Introduzione di Fiorenza Taricone

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Introduzione
di Fiorenza Taricone *
L’accurato volume di Anna Laura Sanfilippo reca evidenti le linee
guida che hanno condotto alla stesura nella sua veste definitiva: la
precisione della ricerca e la sedimentazione nella riflessione sui materiali, nonché sul senso ultimo che li lega. A questo si aggiunge l’originalità del tema trattato, che certo non si trova in numerosa
compagnia negli studi di settore.
Le due macro aree, se possiamo usare questo termine, entro cui
lo studio può essere più che degnamente collocato, fanno riferimento l’uno al dibattito storiografico sulla Resistenza, l’altro agli women’s
studies, o studi di genere, se si preferisce, in quel settore nodale che
è stato ed è il rapporto fra donne e politica. Sia che si faccia riferimento al primo o al secondo, le difficoltà incontrate dall’Autrice
non sono state di poco rilievo. Se si legge infatti nel primo capitolo
la sintesi del dibattito storiografico sulla Resistenza, «guerra patriottica contro il nazismo o guerra civile contro il fascismo, o uno scontro classista tra comunismo e capitalismo», ci si domanda già che
sorte è stata riservata al ruolo femminile nella Resistenza, in quelle
zone studiate dall’Autrice, Basso Lazio e Sud Pontino; se volgiamo
lo sguardo alla storia di genere, o meglio a quella che preferisco
chiamare questione femminile, il merito del volume si accresce perché alle precedenti spinosità si aggiungono lo «smemoramento» durato molti anni delle discipline storiche e politologiche, rispetto a
temi e momenti di una storia relazionale fra i generi. Fra questi, la
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Fiorenza Taricone è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università
degli Studi di Cassino e questione femminile nel corso di laurea di Scienze della comunicazione.
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partecipazione femminile alla Resistenza, evitando qui volutamente
il sostantivo «contributo», già da tempo ormai un po’ stantio e anche
parziale rispetto alla varietà dei ruoli femminili, per anni quantificati dopo aver fatto la tara e conteggiato come legittimi resistenti
quelli che avevano fatto la lotta armata, meglio se riconosciuti ufficialmente con tanto di brevetto. È peraltro noto, invece, che molte
donne hanno evitato di pubblicizzare il loro ruolo anche per evitare
accuse d’immoralità, avendo condiviso un quotidiano promiscuo
con i compagni, come dimostrano tante testimonianze postume che
raccontano di protagoniste che evitano di partecipare alle sfilate
pubbliche; in molte hanno pensato di aver fatto semplicemente il
loro dovere, rifiutando una dimensione quasi eroica, e ripreso a tessere le fila di un quotidiano spezzato, iniziando essenzialmente dopo il neo-femminismo degli anni settanta a dare alla stampa le loro
memorie, tranne sporadiche eccezioni, come L’Agnese va a morire,
per esempio.
Laura Masella, una delle protagoniste del libro, entrata nel ’47
nel Comitato Federale del Partito, pur cresciuta in una famiglia socialista, aveva scelto di tutelare la propria immagine nel paese
d’origine, perché a Itri, per una donna, essere comunista significava
essere una puttana.
Infine, la distinzione in uso nella storiografia fra resistenza attiva
e passiva rimanda, anche per le donne, ad una tipologia della Resistenza, meno esplosiva e più discreta per il genere femminile, e agli
stacchi generazionali. La testimonianza sempre riferita a Laura Masella, ex dirigente della Federazione del PCI di Latina, raccolta da
Anna Laura Sanfilippo, lo esplicita chiaramente: «Eravamo tutte
donne piuttosto giovani; erano poche quelle che avevano esperienza
del periodo precedente il fascismo […]». La Resistenza passiva,
quella più comunemente attribuita alle donne, potrebbe avere il suo
equivalente nella distinzione fra antifascismo e afascismo, inteso anche come lontananza femminile dalla politica strutturata, ideologica, dal suo lessico e dai suoi riti, anche gnoseologici. Questo porterebbe di nuovo a ritenere che la Resistenza delle donne fosse stata,
se così si può dire, di pancia, ma gli studi hanno smentito una visione unilaterale e in definitiva anche questo lavoro restituisce una tessera in tal senso. Gli approcci femminili alla politica resistenziale e
dopo a quella istituzionale, sono stati complessi, sovrapposti, ma
hanno dovuto anche districarsi con la mentalità collettiva e con il
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tessuto misogino dell’epoca, come il volume ben dimostra. In provincia di Littoria, «le compagne – scrive l’Autrice – si riducevano a
sporadici nomi; […] era proprio la storia della Resistenza impossibile a definire il ‘dna’ del PCI pontino del dopoguerra».
