Legrenzi Paolo, Credere, Il Mulino, Bologna 2008

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Legrenzi Paolo, Credere, Il Mulino, Bologna 2008.
Recensione di Katia Basili
Dottorato in Scienze della Cognizione e della Formazione, Cà Foscari Università, Venezia,
Dipartimento di Filosofia e Teoria della Scienza – Centro di Eccellenza per la Ricerca
l'Innovazione e la Formazione Avanzata ([email protected])
Abstract
L’autostima è quando crediamo in noi stessi; la fiducia è invece credere negli altri; credere
nelle cose positive è detto ottimismo; la fede è credere in Dio, mentre sperare significa
credere che si avveri ciò che abbiamo immaginato. La nostra vita è profondamente segnata
da ciò in cui crediamo e dal come crediamo. Le nostre scelte spesso non sono dettate da
conoscenze precise ma si basano su stime di probabilità o forme di fiducia: ciò in cui
crediamo, appunto.
Cosa succede nella testa della gente quando è impaurita per il crollo delle Borse? Perchè le
fa effettivamente crollare decidendo di vendere a qualsiasi prezzo le proprie azioni? Se il
vostro capo dice «credo in te» è solo perché si aspetta che facciate quello che vi ha appena
ordinato? Chi gioca al lotto crede di avere i numeri giusti? Chi credeva di farcela è un
fallito? In che modo le opinioni su noi stessi e sulla realtà che ci circonda possono
influenzare la nostra vita? Le aspettative individuali generano emozioni legate a paure o
speranze anche collettive.
L'autore, docente di psicologia cognitiva presso l’Università di Venezia, ci spiega i
meccanismi del credere in tutte le sue forme, individuali e collettive, fino a definire quella
patologica del supercredere dei fanatici, o del sottocredere tipica degli scettici. Un viaggio
all’interno della mente umana per sfatare alcune teorie di psicologia ingenua ed evitare di
essere succubi degli schematismi sociali, delle idee preconcette e dei pregiudizi.
Recensione
Possiamo facilmente immaginare che gli uomini primitivi abbiano vissuto, giocoforza, in
un mondo di cui conoscevano a stento alcuni limitati “fenomeni”, cioè verità apparenti. Fra
queste, per esempio, anche il nesso di causa ed effetto della propria nascita, da cui sembra
derivi l’antica forma del matriarcato. Probabilmente i nostri antenati potevano contare su
pochissime verità oggettive, sicuramente su quelle fornite da statistiche elementari
(giorno/notte; stagioni). Proprio per questo non bisogna dimenticare che il nostro istinto
cognitivo, che qui mi permetto di chiamare “mentalità”, è erede dei lunghi millenni di
queste limitanti esperienze.
Nel corso del tempo le “scoperte” scientifiche hanno parzialmente modificato e ampliato
quelle conoscenze “primitive”. Anche se ai nostri occhi il processo evolutivo delle
conoscenze scientifiche è avvenuto con notevole velocità, è possibile, guardando indietro,
sorridere delle limitate conoscenze disponibili solo un secolo fa. Conoscenze non solo
tecnologiche (e.g.: onde radio; motore endotermico; volo) ma anche fisiologiche, quindi
addirittura relative al funzionamento di noi stessi, (microbiologia; DNA). Nonostante ciò
ancora oggi milioni di individui muoiono per malattie di cui non si conoscono
completamente origine e decorso (Aids; tumori) o per motivi naturali che non hanno
origini scientificamente determinabili (terremoti; maremoti; uragani). Moltissime altre
persone pur consapevoli del rischio a cui si stanno esponendo vengono coinvolte ogni
giorno in incidenti d’auto.
Ancora oggi le nostre conoscenze, pur così vaste rispetto al passato, sembrano essere
sempre limitate rispetto alla quotidiana impellenza di dover prendere delle decisioni
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importanti per la nostra sopravvivenza. Si pensi ai problemi causati a molte persone dal
recente crollo delle borse o al problema della collocazione dei risparmi e della creazione di
un fondo pensione personale. Nella lunga vita dell’uomo le decisioni più importanti hanno
raramente tratto fondamento da incontrovertibili “conoscenze” scientifiche, mentre nella
maggior parte dei casi sono derivate da “quasi certezze”, cioè da semplici ipotesi credibili.
Fra queste sono stati storicamente privilegiati i fenomeni ricorrenti e in generale gli
atteggiamenti condivisi. L’uomo in assenza di certezze è solito accettare comportamenti
“fiduciari”, ancor più se condivisi socialmente: crede volentieri in ciò in cui credono anche
gli altri.
Penso che storicamente l’immobilità, cioè l’assenza di scelte, sia risultata un’esperienza
più disastrosa rispetto ad una scelta sbagliata o solo inadeguata. Per questa ragione deduco
che il politico, sia esso basileus, demagogo o tiranno, abbia rivestito nella cultura
occidentale una particolare importanza sociale determinata proprio dal suo ruolo di
“operatore di scelte”. Oggi tale incombenza sembra destinata al manager, figura mediata
dal mondo della produzione industriale, della quale si apprezzano soprattutto l’ipotetica
efficienza economica e la pretesa estraneità da preconcetti ideologici.
