TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA: IL RUOLO

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TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA: IL RUOLO DEL
MEDICO TRA RISPETTO DELLA VOLONTA’ DEL PAZIENTE E STATO DI
NECESSITÀ
Bruno Magliona*, Mariafrancesca Del Sante*
*Università degli Studi di Parma
In data 15 maggio 1990, alle ore 7.05, T.S., vittima di un incidente stradale,
veniva trasportato presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Santa Chiara di Trento,
donde veniva prontamente trasferito presso il locale Reparto di Rianimazione con
diagnosi di “politrauma, lesione arteria e vena succlavia e plesso brachiale sinistro,
frattura scapola (…)”.
Al momento del ricovero il paziente, in condizioni di piena capacità, faceva
presente il proprio rifiuto, in quanto Testimone di Geova, a sottoporsi a trattamenti
trasfusionali [la volontà del paziente veniva registrata in cartella clinica nei termini
seguenti: “N.B. Testimone di Geova (rifiuta trasfusioni)”] e chiedeva di essere trasferito
presso un ospedale attrezzato per terapie alternative alla trasfusione ematica.
Alle ore 12.15, dopo un ulteriore aggravamento dei parametri emodinamici e la
comparsa di un quadro di anemizzazione rapidamente ingravescente, il paziente veniva
sottoposto, in via di urgenza, ad intervento chirurgico, nel corso del quale veniva
evidenziata una “ampia lacerazione dell’arteria e della vena succlavia”.
Nel corso del predetto intervento i sanitari, dopo aver contattato telefonicamente
il Procuratore della Repubblica, che li autorizzava ad intervenire, sottoponevano il
paziente a trattamento emotrasfusionale.
Il T.S. chiedeva il risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto,
contro la propria volontà, a subire un intervento espressamente rifiutato.
Il Tribunale di Trento, Sezione stralcio, con sentenza 9 luglio 2002, n. 621,
rigettava la domanda.
Con citazione del 14 ottobre 2002 T.S. proponeva appello avverso tale sentenza,
chiedendo il risarcimento di tutti i danni morali, patrimoniali e biologici subiti.
La Corte di Appello di Trento1, dopo aver premesso che “i sanitari erano
ragionevolmente convinti, in base agli esami effettuati, di dover effettuare una
operazione che avrebbe comportato una perdita di sangue assai minore rispetto a quella
poi verificatasi in concreto una volta iniziata l’operazione e riscontrata l’effettiva
gravità della lesione”, riteneva infondato l’appello.
Secondo la Corte trentina, infatti, “se è indubbio che il dissenso sia stato
rilasciato dal S., persona maggiorenne e lucida, al momento del ricovero, (…) è
parimenti indubbio che in quel momento (ricovero) la sua situazione clinica fosse
sicuramente meno grave di quella che venne poi concretamente riscontrata in sala
operatoria. La scansione temporale di questi due momenti non può non essere tenuta
nella doverosa considerazione nel valutare la situazione concreta: momento del
ricovero, nel quale il S. dichiara di non consentire alla trasfusione per motivi religiosi –
1
App. Trento, 19 dicembre 2003, in La nuova giurisprudenza civile commentata 2005;(1):145 e ss.
1
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come attestato anche dal suo tesserino – periodo operatorio in cui il S. è, ovviamente,
incosciente, e la situazione si appalesa ben più grave di quella prevista”.
“In siffatta situazione”, proseguono i Giudici trentini, “è più che ragionevole
chiedersi se il S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale
pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso. La Corte non ignora
certo quanto affermato in dottrina e giurisprudenza in ordine alla vincolatività del
dissenso, purtuttavia, acciocché lo stesso possa considerarsi validamente manifestato, è
pur sempre necessario che lo stesso sia, oltre che inequivocabile, attuale, effettivo e
consapevole: presuppone, cioè, un’effettiva conoscenza del reale stato di salute e delle
possibili conseguenze (consenso-dissenso informato)”.
Nella fattispecie, “il dissenso è stato manifestato, dunque, quando la situazione
(…) prospettata era ben diversa da quella reale riscontrata solo in un secondo momento,
quando cioè l’importanza ed il carattere decisivo della (…) decisione era correlata ad
una situazione meno grave di quella poi riscontrata. Già ciò fa seriamente dubitare –
posto, non si dimentichi mai, che da tale scelta può dipendere la stessa vita del paziente
– dell’effettiva portata, nel tempo, di tale dissenso e che si possa parlare, quindi, di
sicuro consapevole dissenso alla terapia”.
Secondo i Giudici di secondo grado, inoltre, anche nell’ipotesi in cui il dissenso
originariamente espresso dovesse ritenersi perdurante, il comportamento tenuto dai
sanitari sarebbe stato comunque scriminato ex art. 54 c.p. (stato di necessità): “La Corte,
pur non ignorando che secondo alcuni autori lo stato di necessità non possa ritenersi
operante in caso di trattamento curativo prestato contro il consenso dell’interessato (…),
ritiene tuttavia più convincente l’opposta tesi, confortata anche da alcune pronunce della
Suprema Corte (…) secondo cui, sostanzialmente, il dissenso del paziente rende
senz’altro l’atto terapeutico praticato un’indebita violazione della sua libertà di
autodeterminarsi (garantita dall’art. 32 Cost.) ed anche della sua integrità a meno che,
condizione fondamentale, non si versi in situazione di pericolo attuale e grave per la vita
del paziente. La situazione di urgenza terapeutica, concretizza, infatti, lo stato di
necessità qualora sia in gioco la vita del paziente. Diritto, quest’ultimo, considerato,
dalla nostra cultura giuridica, personalissimo ed indisponibile”.
Sulla vicenda è infine intervenuta la Corte di Cassazione 2, che ha affrontato la
vexata quaestio relativa all’interrogativo se il rifiuto del trattamento trasfusionale
esternato al momento del ricovero debba o meno ritenersi operante – vincolando
l’operato dei sanitari – anche successivamente, quando il trattamento trasfusionale si
rende effettivamente necessario.
Dopo aver premesso che non si tratta di “statuire sulla legittimità del diritto di
rifiutare nel caso dei Testimoni di Geova le trasfusioni di sangue anche se ciò determina
la morte, ma, più limitatamente, di accertare la legittimità del comportamento dei
sanitari che hanno praticato la trasfusione nel ragionevole convincimento che il
primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido e operante”, la Corte Suprema
richiama pressoché integralmente le motivazioni della sentenza di appello, ritenendole
non censurabili e sottolineando in particolare come il dissenso originario, espresso
prima dell’aggravarsi del quadro clinico e del verificarsi dello stato di incoscienza,
2
Cass., sez. III civile, 23 febbraio 2007, n. 4211.
2
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debba ritenersi appartenere ad un contesto temporale precedente e diverso, in cui il
paziente non versava ancora in pericolo di vita: per questo motivo, sulla base di una
valutazione altamente probabilistica derivante da un “quadro clinico fortemente mutato
e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del
paziente ormai anestetizzato”, il dissenso precedentemente espresso non può più
considerarsi operante, legittimandosi così l’intervento dei sanitari.
Secondo i Giudici di legittimità la sentenza della Corte di Appello “non è viziata
da errori di diritto, perché rispettosa della legge 145/01 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della
dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina), che
all’articolo 9 stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un
intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in
grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione»”. E che i sanitari li
abbiano tenuti in considerazione, conclude la Corte Suprema, “risulta non foss’altro
dall’aver interpellato telefonicamente, in costanza di intervento operatorio, il
Procuratore della Repubblica, ricevendone implicitamente un invito ad agire”.
La decisione della Corte Suprema coinvolge temi di pressante attualità ed offre
lo spunto all’interprete medico legale, alla luce dei contributi della dottrina e di alcune
recenti pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità (relative a due vicende –
la morte di Piergiorgio Welby e la richiesta di sospensione di nutrizione e idratazione
artificiali avanzata dal padre, in qualità di tutore, di Eluana Englaro – di grande
risonanza mediatica)3 che hanno avuto per oggetto l’ampiezza del diritto
all’autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari, per una riflessione in merito
alla liceità del rifiuto dei trattamenti medici cosiddetti salvavita, alla validità del
dissenso precedentemente espresso allorché subentri una situazione di incoscienza e la
vita del paziente sia in pericolo, alla applicabilità e ai limiti, in tali fattispecie, della
scriminante dello stato di necessità e – anche se, a stretto rigore, la quaestio juris
oggetto dell’analisi della Corte Suprema esula da tale tema – alla vincolatività delle
direttive anticipate di trattamento.
Ad una prima lettura, la sentenza della Corte Suprema non sembra scalfire, se
non forse marginalmente, il diritto all’autodeterminazione costituzionalmente fondato,
limitandosi ad affermare come quando intervenga uno stato di necessità ed il paziente
non sia più in grado di esprimere la propria volontà, il sanitario sia legittimato a
praticare la terapia più opportuna per tutelare la vita della persona assistita, ancorché la
stessa avesse in precedenza espresso il proprio dissenso rispetto al trattamento in
questione.
