188 a passeggio nel lavaux 180 vignerons d’europe 154 collana terra madre 134 femminile plurale 114 slow food on film 2008 Un mare di isole Certo che sono grasso, sono Hawaiano! Testo e foto di Gaia Cottino «La lingua hawaiana ha una sola parola per indicare il tempo e moltissime per il cibo e il mangiare», scrive la linguista hawaiana Mary Pukui: sono infatti numerose le parole composte dalla radice ai, “mangiare”, a testimonianza della centralità del cibo nella vita della popolazione nativa. Aihue, ad esempio, significa “ladro”, e si compone di ai, cibo, e hue, dita delicate, a indicare che il ladro per eccellenza era chi sottraeva cibo alla comunità. Allo stesso modo, il “sentirsi stufo di qualcosa” si indica con la parola aikena, composta da ai e da kena: “sazio di cibo”. Autentico è tradizionale? Nell’antica società hawaiana, l’aristocrazia si distingueva dal resto della popolazione per un maggior accesso alle risorse alimentari e tale disponibilità inevitabilmente segnava i loro corpi: il corpo grasso era infatti un indicatore di appartenenza sociale e di potere. Tra gli alimenti base della dieta hawaiana si annoveravano: il taro, tubero da cui secondo la mitologia ebbe origine l’essere umano, che veniva cotto al vapore nel forno a terra, schiacciato aprile 2008 87 e consumato in purea (detta poi); il frutto dell’albero del pane, molto ricco di fibre e vitamina B; la patata dolce, della quale esistevano più di 200 varietà; l’igname, che però cresceva solo sulla secca isola di Ni’ihau; diverse specie di alghe, di pesce e di frutta; e, infine, carne di cane e galline in modesta quantità (per la sua scarsità e difficoltà di conservazione). È attualmente in corso un dibattito tra studiosi di alimentazione tradizionale riguardo a quali cibi possano essere considerati parte della dieta hawaiana tradizionale. Secondo il dottor Akina «la dieta tradizionale è da considerarsi la dieta degli hawaiani prima del 1820 (anno in cui la regina Ka’ahumanu abolì il complesso sistema dei tabù, kapu in hawaiano, che imponeva regole sociali molto precise anche sull’alimentazione). Sono tre i maggiori carboidrati complessi: taro, patata dolce e zucche. Tutto il resto veniva dal mare: alghe, pesce e molluschi. (…) Gli hawaiani non erano come i tahitiani, i samoani o i tongani che usavano il latte di cocco. Essi avevano quasi lo zero percento di colesterolo nella loro dieta». In realtà la dieta nativa prima del 1820 era già a sua volta il risultato di una stratificazione alimentare costruita nel tempo: dai flussi migratori provenienti dalle altre isole polinesiane e dai prodotti alimentari importati dai commercianti d’Oriente e d’Occidente. L’associazione tra il concetto di tradizionalità e quello di autenticità è dunque fuorviante nel contesto hawaiano, un po’ come gran parte degli alimenti oggi considerati autenticamente parte della dieta mediterranea sono in realtà provenienti da luoghi ben più remoti, come le Americhe. Il problema dell’obesità della popolazione nativa e dello sviluppo di gravi patologie a essa collegate, si è imposto con urgenza, a tal punto da spingere l’Oms a pubblicare un documento in cui si denuncia una «epidemia di obesità» e si specifica che l’area maggiormente colpita dal fenomeno è l’Oceania Il quotidiano e la festa I nativi hawaiani contemporanei hanno assunto uno stile alimentare molto diverso da quanto descritto finora: a partire dalla rottura dei kapu essi hanno iniziato a nutrirsi di cibi provenienti dall’esterno; hanno poi venduto, ceduto o sono state loro espropriate le terre dai coloni europei, per cui la coltivazione dei “prodotti tradizionali” è lentamente venuta meno, trasformando l’economia di sussistenza in un’economia di piantagione rivolta all’esportazione dei prodotti tropicali e all’importazione dei prodotti base per l’alimentazione. Inoltre, gli hawaiani vissero un periodo di grave povertà a causa dell’isolamento della seconda guerra mondiale Pu’uhonua O Honaunau, Big Island. Luogo sacro dove sono sepolti i capi. 88 Slowfood 78 un mare mare di diisole isole 74 ai confini della realtà #1 44 baby food 36 il racconto 16 editoriali Un mare di isole 188 a passeggio nel lavaux 180 vignerons d’europe 154 collana terra madre 114 slow food on film 2008 134 femminile plurale Ballerine di hula sulla costa di Wai’anae. che li ha portati all’assunzione di uno stile alimentare basato sul cibo in scatola e sul riutilizzo dei grassi. «Una cosa che i nativi hawaiani continuano a fare dai tempi della guerra è di conservare il grasso del cibo: l’olio che si è usato per friggere o il grasso disciolto delle salsicce li serbano in un contenitore e li riusano per cucinare» racconta