.
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Oggi l’idea che l’azione locale possa essere una base fondamentale per l’azione organizzata coinvolge
differenti campi di politiche, differenti discipline e pratiche professionali. Essa ha conquistato uno spazio tale
da costituirsi come un vero e proprio paradigma. Con la crisi dell’ideologia della modernizzazione – che
tanta parte aveva avuto nel relegare la comunità al ruolo di residuo premoderno, destinato alla
marginalizzazione o all’estinzione – si determina un clima favorevole alla ripresa dell’azione locale. A ciò
concorre la ri-valorizzazione del locale, essa stessa conseguenza in qualche modo della “crisi del moderno”.
D’altra parte la stessa evoluzione delle scienze sociali in questi decenni ha fornito gli strumenti teorici per
ripensare e ri-legittimare l’azione locale.
Nella stessa direzione operano anche le “domande” poste dalla nuova fase storica. Il nuovo interesse per
l’azione locale e per la comunità può essere facilmente messo in relazione con un insieme di circostanze
storiche che segnano la crisi degli anni ’70 e il passaggio al post-industriale. Nel campo delle politiche
sociali, il riferimento generale è la ricerca di una maggiore efficacia nelle politiche pubbliche. A tale nuova
domanda, posta in particolare in relazione alla “crisi del welfare state”, le nuove forme di lavoro sociale
cercano di fornire delle risposte [de Leonardis 1998; Donati 1998; Ranci 1999]: che si fanno carico, ad
esempio, della nuova domanda di servizi da parte dei cittadini, delle nuove preferenze espresse dagli utenti
[Melucci 1990; Barnes 1999] e della richiesta di una maggiore partecipazione da parte degli utenti e delle
stesse istituzioni [Sgroi 1997]. Infine è possibile leggere il nuovo interesse in relazione alle dinamiche
proprie della postmodernità: nei cambiamenti osservabili a livello dei sistemi produttivi, dei nuovi
movimenti sociali, e dell’incremento di “complessità sociale” ecc. [Touraine 1993]. Questi temi non
rappresentano soltanto dei nuovi “dati” che costituiscono nuovo spazio per l’azione locale/comunitaria: sono
stati anche oggetto, da parte di interpreti o sostenitori del nuovo lavoro di comunità, di teorizzazioni
specifiche che su queste basi hanno portato, più o meno esplicitamente, argomenti a favore del nuovo lavoro
di comunità.
1.3. I contesti urbani caratterizzati da eterogeneità etnica o da conflitto interetnico sono ambiti in cui queste
azioni locali hanno trovato ampia applicazione. Molte delle esperienze che hanno fatto da apri pista alle
attuali versioni del lavoro sociale locale nascono proprio in relazione all’esigenza di gestire situazioni nelle
quali la complessità, e spesso la conflittualità etnicamente connotata, rendevano problematico l’utilizzo dei
tradizionali strumenti delle politiche sociali e urbane (si pensi ai progetti Urban nell’Inghilterra della fine
degli anni ’60 [Brammidge 2000]). In questo senso, le potenzialità dell’azione locale sono state investite in
due principali direzioni. Da un lato l’approccio negoziale, che è tipico dei nuovi modelli dell’azione locale
ha fornito gli strumenti per il trattamento del conflitto “interetnico”, ma più in generale è sembrato utile
come principio generale per programmare e gestire in modo appropriato, in situazioni di multietnicità, le
questioni relative allo sviluppo della comunità locale. Dall’altro lato l’idea di empowerment ha trovato un
campo di applicazione esemplare nei tentativi di “rafforzare” le minoranze etniche dentro la comunità - sia
nelle situazioni di quartiere etnico sia in quelle di quartieri etnicamente compositi (2).
Se il primo tema esemplifica le virtù dell’azione locale partecipativa in situazioni di complessità,
imponendosi questa con una particolare forza ed evidenza in contesti etnicamente eterogenei, nei quali le
politiche tradizionali evidenziano i limiti maggiori, il secondo tema istituisce una relazione tra l’azione locale
e i temi dell’integrazione delle persone straniere nei contesti urbani. Come è evidente, tale relazione
presuppone che sia avvenuto il superamento del concetto tradizionale di comunità: essa rende infatti ancora
più irrealistiche le rappresentazioni non conflittuali della comunità mutuate dalla sociologia classica.
2. La costruzione dell’azione locale: problemi
2.1. L’enfasi sempre più diffusa sul valore delle azioni locali rende oggi particolarmente urgente
approfondire le condizioni di efficacia di questo tipo di azioni. La popolarità che il modello dell’azione
locale ha conseguito, fino a farne quasi il modello dell’intervento sociale, rischia di favorirne una
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applicazione che non si fa carico di verificarne i criteri di efficacia. Per questa verifica risultano di
particolare interesse due tipi di operazioni. Da una parte sembra utile sviluppare il confronto tra l’attuale fase
del lavoro locale o di comunità e la fase “originaria”, quella che si colloca nei due decenni immediatamente
successivi al secondo conflitto mondiale. Dall’altra occorre riflettere sul ruolo che i recenti sviluppi delle
scienze sociali hanno svolto nella costituzione del nuovo paradigma e sul potenziale che esse possono offrire
per una migliore comprensione delle condizioni di efficacia dell’azione locale.
La riemersione del lavoro di comunità nell’attuale fase si caratterizza per notevoli elementi di continuità
rispetto agli anni ’50, ma anche per elementi di discontinuità così forti da fare apparire una realtà
storicamente differente, che mantiene molti riferimenti ideali riportabili alla tradizione del lavoro di
comunità, ma anche si innova in modo sostanziale per quanto riguarda concetti, metodi, professioni. Se da un
lato gli elementi di continuità sono tali da autorizzare la narrazione che vede nell’attuale lavoro locale una
“riemersione” di una tradizione, tuttavia, ricollocandosi tali elementi nell’attuale contesto – storico, delle
politiche sociali, organizzativo e sociale – il nuovo lavoro sociale di comunità assume elementi di originalità
che occorre mettere in evidenza.