Legrenzi inizia il suo brillante saggio dedicato appunto al “Credere” con l’incredibile
descrizione della caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989. Per una serie involontaria
di errori di interpretazione causati da un giornalista italiano venne attribuita a Günter
Schabowski, membro del Politburo, l’intenzione di voler aprire i confini della Germania
Est come era già stato deciso precedentemente da Ungheria e Cecoslovacchia. Tutti vollero
credere ad una notizia inesistente ma tanto attesa, sia i media mondiali che gli abitanti di
Berlino Ovest, tanto che i Vopos, increduli, non osarono sparare sulla folla festante che
occupava i loro posti di blocco.
L’autore è un esperto di psicologia cognitiva, e il suo testo, ricco di approfondimenti
culturali, di incursioni nel nostro quotidiano e di esemplificazioni pratiche, ci chiarisce
subito che “il mondo si fermerebbe se fosse infestato da dubbi sistematici su ogni aspetto
della nostra vita quotidiana, se ci costringessimo a credere solo le cose che possiamo
conoscere in modo scientifico”. Credere è dunque qualcosa in meno di conoscere, indica
quel che non sappiamo per certo, ma è anche qualcosa di più: paradossalmente può
garantire una forma di conoscenza “più che certa”, può persino andare aldilà dei fatti e
sconfinare nella fede. Il primo atteggiamento che dobbiamo modificare è dunque quello
relativo alla limitatezza del pensiero basato sul “credere”, sia esso religioso che laico, e di
conseguenza alla presunta larga diffusione del pensiero scientifico.
Va subito precisato che l’articolazione e differenziazione degli argomenti, il continuo
ricorso dell’autore ad approfondimenti sperimentali e il necessario rimando a
esemplificazioni, visto il carattere della collana nella quale il libro è inserito, rendono
particolarmente discontinua la presente recensione.
L’autore, attraverso una serie mirata di esempi, dimostra la pervasiva presenza di
atteggiamenti “fideistici” nella struttura del nostro pensiero. Storicamente il primo
riferimento dell’uomo per dotare di senso un mondo altrimenti governato dal caos è stato
quello di attribuire ad entità sovra sensoriali (non conoscibili) gli eventi naturali favorevoli
o sfavorevoli. Il sistema mitologico classico in cui le divinità sono suddivise per campi
d’azione, che rappresentano le diverse forze naturali, è la tangibile dimostrazione di questo
atteggiamento. Inoltre il complesso delle nostre “credenze” costituisce spesso ai nostri
occhi delle vere conoscenze, mentre a nostro giudizio quelle altrui appaiono comunque
delle semplici credenze. Il credere non serve a spiegare oggettivamente quel che
osserviamo, ma ad organizzare in modo coerente le nostre molteplici osservazioni.
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Come si è giunti allo studio del “credere”? Il pensiero classico greco ha sottilmente diviso
la dòxa (opinione) dalla verità (alethèia): ha sempre distinto cioè il credere e il supporre
dal conoscere. Tuttavia tale distinzione non si riferiva al credere della fede contrapposto
alla conoscenza scientifica. La dòxa è costituita da ciò che non ha riscontro oggettivo, è
opinione e in quanto tale può essere vera o falsa. Alethèia costituisce invece qualcosa di
incontrovertibile, di accaduto, quindi di certo. Dòxa è il possibile, il futuribile; alethèia è il
perfetto (per-ficere), cioè l’esistente. Alla certezza del passato i greci contrappongono
correttamente l’incertezza del futuro.
Il credere sembra affrontato con pari decisione dai latini che proprio su questa ambiguità
sacrificano il verbo videre, che non corrisponde solo all’italiano vedere; infatti attraverso
la forma passiva del verbo essi esprimono ciò che non è veramente visto, ma ciò che può
apparire in senso lato (mihi videtur: a me sembra …). Il termine inglese belief (credere)
mantiene ancora oggi il significato e l’ambiguità della dòxa greca e comprende sia
l’impressione di certezza che l’opinione di cui ti senti sicuro. La modulazione del pensiero
laico in inglese sfuma il “credere” fino allo “sperare”: I belive… It’s my opinion… I
think… I hope… Quando invece il “credere” diventa religioso, esprime una fede, il verbo si
trasforma: In God We Trust, recita ogni dollaro statunitense.