Secondo questa interpretazione, la questione esaminata dai Giudici di legittimità
riguarda dunque la liceità dell’effettuazione di trasfusione di sangue in corso di
intervento chirurgico, nonostante il precedente esplicito rifiuto del paziente, allorché la
decisione dei sanitari sia obbligata dalla novità e dalla diversità della situazione creatasi
3
Si tratta rispettivamente di Trib. Roma, Giudice dell’Udienza Preliminare, 17 ottobre 2007, n. 2049 e di
Cass., sez. I civile, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Rivista Italiana di Medicina Legale 2008;30(1):271-330,
con nota di Pulitanò D, Ceccarelli E. Il lino di Lachesis e i diritti inviolabili della persona, 330-42.
3
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nel corso dell’intervento chirurgico stesso, nel presupposto del ragionevole
convincimento da parte dei sanitari che il dissenso del paziente dovesse ritenersi non più
valido e operante in conseguenza delle drammatiche complicazioni intervenute4.
Ad una lettura più critica, invece, la decisione della Corte Suprema, alla quale
comunque va riconosciuto il merito di aver spostato l’attenzione dalla questione della
legittimità del dissenso al trattamento medico motivato dalle personali credenze
religiose del paziente alla considerazione dei limiti di validità di tale libertà di scelta
terapeutica quando sopravviene uno stato di incoscienza e si realizza, nel contesto di un
quadro clinico profondamente mutato rispetto a quello diagnosticato al momento del
ricovero, un imminente pericolo di morte del paziente5, non sembra portare un
contributo di chiarezza – fondamentale nelle situazioni emergenziali – relativamente
alla ricognizione delle limitazioni, anche temporali, cui soggiace la libertà di
autodeterminazione del paziente, inserendosi nel novero di una giurisprudenza ondivaga
e a volte anche contraddittoria quanto alla definizione di potestà e doverosità
dell’intervento medico6.
In questo contesto di grande incertezza e di perdurante ambiguità, i sanitari
finiscono con il trovarsi fra l’incudine e il martello nel decidere come procedere, sotto il
profilo non soltanto etico e deontologico, ma anche delle eventuali responsabilità, in
campo sia civile che penale7.
Il medico si viene infatti a trovare in una situazione paradossale, in quanto se
omette l’intervento rischia di essere sottoposto a procedimento penale per omissione di
soccorso o – se all’omissione consegue la morte del paziente – per omicidio doloso,
eventualmente nella fattispecie dell’omicidio del consenziente8, o colposo, mentre se
interviene potrebbe essere sottoposto a procedimento penale per violenza privata9, ex
art. 610 c.p., o trovarsi esposto (come nella vicenda tratteggiata in apertura) ad una
azione risarcitoria da parte del paziente 10 per violazione della libertà di
autodeterminazione della persona assistita11: come è stato giustamente sottolineato12, “la
responsabilità per la gestione di vicende così problematiche viene a ricadere, nei fatti,
interamente sul medico”, in quanto “il diritto interviene , in questo campo, a posteriori,
4
Sacchettini E. Quando interviene uno stato di necessità la scelta della terapia passa al sanitario. Guida al
diritto 2007;(10):31-3.
5
Guerra G. Commento a Cass., sez. III civile, 23 febbraio 2007, n. 4211. Danno e Responsabilità 2008;
(1):30-5.
6
Facci G. Le trasfusioni dei Testimoni di Geova arrivano in Cassazione (ma la S.C. non decide).
Responsabilità civile e previdenza 2007;(9):1885-9.
7
Sacchettini E. Quando interviene uno stato di necessità la scelta della terapia passa al sanitario, op. cit.
8
Avecone P. Commento a Pretura Roma, 3 aprile 1997. Giustizia Penale 1998, parte II, 662-5.
9
Blaiotta R. I profili penali della relazione terapeutica. Cassazione Penale 2005;3599-622.
10
Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue. Responsabilità civile 2006, 932 e ss.
11
La lesione della libertà di autodeterminazione del paziente integra, secondo un recente orientamento
giurisprudenziale, un danno risarcibile, a prescindere dalle conseguenze lesive sulla salute del paziente:
sul punto si rimanda a Magliona B. Libertà di autodeterminazione e consenso informato all’atto medico:
un’importante sentenza del Tribunale di Milano. Responsabilità Civile e Previdenza 1998;63(6):1633-42.
12
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina. Diritto Pubblico 2003;(1):185-217.
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per valutare ‘col senno di poi’ (e con esiti pressoché imprevedibili) il significato penale
della vicenda”.
Nella pratica, dunque, di fronte all’infinita varietà delle situazioni che possono
determinarsi, il professionista non trova, nel momento in cui si impone una decisione
operativa, un’indicazione sicura nella prassi giuridica, che ha finora offerto, come
ricordato in precedenza, una gamma gravemente contraddittoria di soluzioni, privando il
medico di univoche e chiare coordinate comportamentali13.
Se la giurisprudenza appare incapace di esprimere una guida persuasiva nelle
situazioni conflittuali, sempre più frequenti14, che si pongono dapprima al medico e
quindi al giudice15, anche le indicazioni che scaturiscono dalla dottrina medico legale –
pronta a legittimare l’operato del medico che si astiene dal praticare l’emotrasfusione
13
Si segnalano a questo proposito, oltre alle pronunce di merito già citate: Pretura Roma, 3 aprile 1997, in
Rivista italiana di diritto e procedura penale 1998:1422-6, secondo cui, ai sensi dell’art. 32 Cost., in caso
di rifiuto, da parte del paziente, di un trattamento sanitario necessario per la propria sopravvivenza, al di
fuori delle ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, il medico non è titolare di alcun obbligo giuridico
di intervenire per impedire l’evento morte, non potendo pertanto rispondere di omicidio mediante
omissione ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, ult. co., c.p. e 589, 1° comma, c.p.; Trib.
Messina, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 11 luglio 1995, in Rivista Italiana di Medicina
Legale 1996;18:303-18, con nota di Iadecola G, Fiori A. Stato di necessità medica, consenso del paziente
e dei familiari, cosiddetto «diritto di morire», criteri per l’accertamento del nesso di causalità, 302-18;
Trib. Pordenone, sez. stralcio, 11 gennaio 2002 (consultabile al sito www.personaedanno.it); App.
Trieste, 25 ottobre 2003, in La nuova giurisprudenza civile commentata 2005;(1):145 e ss. Per quanto
riguarda la giurisprudenza di legittimità, si segnala Cass., sez. I, 11 luglio 2002, n. 26646, che ha ritenuto
sussistere in capo alla persona un diritto soggettivo perfetto a rifiutare liberamente e consapevolmente il
trattamento proposto, anche nel caso in cui quest’ultimo consentirebbe di salvare la vita del paziente, al
contempo ravvisando il reato di violenza privata nel comportamento del medico che imponesse la terapia
contro la volontà del paziente. Un riferimento al trattamento trasfusionale del Testimone di Geova è
contenuto anche in Cass. Pen., sez. IV, 18 maggio 2006, n. 16995: la vicenda processuale riguardava la
morte di un neonato e della madre, attribuita in entrambi i casi alla condotta colposa del ginecologo che
aveva seguito il parto, al quale veniva imputato (per quanto riguarda la morte del neonato) di non aver
colto gli evidenti segni di sofferenza fetale e di non essere intervenuto prontamente, praticando il cesareo
o ricorrendo a farmaci per accelerare il parto, e (per quanto riguarda la morte della madre) di avere
omesso di intervenire ai primi segni di un’emorragia manifestatasi dopo il parto. La Corte d’appello,
confermando la condanna di primo grado, aveva rilevato come l’appartenenza religiosa della donna fosse
stata segnalata dal marito, che aveva consegnato ad un’infermiera un tesserino, a presumibile firma della
paziente, con il quale quest’ultima intendeva vietare interventi trasfusionali anche in caso di pericolo di
vita. Per la Corte, tale segnalazione doveva considerarsi irrilevante, atteso lo stato di incoscienza della
donna, che aveva privato il dissenso del necessario requisito dell’attualità: lo stato di incoscienza, nella
ricostruzione della Corte, non aveva infatti consentito alla paziente di essere correttamente informata
della situazione e della necessità della trasfusione. Sul punto interviene la Cassazione con la sentenza
citata, sottolineando da un lato l’impossibilità di poter trarre, dal tesserino consegnato dal marito, la
conferma attuale della decisione della donna, in stato di incoscienza, di rifiutare il trattamento terapeutico
salvavita e dall’altro lato la sussistenza nella fattispecie di un evidente stato di necessità, che imponeva al
sanitario di mettere in atto qualunque intervento terapeutico necessario per salvare la vita della paziente.