La sottolineatura delle differenze non deve d’altra parte indurre nell’errore di contrapporre in termini di
bianco e nero gli approcci dei due periodi. La pluralità e l’estrema differenziazione delle esperienze, allora
quanto oggi, permetterebbe certamente di individuare negli anni ‘50 elementi che anticipano aspetti
qualificanti delle attuali novità, così come nella fase attuale non mancano esperienze che riproducono
modalità tra le più caratteristiche del lavoro di comunità del dopoguerra.
2.2. Proprio il concetto di comunità è quello intorno a cui è possibile evidenziare, in modo paradigmatico, i
principali elementi di discontinuità tra il lavoro di comunità degli anni ‘50/’60 e la fase attuale.
Il nuovo lavoro di comunità mantiene in generale l’atteggiamento “positivo” nei riguardi della comunità, ma,
a differenza delle esperienze degli anni ’50, ora la comunità non è considerata né il luogo naturale delle
relazioni umane né un valore in sé. Essa diventa piuttosto una opportunità. Correlatamente, acquista
preminenza una dimensione che nelle esperienze passate aveva presenza più debole: il carattere
“strumentale” della comunità. La comunità (i suoi “valori”) viene vista in molti casi come strumento per
obiettivi esplicitabili. Ciò costituisce la possibilità di distinguere tra la comunità come mezzo e la comunità
come fine: anche se si tratta, in realtà, di una distinzione relativa, e nella maggior parte dei progetti la
comunità è considerata sia come mezzo che come fine.
Denominatore comune delle impostazioni post-belliche del lavoro sociale di comunità era un concetto di
comunità fortemente caratterizzato da implicazioni valoriali positive. Esse utilizzavano le classiche
formulazioni di derivazione tönniesiana e le teorizzazioni della sociologia americana di quegli anni, e la
maggior parte degli approcci partiva dal presupposto che la comunità fosse “naturalmente” il luogo di una
positiva interazione tra individui. I progetti e le azioni che venivano messi in atto si fondavano su una
generica fiducia nel carattere positivo di tutto ciò che sorgeva dalla comunità.
Questo atteggiamento si fondava su di una serie di convinzioni comuni tra i sociologi dell'epoca: che il
gruppo locale fosse in ogni caso appunto una “comunità”, luogo cioè di processi di integrazione e di rapporti
caratterizzati da sentimenti di solidarietà; che quello locale fosse ambito privilegiato delle relazioni
personali; e che la prossimità fosse una base fondamentale nel costituire relazioni comunitarie o personali. A
partire da questi presupposti l'idea della naturalità delle relazioni fondate sulla prossimità nello spazio
avrebbe fortemente segnato la riflessione sul locale.
Nell’attuale lavoro di comunità, la contrapposizione – la rigida distinzione dicotomica tra comunità e società,
ma anche l’opposizione della comunità al libero elemento associativo come meccanismo di costruzione di
legami interindividuali – non appare una concettualizzazione utile. Sempre più si sono evidenziati i caratteri
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di sovrapposizione, di coesistenza tra forme comunitarie assimilabili a quelle descritte da Tönnies e nuove
strutture aggregative in grado di fornire le basi di moderne appartenenze [Touraine 1988; Maffesoli 1988].
L’uso del concetto di comunità risulta dunque ampiamente (ma non totalmente) svincolato dalle accezioni
naturalistiche e positive che caratterizzavano il dibattito classico. La nostalgia per la comunità perduta non
costituisce più un elemento cardine comune ai diversi approcci del lavoro sociale. La comunità non è più
dunque un fine definito eticamente, ma assume più il carattere di un mezzo, di uno strumento attraverso cui è
possibile raggiungere altri tipi di obiettivi (l’efficacia delle politiche, la pratica democratica ecc.).
2.3. Come si vede, si tratta di un passaggio che accomuna l’evoluzione del lavoro di comunità e quella delle
scienze sociali. Il nuovo lavoro di comunità è consapevole delle condizioni di esistenza della comunità nelle
moderne società complesse e del modo in cui il lavoro di comunità può svilupparsi efficacemente in tali
società. La comunità viene vista come un sistema aperto, non esaustivo, e come “costruzione” che deve
contare su opzioni libere e investimento da parte dei membri – non cioè come un “dato” [Bauman 2001].
Ciò è in linea con l’evoluzione che si è verificata nelle scienze sociali. Le relazioni comunitarie sono
concepite dalle moderne scienze sociali, nel quadro delle società complesse, come qualcosa di molto più
ampio e differenziato di quanto immaginato dalla sociologia classica. La comunità non è necessariamente
definita dalle relazioni (prevalentemente) ascrittive, “primarie”, stabili (quando non immutabili), cui
facevano riferimento le sociologie classiche. Anche i legami che la sociologia tradizionalmente definiva
“superficiali” oppure strumentali (quelli associativi), tipici delle forme moderne di relazione, assumono un
ruolo centrale nella costruzione delle strategie individuali e di gruppo nella società moderna, e la “comunità”
può alimentarsi anche di queste forme. Il ruolo dei legami deboli evidenziato da Granovetter [1973]
costituisce un esempio dell’importanza che relazioni diverse da quelle comunitarie in senso classico possono
avere.
La comunità viene così ad assumere una connotazione dinamica e mutevole. Diviene un sistema aperto in
grado di adattarsi alla complessità della società globale e di flettersi in modo da continuare a svolgere
importanti funzioni, sia in termini identitari – nell’ambito di una pluralità identitaria caratteristica delle
società complesse, ma anche in una pluralità di identità individuali – che, conseguentemente, in termini
operativi, in quanto capacità di connettere e mobilitare risorse per l’azione.