Le fedi religiose sembrano basarsi sostanzialmente su credenze condivise. Il credo quia
absurdum dei Padri della Chiesa ne è testimonianza, come pure la divisione fra nestoriani,
monofisiti, ariani e ortodossi, rispetto ai cattolici, che caratterizzò la fede cristiana dei
primi secoli. Che cosa induce l’uomo a credere? Probabilmente le cosiddette esperienze
pre-religiose. Malattie, disgrazie personali o collettive, inducono l’uomo ad atteggiamenti
di fede, così come la percezione dello scorrere del tempo. Sembra infatti che il nostro
ineluttabile invecchiamento sia alla base della “tragedia della cognizione”, cioè la
consapevolezza della morte. Si tratta di un particolare fenomeno di autocoscienza che
l’uomo non condivide con nessun altro attore del regno animale. Secondo l’etologo Danilo
Mainardi “è stata proprio l’elevata razionalità a innescare, con la paura della propria
morte, la necessità dell’irrazionale. (…) Anche se la tendenza a credere (e di conseguenza
ubbidire) senza pretendere verifiche verosimilmente era comparsa molto prima, nella
nostra ed in altre specie sociali, quando si rese necessario coordinare e sincronizzare
attività collettive”.
Il tentativo di Epicuro, condiviso da Lucrezio, di evitare la “tragedia della cognizione”
attraverso una razionale visione atarassica della vita non ha avuto grande seguito, travolto
proprio da quella stessa emozionalità umana che voleva superare.
“C’è un uso della parola ragione per il quale essa è opposta a fede; e sebbene questo sia,
in sé, un modo improprio di parlare, l’uso comune lo ha tanto autorizzato che sarebbe
folle opporvisi o sperare di rimediarvi”. Così John Locke scriveva nel “Saggio
sull’intelletto umano” (1690) aggiungendo: “Penso solo che non si può fare a meno di
notare che la fede, per quanto sia opposta alla ragione, non è che un fermo assenso dello
spirito che, se regolato come si deve, può essere concesso solo per una buona ragione e
perciò non può essere opposta alla ragione”. Legrenzi nota che nel periodo in cui si
afferma il primato della Ragione anche la fede deve assumere le sue buone ragioni, in
assenza delle quali può essere relegata solo alla sfera individuale. Nel frattempo si
precisano, grazie anche a Galileo, i criteri che consentono al “metodo” scientifico di
sostenere la ragione:
1) annotazioni documentate o derivate da fonti storiche;
2) metodo analitico e razionale, cioè secondo il principio di non contraddizione;
3) nascita della forma di simulazione scientifica: l’esperimento e le sue norme.
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In questo modo la ragione precisa e scardina l’incertezza, oltre la quale può sussistere solo
il libero arbitrio della fede. La fede perciò, in quanto relegata a scelta individuale, vede il
suo confine con la superstizione sempre più e labile e indefinito. Nell’Ottocento si scopre
che la contrapposizione fra credenze personali e saperi scientifici è un’evidente
semplificazione del reale funzionamento della mente umana. La nascita delle scienze
cognitive permette di indagare proficuamente il territorio inesplorato dei saperi ingenui, e
dimostra empiricamente che le persone stimano, per esempio, le loro incertezze ben
inferiori a quanto effettivamente conoscono. In altre parole vi è una costante
predisposizione a supercredere (in inglese: overconfidence) sia del singolo che delle
comunità. Lo dimostra l’esempio fornito dallo psicologo Denis Hilton che ha raccolto le
previsioni di cambio dollaro/sterlina tra il 1981 e il 1995 suggerite dai 40 maggiori esperti
della City di Londra. Le previsioni degli “esperti”, tenuto conto anche delle ampie
“forchette” suggerite, hanno dimostrato una tale scarsa aderenza con la realtà futura, da
ritenere che una valutazione casuale avrebbe avuto esiti migliori.
L’esempio risulta assai destabilizzante per chi avesse affidato i propri risparmi ad un
analista finanziario. Dimostra inoltre che normalmente non solo le nostre scelte sono
deformate da atteggiamenti precostituiti, non analitici e assolutamente privi di scientificità,
ma anche quelle di operatori professionali. Secondo indagini psicologiche solo le persone
depresse sono sistematicamente meno overconfident delle persone normali: una
riqualificazione della figura omerica di Cassandra su basi scientifiche. Dopo aver chiarito
che l’overconfidence non corrisponde con l’ottimismo, l’autore spiega chiaramente il
fenomeno detto della “saggezza delle folle” descritto già agli inizi del XX secolo da
Francis Galton, psicologo e fondatore della scienza statistica. Secondo dati sperimentali è
possibile dimostrare che la media degli errori individuali riduce drasticamente l’errore
collettivo. L’autore spiega che si tratta di un fenomeno apparentemente contro-intuitivo:
raramente cioè un individuo potrà superare la media collettiva.
Rimane allora da chiedersi come mai, nell’esempio di Hilton prima riportato, anche la
media delle indicazioni relative alle previsioni di cambio $/£ fornite dai 40 esperti siano
risultate completamente diverse dalla realtà? E questo per quindici anni. Perché in questo
caso la folla non è stata saggia? Più precisamente: che cosa succede se nell’esempio
riportato nel testo a pag. 59 le risposte delle forchette dei singoli, per motivi diversi,
risultassero uguali (entrambe con forchetta 3.300-3.700 oppure 3.800-4.200)? La loro
media sarà comunque (relativamente) imbattibile dai singoli, ma il loro risultato non sarà
certo saggio!