14
Il resoconto giornalistico di alcuni recenti casi di cronaca testimonia della situazione di incertezza e di
confusione che circonda la materia: Varese (4 gennaio 2007): “L’uomo era rimasto coinvolto in un
incidente stradale e la gravità delle sue ferite necessitava di operazione. Portato all’Ospedale
Sant’Antonio di Gallarate si è rifiutato proprio perché testimone di Geova. I medici alle prese con il
dilemma tra salvargli la vita o rispettare la sua fede religiosa con il rischio di finire magari sotto inchiesta
per omicidio colposo in caso di decesso, si sono rivolti ai famigliari del paziente ma anche loro si sono
5
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qualora il paziente, debitamente informato della obiettiva necessità e in condizioni di
piena capacità, opponga un rifiuto al trattamento, ma scarsamente incline, allorché si
concretizza un pericolo per la vita del paziente o sopraggiunge una situazione di
incoscienza, a riconoscere un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure e
propensa invece ad enfatizzare il ruolo dello stato di necessità e ad opporre alla libertà
di autodeterminazione del paziente il principio della indisponibilità della vita umana 16 e
a negare, valorizzando fino alle estreme conseguenze il requisito dell’attualità del
consenso (o del dissenso), ogni rilevanza a qualsivoglia documento scritto contenente
una preventiva manifestazione di volontà – non risultano chiaramente univoche.
Premesso che la mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina penalistica
dell’attività medico-chirurgica e in particolare della regola del consenso e delle
conseguenze penali di una sua violazione fa sì che le soluzioni proposte si rivelino
inevitabilmente opinabili, ricorrendo a fattispecie criminose datate e inadeguate rispetto
alla realtà sanitaria attuale17, nella dottrina, così come nella giurisprudenza, sono
ravvisabili – con specifico riferimento al caso del Testimone di Geova che rifiuta, per
motivi religiosi, la trasfusione di sangue salvavita – tre orientamenti.
Un primo orientamento, incentrato sulla concezione del consenso informato
come istituto a tutela della libertà assoluta di autodeterminazione del paziente, sancisce
la piena legittimità del diritto al rifiuto delle cure anche quando dal dissenso scaturisce
un pericolo per la vita del paziente.
Un secondo orientamento, al quale si allinea la decisione della Corte Suprema
relativa alla vicenda trentina, sostiene che allorché sopravviene una situazione di
incoscienza e l’integrità fisica del paziente versa in grave e irreparabile pericolo, il
opposti. Quindi hanno deciso di rivolgersi al magistrato di turno presso la Procura di Busto Arsizio che ha
imposto il TSO” (da www.Repubblica.it). Milano: “È stata salvata da una trasfusione di sangue contro la
quale si opponeva nonostante avesse appena messo al mondo un bambino e nonostante fosse in pericolo
di vita a causa di un’emorragia. Il medico, che ha disposto l’emotrasfusione coatta, rischia ora una
denuncia per lesioni. La vicenda riguarda una donna ecuadoriana di 28 anni, ricoverata alla clinica
Mangiagalli. In seguito al parto la donna, regolare in Italia, ha avuto un’emorragia che le ha provocato
una caduta dell’emoglobina. La donna, il marito e la sorella, però, si opponevano alla terapia perché la
loro religione, quella dei Testimoni di Geova, non la consente. Lo scorso 30 dicembre, dopo aver
consultato il pubblico ministero di turno, il medico ha sottoposto la paziente a una emotrasfusione coatta
poiché la 28enne era in pericolo di vita” (da www.qn.quotidiano.net).
15
Blaiotta R. I profili penali della relazione terapeutica, op. cit.
16
Il punto è sottolineato da Dubolino F, Marella GL, Apostol MA. Trasfusione di sangue e suoi derivati.
Implicazioni medico-legali e sociali. Rivista Italiana di Medicina Legale 2002;24:727-57: “Tutto quanto
detto finora prescinde tuttavia dall’eventualità che il rifiuto venga espresso in una situazione nella quale, a
giudizio del medico, la trasfusione sia necessaria per scongiurare un imminente e non altrimenti evitabile
pericolo di vita del paziente. In tale ipotesi, qualora il medico (magari approfittando dello stato di
incoscienza nel quale il paziente venga successivamente a trovarsi, per effetto dell’anestesia o dello stesso
progredire del mali di cui egli è affetto) disponga ugualmente la trasfusione, deve ritenersi secondo
alcuni, che egli sia giustificato, avendo agito in una delle condizioni previste dall’art. 54 c.p. (…).
Secondo altri, però, la giustificazione sarebbe invece da escludere, dovendosi in ogni caso dare la
prevalenza alla consapevole e libera manifestazione di volontà contraria da parte dell’interessato”.
17
Iadecola G. In tema di rilevanza penale – come delitto doloso contro la vita e l’incolumità individuale –
del trattamento medico eseguito senza il consenso del paziente. Rivista Italiana di Medicina Legale
2001;23:219-28.
6
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sanitario è tenuto ad intervenire, senza che la sua condotta possa essere fonte di
responsabilità civile, né possa integrare gli estremi del reato di violenza privata ex art.
610 c.p., poiché sussistono le condizioni di operatività della causa scriminante relativa
allo stato di necessità.
Coerentemente con questa soluzione, il medico è tenuto a praticare la trasfusione
nei confronti del paziente in stato di incoscienza e di grave pericolo di vita anche
quando il dissenso sia chiaramente deducibile da preventive manifestazioni di volontà
dello stesso paziente, come solitamente accade per gli aderenti al credo religioso dei
Testimoni di Geova, che esternano tale volontà indossando una medaglietta o un
tesserino attestanti il rifiuto dei trattamenti trasfusionali, in quanto il dissenso in
questione, per essere considerato valido, deve essere manifestato – per riprendere le
parole della Corte Suprema – “in maniera attuale, chiara ed informata”, vale a dire con
specifico riguardo alle concrete condizioni di salute in cui il paziente versa nel preciso
istante in cui lo esprime.
In altre parole, secondo questo orientamento, che sembra essere maggioritario
nel panorama giurisprudenziale, il diritto all’autodeterminazione del paziente subisce
una limitazione in favore dell’indisponibile bene della vita, e lo stato di necessità viene
ad assumere un’importanza centrale, limitando l’operatività del consenso espresso dal
paziente18.
Un terzo orientamento, infine, richiamandosi alla posizione di garanzia propria
del sanitario o, alternativamente, alla concezione della vita come bene indisponibile
(che viene fatta derivare dal disposto degli artt. 579 e 580 c.p.) o ancora all’etica
professionale19, ritiene comunque applicabile la fattispecie dello stato di necessità anche
quando il paziente si trovi in condizioni di piena capacità se il rifiuto del trattamento
comporta la morte o il rischio di un pregiudizio grave al bene salute del soggetto20.
18
Guerra G. Commento a Cass., sez. III civile, 23 febbraio 2007, n. 4211, op.cit.
Il punto è chiaramente sottolineato da Fiori A. Il caso Welby, i medici, i pesi e le misure. Medicina e
Morale 2007;(1):9–17: “Il rifiuto da parte del paziente delle cure mediche necessarie quoad vitam –
implicando in effetti un atto contra legem di disposizione della vita stessa che viceversa il sistema
giuridico ritiene inviolabile ed indisponibile in assoluto – non può essere vincolante per il medico, il
quale potrà dunque lecitamente intervenire obbedendo alla propria posizione di garanzia ed all’etica
professionale”.
20
In una prospettiva comparatistica, sembra essere questo l’orientamento privilegiato dalla giurisprudenza
francese. Si veda in particolare – per citare un caso che oltralpe ha avuto una grande risonanza mediatica
– Tribunal administratif de Lille, ordonnance du 25 août 2002, n° 02-3138: la vicenda riguardava una
donna, testimone di Geova, vittima di una grave emorragia post-partum (tasso di emoglobina pari a 3,5
g/dl), che i sanitari decidevano di trasfondere con quattro sacche nonostante il reiterato rifiuto della
stessa. Dopo la trasfusione, ancora in costanza di ricovero, la donna ricorreva al Tribunale amministrativo
al fine di ottenere un’ingiunzione nei confronti della struttura ospedaliera “de ne pas procéder à
l’administration forcée de transfusion sanguigne contre le gré et à l’insu” della paziente. Il Tribunale
muove dall’analisi dell’articolo L. 1111-4 del Code de la santé publique (“Toute personne prend, avec le
professionel de santé et compte tenu des informations et des préconisations qu’il fournit, les décisions
concernant sa santé. Le médecin doit respecter la volonté de la personne après l’avoir informée des
conséquences de ses choix. Si la volonté de la personne de refuser ou d’interrompre un traitment met sa
vie en danger, le médecin doit tout mettre en oeuvre pour la convaincre d’accepter les soins
indispensables. Aucun acte médical ni aucun traitment ne peut être pratiqué sans le consentement libre et
éclairé de la personne et ce consentement peut être retiré à tout moment”) per affermare che
19
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Secondo questa ricostruzione21, infatti, “nel nostro ordinamento (…) non si ha il
diritto di disporre della vita né di compromettere la propria attitudine sociale, né si può
a maggior ragione pretendere che ciò avvenga al cospetto di chi, come il medico, è da
parte sua portatore di un potere-dovere di curare, e che è anzi garante del bene della
salute del paziente affidato alle sue cure (…): ci si riferisce ai casi di pazienti
dissenzienti ed a rischio vita (ad esempio: testimone di Geova adulto e consapevole,
mancato suicida, detenuto che attui lo sciopero della fame). In tutte le situazioni
esaminate, un intervento medico sarebbe egualmente – anche se cioè non assistito dal
consenso – da ritenersi penalmente lecito”.