Il carattere costruito della comunità, la sua dinamicità, il suo variare al variare di ciò che essa è chiamata a
“fare” diviene in questo modo un nodo centrale del lavoro sociale di comunità. Ciò permette anche di
aggirare un rischio insito in alcune impostazioni degli anni ’50, quello cioè di lavorare a una comunità che –
immaginata in intrinseca opposizione alla società – si poneva di fronte a un’anacronistica e probabilmente
impraticabile rinuncia ai vantaggi della modernità (in termini di apertura, di scambio culturale e materiale
ecc.).
2.4. In relazione con questa visione “laica” del problema, avviene una “esplosione” del concetto di comunità,
esplosione che può contare su di un ventennio di avanzamenti delle scienze sociali nel trattare dimensioni
che tradizionalmente erano compattate nel concetto di comunità: identità, reti di relazioni positive e
significative, località, ecc. L’abbandono (relativo) del termine (in Italia in particolare), se da un lato segnala
la difficoltà storica di usarlo dopo la sua compromissione in sistemi ideologici ormai consumati, riflette
anche questo passaggio a nozioni parziali.
Dall’ambiguità e dalla densità ideologica in cui il concetto di comunità era calato sono emersi, a partire dalla
fine degli anni ’60, diversi orientamenti tesi a tematizzare i nodi tipici del dibattito sulla comunità secondo
prospettive specifiche e parziali. Con riferimento al significato operativo della comunità assumono una
rilevanza centrale il concetto di empowerment, il concetto di “locale”, e i concetti costruiti attorno alle
nozioni di “legame sociale”, “rete sociale”, “capitale sociale”. La loro importanza deriva dal contributo che
possono dare nel ridefinire la comunità in termini dinamici e consapevoli del suo carattere costruito, nella
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elaborazione di quel rapporto tra comunità come fine o come mezzo che abbiamo visto essere fondamentale
per i nuovi approcci al lavoro sociale di comunità. Il concetto di empowerment, che rispetto ai due precedenti
è più direttamente e strettamente legato al lavoro sociale consente inoltre di individuare la dimensione
processuale del lavoro di comunità, contribuendo ad evidenziarne le finalità attuali e a suggerire gli aspetti
operativi delle nuove dimensioni affiorate dal dibattito recente (la multidimensionalità della comunità, la
possibile conflittualità interna, di nuovo la sua dinamicità).
Come si è sopra accennato, gli stessi cambiamenti del contesto che rendono plausibile oggi il lavoro locale
contengono anche le indicazioni a favore di nuove nozioni di comunità. Nello stesso tempo essi contengono
elementi problematici nuovi: ad esempio l’organizzazione degli aggregati “trattati” dal lavoro locale o di
comunità presenta novità per la cui comprensione non possono bastare le schematizzazioni tradizionali del
lavoro locale. Ad esempio, per quanto riguarda la composizione e la qualità della domanda di servizi quale si
è determinata negli anni più recenti, si osserva una sorta di “sfilacciamento” delle reti di cura di tipo
familiare, in seguito all’aumento della mobilità geografica [Taylor 1998 e 2000]; inoltre i network sociali
appaiono generalmente meno coesi e stabili, con prevalenza delle relazioni deboli. Ciò ha importanti
implicazioni, oltre che sull’organizzazione dei servizi, anche sulla configurazione che la comunità viene ad
assumere.
Queste novità rendono ancora meno attendibile che nel passato le definizioni tradizionali della comunità. La
dimensione etnica diviene in questo senso di rilevanza cruciale. Risulta sempre più chiaro che la comunità
non può essere definita sulla base di quelle dimensioni che avevano lungamente prevalso nelle teorie
formulate da scienziati sociali e assunte nella cassetta degli attrezzi degli operatori e dei promotori del lavoro
di comunità. Non solo l’omogeneità – e ancora meno la naturalezza – della comunità non possono più essere
considerate dimensioni fondanti del concetto di comunità. Anche l’assenza di conflitto e di tensione
diventano in modo sempre più evidente elementi più prossimi a una versione tradizionale – quando non
ideologica tout court – che non a caratteristiche reali della comunità.
Le fratture interne alle comunità si impongono quindi alla comune attenzione. E, se da una parte si diffonde
la convinzione che le diversità porteranno all’esplosione di tensioni e conflitti (3), dall’altra prendono piede e
si diffondo esperienze tese a cercare di risolvere tali conflitti, proprio a partire dai luoghi del vivere
quotidiano.
2.5. I dati problematici in effetti non riguardano soltanto i dati “oggettivi” del nuovo contesto, ma anche la
costruzione sociale del modello dell’azione locale. I limiti “teorici”, gli elementi di debolezza che
accompagnano la rinascita dell’azione locale - e che costituiscono rischi notevoli per lo sviluppo del dibattito
e per una sua traduzione in termini di politiche - rimandano all’incertezza delle definizioni e delle categorie
(ed è in questo senso che si impone una migliore integrazione con la parallela riflessione delle scienze
sociali): incertezza che a sua volta è riferibile da un lato ad una prevalenza della dimensione operativa
dall’altro alla collocazione ideologica di molte riproposte dell’azione locale.
