Ripartirei dall`affermazione del prof - Ufficio Scolastico Provinciale di

Grosseto 22 maggio 2006, Insegnanti referenti per Intercultura
Federico Batini
Ripartirei dall’affermazione del prof. Tosolini:
l’educazione interculturale non è qualcosa di aggiunto rispetto alla scuola normale ma
costituisce invece la normalità dell’educazione nelle società multiculturali e
postmoderne
allora occorre riflettere ancora sugli equivoci… (come ha fatto Tosolini)a partire dagli
equivoci sul concetto di cultura
Sin dall'antichità con cultura si intendeva "il bene più prezioso che sia dato agli uomini". Il
significato originario di cultura deriva dal greco paidéia, che indica sia l'azione educativa
sia il suo risultato; in latino è stato tradotto con Humanitas, limitandone l'ambito e
suscitando anche delle ambiguità. Esiste una disciplina che si è interamente dedicata alla
ricerca ed alla definizione di tale termine: l'antropologia culturale. Sia per l'antropologia sia
per la pedagogia con la parola cultura non si intende quella degli studi classici (o
umanistici), bensì tutto ciò che concerne l'uomo e tutto ciò che egli ha prodotto:
conoscenze, codici, regole, rappresentazioni, valori, costumi, comportamenti, interessi,
aspirazioni, credenze, miti, pratiche religiose.
In contesto interculturale le culture sono da considerarsi come delle entità altamente
dinamiche ed in continua evoluzione. Nel momento in cui si descrivono differenze culturali,
si effettuano delle "fotografie", sicuramente vere, valide ed importanti, ma che permettono
solo una visione parziale e statica di una realtà complessa. Spesso si commette l'errore di
identificare dei confini politici (ad es. quelli di uno stato nazionale) con l'identità culturale:
la cultura non si lascia contenere all'interno di un filo spinato. Un successivo errore
scaturisce dal credere di poter conservare (o perdere) la propria cultura. La cultura, come
l'identità, non si può né acquisire da un momento all'altro, né tantomeno perdere: si tratta
di un processo di continua trasformazione, mediante il quale, lungo tutto il corso della vita,
più o meno consciamente, si abbandona qualcosa per interiorizzarne un'altra.
Per arrivare a una definizione di cultura vogliamo fare riferimento ai concetti elaborati dagli
studi antropologici più avvertiti della dimensione interpretativa ed ermeneutica:
[] la cultura non è innata, trasmessa biologicamente, ma è composta di abitudini apprese
nelle esperienze fatte da ogni persona dopo la nascita;
[] la cultura è sociale, cioè viene condivisa e trasmessa attraverso il gruppo. Tuttavia, non
è mai subita passivamente: esiste una circolarità di rapporto tra il singolo e il gruppo,
un'influenza reciproca;
[] la cultura è un sistema complesso di elementi, a volte anche incoerenti al suo interno.
Culture più organiche, ad esempio, presentano una connessione più stretta tra i singoli
elementi, mentre altre, a tenuta più debole, sono maggiormente elastiche;
[] la cultura è dinamica e permeabile: non è statica, ma, salvo particolari "chiusure", tende
a mutare nel tempo. Il mutamento può venire dall'interno (eventi, scoperte), o dall'esterno
(assimilazione, confronti). I caratteri cuIturali mutano con l'ambiente e con i rapporti con gli
altri gruppi. In questo senso, si può dire che la cultura si reinterpreta: alcuni modi di vita
scompaiono, altri vengono introdotti
Se queste caratteristiche rimangono in linea di massima valide, tuttavia la globalizzazione
attuale ha reso molto più complessa la situazione. Storicamente, il passaggio dalla cultura
alle culture ha segnato la rinuncia, da parte dell'uomo europeo, a considerare il proprio
patrimonio come l'unico degno di essere rispettato e tramandato, mentre in passato i modi
di vivere degli "altri" erano confinati nel mondo primitivo o selvaggio.