Il principio della piena libertà di autodeterminazione del paziente è fatto proprio
anche dal Codice Deontologico22, indipendentemente dalle conseguenze, anche letali,
dell’eventuale dissenso23, come del resto già postulato dal Comitato Nazionale per la
Bioetica proprio in riferimento al caso dei Testimoni di Geova24.
“l’accomplissement d’un acte médical exige le consentement libre et éclairé du patient”, coerentemente
ordinando “au centre hospitalier régional Hôtel-Dieu de Valenciennes de ne pas procéder à
l’administration forcée de transfusion sanguine à Mme Carole G. contre son gré et à son insu”, salvo il
caso in cui “le refus de respecter la volonté de la patiente serait rendu nécessaire du fait d’un danger
immédiat pout sa vie”. Nello stesso senso si era posto, alcuni giorni prima, il Consiglio di Stato (Conseil
d’Ètat, ordonnance du 16 août 2002), affermando – sempre relativamente ad una vicenda avente per
oggetto il rifiuto della trasfusione di sangue da parte di un Testimone di Geova – che i sanitari che
effettuano un trattamento salvavita non compiono, anche se agiscono contro la volontà del paziente, non
compiono un atto “manifestement incompatibile avec les exigences qui découlent de la convention
européenne des droits de l’homme et des libertés fondamentales, et notamment son article 9”. Si vedano
sul punto, per una dettagliata ricostruzione della vicenda, Chagnon J-L, Fournier V. Fallait-il transfuser
contre son gré Madame G., témoin de Jéhovah? Médecine & Droit 2003;62-62:133-6; e, per una disamina
delle implicazioni medico legali, Rougé-Maillart C, Jousset J, Gaches T, Gaudin A, Pennau M. Patients
refusing medical attentino: the case of Jehovah’s witnesses in France. Med Law 2004;23:715-23; e Loriau
J, Manaouil C, Montpellier D, Graser M, Jarde O. Chirurgie et transfusion chez les patients témoins de
Jéhovah. Mise au point médico-légale. Annales de chirurgie 2004;129:263-8.
21
Iadecola G. In tema di rilevanza penale – come delitto doloso contro la vita e l’incolumità individuale –
del trattamento medico eseguito senza il consenso del paziente, op. cit.
22
Art. 35: «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del
consenso esplicito e informato del paziente (…). In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di
persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo
consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».
23
Il punto è criticamente sottolineato da Iadecola G. Rifiuto delle cure e diritto di morire. Medicina e
Morale 2007;(1):91–9: “la disciplina deontologica attribuisce – nel contempo – al sanitario la prerogativa
della autonomia e della libertà professionale nello svolgimento della sua attività: le quali rimangono suo
appannaggio ‘inalienabile’ (siccome ribadito nell’art. 22 del nuovo codice), consentendogli di sottrarsi ad
atteggiamenti e prestazioni mediche contrastanti, oltre che con il suo convincimento clinico, con la sua
stessa coscienza”.
24
Comitato Nazionale per la Bioetica. Informazione e consenso all’atto medico, 20 giugno 1992: “Un
caso particolare è rappresentato dal paziente gravemente anemizzato per emorragia o per malattia
ematologica che, pur essendo in pericolo di vita, rifiuti la trasfusione di sangue. Ciò accade
principalmente in osservanza di un particolare credo religioso, come nel caso dei Testimoni di Geova.
Nonostante la sofferenza del sanitario che vede morire il proprio assistito senza poter espletare l’atto
terapeutico probabilmente risolutivo, egli deve ispirare il proprio comportamento all’art. 40 del Codice di
deontologia medica (1990) quando afferma che «il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto
diagnostico e terapeutico non essendo consentito alcun trattamento sanitario contro la volontà del
8
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Relativamente poi alla questione della vincolatività delle dichiarazioni anticipate
di trattamento, l’ultima versione della normativa deontologica, superando le ambiguità
lessicali della versione previgente25, afferma (art. 38) che “il medico, se il paziente non è
in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto
precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”, allineandosi a
quanto stabilito in materia dalla Convenzione di Oviedo e superando le stesse incertezze
del recente documento del Comitato Nazionale per la Bioetica in tema di direttive
anticipate26.
Tuttavia, anche se le indicazioni di carattere etico–deontologico postulano, di
fronte ad un esplicito dissenso al trattamento trasfusionale espresso da un paziente
maggiorenne correttamente informato e capace, il dovere del sanitario di astenersi dal
praticare la trasfusione27, di fatto nella prassi ospedaliera non appena subentra una
situazione di incoscienza l’esplicito (magari formalizzato) dissenso perde nel volgere di
poche ore e a volte di poche minuti la sua validità, fino a stemperarsi, attraverso
l’enfatizzazione dell’istinto di conservazione e sulla base del criterio dell’id quod
plerumque accidit, in un vero e proprio consenso presunto, e la trasfusione – ritenuta
non solo legittima ma anche doverosa – viene praticata.
A ben vedere, dunque, le questioni fondamentali – e parzialmente irrisolte, come
dimostrano le oscillazioni della giurisprudenza (occorrerà vedere, a questo proposito, se
i princípi di diritto enunciati dal Tribunale di Roma e dalla Corte di Cassazione
rispettivamente nella vicenda di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro potranno
rappresentare un punto fermo per successive elaborazioni) e, di conseguenza, le
incertezze e le contraddizioni che spesso connotano il comportamento dei sanitari –
sottese al trattamento trasfusionale salvavita del paziente Testimone di Geova
riguardano l’ambito di operatività dello stato di necessità (quando subentra uno stato di
incoscienza o anche indipendentemente da questo?) e l’interpretazione (nel senso della
stretta contestualità ovvero nel senso del minor scostamento possibile dal principio della
libertà di autodeterminazione del paziente?) che nella pratica clinica deve essere data al
requisito dell’attualità del consenso.
Relativamente alla prima questione, sulla quale la Corte Suprema – al contrario
della Corte di appello di Trento, che sembra adombrare la legittimità del ricorso allo
stato di necessità come giustificazione dell’intervento anche qualora il dissenso del
paziente debba ritenersi valido – non interviene in modo incisivo28, il ricorso alla
scriminante dello stato di necessità – che, giova ricordare, non obbliga il medico ad
paziente»”.
25
L’art. 34 della versione previgente («Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria
volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato
dallo stesso») si prestava, proprio per il ricorso alla doppia negazione e per il riferimento vincolante alle
situazioni caratterizzate da un grave pericolo di vita, ad un’interpretazione meno incisiva: sul punto si
rinvia a Magliona B. Nuovo Codice di Deontologia Medica e direttive anticipate: una timida apertura.
Professione 1999;(2)18-21.
26
Comitato Nazionale per la Bioetica. Dichiarazioni anticipate di trattamento, 18 dicembre 2003.
27
Cipollini L, Cecchi R. Il rifiuto della terapia trasfusionale in pazienti Testimoni di Geova:
considerazioni medico-legali su un caso peritale. Rivista Italiana di Medicina Legale 1999;21:505-17.
9
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alcuna condotta specifica, ma si limita appunto a scriminarne il comportamento al
ricorrere di determinate condizioni29 – non può che essere limitato alla sussistenza di
uno stato di incapacità, pena altrimenti il rischio di autorizzare situazioni al limite della
brutalità, come si è verificato in un recente caso a Milano30, trasformando l’art. 54 c.p.
“da norma, che, in presenza di determinati presupposti, scrimina comportamenti
altrimenti punibili, in norma che contiene un precetto e impone al medico di intervenire
sul paziente affidato alle sue cure”31.
La necessità e l’urgenza, infatti, non consentono di sovvertire gerarchie di valori
che trovano nella Costituzione il loro fondamento e che pongono l’autodeterminazione
in materia sanitaria e l’interesse a non essere curati al di sopra, anche in caso d’urgenza,
del bene rappresentato dalla preservazione della vita, e non consentono quindi di
derogare alla regola della generale rifiutabilità di un qualsiasi trattamento32, sancita in
termini perentori sia dalla Convenzione di Oviedo33 che dal Codice Deontologico
vigente34.