Il punto critico è la scarsa riflessione sulle condizioni di efficacia dell’azione locale, la identificazione dei
fattori che discriminano tra diversi tipi di azione diversamente efficaci. Il tema dell’efficacia delle politiche
sociali è al centro del discorso sull’azione locale. È su questa base che viene riproposta – nel contesto del
dibattito sulla “crisi del welfare”– l’idea che la “comunità” possa offrire importanti soluzioni ai problemi dei
policy makers. Come è stato osservato, prevale un approccio pragmatico, che mira a risultati di breve
periodo, che cerca di dare risposte pratiche al bisogno dei policy makers di trovare “alternative praticabili ai
modelli esistenti di decision making”: senza tematizzare in maniera approfondita in quali accezioni la
comunità possa svolgere questo ruolo [Butcher 1993, 56]. Questo pragmatismo è del tutto coerente con le
logiche della ripresa neo-liberistica, di cui molte versioni dell’azione locale oggi risentono. Esso rafforza gli
effetti negativi della popolarità dell’idea di azione locale: rischia di offuscare le ragioni e la riflessione circa
le condizioni della sua efficacia. Tutto ciò concorre a de-problematizzare la riflessione, a confortare una
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fiducia nel locale e nella comunità simile a quella che nel passato si reggeva sulle virtù “naturali” della
comunità.
Lo stesso concetto di efficacia può certamente assumere definizioni differenti. Willmott, ha cercato di legare
il problema dell’efficacia ad una classica distinzione propria del dibattito sui processi di decisione: quella tra
iniziative top down e iniziative bottom up. Secondo Willmott l’idea stessa di efficacia e il successo delle
iniziative ha significati differenti nelle due prospettive. Nelle iniziative top down successo significa “offrire
servizi (per esempio nel caso del community care) […] più fattivi o agire sulle risorse proprie delle persone
per integrare le risorse pubbliche” [Willmott 1989, 34]. Nelle attività bottom up il criterio di valutazione
dell’efficacia dell’azione consiste in “quanto le vite delle persone si sono effettivamente arricchite o quanto
sono migliorate come risultato della loro partecipazione” [ibidem].
Osservazioni simili si possono fare per il rapporto che esiste tra la riproposta dell’idea di comunità, così
come ritematizzata a partire dagli anni novanta, e le implicazioni della post-modernità [Butcher 1993] – delle
nuove tendenze che annunciano forme post-moderne di società e delle nuove riflessioni che convergono
nella costruzione di una teoria della post-modernità. In questa chiave assumono rilevanza i vari temi che
sono al centro del dibattito sul passaggio al post-industriale e al post-moderno: in particolare il ruolo delle
nuove tecnologie, nel quadro del superamento del modello di produzione fordista, e il ruolo dei nuovi
movimenti sociali, in quanto rivelatori e fattori delle nuove forme sociali che caratterizzano la postmodernità: il pluralismo politico e culturale, le nuove etiche dei consumi, i nuovi localismi.
Anche questo tema si presta a valutazioni e applicazioni pratiche diverse. Se non si discute delle alternative
interpretazioni - e se non si riconosce l’ambivalenza dei processi in gioco – c’è il rischio che la fiducia nel
pluralismo culturale, nel locale, nella virtù dei network si riproduca con gli stessi automatismi che
caratterizzavano la fiducia nella “comunità” negli anni ’50-’60.
In effetti, se è vero che il passaggio da un’organizzazione di tipo fordista ad una di tipo post-fordista ha
avuto manifestazioni anche nell’ambito dei servizi e degli orientamenti pratici nelle politiche sociali, in linea
diretta ciò che può essere osservato nel campo dei servizi è tuttavia soltanto una generica enfasi
sull’importanza di procedure decisionali snelle, semplici e il meno possibile centralizzate. Ciò ha a che fare
in qualche modo con le idee di partecipazione, di diffusione di potere, di empowerment. Ma più spesso la
logica soggiacente a questo discorso rimanda a concezioni prettamente di mercato che difficilmente si
possono applicare con successo all’ambito dei servizi (Taylor e al. 1992).
Invece, di nuovo, l’incremento di “complessità sociale” che è caratterizzazione fondamentale delle società
post-moderne e post-industriali [Lyotard 1985] è una condizione le cui “esigenze” dovrebbero essere
adeguatamente valutate anche per quanto concerne le forme del progetto locale. La necessità di introdurre
processi decisionali e forme di legittimazione che richiamano la comunità è stata spesso affermata nel
rivendicare le ragioni degli approcci partecipativi alla progettazione. Le ragioni di quella che viene
presentata come una vera e propria necessità sono numerose. Le politiche convenzionali appaiono sempre
meno adatte a trattare i problemi che emergono nelle società attuali: si rende necessario il confronto tra una
molteplicità crescente di interessi e di attori, e in particolare con i destinatari finali delle politiche urbane e
sociali. Inoltre occorre che sul piano dei processi di costruzione delle politiche si cerchino pratiche
sperimentali che prevedano una più ampia flessibilità normativa e gestionale [Paba 2000, 18].
Il tema si intreccia con quello dell’efficacia delle politiche e dei servizi. La ricerca di qualità nelle politiche,
in effetti, appare sempre meno misurabile attraverso parametri e indicatori delle prestazioni fornite. Sempre
più la qualità si afferma come proprietà relazionale, per cui diviene importante il modo attraverso cui i
risultati vengono raggiunti, e principalmente le relazioni tra fornitori di servizi e utenti, tra governo della
città e cittadini.
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3. L’esplosione del concetto di comunità: apprendere dalle scienze sociali
3.1. Si sono manifestate nelle scienze sociali di questi decenni alcune linee di riflessione, che sono parte
integrante della costituzione del nuovo paradigma dell’azione locale. Una più attenta considerazione di
queste linee potrebbe aiutare a rendere meno casuali e frammentari i riferimenti utilizzati dal lavoro di
comunità e dall’azione locale, e ad affrontare con maggiore rigore il problema della loro efficacia. A questo
fine sembrano utili in particolare, come si è detto, tre tipi di concetti (e aree di ricerca) tra quelli che sono
risultati dall’ “esplosione” del concetto di comunità: quelli di empowerment, di locale e di network
sociali/capitale sociale.