Storicamente sappiamo che la nascita delle prime forme di assicurazione marittima è
potuta avvenire proprio a Venezia solo grazie alla sostituzione del concetto di casualità con
una serie cronologica di dati e la reciproca disponibilità a suddividere i relativi rischi in
“carature” del naviglio (F. Lane, Storia di Venezia). Al contrario in caso di eventi nuovi,
difficilmente ripetibili o dipendenti da aspettative e credenze altrui, non è certo possibile
trasformare le credenze in conoscenze.
Le scienze cognitive hanno evidenziato che pensare non è contrario a credere come da
tempo sostenuto dalle teorie “scientiste”. Il pensiero moderno tende anzi a recuperare la
funzione sociale, economica e psicologica del credere, in particolare quello religioso,
anche in funzione antitetica al fanatismo dei terroristi integralisti.
Fra le credenze irrazionali l’autore mette in evidenza l’importanza dell’effetto placebo al
quale dedica una serie di riscontri oggettivi legati al mondo della medicina in cui per la
prima volta questo fenomeno è stato notato. Il rigoroso controllo scientifico della
somministrazione dei farmaci ha dimostrato che la valutazione dei vantaggi clinici presenta
difficoltà logiche o comunque campi in cui è difficile la determinazione delle credenze.
L’autore nota che analoghe difficoltà si possono incontrare nella determinazione delle
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politiche di supporto alla popolazione povera. In questo caso i modelli culturali, opposti fra
Europa e Nord America, determinano anche l’approccio ai diversi modelli di welfare in
assenza di regole economiche univoche.
Procedendo nell’analisi del possibile uso del credere Legrenzi sottolinea come l’uomo
risulti “mentalmente pigro” nel senso che difficilmente tende a cambiare il proprio quadro
di riferimento fiduciario. Egli afferma che: “L’esame dei fatti, e delle teorie che li
spiegano, generano dubbi solo in chi appartiene a comunità scientifiche o in chi fa il
detective di mestiere”.
A questa pigrizia endemica l’uomo ha contrapposto, per sua fortuna, l’uso del pettegolezzo
inteso come dialogo sulle differenze, apertura mentale nei confronti delle credenze altrui.
L’autore sostiene che il “grande salto” nell’evoluzione umana sia avvenuto “non innescato
da maggiori capacità di comprensione del mondo esterno, ma dallo sviluppo di quelle
capacità che incontriamo nel pettegolezzo. Il pettegolezzo e la sua controparte più nobile
che è la conversazione, sono pratiche antiche e consolidate. Il pettegolezzo si nutre delle
differenze”. Non è necessario spiegare le cose in cui crediamo e che condividiamo con gli
altri, ma le differenze tra le persone, così come avviene nel pettegolezzo che si nutre di
storie individuali e delle differenze delle caratteristiche personali. Ironicamente l’autore
contrappone al mondo della precisione scientifica, rigoroso e noioso, la persistenza
dell’universo del pettegolezzo, oggi divenuto alimento fondamentale dell’intrattenimento
televisivo attraverso i talk show e i reality show, versioni aggiornate proprio dell’antico
pettegolezzo.
Dovendo indagare le credenze condivise (il “credere che”), è importante interessarci ai
rapporti di fiducia (il “credere in”) che necessariamente si instaurano nella nostra vita
sociale, sia negli affetti che nel lavoro. Nei rapporti di lavoro avere l’intuito giusto è
considerata una prerogativa vincente, ma questo è legato all’effettiva capacità di
valutazione più che alla fortuna, come molti pensano. Si tratta cioè di dare fiducia (di
credere) ad una serie limitata di informazioni, su persone o cose, riuscendo a organizzarle
correttamente in funzione delle proprie azioni. In questi casi l’intuito consiste nel sapersi
concentrare su quello che la nostra esperienza ha distillato come essenziale. Il “credere in”
implica anche il credere in se stessi che spesso però è alterato dal fenomeno del supercredere: un atteggiamento per cui la maggior parte delle persone tende a sottovalutare le
difficoltà e a sopravalutare le proprie potenzialità. Spesso infatti gli inesperti concentrano
l’attenzione su dettagli superficiali o danno troppa importanza alle prime impressioni: in
questo modo si procede sulla base di pre-giudizi. Secondo l’esperienza dell’autore il
miglior venditore non è chi sa prevaricare il proprio interlocutore ma colui che sa ascoltare
e comprendere gli altri: “nessuno crede agli altri, in tutti i sensi, più di un buon venditore,
e nessuno è più creduto di lui”. In pratica i buoni venditori possiedono una buona stima di
sé, ma soprattutto non hanno pregiudizi nei confronti degli altri.
Lo psicologo Samuel Gosling, dell’Università del Texas, ha condotto uno studio
sperimentale per la valutazione di un gruppo di studenti. I loro amici hanno prodotto dei
test meno accurati di quanto non abbia fatto un gruppo di estranei, che avevano svolto la
loro valutazione solo sulla base di una visita nelle loro stanze d’abitazione. In questo caso
sembra che la stima sia alterata a causa del pregiudizio amicale. Tuttavia secondo me in
questo esperimento non è stato utilizzato il principio di falsificazione che solo può
garantire la correttezza scientifica dell’esperimento. Sarebbe quindi più esatto dire che
Gosling crede di aver individuato delle differenze fra i due gruppi di valutazione.