In aggiunta alla «Resistenza impossibile», la liberazione nel maggio del ’44 della provincia preferita dal duce non apriva un periodo
nuovo, in rotta col precedente, perché il Consiglio Provinciale di
Liberazione Nazionale «era formato in maggioranza da uomini che
in precedenza avevano militato nel PNF», a differenza del Nord,
dove i Comitati di Liberazione Nazionale nominavano i prefetti. «La
strutturazione del partito nuovo di Togliatti – scrive l’Autrice – non
era di facile attuazione»; di conseguenza le donne, attori imprevisti
della politica istituzionale e partitica, in un’Italia che avrebbe mutato forma di governo passando in meno di un secolo da una monarchia costituzionale bicamerale ad un totalitarismo fascista monopartitico, avallato dalla medesima monarchia, ad una Repubblica
democratica, erano il nuovo del nuovo. Soggetti di cittadinanza con
il riconoscimento del diritto di voto attivo e passivo, che chiudeva
anni di lotte iniziate all’incirca con il nascere dello Stato unitario,
erano altresì soggetti nuovi anche nella vita politica italiana, guardate a volte con bonomia, a volte con sospetto, raramente in ottica
collaborativa e paritaria, come il libro di Anna Laura Sanfilippo dimostra.
Nella Conferenza di organizzazione fondativa del PCI (1945),
Teresa Calonaci ricorda come fra i compagni ci fossero molti che
non ritenevano la donna matura per partecipare alla vita politica.
La nascita di Commissioni e cellule femminili, frutto di una strategia togliattiana, non facilitava una militanza. Il mestiere di donna
presupponeva il dovere di non trascurare le proprie qualità naturali, la dimensione domestica e privata, aveva perciò la priorità su
quella politica e l’Unione Donne Italiane di conseguenza diventava
il contenitore della strategia separatista, come organo collaterale del
PCI destinato a occuparsi dei problemi femminili in tutti i partiti, ma
in stretto legame col Partito (F. Lussana). Alla strategia togliattiana
si accompagnava l’autoseparatismo di mogli e sorelle dei compagni,
che non partecipavano alle riunioni di partito con gli uomini perché
«le comuniste erano vittime di un pregiudizio sociale».
Nel libro è seguito con molta attenzione il rapporto altalenante
fra Partito e Unione Donne Italiane, raramente equilibrato; l’attività
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in un’associazione risultava più attrattiva per le donne e ai nuclei di
compagne delle Commissioni non corrispondevano analoghe sezioni dell’UDI; a Latina, le «udine» erano più delle iscritte al PCI.
L’assenza dei quadri era in parte il risultato della presenza di un
partito, in una zona dove la Resistenza era stata marginale. La prima che l’Autrice cita come dirigente della sezione femminile del
partito è l’udinese Gabriella Peloso, di estrazione borghese, che ha
fatto seguito a Teresa Calonaci, di provenienza operaia. Queste identità femminili, restituite alla storia, consentono anche di seguire il
contraddittorio con i dirigenti uomini, accusati, in questo caso dalla
Peloso, di ostacolare lo sviluppo dell’organizzazione femminile. Di
fatto, nel loro paternalismo, gli uomini erano agevolati proprio da
quel «travaso delle doti del buon cristiano come qualità del buon
compagno»; le donne, specie se dirigenti, vivevano invece una situazione duale, divise com’erano fra senso di appartenenza, anzi obbedienza al partito e autorevolezza, potere decisionale, incisività, nell’associazione. Era forse scontato che in una provincia come quella
di Latina, che nelle parole di Severino Spaccatrosi, segretario della
Federazione fino al 1955, si confermava un ambiente privo di qualsiasi tradizione di lotte, reazionario, clericale, borbonico, il difficile
rapporto fra compagne nel partito ne risentisse, e le iscritte, non
tutte regolarmente tesserate, fossero, più che compagne, amiche.