Di questi concetti, empowerment è quello maggiormente legato alla dimensione operativa del lavoro sociale.
L’approccio centrato sull’empowerment enfatizza quello che possiamo considerare la chiave di volta del
nuovo lavoro di comunità: considerare la comunità locale come soggetto/attore, non come destinatario di
azioni o come bacino di utenza di una serie di servizi ecc. Non quindi “di che cosa ha bisogno la comunità
locale?”, ma piuttosto “chi è? che cosa sa fare? che cosa può fare la comunità locale?”. Gli strumenti (che
costituiscono anche obiettivi di breve periodo) dell’azione fondata sull’empowerment sono costruiti attorno
all’idea di fare leva sulle risorse della comunità locale [Martini e Sequi 1995], di favorirne la crescita,
l’identità, l’autonomia, la responsabilità.
Empowerment assume allora contemporaneamente la doppia valenza di obiettivo e di processo. Di obiettivo,
essendo il rafforzamento della comunità il fine cui le azioni sono orientate (non necessariamente il
rafforzamento della comunità come tale, quanto piuttosto della sua capacità di costruire azioni che ne
migliorino la qualità della vita o le possibilità di sviluppo). Di processo, dato che è attraverso l’azione che la
comunità sperimenta e apprende le modalità di lavoro comune, le dinamiche cooperative, la partecipazione
che costituiscono elementi essenziali della sua forza.
Il concetto di empowerment oggi è diventato un tema chiave pressoché universale nel discorso pubblico sui
progetti locali e sui progetti di sviluppo. Ora, nel campo del servizio sociale l’empowerment sembra
riassumere le aspirazioni e le idee del lavoro di comunità [Warren 1996, 107]. Tuttavia l’uso che del concetto
viene fatto è spesso indiscriminato e vago, e dietro l’apparente consenso ci sono significati diversi e interessi
spesso divergenti.
3.2. Per quanto riguarda l’offerta delle scienze sociali, possiamo pensare che una migliore comprensione
delle condizioni di efficacia del lavoro locale potrebbe essere ottenuta con un più equilibrato utilizzo delle
diverse tematizzazioni che sono state proposte. Il concetto di empowerment è stato elaborato in due distinti
ambiti disciplinari. Il primo – che trova un notevole seguito sia nel dibattito teorico che nelle applicazioni
pratiche – è quello della psicologia di comunità. L’attenzione in questo caso è posta in particolare sugli
aspetti individuali dell’empowerment: sulla necessità, in particolare, che gli individui disempowered
intraprendano un percorso teso a rafforzare la loro autostima, le loro competenze ecc. Il secondo ambito,
meno noto, è quello sviluppato negli “studi di sviluppo alternativo”, punto di incrocio tra differenti tradizioni
delle scienze sociali (economia, sociologia, scienza politica). L’analisi del potere e dei processi di
empowerment sviluppata in questo ambito è centrata sulla relazione tra dimensione locale e caratteristiche
“macro” del sistema.
Ora, dei due tipi di elaborazione il lavoro di comunità utilizza prevalentemente quella di derivazione psicosociale. E’ lecito pensare che una riflessione maggiormente centrata sugli aspetti sociologici, legati a
dimensioni macro dell’empowerment, possa portare al dibattito e alla pratica del lavoro locale apporti
essenziali. Possiamo illustrare il punto con riferimento al contributo di J. Friedmann [1992], il cui lavoro
rappresenta la più sistematica elaborazione di questa impostazione.
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Per Friedmann la mancanza di potere deriva da un processo di lungo periodo – che egli chiama di
“disempowerment sistematico” – nel corso del quale si è verificata una concentrazione del potere nello Stato
e nel sistema economico. Tale concentrazione (che Friedmann legge con particolare riferimento all’America
Latina) ha progressivamente marginalizzato la società civile (e in parte il sistema politico), impoverendo
l’intero sistema sociale.
Questo processo ha generato una separazione sempre più netta tra mondi vitali, dato che la sostituzione di
una sfera con un'altra produce un impoverimento del sistema sociale nella misura in cui vengono a mancare
le logiche ed i sistemi di pratiche specifiche della sfera che soccombe:
Ciascun ambito ha un nucleo di istituzioni autonome che governa ogni rispettiva sfera. Il nucleo
dello stato consiste nelle sue istituzioni esecutive e giuridiche; il nucleo della società civile è la
sfera domestica; il nucleo dell’economia e è la grande industria; e il nucleo della comunità
politica sono le organizzazioni politiche indipendenti e i movimenti sociali. Per ciascuno di
questi nuclei possono essere individuate forme tipiche di potere – il potere statale, il potere
sociale, il potere economico e quello politico – a seconda del tipo di risorse che gli attori
mobilitano in ogni diverso dominio [Friedmann 1992, 28].
Questo impoverimento ha non poche conseguenze anche per quanto riguarda le potenzialità di mobilitazione
della società civile. Anche nelle situazioni di massima concentrazione del potere lungo l’asse statoeconomia, gli ambiti più deprivati tendono ad attivare forme di rivendicazione che mirano ad una
riappropriazione della loro parte di potere. Nascono così organizzazioni “dal basso”, spontanee, spesso
ampiamente informali, comunque indipendenti dall'intenzione e dalla volontà degli ambiti maggiormente
dotati di potere.