Sostenere la legittimità dell’imposizione della trasfusione di sangue al
Testimone di Geova che coscientemente la rifiuta, oltre a porsi contro le norme
costituzionali alla base, nell’interpretazione che ne è stata fornita da dottrina e
giurisprudenza nel corso dell’ultimo quarto di secolo35, del diritto della persona
cosciente e capace di rifiutare i trattamenti medici indesiderati, indipendentemente dalle
conseguenze del rifiuto, significa inevitabilmente rendere irrilevante la volontà del
28
Contrariamente alla lettura che alcuni Autori hanno dato della sentenza della Cassazione n. 4211/2007,
nessun passaggio della decisione, come è stato sottolineato da Vallini P. Rifiuto di cure “salvavita” e
responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. Commento a
Tribunale di Roma, Sentenza, 23 luglio 2007 (17 ottobre 2007). Diritto Penale e Processo 2008;(1):59-82,
eleva “a regola juris, generale ed astratta, la doverosità dell’intervento in situazioni di incoscienza del
malato, neppure in caso di ‘mutamento sostanziale della situazione di riferimento’: si ragiona, piuttosto,
della ‘scusabilità’ della scelta compiuta dai medici”.
29
Santosuosso A. Road map dei diritti inalienabili di ogni individuo malato. Occhio clinico 2007;(2)9 (da
occhioclinico.it).
30
La vicenda è ricostruita da Santosuosso A. Di una triste trasfusione ematica a Milano/1. Le parole e le
cose: a proposito di «violenza etica» su un paziente. Bioetica 2000;8(3):454 e ss. e da Barni M. Di una
triste trasfusione ematica a Milano/2. Sopraffazione e morte di un uomo per violenza terapeutica. Bioetica
2000;8(3):461 e ss.
31
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità. La nuova giurisprudenza civile
commentata 2005;(1):38-48.
32
Vallini P. Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più
recente giurisprudenza, op. cit.
33
Art. 5: «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona
interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione
adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona
interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso».
34
Codice di Deontologia Medica (16 dicembre 2006), art. 35: «Il medico non deve intraprendere attività
diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente (…). In
ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti
atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della
persona».
35
Santosuosso A. Dalla salute pubblica all’autodeterminazione: il percorso del diritto alla salute. In: Barni
M, Santosuosso A, a cura di. Medicina e Diritto. Milano: Giuffrè, 1995:75-100.
10
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paziente ogni qual volta ci si trovi in una situazione senza alternative 36 ed approdare di
fatto ad una concezione della salute come diritto–dovere, in contrasto con il contenuto
stesso dell’art. 32 Cost., che sancisce esplicitamente la non obbligatorietà dei
trattamenti sanitari, stabilendo al contempo con estrema chiarezza criteri e limiti entro i
quali, in via di eccezione, la tutela del bene salute può essere sottratta, nell’interesse
della collettività, alla disponibilità del singolo37.
Non appare convincente, infatti, anche alle luce delle indicazioni perentorie che
provengono dalla normativa deontologica38, pienamente conforme al principio secondo
il quale voluntas aegroti suprema lex esto, l’interpretazione contraria, che postula un
dovere giuridico per il singolo di curarsi, richiamandosi vuoi all’art. 5 c.c., vuoi
all’indisponibilità del bene vita, sulla base del disposto dell’art. 579 c.p., che punisce
l’omicidio del consenziente, e dell’art. 580 c.p., che punisce la condotta di chi agevola
in qualsiasi modo il suicidio, né pare ragionevolmente ipotizzabile – come pure, in
situazioni analoghe, è stato fatto39 – il ricorso allo strumento del trattamento sanitario
obbligatorio40.
Tale impostazione, oltre ad essere in contrasto con i principi di fondo del sistema
costituzionale, appare discutibile in quanto rimette al medico il compito di decidere
quale degli interessi in conflitto debba prevalere (il diritto all’autodeterminazione ed il
diritto alla libertà di religione od il diritto alla vita), gravandolo di una pesante
responsabilità in assenza di alcuna garanzia giuridica41, tale non potendo considerarsi
l’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria che, il più delle volte informalmente,
viene talvolta chiesta dai sanitari, posto che se si ammette l’operatività dello stato di
necessità, questo opera di per sé come scriminante, senza bisogno di interventi
autorizzatori42.
Rilevato dunque che lo stato di necessità autorizza il medico a intervenire in
assenza di consenso solo nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimere la
propria volontà43 e sussista il pericolo attuale di un danno grave alla persona (secondo il
36
Santosuosso A. Rifiuto di terapie su paziente non capace: quale il ruolo dei familiari? Commento a
Tribunale di Messina, ufficio G.I.P., sentenza 26 luglio 1995 (u.p. 11 luglio 1995). Diritto Penale e
Processo 1996;(2):202-8.
37
Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, op. cit.
38
Barni M. Diritti-doveri responsabilità del medico. Milano: Giuffrè, 1999.
39
Magliona B, Del Sante M. Negato consenso da parte del paziente in dubbie condizioni di capacità al
trattamento sanitario indifferibile quoad vitam: aspetti giuridici, deontologici e medico-legali. Rivista
Italiana di Medicina Legale 2004;26:1083-101.
40
Ricci P, Panarese F. Consenso ed emergenze medico chirurgiche. Difesa Sociale 2002;(1):13-8. Nello
stesso senso Frati P, Fineschi V. Sul valore medico-legale e giuridico delle direttive anticipate. In:
Cattorini P, a cura di. Le direttive anticipate del malato. Esperienze operative e questioni etico-giuridiche.
Milano: Masson, 1999:13-27 e Dell’Osso G. Il rifiuto della trasfusione di sangue da parte dei Testimoni
di Geova: aspetti deontologici e medico-legali. Zacchia 1979;54:237-52.
41
Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, op. cit.
42
Dubolino F, Marella GL, Apostol MA. Trasfusione di sangue e suoi derivati. Implicazioni medicolegali e sociali, op. cit.
43
La questione della necessità di trasfusione ematica in corso di intervento chirurgico, quando cioè non è
più possibile per il paziente esprimere la sua volontà, è stata recentemente affrontata dalla Suprema Corte
con sentenza 26 settembre 2006, n. 20832, e risolta nel senso – nell’analisi di Sacchettini E. Quando
interviene uno stato di necessità la scelta della terapia passa al sanitario, op. cit. – che “una volta acquisito
11
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rigoroso inquadramento penalistico, che nella pratica medica viene a volte
disinvoltamente interpretato nel senso di «necessità medica»44), ma non giustifica
l’effettuazione del trattamento sanitario qualora il paziente, in condizioni di piena
capacità, abbia espresso una volontà contraria45, anche se a tale determinazione
consegue una lesione del bene salute o la morte46, e premesso che non sembrano poter
essere accolte, per le ragioni precedentemente esposte, quelle impostazioni che negano
la configurabilità di un dovere, costituzionalmente fondato, di rispettare la volontà del
paziente richiamando norme ordinarie come gli artt. 579 e 580 c.p., l’art. 5 c.c., gli artt.
593 o 54 c.p.47, occorre ora affrontare la seconda questione, che investe – come dimostra
la stessa decisione della Corte Suprema in merito alla vicenda trentina –
l’interpretazione del requisito dell’attualità del consenso.
A tale proposito occorre preliminarmente sottolineare che intendere il requisito
dell’attualità della volontà in termini meramente e necessariamente cronologici, vale a
dire nel senso della stretta contestualità rispetto alla situazione di emergenza in cui si
impone la scelta tra praticare la terapia o astenersi dalla stessa (come non di rado si fa
nella pratica clinica, intervenendo con il trattamento trasfusionale non appena il
paziente, che fino al momento prima lo aveva rifiutato, perde coscienza 48), equivale a
rendere totalmente inoperante la volontà del paziente in tutti i casi in cui un intervento
richieda l’anestesia49.
il consenso per l’intervento chirurgico, l’informazione e il consenso per le autonome fasi dell’intervento
non possono che essere correlati a quelle che implicano una possibilità di scelta, non a quelle che sono
comunque obbligate e per le quali il rifiuto del consenso si risolverebbe nel rifiuto dell’intervento. È stato
conseguentemente ritenuto non sussistere responsabilità della struttura sanitaria presso cui venne
effettuato l’intervento chirurgico per l’affezione di epatite a seguito di trasfusione di sangue resasi
necessaria nel corso dell’intervento, ove il paziente abbia dato il proprio consenso informato
all’intervento chirurgico”.
44
Magliona B. Il trattamento sanitario dell’incapace naturale. Alcuni spunti di rilievo medico-legale
offerti da un’interessante pronuncia della High Court of Justice. Rivista Italiana di Medicina Legale
1997;19:1231-43.
45
Borsellino P. Il rifiuto delle cure. Professione 2006;(5):11-5.
46
Il punto è chiaramente espresso da Cass., I sez. civ., 29 maggio 2002-11 luglio 2002, che afferma che
“in presenza di una determinazione autentica e genuina” del paziente, il medico “non può che fermarsi,
ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello
stato di salute dell’infermo e, persino, la morte”; si tratta, prosegue la Corte, di ipotesi estreme, “che nella
pratica raramente è dato di registrare, se non altro perché chi versa in pericolo di vita o di danno grave
alla persona, a causa dell’inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in
grado di manifestare liberamente il suo intendimento”; ma se così non fosse, “il medico che abbia
adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta e
abbia verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacché di
fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l’esercizio di un vero e proprio diritto, la sua
astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene doverosa, potendo, diversamente, configurarsi
a suo carico persino gli estremi di un reato”.