Secondo il premio Nobel per l’economia Vernon Smith, alcuni esperimenti di teoria dei
giochi mostrano che le persone che tendono ad avere fiducia negli altri riescono anche a
darne e ottenerne di più. Nel caso di gruppi bisogna distinguere tra la fiducia interna al
gruppo (bonding) e quella che “fa da ponte” fra i gruppi (bridging). L’autore dichiara però
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che: “il problema teorico delle diverse forme collettive di fiducia non è stato ancora
risolto dagli studiosi”.
Credere negli altri e in noi stessi è un’attività cognitiva intrecciata con le emozioni e non
può avviarsi attraverso un processo solo razionale. Per apparire credibili, e quindi essere
creduti, è necessario essere capaci di attivare negli altri “false credenze” sulle proprie
intenzioni, facendo interagire le emozioni. In primo luogo è necessario coltivare la capacità
personale di differenziare per esempio un’arrabbiatura spontanea e la simulazione
“naturale” di un’emozione. In altri termini aver capacità di essere spontanei, o meglio
ancora, di apparire naturali. Come ogni buon politico sa il modo più efficace per essere
credibili è quello di controllare le proprie emozioni.
L’autore fornisce quindi uno schema dettagliato delle operazioni mentali derivate dal
metodo introspettivo formulato da Francis Dalton già nel 1879, basato sull’associazione
volutamente ripetuta di parole, immagini ed emozioni. Su questa scorta l’autore ci informa
che: “È l’incertezza, propria delle credenze, che crea contesti che attivano emozioni. Esse
infatti accompagnano tutti i nostri programmi d’azione. Le emozioni negative segnalano
che le cose non vanno bene e bisogna cercare altre strade”.
Esistono infine delle vere e proprie patologie del credere alle quali l’autore ci introduce
attraverso la descrizione del famigerato massacro di un villaggio polacco avvenuto nel
1942 per opera di truppe tedesche. Il comandante Trapp spiegò chiaramente al battaglione
di riservisti, formato da poliziotti di Amburgo, che si sarebbe trattato di una esecuzione in
massa dei circa 1800 abitanti. Aggiunse che chi dissentiva poteva lasciare i ranghi senza
punizione. Su 500 uomini solo 12 decisero di non partecipare all’azione. Come mai dei
poliziotti accettarono di diventare dei criminali? La soluzione sembra implicita nel
comportamento umano per cui anche le circostanze rivestono un ruolo importante nelle
decisioni: non è bene uscire dai ranghi. Proprio in relazione a tale fenomeno
comportamentale si è dimostrato tecnicamente importante fissare la “regola definita”
(default rule). In quel caso sarebbe stato sufficiente, invertendo la procedura, far uscire dai
ranghi coloro che volevano aderire all’azione. Il risultato sarebbe stato inverso, anche se
probabilmente non nella stessa proporzione.
Questo stesso comportamento sociale è dimostrato nel caso di donatori di organi: nel 2003
solo il 12% dei tedeschi e il 17% degli inglesi erano donatori consenzienti, a fronte del
99,9% dei francesi e al 99,8% degli austriaci. La diversa disponibilità è determinata dal
fatto che i primi devono scegliere di donare gli organi, i secondi invece devono scegliere di
non donarli (default rule inverso). Ciò dimostra che non sempre le nostre azioni sono
mosse dalle credenze, e che un ruolo importante nelle azioni collettive è giocato dalle
circostanze, cioè dall’atteggiamento fiduciario già visto all’inizio, per cui: ognuno crede
volentieri in ciò in cui credono anche gli altri. Uno straordinario esempio a supporto di tali
comportamenti sociali è fornito dalle surreali vicende descritte nel film “Pleasantville” di
G. Ross del 1998.
Fra le situazioni patologiche legate al “super-credere” Legrenzi ricorda la vicenda di
Giorgio Perlasca, che dopo essere stato volontario in Spagna per Franco, salvò migliaia di
ebrei a Budapest nel 1944 inventandosi il ruolo di console spagnolo. A chi chiedeva
ragione di un simile comportamento tanto rischioso rispose: “Credo che chiunque al mio
posto avrebbe fatto così”. Molto umilmente, ma erroneamente, Perlasca ci induce a credere
che le “circostanze” avrebbero indotto ognuno di noi a compiere le sue stesse scelte. Una
conferma indiretta di tali comportamenti “sociali” è stata creata dallo psicologo americano
George Zimbardo, attraverso un esperimento di guardie e prigionieri ben presto degenerato
dalla finzione alla più cupa realtà. Questa degenerazione comportamentale è stata definita
da Zimbardo “effetto Lucifero” in occasione della difesa di un militare americano accusato
di vessazioni nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Questo stesso tema è stato affrontato in
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modo magistrale da William Golding, nel romanzo “Il signore delle mosche” (titolo
originale Lord of the Flies). L’opera scritta nel 1952 e pubblicata nel 1954, considerata un
capolavoro della letteratura inglese, descrive le vicende di un gruppo di ragazzi, reduci da
un incidente aereo in un’isola disabitata, che passano dalla primitiva innocenza
adolescenziale a comportamenti di inaudita ferocia sociale.