L’analisi di Friedmann presenta notevoli elementi di interesse per il lavoro di comunità. Innanzitutto essa
tenta di rendere conto di una sorta di mappa del potere che vada al di là di un riferimento ai soli ambiti dello
stato e dell'economia. La società civile viene infatti inclusa tra gli attori che concorrono nell'arena del potere,
e nello schema teorico si colloca allo stesso livello gerarchico delle altre sfere. Non è vista, come nel
modello economicistico, come un sub-attore funzionale all'esistenza e al mantenimento delle sfere politica,
statale ed economica; non è dunque “bacino di voti”, o “cittadino”, o “consumatore”, ma assume un ruolo
paritetico rispetto alle altre tre sfere. Il recupero della società civile come attore paritetico rispetto a stato,
politica ed economia non si risolve nell'aumento numerico degli attori che economicisticamente si
considererebbero in competizione per l'acquisizione di risorse scarse. É soprattutto il modello di relazione tra
le quattro sfere ad essere profondamente reinterpretato. Esse vengono tutte ugualmente valorizzate nelle loro
rispettive specificità.
Inoltre viene messa in evidenza la permeabilità dei confini posti tra l'una e l'altra sfera, così come le aree di
sovrapposizione che individuano ambiti di azione nei quali il potere deriva da una negoziazione tra attori
appartenenti a sfere diverse.
3.3. Certamente lo schema di Friedmann presenta anche alcuni limiti (4) Nel suo insieme il suo contributo di
Friedmann presenta grande interesse in quanto fornisce elementi teorici per riconcettualizzare una serie di
elementi che fanno parte del bagaglio storico del lavoro di comunità, e al tempo stesso costituiscono
caratteristiche centrali delle tematizzazioni più recenti sull’argomento. Alcune attuali tendenze delle
politiche sociali (quelle rivolte alla famiglia, quelle relative alla lotta all’esclusione sociale o rivolte a
specifiche fasce deboli) attribuiscono un’importanza centrale alla sfera della società civile come ambito in
cui le politiche vengono costruite e al tempo stesso come soggetto della costruzione di tali politiche.
L’idea è stata formulata in diversi modi: tra questi l’importanza dell’informale, sia inteso come sistema di
relazioni che si radica in concetti come quello di vicinato o di parentela sia nel senso di ciò che è altro
dall’istituzionale (in termini organizzativi, ad esempio, il terzo settore), assume un ruolo centrale (5). I beni e
9
le relazioni prodotti nell'ambito del sistema informale – al di là cioè delle dinamiche macro economiche e
macro politiche i cui sistemi normativi mutuano i processi alla base delle citate forme di esclusione –
costituiscono per Friedmann il fulcro del sistema di strategie (di negoziazione) che muovono dalla società
civile. Il concetto di informale implica da un lato il rifiuto della riduzione istituzionale dei bisogni, dall’altro
è una critica dell’individuazione unidimensionale delle pratiche e dell’organizzazione sociale. Nel caso di
Friedmann il riferimento all’informale consente di fornire una ulteriore indicazione di grande interesse per il
lavoro di comunità: l’idea che anche nelle situazioni di estremo disempowerment vi siano risorse
mobilitabili.
In larga misura le argomentazioni di Friedmann si basano su un motivo le cui implicazioni teoriche e
pratiche sono di grande rilevanza: l’identificazione della sfera domestica come nucleo centrale della società
civile. Ciò permette di connettere il carattere macro sociale in cui il discorso si inserisce con una dimensione
micro che ha i suoi attori di riferimento nelle persone che compongono la sfera domestica.
Gli households possono essere definiti come un gruppo residenziale di persone che vivono sotto
uno stesso tetto e mangiano alla stessa tavola. Ogni household forma un insieme politico ed una
economia in miniatura; è l’unità elementare della società civile. Le persone che risiedono in un
household possono avere legami di sangue oppure no. Le loro vere famiglie comprendono
parenti che possono vivere in household che sono spazialmente dispersi ma rimangono legati
l’un l’altro attraverso modelli di mutua obbligazione [Friedmann 1992, 32].
Questo tipo di concezione, in contrasto con la teoria economica neoclassica, che assume come unità sociale
fondamentale la fabbrica, restituisce alle relazioni primarie e di vicinato una funzione fondamentale in
termini sia di produzione di beni e servizi che di pratiche e saperi.
Infine, interessa rilevare come l’idea di empowerment di Friedmann utilizzi la distinzione tra tre
fondamentali tipi di potere. Il primo è il potere sociale, cioè la capacità di accedere ad elementi di base quali
l'informazione, la partecipazione ad organizzazioni sociali e alle risorse finanziarie. L'aumento dell'accesso a
questo tipo di risorse si riflette in una crescita di capacità della sfera domestica di raggiungere i propri
obiettivi. Il secondo tipo di potere è quello politico, che riguarda l'accesso ai processi decisionali, e che
ovviamente non si esprime solamente attraverso il potere di voto ma anche attraverso più ampie strategie di
azione collettiva e di voice. Infine il potere psicologico, che consiste in un senso di “potenza” sia individuale
che dello household come unità sociale. Esso è spesso il frutto di un positivo esito negli ambiti definiti di
potere sociale e politico ma può anche precedere l'acquisizione degli altri due tipi di potere e costruirne la
base. Un percorso di empowerment, secondo Friedmann, deve tenere conto in maniera integrata di queste tre
forme di potere.
Alcuni progetti in corso in quartieri etnicamente eterogenei prestano grande attenzione all’idea di
empowerment, e in diversi casi l’applicazione al problema delle minoranze etniche ne comporta
interpretazioni originali. L’intervento a Tower Hamlets (Londra) – un caso particolarmente innovativo prevede azioni specifiche di empowerment in particolare per la componente più debole della comunità: le
minoranze etniche bengalesi. “A Tower Hamlets il coinvolgimento della comunità locale deve significare in
particolare coinvolgimento dei gruppi etnici minoritari, dato che è proprio in questi gruppi che si riscontrano
le situazioni più acute di marginalità e svantaggio sociale. I progetti di rigenerazione urbana degli ultimi anni
hanno focalizzato l’attenzione su questi gruppi intervenendo con specifiche iniziative, come quella dei corsi
di lingua inglese o la consulenza e il supporto per l’avviamento di imprese a carattere etnico” [Brammidge
2000, 9].