47
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op. cit.
48
Barni M. Posizione di garanzia del medico, dissenso (scritto) del paziente: crisi di due capisaldi della
medicina difensiva. Rivista Italiana di Medicina Legale 2006;28:399-402.
49
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, op. cit.
12
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È evidente, pertanto, che – a meno di non voler drasticamente ridurre l’ambito
operativo del consenso informato – l’attualità del consenso (o del dissenso) va affermata
piuttosto in senso logico50.
In altre parole, se è vero che il consenso od il dissenso per essere espressi
validamente richiedono un’informazione adeguata, è del pari vero che le soluzioni
avanzate non devono vanificare quanto previsto sia dalla Convenzione di Oviedo che
dal Codice Deontologico in tema di libertà di autodeterminazione del paziente51.
In questo senso, non appare pienamente congruente, come fa la Corte trentina,
richiamare quel passo della Convenzione di Oviedo in cui si afferma che i desideri
precedentemente espressi dal paziente devono sì essere tenuti in considerazione, ma non
risultano vincolanti per il medico: la prospettiva, infatti, non è, quando si pone la
questione se porre in atto l’intervento rifiutato dal paziente fino a poche ore prima (e, a
volte, anche meno), quella delle cosiddette direttive anticipate, ma piuttosto quella di
stabilire se vi è una continuità della condizione personale del paziente che depone a
favore del rispetto del dissenso espresso prima dell’instaurarsi di una situazione di
incoscienza52.
La questione è – per i molteplici riflessi di ordine giuridico, medico legale e
deontologico – di soluzione tutt’altro che agevole e sottende un duplice rischio: se da un
lato, infatti, ricorrere a deduzioni presuntive in merito all’implicito consenso alla
trasfusione attraverso un astratto richiamo all’istinto di autoconservazione, che
apoditticamente si suppone insopprimibile (e tale pertanto da svilire valori di pari rango
come la coerenza di un individuo nei confronti del credo religioso praticato e
intensamente vissuto) per ogni essere umano53, può apparire una vera e propria fictio54,
dall’altro lato occorre ammettere che l’individuo che si viene a trovare in una situazione
di incoscienza potrebbe non essere più lo “stesso”, che i suoi best interests potrebbero
essere diversi rispetto al momento in cui è stato espresso il dissenso nei confronti di
determinati trattamenti sanitari e che l’impossibilità di confermare tale dissenso – nel
contesto di una situazione clinica profondamente mutata, in cui la trasfusione si pone
concretamente come terapia salvavita – potrebbe renderne dubbia l’attualità.
Fermo restando che l’impossibilità di confermare il dissenso precedentemente
espresso non lo rende, come è stato giustamente sottolineato, “meno” efficace, in quanto
il dissenso o è valido (e allora il medico deve astenersi dal praticare la trasfusione) o
non è valido (e allora il medico deve praticare la trasfusione)55, il problema consiste
allora nello “stabilire se l’ordinamento privilegi una situazione forse attuale ma
assolutamente non certificabile, ovvero un atteggiamento, forse inattuale ma reale,
50
Giunta F. Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche.
Rivista italiana di diritto e procedura penale 2001:377-410.
51
Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, op. cit.
52
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, op. cit.
53
Vallini A. Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di
incoscienza. Rivista italiana di diritto e procedura penale 1998:1426-36.
54
Giunta F. Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche,
op. cit.
55
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op. cit.
13
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documentato, e da ritenersi comunque perdurante fino al momento della sopravvenuta
pratica impossibilità di manifestare (o meno) la propria disponibilità all’atto medico,
posto che il mancato intervento di una revoca pur praticabile costituisce fatto di per sé
sufficiente ad esprimere la persistente adesione della persona alla precedente
manifestazione di volontà” 56.
Nella consapevolezza che la materia del consenso richiederebbe un
inquadramento normativo specifico, capace di recepire la mutata percezione del
concetto di salute, e rifuggendo dalla tentazione di soluzioni gordiane, che da un lato
postulano la doverosità sempre e comunque del trattamento e, specularmente,
l’irrilevanza sempre e comunque del preventivo dissenso, per il solo fatto che il paziente
abbia perso coscienza, ovvero che, dall’altro lato, affermano la vincolatività assoluta,
erga omnes, delle precedenti manifestazioni di volontà del paziente 57, il criterio
ermeneutico in grado di conciliare le diverse istanze sembra essere quello della
continuità58.
Se il dissenso si riferisce ad una situazione già in atto (come ad esempio nel caso
di paziente ospedalizzato in condizioni critiche ma pienamente capace, che ribadisce la
propria volontà di non essere sottoposto a trattamento trasfusionale), si dovrà ritenere
inammissibile l’intervento terapeutico contrario ad una volontà che si radica nelle più
intime convinzioni della persona59.
Se invece vi è una discontinuità – non solo in termini cronologici, ma anche
quanto a condizioni cliniche e tenore dell’informazione – tra il momento in cui è stato
espresso il dissenso alla trasfusione e quello in cui questa si rende effettivamente
indispensabile quoad vitam60, non vi è dubbio che la volontà manifestata dal paziente
assuma un contenuto e una consistenza diversa rispetto a quella espressa in una
condizione in cui il paziente già vive la situazione alla quale si riferiscono le cure61.
56
Vallini A. Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di
incoscienza, op. cit.
57
Vallini P. Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più
recente giurisprudenza, op. cit.
58
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, op. cit.
59
Quadri E. Il codice deontologico medico ed i rapporti tra etica e diritto. Responsablità civile e
previdenza 2002;(4-5):925-48.
60
È questo il caso oggetto di decisione da parte di App. Trieste, 25 ottobre 2003, cit.: nella fattispecie il
paziente (giunto in ospedale privo di coscienza) “aveva addosso un cartellino sul quale era scritto ‘niente
sangue’; a parere di questa corte tale cartellino con il quale egli intendeva evidentemente portare a
conoscenza dei sanitari nelle cui mani il caso lo avesse messo in caso di emergenza e in condizioni tali
per cui egli non sarebbe stato in grado di esprimerla direttamente, la sua contrarietà alle eventuali
trasfusioni, non è espressione efficace di volontà del paziente contraria alle trasfusioni, e non è di per sé
ostacolo all’effettuazione di tale trattamento terapeutico. Il cartellino esprimeva infatti la volontà non
concreta, ma astratta, non specifica ma programmatica, non informata ma ideologica, e soprattutto
passata, preventiva e non attuale (…) il consenso o il dissenso per essere validamente espressi ed efficaci,
devono essere preceduti dall’informazione adeguata sullo stato di salute, sulla necessità di determinate
cure, sui rischi da esse (o dalla loro omissione) eventualmente derivanti. Nella fattispecie come la
presente il dissenso era preventivo, programmatico, astratto, ed espresso prima, ed a prescindere, sia
dall’emergenza (ossia dell’incidente che lo condusse in ospedale in gravi condizioni ed in semicoma), che
dalle necessarie informazioni da parte dei sanitari”.
61
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, op. cit.
14
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In questo caso assume rilievo il riferimento, oltre che eventualmente alle
dichiarazioni dei familiari, in qualità di testimoni privilegiati delle credenze, dei valori e
degli interessi del paziente62, alle dichiarazioni anticipate di trattamento cui rimandano
sia la Convenzione di Oviedo che il Codice Deontologico.
Ora, pur non attribuendo né l’uno né l’altro documento valore vincolante alle
direttive anticipate63, non si può a priori negare l’applicabilità di tali disposizioni al caso
in discussione64.
Il riferimento alle preventive dichiarazioni di trattamento – come si evince anche
da quanto hanno affermato i Giudici di legittimità in merito alla vicenda di Eluana
Englaro65 – rappresenta infatti il criterio più attendibile per ricostruire la volontà del
62
Santosuosso A. Rifiuto di terapie su paziente non capace: quale il ruolo dei familiari?, op. cit.
Al riguardo si consideri, come sottolineato da Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni
di sangue, op. cit., “che il Rapporto esplicativo che accompagna la Convenzione di Oviedo chiarisce che
l’utilizzo della formula ‘tener conto’ è collegata alla constatazione che tra il momento dell’espressione dei
desideri e quello della loro eventuale applicazione può essere passato un certo tempo e la tecnologia
medica può essersi evoluta (…). È così richiesta una verifica da parte del medico dell’attualità dei
desideri al fine di accertare che le direttive del paziente si applichino alla situazione in atto e restino
valide in relazione all’evoluzione della malattia e delle tecnologie mediche”.