Fra gli “istinti ereditari” che a livello biologico guidano i nostri comportamenti, di grande
importanza è certamente l’istinto all’obbedienza. Tra coloro che “super-credono” ci sono
evidentemente i fanatici: persone disposte alla morte per la causa in cui credono. Il
terrorismo si alimenta in larga misura di individui resi insensibili alle ragioni degli altri
attraverso un processo che trasforma i pregiudizi in post-giudizi e quindi in “fatti
incontestabili”. Avviene cioè quello che si definisce indottrinamento, o spregiativamente
“lavaggio mentale”, spesso attuato in nome di un credo religioso.
A tale proposito trovo curioso quanto l’autore afferma a pag. 112: “Questo è anche il caso
del terrorismo basco e irlandese. Gli esperti, come Zion Evreny, ambasciatore israeliano
in Irlanda, hanno individuato proprio nel sottofondo religioso, presente in Hamas e
assente nell’Ira, ciò che rende i due contesti non confrontabili”. Mi sembra di ricordare
che l’Ira Irlandese sia espressione della popolazione autoctona cattolica e che si sia
opposta agli inglesi invasori anche in quanto protestanti. Ricordo inoltre come il capo del
partito filo-inglese fosse il reverendo protestante Jan Pasley (pag. 113). Questi motivi
sembrano rendere poco credibile l’affermazione dell’esperto israeliano.
Il processo di opposizione preconcetta è stato definito anche di “satanizzazione” o
“disumanizzazione” del nemico: un meccanismo cioè di delegittimazione esasperato degli
avversari. In forme diverse tale atteggiamento è presente nel tifo sportivo, in quello
politico e in ogni forma di sciovinismo campanilistico. La tecnica di delegittimazione
sembra suddividersi in tre fasi fondamentali. La prima consiste nel creare una progressiva
crisi di fiducia in uno stato, regime o sistema, nella sua forza o nella sua azione. La
seconda fase è quella del conflitto di legittimità, in cui un gruppo sfida l’autorità del
governo “ufficiale”, opponendo la propria. Ad esempio tale tecnica venne usata in forma
passiva dal Mahathma Gandhi nella sua azione decolonizzatrice in India. Più recentemente
è stata utilizzata in Italia dalla formazione politica della Lega Nord attraverso l’ideale
creazione del contro-stato della Padania. La terza fase è quella della crisi totale di
legittimità che autorizza qualsiasi atrocità, anche a scopo dimostrativo. Questa è tipica del
terrorismo. Un recente esempio italiano, dopo la ben più grave stagione politica delle
Brigate Rosse, è dato dalla “famosa”, e per fortuna comica, presa del campanile di S.
Marco a Venezia.
Al contrario di chi “super-crede”, quindi al prototipo del fanatico e del terrorista, si pone la
figura dello scettico, cioè di chi “crede” troppo poco. Oltre ad essere tendenzialmente
escluso dalle comunità, rispetto alle quali lo scettico si isola, essere troppo sospettosi è
controproducente perché impedisce contatti sociali proficui. Un sano atteggiamento di
diffidenza rispetto alle convenzioni sociali risulta tuttavia di grande utilità. La fisica
moderna è nata grazie ad una “ragionevole” forma d’incredulità.
Secondo Legrenzi: “Possiamo descrivere molti dilemmi e tensioni delle società
contemporanee come effetto dell’incontro tra gruppi di supercredenti e gruppi di
sottocredenti”. Inoltre potremmo dividere idealmente la società in due popolazioni: una di
altruisti, super-credenti convinti di conoscere il bene altrui e l’altra di opportunisti, sottocredenti, scettici e dubbiosi. “La prima presenta il vantaggio sociale di obbedire, anche
per motivi morali, a molti imperativi che permettono alla società di andare avanti. (…) I
secondi, sotto-credenti, ritengono che questo vantaggio sia ampiamente compensato dallo
svantaggio di credenze parassite”.
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Lo scontro tra supercredenti e sottocredenti sembra presentare interessanti analogie con la
contrapposizione tipica dell’agire politico democratico, entro la quale tuttavia l’autore non
si inoltra, interessato invece alla più complessa minaccia del terrorismo di matrice religiosa
che negli ultimi decenni ha sconvolto i rapporti fra Cristianesimo e Islam. Purtroppo le
credenze hanno conseguenze pratiche nelle scelte di entrambe le popolazioni, e nel caso di
credenze religiose il bilancio costi-benefici è diventato oggetto di disputa radicale.