Come è noto, a partire dalla scoperta della diversita' avvenuta soprattutto con le spedizioni
nel Nuovo Mondo del XV e XVI secolo, e via via con i risultati delle ricerche
antropologiche, si è cominciato a parlare di culture, al plurale. Tuttavia, oggi, gli
antropologi, di fronte al fenomeno della globalizzazione e, in particolare, all'enorme
diffusione delle tecnologie mediatiche e dei trasporti, sospettano che occorra cominciare a
parlare in modo nuovo di una cultura fragmentata e complessa, non più identificabile
soltanto con un luogo, un popolo o una nazione. Se siamo immersi non solo nella
dimensione locale, ma anche in quella globale, attraverso i mezzi di comunicazione, i
trasporti sempre più rapidi, il mercato mondiale e le migrazioni, si può affermare che
esistano ancora le culture? Non esistono, piuttosto, tanti luoghi culturali intrecciati e
sovrapposti, ai quali gli individui appartengono (Hannerz, 2001)?
Tali riflessioni sono indispensabili per comprendere come si struttura la relazione
interculturale. Essa, anzitutto, si articola tra due opzioni, espresse nelle due polarità
classiche universalismo/relativismo.
Secondo il principio universalistico, le diverse culture sono manifestazioni di un principio
comune. Tale riduzione a unità deve riportare a un sistema di valori unico o a connessioni
di valori universali: ciò, spesso, si è rivelato essere una forma più o meno larvata di
etnocentrismo (sono assoluti i valori della mia cultura). Il relativismo afferma, invece, la
relatività delle culture e dei loro sistemi di valore, impedendo, però, di fatto, ogni criterio di
giudizio metaculturale. La relazione interculturale, quindi, si colloca nel difficile equilibrio
tra il radicamento nella propria identità, lingua, modo di pensare e di credere, e il rispetto
della diversità, per evitare sia il rischio di dare valore assoluto alla propria cultura, sia
l'impossibilità di giudicare le altre.
Possiamo, pertanto, porre le seguenti basi di lavoro:
[] la cultura non può essere reificata, oggettivizzata. L'incontro pluralistico avviene in un
"disordine" creativo e vitale, non in astratto; esso è storicizzato e concretizzato. Poiché le
culture non sono impermeabili, occorre tener conto degli scambi e delle reciprocità di cui si
avvalgono (per esempio, dei cambiamenti avvenuti in seguito all'immigrazione);
[] le culture cambiano nel tempo: occorre prestare attenzione alle loro evoluzioni, evitando
di fissarle secondo canoni rigidi e anacronistici (per esempio, trasformazioni
generazionali);
[] nella relazione interculturale non si considera la cultura presa a sé stante, ma soltanto
come "abito" indossato dai singoli in modo personalizzato. Ogni individuo, nella sua
diversità (uomo/donna, giovane/vecchio, ricco/povero) è portatore di una sua particolare
identità culturale;
[] i contatti avvengono tra gli individui, non tra le culture in quanto tali. In questo senso,
ognuno è portatore di un frammento di cultura, determinata dalle sue caratteristiche
personali e sociali. L'idea di cultura donataria non è che un'astrazione dell'antropologia:
sono gli individui che esistono, con i loro atteggiamenti e le loro norme di comportamento.
Essi vivono in habitat culturali molteplici (familiari, lavorativi, massmediali, della società di
origine, della società di accoglienza);
[] ogni relazione interculturale è asimmetrica. Lo è, in particolare, quella tra l'immigrato che
lascia il suo Paese per necessità socio-economiche e chi lo accoglie.
In sintesi, le relazioni interculturali costituiscono un incontro di totalità complesse che
fanno nascere infinite possibilità di scambio e che mutano a seconda del contesto e delle
storie individuali. La cultura, oggi si situa tra il locale e il globale. In questo senso, si
esprime nel "faccia a faccia", nella vita quotidiana, negli elementi della prima educazione
ricevuta, nella corporeità (odori, sapori della propria casa e del proprio Paese), nelle
rappresentazioni, nella dimensione storica (il ricordo, la tradizione), nello scambio di
informazioni ricevute attraverso i media, che provocano l'immersione in altri mondi
Qui si collocano le caratteristiche di un'educazione interculturale, che dovrà:
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descrivere la cultura come sistema complesso dotato di sottosistemi;
aiutare a cogliere dinamismi, differenze, rotture, cambiamenti e incoerenze;
non dimenticare il peso della storia e le leggi della memoria dell'inconscio sociale
basarsi su reciprocità e interferenze;
evitare di considerare le culture come realtà delimitate e separate;
sottolineare le interdipendenze;
portare non a conoscere le culture, ma lavorare sulle relazioni;
rendere consapevoli della natura asimmetrica delle relazioni (cultura
dominante/subordinata);
gestire contatti e scambi faccia a faccia.