Si tratta da questo punto di vista di migliorare il livello di integrazione degli immigrati nel tessuto produttivo
dell’area, in modo da renderli meno vulnerabili ai cambiamenti in corso. Oltre che da un’idea di equità
sociale, questo tipo di azioni nasce dalla convinzione che la comunità sia tanto più forte nel suo complesso
quanto meno sono presenti al suo interno gruppi svantaggiati. L’efficacia di queste azioni è anche finalizzata
10
a favorire una maggiore conoscenza reciproca tra immigrati e autoctoni costruendo il terreno per una
maggiore collaborazione tra i due gruppi.
3.4. Per quanto riguarda il secondo concetto - quello di locale - la riflessione recente delle scienze sociali
offre indicazioni particolarmente utili laddove insiste sul carattere “costruito” del locale. Non è tanto (o
comunque non soltanto) la strutturazione dello spazio a determinare la delimitazione di un’area locale, ma la
sua antropizzazione, la definizione soggettiva che ne danno coloro che vivono tale contesto [Pasqui 1998,
1998a]. Per questa via l’accento viene posto appunto sul carattere “costruito” del locale, sulla sua
differenziazione interna, sulla sua apertura e interazione con il mondo esterno. Si rende in questo modo
disponibile un concetto operativo in grado di rendere conto di come le diverse esperienze che del locale
hanno i soggetti che interagiscono in un certo spazio si sovrappongono, si incrociano e si modificano. Il
locale così definito costituirebbe quindi una base concreta per l’azione comunitaria in una prospettiva
svincolata dalle implicazioni localistiche che spesso affiorano nel lavoro locale[Strassoldo 1992].
Inoltre – e qui il dibattito sul locale si compone con quello sulle reti – il tema del locale fornisce le ragioni e
le categorie per superare le identificazioni/riduzioni delle tradizionali teorie della comunità. La stretta
connessione tra l’idea di locale e quella di comunità [Bagnasco 1999], è stata intesa di solito con un
prevalente riferimento alla dimensione spaziale della comunità e del locale [Willmott 1989], particolarmente
evidente nel lavoro di comunità. La maggior parte delle accezioni con cui è stato utilizzato il concetto di
comunità fa riferimento alla “prossimità” e alla “propinquità”: dove la “propinquità è coresidenzialità locale
determinata dalle strategie di vita di individui e gruppi e la prossimità è vicinanza personale, densità morale,
che deriva da relazione volontaria e comunicazione libera” [Rei 1996, 7]. In parte, a confortare questo modo
di mettere in relazione locale, comunità e spazio, ha contribuito una tradizione che, dalla Scuola di Chicago
in avanti, ipotizza una stretta relazione tra dinamiche spaziali e forme sociali. Più recentemente, invece, con
la sottolineatura del carattere non naturale del locale, anche le sue connotazioni spaziali sono state
problematizzate e in qualche misura relativizzate.
In questa stessa direzione si è mosso il dibattito sulle reti sociali. La nozione di rete consente di affrontare
problemi tradizionalmente mal concettualizzati nella ricerca sulla comunità. In particolare viene a ridefinirsi
il rapporto tra spazio e relazioni sociali, rifiutando l’identificazione tra relazioni di prossimità e relazioni
“importanti”, e aprendo a una gamma di modelli di relazioni ampia e non predeterminata [Granovetter 1973;
Piselli 1995; Di Nicola 1998).
Il concetto di “rete sociale” – l’immagine dell’individuo come nodo di una rete costituita dalla complessa
trama delle relazioni di amicizia e di conoscenza e l’idea che le caratteristiche della rete possono essere usate
per interpretare il comportamento sociale delle persone coinvolte permette di allontanarsi dall’assunto della
ricerca tradizionale – che una proporzione importante delle relazioni sociali degli abitanti della città sono
organizzate per località – per affidare invece all’analisi di rete la verifica di questa possibilità. Diventa allora
evidente che le relazioni di vicinato o “locali” sono un tipo di legame, che può essere rilevante o meno, e più
o meno significativo nell’insieme delle relazioni che costituiscono una rete sociale. La questione cruciale è di
vedere in quali circostanze si costituiscono queste relazioni, e quando esse assumono quella forma “forte” –
di relazione positiva e coinvolgente - che costituirebbe il vicinato secondo le identificazioni tradizionali.
“Essere un vicino è un ruolo, non un'esistenza. Lo studio della neighborliness implica la valutazione delle
relazioni tra un certo mondo di vicini e il più ampio sistema di reti e relazioni sociali in cui gli individui sono
implicati” (Bulmer, l986, pp. l9-2l) (6).
3.5. I concetti di capitale sociale, legame sociale e rete sociale sono ampiamente interconnessi tra loro ma
ognuno con la capacità di porre in evidenza aspetti differenti del problema. Nell’insieme essi forniscono gli
elementi per muoversi nel rapporto tra comunità come fine e comunità come strumento e per trattare le
conseguenze metodologiche che vengono da una visione non ideologica della comunità: compresi gli
ostacoli che la stessa comunità può costituire nei confronti di uno “sviluppo sociale”.
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Il rapporto tra comunità come fine – l’idea di porre come obiettivo dell’azione la costruzione della comunità
– e comunità come strumento per perseguire altri obiettivi – per cui le relazioni comunitarie costituiscono
uno dei possibili fattori di efficacia delle politiche – rappresenta un primo punto nevralgico. In esso si gioca
buona parte della differenza tra il lavoro di comunità degli anni ’50 e le attuali impostazioni. Il capitale
sociale presente in una comunità può essere considerato presupposto e risorsa per l’intervento e al tempo
stesso obiettivo dell’intervento; questo secondo significato, spesso identificato come la “creazione” di legami
sociali, è un obiettivo particolarmente ovvio nei progetti di sviluppo di comunità rivolti a situazioni sociali di
emarginazione, disgregazione ecc. [Abrams 1977, 1980; Abrams e McCullogh 1976; Bulmer 1986, 1992].