64
Quanto alla questione della mancata approvazione dal parte del legislatore italiano delle direttive di
attuazione della Convenzione di Oviedo, si rinvia a Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non
confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op.
cit.: “Si potrebbe obiettare che la Convenzione di Oviedo, per quanto ratificata, non assuma un significato
immediato (…) fintantoché non ne saranno attuate le direttive da parte del legislatore nazionale. Questo è
sicuramente vero per buona parte delle disposizioni di quell’atto internazionale, troppo ‘compromissorie’
per poter risultare dotate di efficacia applicativa diretta; non si vede tuttavia per quale ragione regole atte
a rivestire un diretto supporto ermeneutico (…) non dovrebbero costituire un referente attuale per
l’interprete, o addirittura dovrebbero risultare recessive rispetto ad altre (supposte) regole prive di un
altrettale riconoscimento sul piano del diritto positivo. Insomma: a fronte dell’incertezza – innegabile –
circa la prevalenza, nel caso di specie, di interesse a curarsi o a non curarsi, l’unico dato normativamente
sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere; il che vuol dire che il criterio dell’in
dubio pro vita non si attaglia al caso di specie, o per lo meno non è in grado di definire una ‘regola’
orientata nei termini della prevalenza sempre e comunque del bene salute”. Nello stesso senso si pone la
pronuncia della Corte Suprema sul caso Englaro: “Ora, è noto che, sebbene il Parlamento ne abbia
autorizzato la ratifica con la legge 28 marzo 2001, n. 145, la Convenzione di Oviedo non è stata a
tutt’oggi ratificata dallo Stato italiano. Ma da ciò non consegue che la Convenzione sia priva di alcun
effetto nel nostro ordinamento. Difatti, all’accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora
eseguito all’interno dello Stato, può assegnarsi – tanto più dopo la legge parlamentare di autorizzazione
alla ratifica – una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne
contarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una
lettura il più possibile ad esso conforme. Del resto, la Corte costituzionale, nell’ammettere le richieste di
referendum su alcune norme della legge 19 febbraio 2004, n. 40, concernente la procreazione
medicalmente assistita, ha precisato che l’eventuale vuoto conseguente al referendum non si sarebbe
posto in alcun modo in contrasto con i principi posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997,
recepiti nel nostro ordinamento con la legge 28 marzo 2001, n. 145 (Corte cost., sentenze n. 46,47, 48 e
49 del 2005): con ciò implicitamente confermando che i principi da essa posti fanno già parte del sistema
e che da essi non si può prescindere”.
65
È a questo proposito particolarmente significativo il seguente passo della Cassazione sul caso Englaro,
che implicitamente riconosce la validità delle cosiddette direttive anticipate: “Il quadro compositivo dei
valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene salute da parte
del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, si presenta in modo diverso
63
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paziente e adeguare le scelte terapeutiche all’interesse (nel senso che a tale espressione
viene dato nella riflessione bioetica) dello stesso66. In altre parole, “non è consentito
condurre il ragionamento ermeneutico muovendo dal presupposto che, qualora il
soggetto versi in stato di incoscienza, si debba necessariamente far ricorso ad una regola
che affida l’individuazione del best interest a parametri che prescindono dai contenuti
della sua precedente manifestazione di dissenso, senza aver prima accuratamente
evidenziato le ragioni per cui quel dissenso non avrebbe (più) l’efficacia che
l’ordinamento normalmente gli riconosce” 67.
E ciò è particolarmente vero proprio nel caso dei Testimoni di Geova, in cui se è
ovvio che il paziente non può ricevere, nel momento in cui – per riprendere le parole
della Corte Suprema – si rende evidente un “quadro clinico fortemente mutato” rispetto
a quello presente quando il paziente era ancora capace, un’informazione specifica sulla
situazione in concreto presentatasi ai sanitari, è del pari evidente che “chi indossa il
cartellino con la dichiarazione di non voler essere sottoposto a trasfusione, nemmeno in
caso di estremo bisogno, manifesta una volontà che non è astratta e generica, in quanto,
pur essendo priva di aderenza alla situazione in concreto verificatasi, è, comunque,
riferita a tutte le eventualità, anche le più tragiche, al fine di evitare che lo stato di
incoscienza possa rendere irrilevante la volontà dell’interessato”68: nel caso del
Testimone di Geova, infatti, la ratio del rifiuto è ideologica e prescinde di conseguenza
dai benefici fisici – ivi inclusa la salvaguardia della vita – che la trasfusione di sangue
potrebbe apportare, per cui il dissenso va valutato secondo canoni interpretativi
particolari, che contemplano la fedeltà al proprio credo religioso anche a prezzo della
vita69.
In tale situazione – anche nella prospettiva di superare l’antinomia efficacia
vincolante/orientativa che rischia di cristallizzare il dibattito sulle direttive anticipate e
nell’intento di restituire centralità al rapporto medico-paziente, anche quando uno dei
soggetti non sia più in grado di esprimersi70 – occorre innanzi tutto valutare se vi è una
piena corrispondenza tra quanto attestato dalle dichiarazioni anticipate di trattamento e
la situazione che in concreto il paziente vive, nel senso della riferibilità del tipo di
trattamento sanitario di cui si prospetta la necessità al tipo di trattamento sanitario
oggetto del rifiuto, delle motivazioni del dissenso, dell’esplicita previsione
quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale
incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue
facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli
avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi
in uno stato di incoscienza”.
66
Seminara S. Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura. Diritto Penale e
Processo 2007;(12):1561-7.
67
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op. cit.
68
Facci G. I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, op. cit.
69
Di Fresco M. Il rifiuto emotrasfusionale dei testimoni di Geova: critiche alla Corte Suprema (l’articolo
è consultabile al sito www.la previdenza.it).
70
Tavani M, Picozzi M, Salvati G. Manuale di deontologia medica. Milano: Giuffrè, 2007.
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dell’accettazione anche di un pericolo grave per la salute o addirittura per la vita71, dei
tempi e dei modi della manifestazione di volontà72.
Se – come solitamente avviene nel caso dei Testimoni di Geova – il dissenso è
stato espresso in modo circostanziato, se le dichiarazioni anticipate di trattamento
consentono di colmare, ancorché parzialmente, lo iato che la sopravvenuta incapacità
determina nella relazione tra paziente e sanitario, se vi è, in altre parole, una piena
corrispondenza, nel senso richiamato in precedenza, tra le preventive manifestazioni di
volontà e la situazione emergenziale concretamente verificatasi, la volontà del paziente
non pare superabile ricorrendo a deduzioni presuntive in merito alla prevalenza
dell’istinto di conservazione o enfatizzando la posizione di garanzia rivestita dal
medico: in questo caso, infatti, l’evento che il medico ha l’obbligo giuridico di impedire
71
Casaburi G. In tema di dissenso ad una emotrasfusione. Il foro italiano 2007;(6):1711-2, pt. 1.
Occorre sottolineare a questo proposito che, dopo l’approvazione della Legge n. 6/2004, istitutiva della
figura dell’amministratore di sostegno, sempre più spesso i Testimoni di Geova sostituiscono il tesserino
attestante il rifiuto delle trasfusioni ematiche con la dichiarazione di nomina dell’amministratore di
sostegno ai sensi dell’art. 408 c.c., che prevede che l’amministratore di sostegno possa “essere designato
dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o
scrittura privata autenticata”. Sulla possibilità che un amministratore di sostegno nominato dal Testimone
di Geova ai sensi dell’art. 408 c.c. possa validamente rifiutare la trasfusione in caso di sopravvenuta
incoscienza, qualche spunto si ricava dalla sentenza della Corte Suprema sul caso Englaro, laddove si
precisa che la rappresentanza legale deve mirare a ricostruire “la presunta volontà del paziente
incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della
perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle
sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e
filosofiche (…)”: solo a questa condizione può ammettersi che la richiesta del rappresentante, anche se
consistente nell’interruzione dei trattamenti sanitari, sia intesa come gesto di rispetto dell’autonomia del
paziente. La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza di merito, che ha mostrato sull’argomento
una significativa evoluzione: se infatti Tribunale Roma, Ufficio del Giudice Tutelare, decreto del 20
dicembre 2005 (il testo integrale del decreto è reperibile al sito www.personaedanno.it), autorizzava
l’amministratore di sostegno nominato “a manifestare ai sanitari la volontà a suo tempo espressa dal
beneficiario in merito ad atti trasfusionali di sangue ed emoderivati (…) fatta salva ed impregiudicata
ogni decisione dei medici che lo hanno in cura in merito alla prevalenza o meno della volontà del paziente
sullo stato di necessità”, il Tribunale di Ravenna – Sezione distaccata di Faenza, decreto del 21 agosto
2007, rilevato che il beneficiario, “quando le sue condizioni di salute le consentivano di validamente
autodeterminarsi, aveva espressamente indicato, sia per iscritto, sia riferendo ad altri le proprie volontà
(…), di non intendere essere sottoposta a trasfusioni di alcun genere”, prende atto della necessità di
conferire al nominando amministratore di sostegno, individuato nella persona della figlia del beneficiario,
anche “la legittimazione ad agire in nome e per conto della madre per riferire ai sanitari, qualora si
prospettasse la necessità di sottoporsi a trattamenti trasfusionali, quella che era stata la volontà dichiarata
in passato dalla stessa”; nello stesso senso si pone Tribunale di Tivoli – Sezione distaccata di Palestrina,
ordinanza del 10 ottobre 2007, autorizzando “l’amministratore di sostegno a manifestare ai sanitari la
volontà a suo tempo espressa dal beneficiario in merito ad atti trasfusionali di sangue ed emoderivati ed a
prestare il consenso informato ai trattamenti terapeutici necessari per la cura della salute fisica e psichica
del beneficiario”. Per quanto riguarda i rapporti tra amministrazione di sostegno e direttive anticipate v.
