Il paziente ha un sanguinamento gastrointestinale maggiore e

CHE FARE SE...
Il paziente ha un sanguinamento
gastrointestinale maggiore e non presta
consenso alla terapia trasfusionale?
Gianfranco IADECOLA
LA RESPONSABILITÀ
PROFESSIONALE DEL MEDICO
Appunti sui principi generali in tema di colpa,
di colpa in équipe e di causalità
La Commissione Medico Legale della SIED
continua a lavorare ai temi di interesse generale
per i nostri Soci. In continuità con i due preziosi
contributi apparsi negli scorsi numeri del GIED,
abbiamo ricevuto dal dr. Gianfranco Iadecola, ex
Giudice di Cassazione, attualmente avvocato impegnato sui temi della responsabilità professionale
a difesa del medico, ormai storico consulente della
Commissione, un’interessante e lucida disquisizione sulle implicazioni legali di un eventuale rifiuto
del paziente (ad es. per motivi etico-religiosi) a sottoporsi alla trasfusione di sangue in caso di emorragia gastro-intestinale. Proponiamo tali riflessioni
all’attenzione di tutti i Soci e dei lettori del GIED,
certi della loro validità nella pratica quotidiana.
Antonio Pisani
Consigliere Coordinatore
Commissione Medico Legale/Tutela dei Soci
LA QUESTIONE
Il quesito involge chiaramente il tema generale
del consenso del paziente al trattamento medico,
riguardando, all’interno di esso, il profilo specifico degli spazi di rilevanza (e di vincolatività) della
volontà del malato rispetto alle scelte che il medico ritiene di dover operare a tutela della sua salute.
Nel caso proposto, il sanitario si trova di fronte ad
una negazione del consenso da parte del paziente,
cui ha preventivamente prospettato la necessità di
una terapia trasfusionale in presenza di un forte
sanguinamento gastrointestinale, tale da determinare una situazione di rischio per la stessa vita.
LA RILEVANZA DEL CONSENSO
Costituisce ormai principio giuridico e deontologico - notorio ed indiscusso - che il medico, prima di avviare qualsiasi attività, dalla più semplice
alla più complessa, sul corpo del paziente, debba munirsi del consenso di quest’ultimo (per lo
meno nei contesti in cui il paziente medesimo sia
maggiorenne e capace di intendere e di volere),
essendo il consenso considerato un presupposto
di legittimità del trattamento sanitario.
È anche risaputo che nel nostro ordinamento
giuridico manchi una regolamentazione generale,
articolata e compiuta, della regola del consenso,
il che ha implicato (e continua ad implicare), fatalmente, margini di soggettività e di controvertibilità nelle soluzioni interpretative delle problematiche che la prassi ha posto all’attenzione della
dottrina e della giurisprudenza (ad esempio, sui
requisiti di validità del consenso, età per consentire, forma ed attualità del consenso, la quantità
di informazione necessaria, ecc., e sull’integrare
-o meno, e quale- reato la violazione consapevole
della regola del consenso da parte del medico).
Il caso proposto che emblematizza le difficoltà interpretative connesse alla mancanza di una disciplina normativa del consenso del paziente- evoca
una delle situazioni più delicate e difficili sia per il
medico che per l’operatore giudiziario, ossia quella in cui il paziente rifiuta (consapevolmente e volontariamente) le cure indispensabili per salvarlo
dalla morte.
La domanda è se, in tale ipotesi, debba essere la
volontà del malato a dettare al medico il comportamento da seguire (per cui questi debba astenersi
dal procedere all’atto, pur necessario quoad vitam), ovvero se debba prevalere la cd. posizione
di garanzia del medico, non vincolato dal rifiuto
del paziente per essere tale diniego sprovvisto di
GIORNALE ITALIANO DI ENDOSCOPIA DIGESTIVA ∙ SETTEMBRE 2016
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protezione giuridica, implicando un atto di disposizione del bene della vita che è bene viceversa
indisponibile, anche da parte di chi ne sia titolare.
LA SOLUZIONE, ALLO STATO
La questione del quesito ripropone il caso “di
scuola” e, per così dire, tradizionale, del rifiuto
della trasfusione di sangue “salvavita” da parte del
testimone di Geova, ma evoca anche vicende più
recenti ed ancora vive nella memoria dell’opinione pubblica, come il rifiuto della prosecuzione
delle cure (intese in senso lato) nei casi Welby ed
Englaro (in quest’ultimo la volontà “negativa” era
espressa dal rappresentante legale).
Le indicazioni univoche che provengono dalla
giurisprudenza di merito e dalla stessa Corte di
Cassazione (in particolare dalle decisioni relative
ai due casi appena citati, ma non solo) sono nel
senso che, pure in tali situazioni estreme (di rischio di vita), il sanitario non possa prescindere
dalla volontà manifestata dalla persona assistita (anche se dal rispetto di tale volontà possa derivare, per effetto della astensione dalla prosecuzione delle cure, la morte del malato), in quanto
proiezione del diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica, fondato sull’art. 32,
2° comma della Costituzione.
I giudici hanno individuato le condizioni di “contesto” che vincolano il medico alla desistenza dalla
prestazione diagnostico-terapeutica in siffatte situazioni: anzitutto il paziente deve essere maggiorenne (in caso di minore, gli interlocutori del medico saranno gli esercenti la potestà genitoriale;
in tale ipotesi, però, il medico non sarà vincolato
dall’eventuale rifiuto di cure dei rappresentanti
legali, dovendo egli salvaguardare il bene più elevato che viene a rischio, ossia quello della salute
del paziente) e capace di intendere e di volere; il
rifiuto che vincola il sanitario è unicamente quello
che proviene dal paziente che abbia preventivamente ricevuto adeguata e completa informazione da parte del medico circa le implicazioni
pregiudizievoli connesse alla mancata prestazione
delle cure ritenute necessarie.
Può aggiungersi che neppure apparrebbe conforme alla vocazione assistenziale del medico che
questi svolga, rispetto al dissenso del malato (che
egli avrà cura di documentare in forma scritta
e sottoscritta, alla pari dell’opera informativa
svolta), il compito meramente notarile di registrarlo; la definitività dell’atto dispositivo della
propria vita che si compie mediante il rifiuto, do-
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vrebbe in ogni caso indurre il medico ad un’opera
sobria di sollecitazione e convincimento a curarsi
(con modalità tali, però, da non diventare inammissibile prevaricazione della volontà consapevole
che il malato stia esprimendo).
Bibliografia
1. Cass., Sezione 1^ civile, 16.10.2007, Englaro;
2. Cass., Sezioni Unite, 18.12.2008, Giulini;
3. Emotrasfusione nonostante il dissenso del paziente testimone di Geova: assolti i medici per errore
inevitabile sulla legge penale, Tribunale di Torino,
Sezione GIP, ord. 15.1.2013, in Diritto Penale
Contemporaneo n.1/2013.
CORRISPONDENZA
Avv. GIANFRANCO IADECOLA
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Tel. 339.3340781 - 0861.250628
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