Una proposta innovativa:
Educazione interculturale come empowerment
Fare empowement significa dare coscienza di sé, significa offrire strumenti, significa in
definitiva mutuando una felice definizione emersa negli studi di genere: “aumentare la
consapevolezza, il controllo e la percezione di controllo di un soggetto sulla propria vita
e sulle proprie scelte”, in altre parole non si potrebbe dire dare ad un soggetto gli
strumenti per conoscere la PROPRIA cultura (nel senso più ampio) e la possibilità di
agire di conseguenza?
Negli anni ‘50 e ‘60, negli Stati Uniti il termine empowerment viene usato dagli studi di
politologia in riferimento ai movimenti per i diritti civili e sociali delle minoranze e contro
l’emarginazione e la segregazione razziale (soprattutto della popolazione
afroamericana).
Negli anni ’70 il termine fa il suo ingresso nella letteratura socio-politica, nella teoria
della democrazia moderna, nei movimenti femminili e delle minoranze. Soltanto negli
anni ’80 il concetto di empowerment viene mutuato anche a livello organizzativo e nelle
teorie del management.
Rappaport ha attribuito al termine empowerment, già dal 1977, il significato di
acquisizione di potere, intendendo così concentrarsi sull’incremento delle capacità
delle persone nel controllare in modo attivo la propria vita, utilizzando il termine per la
prima volta in riferimento a contesti psicosociali.1 Kieffer (Kieffer, 1984) utilizza questo
termine nelle ricerche che svolge con soggetti che provengono da ambienti o gruppi
etnici socioculturalmente deprivati.
Anzitutto dobbiamo ricordare come l’empowerment comprenda sia i processi
(empowering) che i risultati (to be empowered).2
Secondo Zimmermann vi sono alcuni presupposti teorici da considerare quando si
parla di empowerment, ovvero: si tratta di una variabile continua, in continua
evoluzione (evoluzione non sempre lineare), è un costrutto contestuale (non è possibile
un’eccessiva generalizzazione ma deve specificarsi in relazione al contesto ed alla
popolazione), può essere articolato ad un livello individuale, organizzativo, di
comunità.3 Nel noto testo della Piccardo4 si articolano i tre livelli qui ricordati secondo i
destinatari e l’oggetto di interesse dell’empowerment:
Livelli
Destinatari
Livello individuale
Il singolo soggetto
Livello organizzativo
Il management ed
componenti
dell’organizzazione
Livello di comunità
Il soggetto nel gruppo,
nel proprio contesto, ed i
componenti del gruppo
stesso.
i
Oggetto di interesse
dell’empowerment
Il
potenziamento
e
l’espansione
dell’io
individuale
L’organizzazione come
sistema: in tutte le sue
componenti statiche e
dinamiche
L’emarginazione,
il
disagio psicologico.
(rielaborazione da Piccardo, 1995)
1
Rappaport J., 1977, Community Psychology. Values, Research and Action., New York, Holt
Rinehart & Winston.
2
La parola inglese "empowerment" può essere tradotta in italiano con "conferire poteri", "mettere in grado di".
Deriva dal verbo "to empower" che include una duplice sfumatura di significato intendendo sia il processo operativo
per raggiungere un certo risultato, sia il risultato stesso, cioè lo stato "empowered" del soggetto.
3
Zimmermann, M. A., 1999, Empowerment e partecipazione della comunità, in «Animazione Sociale», 2, 10-24.