Questa distinzione comporta una serie di problemi, soprattutto se si considera che le varie comunità locali
sono diversamente dotate di capitale sociale. Alcune comunità locali presentano una fitta rete di relazioni
interpersonali ed associative; il tessuto sociale è in qualche modo predisposto ad assumere un ruolo attivo e
partecipativo nella comunità e per la comunità. In questi casi l’attivazione di progetti di comunità necessita
solamente di una ragione contingente per avere luogo. In altri casi la qualità e la quantità dei legami sociali
all’interno della comunità è più scarsa: il problema diventa allora quello dello “sviluppo” di un capitale
sociale – o di una “comunità”. L’individuazione e l’iniziale coinvolgimento dei potenziali attori di un
progetto di sviluppo costituisce in questi casi una fase molto importante e lo scopo del progetto di sviluppo è
spesso proprio quello di innescare reticoli comunitari (a volte latenti più che assenti). Con capitale sociale
d’altra parte non vanno intese solo le forme di solidarietà (o quanto meno di collegamento) rispetto alle
cosiddette reti informali. Anche il rapporto e la reciproca stima tra reti informali e istituzioni costituisce un
elemento di importanza fondamentale [Mutti 1994].
L’esistenza o meno di forme di relazione “sfruttabili” nel lavoro sociale, specifiche di una certa comunità –
identificate come capitale sociale – individua dunque un fattore cruciale. L’idea di comunità come risorsa,
già tema centrale del lavoro sociale negli anni del dopo guerra, non è però più fondata su una generica
fiducia nei naturali effetti positivi della comunità, ma vengono assunte criticamente le implicazioni che i
network hanno nello strutturare forme di relazione utilizzabili nell’azione di comunità. Tali network possono
infatti presentare caratteri di chiusura e influenzare le dinamiche dell’azione di comunità, oltre che la
redistribuzione dei benefici di tale azione, inibendo e ritardando (comunque influenzando) l’effetto
dell’azione [Taylor e Hoggett 1994].
Note
1) Non mancano comunque posizioni, come il filone neocomunitarista (Etzioni 1993; Dworkin e Maffettone
1996), che hanno recuperato ampiamente – oltre a forme di pratica sociale tipica degli anni del dopoguerra –
anche lo stesso linguaggio, riproponendo un’idea di comunità e di lavoro sociale di comunità prossimi a
quelli tradizionali. Pur sviluppate su basi teoriche e ideologiche notevolmente diverse, le posizioni degli
attuali (neo)comunitaristi hanno notevoli somiglianze con le posizioni del primo lavoro di comunità
soprattutto per quanto attiene alle connotazioni valoriali della comunità [v. Siza 1998].
2) Tra i non molti casi italiani di azioni locali integrate (di quartiere) incentrate su problemi di integrazione
degli immigrati o sulla gestione di conflitti interetnici, v. l’esperienza di San Salvario a Torino [Cicsene
1996; Bocco 1997]
3) Di fatto, in alcune situazioni, i conflitti esplodono: in Gran Bretagna episodi come quello di Brixton
[Hoggett 1997] divengono l’emblema della conflittualità e della problematicità interne alle comunità. Un
caso italiano che ha avuto notevole eco sulla stampa nazionale è quello delle tensioni tra immigrati
maghrebini e altri residenti nel quartiere di San Salvario a Torino [Cicsene 1996; Bocco 1997].
4) Soprattutto si può notare come ciascuna delle quattro sfere, presentata come un’unità omogenea e coesa,
in realtà presenta al suo interno numerose linee di distinzione, quando non fratture vere e proprie. Basti
12
pensare, ad esempio, alle classi sociali e ai gruppi etnici o religiosi, tutti parte della società civile ma
portatori di istanze specifiche e spesso tra loro in contrasto.
5) In particolare il movimento antiutilitarista francese si configura come esperienza di ricerca intorno ai temi
dell’informale e delle relazioni non interpretabili nei termini delle relazioni strumentali-razionali. Autori
come Latouche e Caillé sono forse gli interpreti più noti di questo tipo di analisi.
6) Questo schema concettuale – intanto che consente di allontanarsi dalle interpretazioni deterministiche da
cui era partita la ricerca sulla comunità – assume “positivamente” le circostanze storiche nelle quali questi
legami si costituiscono: l’estensione della gamma individuale di scelta nel fare e nel mantenere le relazioni
personali. L’urbanizzazione moderna ha accresciuto la varietà dei mondi sociali, li ha parzialmente svincolati
dalla residenza e ha favorito il carattere elettivo e selettivo delle relazioni. In questo quadro la qualità di
questi rapporti non corrisponde, nella maggior parte dei casi, a quella immaginata dalle teorie tradizionali:
più spesso le relazioni tra vicini combinano interazione frequente e limitato coinvolgimento; il neighboring
tende ad assumere i caratteri di quelli che nella network analysis sono chiamati legami deboli. Il che
naturalmente non impedisce di riconoscere la rilevanza dell’abitare in uno stesso territorio - rilevanza che
può essere apprezzata anche senza identificare il quartiere con la comunità e senza condividere gli assunti
deterministici delle origini della sociologia delle sottocomunità; né impedisce di riconoscere che - se è vero
che i legami sociali sono meno vincolati dallo spazio di quanto lo siano mai stati nel passato - questo non
significa che la selezione delle relazioni sociali non continui ad essere influenzata dalla localizzazione (Tosi
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