Secondo il filosofo tedesco Jurghen Habermas la contrapposizione fra il credo della fede e
quello della scienza deve essere superata, in quanto le certezze delle scienze naturali sono
incommensurabili con la fede. Questa posizione, di accorta prudenza, presenta enormi
diffcoltà pratiche, per esempio nelle scelte politiche possibili in un paese come l’Italia
caratterizzato da una popolazione, almeno formalmente, di forte orientamento cattolico. Le
“battaglie” per il divorzio e per l’aborto hanno segnato profondamente la società civile
italiana, così come la stanno dividendo le recenti discussioni sull’eutanasia, la
procreazione assistita e l’uso delle staminali, solo per citare alcuni esempi.
Questo atteggiamento apparentemente non conflittuale è condiviso da grandi personalità
anche di diversa formazione. Recentemente il premio Nobel Rita Levi Montalcini alla
domanda se esista secondo lei un conflitto insanabile tra scienza e fede, ha dichiarato:
“Ognuno può essere della religione che vuole: cristiana, musulmana… Io sono della
religione laica. Ma non c’è affatto contrasto con la ricerca. Non si possono mettere i
lucchetti al cervello, perché è la sola cosa che ci differenzia dagli animali”.
Anche Papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, domenica 21 dicembre 2008 nel corso della
preghiera dell’Angelus parlando dalla finestra del suo studio alle migliaia di fedeli radunati
in piazza S. Pietro, ha reso solennemente omaggio a Galileo Galilei “del quale - ha
ricordato – nel 2009 ricorre il quarto centenario delle prime osservazioni al telescopio”.
Prendendo spunto dal solstizio d’inverno, che cade appunto il 21 dicembre, il Papa ha detto
di essere grato a “tanti uomini e donne di scienza che ci hanno fatto capire sempre meglio
che le leggi della natura sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere
del Signore”. Alcuni commentatori, pur favorevolmente colpiti, hanno comunque notato
l’assenza di un qualche accenno alle storiche incomprensioni fra la Chiesa e Galilei.
Incomprensioni che culminarono con la scomunica del 1633 e la definitiva condanna delle
teorie eliocentriche. Nessun riferimento al fatto che la scomunica è stata abolita dalla
Chiesa solo nell’agosto del 1980 e la riabilitazione sia avvenuta con Papa Giovanni Paolo
II nel 1992, cioè 359 anni dopo che Galilei, accusato di sovvertire la filosofia naturale, era
stato condannato come eretico e costretto all’abiura. Durante questo lungo periodo ogni
buon fedele ha quindi creduto che il sole si muovesse intorno alla terra, così com’è ben
evidente ad ognuno di noi se lo osserva nel corso della giornata. Ecco un caso in cui la
scienza contraddice la realtà sensibile mentre la fede supera la realtà stessa. Forse l’intera
vicenda di Galilei è metafora in nuce del reale rapporto tra fede e scienza.
I giornali e le televisioni, dopo l’attacco alle Twin Towers di New York, si occupano in
modo ossessivo delle sette fondamentaliste e del terrorismo a base religiosa. Il susseguirsi
di azioni terroristiche a carattere dimostrativo ha focalizzato l’attenzione dei media e
sospinto l’interesse popolare a sottostimare altre forme di pericolo incombenti. Il
terrorismo slamico incute timore non solo per la sua imprevedibilità ma perché implica una
forma di super-credenza che porta al fanatismo e al suicidio/martirio.
Le scienze cognitive spiegano tale fenomeno individuando varie fasi che portano alla
supercredenza fanatica, necessaria per rinforzare il credo personale.
La prima fase si riassume con l’affermazione: Il mondo va a rotoli. Le argomentazioni
tipiche sono: la perdita di valori, la secolarizzazione della società, la corruzione. A queste
minacce l’individuo è spinto a reagire anche sacrificandosi personalmente.
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La seconda fase: L’impossibilità di alternative. Mostrando l’inefficacia delle tradizionali
proteste, petizioni, elezioni, interventi nazionali o internazionali, è possibile esasperare il
senso di frustrazione personale.
Terza fase: Satanizzazione e guerra cosmica. Ridurre ogni possibilità d’intesa con
l’avversario, ormai diventato nemico, per raggiungere atteggiamenti di puro fanatismo.
La quarta e ultima fase: Attivare delle azioni simboliche. Trasformazione del suicidio
fanatico in “martirio” con grande effetto sociale, sia all’interno che all’esterno del gruppo.
Le supercredenze patologiche interessano ormai tutto il mondo perché oltre a rappresentare
una fonte imponderabile di pericolo sono legate a molteplici interessi economici.
In conclusione possiamo affermare con Legrenzi che le scienze cognitive ci hanno fornito
due grandi lezioni: “La prima è che il nostro modo di pensare è “dominio-dipendente”,
dipende cioè dagli specifici contenuti del dominio di conoscenze sul quale si esercita”. La
seconda è: “l’estrema difficoltà nel controllare la coerenza delle nostre credenze”. Proprio
per questo il suo invito finale è l’esortazione: “Oltre a conoscere come funziona il mondo
esterno, tramite le scienze naturali, auspico “il farsi un’idea” di come funzionano le
credenze. Non è bene che, a nostra insaputa, siano altri a plasmare la nostra vita
quotidiana sotto forma di “credere che”, “credere in” e “credere negli altri”. È in questo
modo che, purtroppo, le patologie del credere sono diventate endemiche”.