4
Piccardo, 1995, Empowerment, strategie di sviluppo centrate sulla persona, Milano, Raffaello Cortina.
L’empowerment viene progressivamente definito attraverso analisi che prendono in
considerazione le regole ed i modelli impliciti nelle organizzazioni e nei sistemi sociali
(ai quali ci si aspetta che i singoli soggetti si adeguino e conformino): queste regole e
questi modelli producono marginalità negli individui che non riescono o non vogliono
adattarsi, la marginalità non consente di accedere ai servizi offerti dalla società, ad
esercitare cioè, pienamente, il proprio diritto di cittadinanza; l’empowerment diviene, in
questo senso, un antidoto ad un processo di questo tipo.
Nella Conferenza delle donne di Pechino, nel 1995, l’utilizzo del termine è passato da
un uso specialistico ad un uso maggiormente diffuso in relazione alle strategie di
intervento contro la marginalità sociale e di genere.
Per quanto riguarda l’orientamento l’empowerment è strettamente correlato alla
dimensione psicologico-individuale dello stesso. E’ sufficiente infatti esaminare quali sono i
concetti ai quali si fa riferimento in questo primo orizzonte di azione dell’empowerment per
evidenziarne i legami con il processo orientativo:
- il concetto di self percived efficay (autoefficacia percepita, coniato da Albert
Bandura): il livello di autoefficacia percepita misura quanto ogni soggetto creda alle
proprie capacità di attivare risorse cognitive e comportamentali atte ad ottenere i
risultati attesi (esempio: quanto mi percepisco efficace rispetto ad un compito
indipendentemente dalla conoscenza o dalla ripetizione dello stesso?). Risulta
ormai dimostrato come queste credenze di efficacia contribuiscano notevolmente a
determinare le probabilità di successo;
- il concetto di percezione e di valorizzazione delle proprie abilità e competenze;
- i fattori motivazionali che, partendo da un cambiamento pensato come possibile,
attivino il soggetto e gli consentano di inserirsi in dinamiche di azione collettiva.
Il percorso dell’empowerment dovrebbe condurre il soggetto da uno stato iniziale di
learned helplessness (passività o impotenza appresa, acquisita) verso una learned
hopefullness (acquisizione di fiducia nella possibilità di determinare la propria esistenza,
una “speranza appresa”), dovrebbe dunque consentire l’esercizio di un ruolo attivo a chi si
trovava in sostanziale situazione di passività.
Se gli incontri sono incontri tra soggetti portatori di culture occorre allora rafforzare i
soggetti per consentire un dialogo tra diversità.
 Apprendimento dell’italiano L2:
 La figura del mediatore culturale:
 Modelli di accoglienza degli alunni stranieri:
 Rapporto Scuola - Territorio (in relazione al P.O.F.)
 Orientamento in chiave interculturale
 Curricolo interculturale e valutazione degli apprendimenti
una definizione di G. Pasqualotto, Intercultura e globalizzazione, contenuto in Saggi di
Intercultura, a cura di A. Miltenburg, di prossima pubblicazione. La definizione è la
seguente: "[...] si può affermare che ogni cultura si produce e si costituisce in quanto
intercultura, ossia in quanto risultante - in ogni fase della sua nascita e del suo sviluppo
- di scambi culturali. Ogni cultura, insomma, risulta essere intercultura in senso
intrinseco: non si è mai data e non si darà mai una cultura in sé predefinita ed
autonoma; ma ogni cultura, aldilà delle sue presunzioni e delle sue intenzioni più o
meno dichiarate, si è sempre formata grazie al complesso delle mediazioni con culture
diverse da sé. Si può quindi parlare di una 'formazione differenziale" di ogni singola
cultura, in quanto le singole identità culturali non sono ab origine diverse, ma
producono la loro diversità nel tempo grazie all'incessante confronto con altre identità
culturali. Per cui, in definitiva, si può affermare che un'identità statica, immobile e
perfettamente definita di una civiltà, non si dà mai, ma è il risultato di una comoda
astrazione e di una semplificazione strumentale. Le identità si producono
incessantemente attraverso movimenti differenziali".