Bonilini G. “Testamento per la vita” e amministrazione di sostegno. In: Testamento biologico. Riflessioni
di dieci giuristi. Società & Diritto 2006;14(1):189-200. Su natura e limiti del potere di rappresentanza del
legale rappresentante in relazione alle scelte diagnostico-terapeutiche v. da ultimo Bonaccorsi F. Rifiuto
delle cure mediche e incapacità del paziente: la cassazione e il caso Englaro. Danno e Responsabilità
2008;(4):432-8; e Guerra G. Rifiuto dell’alimentazione artificiale e volontà del paziente in stato
vegetativo permanente. Danno e Responsabilità 2008;(4):438-43.
72
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non è la morte del paziente, ma è piuttosto che il paziente non rimanga privo della
esecuzione dei trattamenti alternativi rispetto alla terapia divenuta impraticabile73.
Se invece non è ravvisabile un’effettiva riferibilità del preventivo dissenso al
trattamento che nel concreto si rende necessario, vuoi perché la volontà è stata espressa
in una condizione di pieno benessere ed è riferita ad una situazione assolutamente
ipotetica, vuoi perché, per il precipitare del quadro clinico, l’informazione è venuta a
mancare per circostanze non imputabili al medico, vuoi ancora perché le circostanze in
cui si è formata la volontà del paziente sono successivamente mutate al punto da
renderla inattuale e quindi inefficace, il dissenso preventivamente espresso è superabile
ed il trattamento potrà legittimamente essere praticato74.
Se infine il paziente è in stato di incoscienza e non ha precedentemente espresso
alcun dissenso all’intervento che, nella contingenza, appare indifferibile, alla luce
dell’art. 8 della Convenzione di Oviedo, secondo il quale in caso di urgenza che renda
impossibile ottenere un “consenso appropriato”, si può “procedere immediatamente a
qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona
interessata”, risultano pacifiche la liceità e la doverosità dell’intervento medico, proprio
per la posizione di garanzia del professionista nei confronti del paziente accettato nel
nosocomio in stato di incoscienza75, anche in considerazione – con specifico riferimento
al trattamento trasfusionale – di quanto disposto dall’art. 4 del DM 1/9/1995, che
prevede la possibilità, in caso di imminente pericolo di vita del paziente, di effettuare la
trasfusione anche “senza” (ma non “contro”, donde la non applicabilità di tale
previsione alle fattispecie precedentemente menzionate) la volontà del paziente.
Resta da analizzare, nel quadro interpretativo così delineato, la qualificazione
penalistica di un intervento eseguito contra voluntatem.
In linea generale, nel caso in cui il medico effettui il trattamento
emotrasfusionale nei confronti di un paziente in condizioni di incoscienza e che aveva
espresso, fino a pochi momenti prima della perdita di coscienza, uno specifico e fermo
dissenso (è il caso, tutt’altro che infrequente, come dimostra anche la vicenda
tratteggiata in apertura, che si verifica quando i sanitari “approfittano” dell’intervenuta
incoscienza per mettere in atto il trattamento non voluto), la fattispecie di reato che pare
immediatamente realizzata è quella di violenza privata, anche se nella dottrina giuridica
l’applicabilità di tale fattispecie al caso in questione viene considerata assai dubbia,
soprattutto se accompagnata dalla convinzione erronea della non validità del precedente
dissenso76.
Se invece l’intervento medico avviene in violazione di una manifestazione
anticipata di volontà che il paziente non ha potuto confermare in termini specifici e di
ragionevole attualità, stante in questo caso la difficoltà o l’impossibilità di constatare,
nel momento in cui il trattamento si rende indispensabile, l’effettiva esistenza di un
interesse personale a non ricevere quel determinato trattamento, non pare applicabile la
73
Santosuosso A. Road map dei diritti inalienabili di ogni individuo malato, op. cit.
Santosuosso A, Fiecconi F. Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, op. cit.
75
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op. cit.
76
Vallini A. Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, op. cit.
74
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fattispecie di cui all’art. 610 c.p.: “se l’interesse a non essere curato era reale ed attuale,
ed il medico è egualmente intervenuto, nella ferma convinzione che in realtà tale
interesse mancasse, egli non potrà rispondere di (un’eventuale) violenza privata (o di
quant’altro) per mancanza di dolo, fosse pure quella sua convinzione colposa, in quanto
non supportata da un’adeguata valutazione di tutti gli elementi del caso concreto per lui
comunque evidenti o agevolmente verificabili (resterà ferma, in tal caso, una possibile
responsabilità civile); a meno che egli non abbia accettato il rischio di sottoporre il
paziente ad un intervento a lui senz’altro sgradito (dolo eventuale). Se, viceversa, il
paziente è stato abbandonato alla morte, oppure non è possibile ritenere, col ‘senno di
poi’, che egli avesse un interesse attuale a non essere curato, il medico potrà rispondere
d’omicidio (per omissione): volontario, se aveva preso in considerazione, senza
escluderla, l’ipotesi di una inattualità del consenso; oppure colposo, se era da lui
esigibile, nelle contingenze date, un accertamento più attento circa l’effettiva
consensualità del trattamento”77.
In conclusione, di fronte al paziente Testimone di Geova che rifiuta il
trattamento trasfusionale il professionista non trova, nel momento in cui si impone la
scelta tra rispetto della volontà della persona assistita e tutela del bene vita, univoche e
chiare indicazioni comportamentali.
L’orientamento della giurisprudenza, in mancanza nel nostro ordinamento di una
specifica disciplina penalistica dell’attività medico-chirurgica, in particolare della regola
del consenso e delle conseguenze penali di una sua violazione, è inevitabilmente
caratterizzato dal ricorso a fattispecie di reato datate e parzialmente inadeguate alla
realtà sanitaria attuale, sia che si privilegi l’autodeterminazione del paziente sia che si
enfatizzi la scriminante dello stato di necessità.
Ferma restando l’opportunità di un approccio individualizzato, che rifugga da
facili generalizzazioni, tali per cui il paziente che rifiuta la terapia trasfusionale finisce
con il perdere la propria specificità di persona per essere incluso in una astratta
“categoria”78, e ferma restando l’importanza di un dialogo costante tra il personale
sanitario ed il paziente, che consenta, attraverso lo strumento dell’informazione, di
valutare e di programmare in anticipo, nei limiti del possibile, i futuri sviluppi del
trattamento79, la soluzione del dilemma non può essere lasciata – per l’ampiezza delle
implicazioni medico legali ed etico-deontologiche e per la gravità delle conseguenze sul
piano della responsabilità giuridicamente rilevante – né ad interpretazioni personali e
talvolta forzate delle norme in materia né ricadere interamente sul medico, ma richiede
una revisione del quadro normativo, che recepisca in termini chiari ed univoci le
indicazioni che provengono dalla Convenzione di Oviedo e che fissi in modo altrettanto
chiaro ed univoco, in linea con quanto prescritto dal codice deontologico, potestà e
limiti dell’intervento medico.
77
Vallini P. Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più
recente giurisprudenza, op. cit.
78
Muramoto O. Bioethical aspects of the recent changes in the policy of refusal of blood by Jehovah’s
Witnesses. BMJ 2001;322:37–9.
79
Rogers DM, Crookston KP. The approach to the patient who refuses blood transfusion. Transfusion
2006;46:1471–7.
19
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RIASSUNTO
Prendendo spunto da una recente vicenda giudiziaria, gli Autori analizzano la
questione del rifiuto di trasfusione ematica salvavita da parte del paziente Testimone di
Geova.
Vengono quindi delineati i principali orientamenti in materia della
giurisprudenza e vengono analizzate le indicazioni del codice deontologico, in
riferimento in particolare all’ambito di operatività dello stato di necessità e
all’interpretazione che nella pratica clinica deve essere data al requisito dell’attualità del
consenso.
Viene infine auspicata una revisione del quadro normativo, che recepisca le
indicazioni che provengono dalla Convenzione di Oviedo e che fissi in modo chiaro ed
univoco potestà e limiti dell’intervento medico, evitando il ricorso a fattispecie di reato
datate e parzialmente inadeguate alla realtà sanitaria attuale.
ABSTRACT
Medico-legal and legal issues of life-saving blood transfusion refusal by
Jehovah’s Witnesses are analyzed.
Courts’ rulings and Deontological Code norms on this matter are discussed, with
special regard to emergency situations, informed consent evidence and previously
expressed wishes.
Law reform is finally auspicated, in order to reconcile Criminal Code dictates
with the Oviedo Convention on Human Rights and Biomedicine and to clearly set limits
to medical intervention.
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