Wittgenstein all’inizio del Novecento affermava che: “il mondo è costituito da stati di
cose. Il compito della scienza è quello di descriverli. Eppure - aggiungeva – se anche noi
conoscessimo tutte le cose del mondo, grazie alla scienza, e potessimo cambiarle a nostro
piacimento, grazie alle tecnologie, sentiremmo che le domande più importanti sarebbero
ancora prive di risposta. Scienza e tecnologie non sono tutto”.
Dispiace infine che il saggio non affronti per nulla il concetto di “azzardo” che, pur è
fondato su precise forme di conoscenza statistico-matematica, ma sembra basato anche su
aspetti del tutto affini al concetto di credere. Sinteticamente si può affermare che il gioco
d’azzardo si basi sulla “credibile certezza” che si avverino situazioni che
“necessariamente” dovranno avverarsi. Il giocatore “azzarda” quindi la previsione del
momento in cui tale fenomeno si manifesterà sulla base di una certezza statistica. La
pervasività e la pericolosità sociale del gioco d’azzardo hanno indotto gli Stati a ridurre le
possibilità di accesso a tali forme di gioco fino a diventarne direttamente gestori esclusivi.
Nota a margine: la terza e ultima figura a corredo del saggio è indicata, secondo me, in
maniera inversa al suo senso naturale. Se per convenzione secolare la luce proviene
dall’alto e da un’unica fonte, il grafico raffigurante quattro buchi a sinistra e quattro
protuberanze a destra, che l’autore ha ripreso da un saggio di G. Gigerenzer, va letto al
contrario di quanto indicato: quattro protuberanze e quattro buchi. Infatti se la luce
proviene dall’alto del foglio (come si presume per convenzione) l’ombra sarà proiettata
nella parte in basso se vi è un rilievo e viceversa nella parte alta se vi è una concavità.
Credo, (ma non ne sono certa...), che l’immagine sia stata invertita rispetto alla didascalia
dalla Redazione. Il problema ora è: dalla redazione italiana o da quella originale
americana?
Indice
Premessa
1. Una macchina fatta per credere
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Bello da credere. - Qualcosa di meno e qualcosa di più. - Agenti segreti. - Gli altri credono
cose diverse da noi? - Credere l'incredibile. - La forza del credere. - L'incredibile per i
creduli.
2. Come si è giunti allo studio del credere
Credere e pensare: una scissione recente. - Credere e la «tragedia de!la cognizione". Credenze, fedi e comportamenti. - Modernità e studio delle credenze. - Credere, sperare,
avere fiducia. - Credenze e incertezze. - Perché e come supercrediamo.
3. Credere individuale e credere collettivo
Supercredere e informazioni irrilevanti. - Credere quello che gli altri credono. - La
riduzione delle credenze a favore delle conoscenze. - Credere nel mondo contemporaneo. Credenze irrazionali ed effetto placebo. - Il controllo scientifico delle credenze. - La
fissazione delle credenze.
4. Credere ed emozionarsi con gli altri
Credere che e credere in. - Non si crede quel che si da per scontato. - Il pettegolezzo: uno
scambio di credenze. - Credenze differenti. - La fiducia. - A che cosa credere per credere
negli altri. - Credere negli altri ed emozionarsi. - Emozioni e credibilità.
5. Patologie del credere
Circostanze, non credenze. - Patologie del credere. - Supercredere: il fanatico. Sottocredere: lo scettico. - II sottocredente e il supercredente a confronto. - La convivenza
tra supercredenti e sottocredenti. - Darsi la forza per supercredere.
6. Conclusioni
Note sull’autore
Paolo Legrenzi è professore ordinario di psicologia presso lo IUAV. Ha insegnato a
Trieste, Milano, Ginevra e Parigi. Visiting Professor alla University College di Londra e a
Princeton. Insegna ai dottorati di ricerca della Bocconi e della Scuola Superiore S. Anna di
Pisa. Attualmente dirige la Scuola dottorato dei due atenei veneziani e la Scuola di Alti
Studi sull’Arte finanziate anche dalla Fondazione di Venezia.
Le sue attuali linee di ricerca riguardano lo studio della percezione, lo studio dei processi
di ragionamento, lo studio della probabilità ingenua, lo studio dei processi di decisione, lo
studio del problem-solving nelle organizzazioni, lo studio dell¹influenza dei processi
sociali sul pensiero umano, lo studio sullo sviluppo del pensiero.
Bibliografia essenziale
Tra le sue pubblicazioni per il Mulino «Psicologia generale» (con L. Anolli, 2006) e, in
questa stessa collana, «La felicità» (1998), «La mente» (2002) e «Creatività e
innovazione» (2005).
Links
http: iuav.it/legrenzi
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