Nella vicenda delle prime amministrative del ’46 si possono cogliere su piccola scala i nodi che ancora oggi accompagnano le tante
discussioni e iniziative sulla democrazia paritaria: «I comunisti pontini non solo manifestarono apertamente la loro chiusura verso il
mondo femminile, ma candidarono le compagne in quei comuni
dove la loro incidenza politica era minore, probabilmente per contrastare le candidature femminili democristiane». Laura Masella
tocca invece un altro leitmotiv odierno del rapporto tra donne e politica, l’uso del tempo: «i Consigli comunali andavano a finire alle 3,
4 del mattino. Per una donna era difficile…».
Gli anni che vanno dal ’47 al ’49, con la rottura dell’unità antifascista, l’attentato a Togliatti, il decreto cosiddetto di scomunica del
Sant’Uffizio, pur se assolutamente significativo nella grande politica, non modifica granché i rapporti fra i sessi a livello locale. «Ancora nel ’50 – scrive Anna Laura Sanfilippo – non esisteva contraddittorio fra il volto maschile e femminile del partito» con una subalternità percepita di fronte ai propri compagni, evidente per esempio
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nell’iscrizione al partito da parte dei mariti senza che le mogli ne
fossero a conoscenza. Nelle pagine del libro rimbalzano mariti rossi,
ma gelosi e possessivi, che volevano la moglie a casa. S. P. entra in
contrasto con il marito per il taglio dei capelli; quelli corti erano
maschili, e se le donne li tagliavano erano sgualdrine. L’equazione
vigente era brava donna, brava compagna.
Il PCI pontino, dal 1950 in poi, grazie alle campagne della pace,
cominciava ad acquisire il carattere di una vera organizzazione politica, ma ancora debole era l’universo femminile, che assumeva più i
caratteri di movimento che di organizzazione politica. Indubbiamente però, le compagne si mobilitano in difesa della forza lavoro
femminile, dispersa in vari settori: occupata nel raccogliere le olive
sui Monti Lepini (1.140), l’uva a Terracina e Fondi (900), le arance
a Fondi e Monte S. Biagio (400), in misura minore nell’industria dei
tabacchi, in quella conserviera, nelle carni, e nello zuccherificio di
Latina; la prevalenza aveva un contratto stagionale, rispetto ai contratti permanenti. La mobilitazione femminile aveva come obiettivo
non solo la lotta alla disoccupazione attraverso il completamento
delle opere di bonifica, ma anche l’applicazione della legge stralcio,
la costruzione di aule scolastiche e di asili, la possibilità di colonie
per bambini, sussidi di disoccupazione per braccianti agricole, il rispetto dei contratti di lavoro.
Il 1953 è segnato da due avvenimenti rilevanti: il primo Congresso della donna in provincia di Latina, aperto dal canto delle raccoglitrici di olive, e la lotta contro la «legge truffa» come legge fascista
e di guerra. Le cosiddette «compagne costruttrici» si servivano di
film, volantini e moduli per il referendum, cercando un contatto
personale con le donne al mercato. L’autrice disegna il percorso di
politicizzazione dell’emancipazione femminile attraverso i corsi di
formazione Clara Zetkin, le scuole di partito, i corsi di «mistica comunista» per responsabili di sezioni e cellule. Si delinea nelle pagine
un’attualissima storia dei rapporti fra i generi, nella quale un capitolo è riservato alla conflittualità delle donne, che pure condividevano oltre al genere lo stesso ideale politico e la medesima appartenenza alla comunità. Tutt’altro aspetto rivestiva la conflittualità di
genere fra uomini e donne nelle candidature; nel ’56 i candidati alle
provinciali erano tutti uomini, al contrario di alcuni partiti avversari
del PCI, come i socialdemocratici e i democratici cristiani. Nelle
elezioni comunali invece le donne erano in maggior numero rispet21
to a queste due forze politiche, forse a riprova del fatto che il genere femminile era ritenuto più adatto ad amministrare una piccola
realtà, coniugando i doveri familiari con la militanza politica.
Il ’56, che nella politica internazionale è prevalentemente associato ai fatti di Ungheria, nella vita delle comuniste pontine veniva
invece ricordato come l’anno in cui l’Unione Donne Italiane decide di
rendersi completamente autonoma dal partito.
Nell’epilogo l’Autrice scrive: «È la storia di un partito nuovo irrealizzabile, la definizione più giusta per la storia del volto femminile del PCI nella provincia del duce». Su questa considerazione finale, con cui mi trovo totalmente d’accordo, chiudo la mia introduzione sempre più convinta che i dottorati di ricerca e l’investimento
nella formazione siano dighe insostituibili per arginare l’incultura e
i danni che provoca.
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