Donna Polealakake, impiegata del Dipartimento della Salute delle Hawaii. Infine è arrivata l’America, con i suoi fast food e modelli alimentari del big and fast. Che tipo di alimenti si mangiano dunque nella quotidianità e quali, invece, nelle occasioni di festa? Si cucina e in quali quantità? A quale tipo di cibo ha accesso la popolazione nativa (che rappresenta oggi la fascia più povera)? Il problema dell’alimentazione ruota prevalentemente attorno alla povertà: le famiglie native, pressoché tutte numerose, non possono permettersi di comprare cibo di alta qualità e i prezzi dei fast food sono estremamente competitivi. «Qui nessuno spende cinque o sei dollari per un panino biologico! C’è il McDonald’s a 99 cent! Con 20 dollari sfami tutta la famiglia» si sente spesso asserire. A questa situazione di povertà economica si aggiungono altri fattori importanti: l’enormità delle porzioni, il rifiuto della popolazione nativa di coltivare la poca terra di cui dispone (sia a causa della perdita di abitudine sia a causa della volontà di emanciparsi dallo stereotipo dell’indigeno) e l’incapacità di cucinare. Pres- soché nessuno degli abitanti nativi delle zone rurali ha infatti una cucina, come la si intende in Europa: le cucine dispongono mediamente di un paio di piastre elettriche per riscaldare il cibo e di un microonde. È tuttavia evidente uno scarto profondo tra la penuria che si riscontra nella quotidianità delle famiglie native e l’abbondanza del cibo nelle situazioni di festa: la festa sospende i corpi dalla quotidianità e li alimenta di cibo raro. Girando le isole non è infatti difficile imbattersi in ricchi banchetti, chiamati lu au. Essi originariamente celebravano il primo anno di vita di un bambino coinvolgendo tutta la comunità: veniva ucciso un grosso maiale, tagliato a pezzetti, avvolto in foglie di taro e messo dentro l’imu (forno interrato) a cuocere per una giornata. La festa col tempo si è modificata: lu au e festa sono diventati sinonimi. Se in città sono organizzate per offrire un pizzico di tradizionalità hawaiana ai turisti o ai dipendenti, generalmente L’associazione tra il concetto di tradizionalità e quello di autenticità è fuorviante nel contesto hawaiano, un po’ come gran parte degli alimenti oggi considerati autenticamente parte della dieta mediterranea sono in realtà provenienti da luoghi ben più remoti, come le Americhe aprile 2008 89 78 un mare mare di diisole isole 74 ai confini della realtà #1 44 baby food 36 il racconto 16 editoriali Un mare di isole non nativi, di grandi imprese, nelle zone rurali i lu au sono legati a eventi diversi, quali matrimoni, compleanni e battesimi, e rappresentano il frutto di un processo di “riscoperta” e reinvenzione della tradizione locale. Chi organizza la festa, pur trovandosi in difficili condizioni economiche, prepara enormi quantità di cibo ostentando un pieno controllo delle risorse. Come testimoniato da più fonti: «Se si aspettano 300 invitati si cucina per 500. Sarebbe vergognoso non avere abbastanza cibo per tutti. La gente così mangia molto di più di quanto sia ragionevole». Epidemia di obesità Che le abitudini alimentari siano cambiate e che si registri una maggiore accessibilità al cibo è dunque indubbio, tuttavia non sembra che esse abbiano subìto un miglioramento della qualità, al contrario, l’attuale dieta costituisce uno dei fattori che contribuiscono all’obesità. In sostanza, oggi alle Hawaii non si muore di sottoalimentazione quanto invece di malnutrizione. I corpi infatti crescono e finiscono per pesare anche oltre i 300 chili: «Negli ospedali della comunità indigena i miei pazienti sono di 150, 200, 250, 300 chili…» spiega il dottor Bradley. Il problema Il problema dell’alimentazione ruota prevalentemente attorno alla povertà: le famiglie native, pressoché tutte numerose, non possono permettersi di comprare cibo di alta qualità e i prezzi dei fast food sono estremamente competitivi. «Qui nessuno spende cinque o sei dollari per un panino biologico! C’è il McDonald’s a 99 cent! Con 20 dollari sfami tutta la famiglia» 90 Slowfood dell’obesità della popolazione nativa e dello sviluppo di gravi patologie a essa collegate, si è infatti imposto con urgenza, a tal punto da spingere l’Oms a pubblicare un documento (Who 2007) in cui si denuncia una «epidemia di obesità», quasi a supporne un effetto virale, e si specifica che l’area maggiormente colpita dal fenomeno è l’Oceania: i primi sei paesi su 12 a maggior tasso di obesità sono siti nell’oceano Pacifico e comprendono le Samoa, le Tonga, gli Stati Confederati della Micronesia, le Cook, Nauru e Niue. Pertanto è importante sottolineare quanto il fenomeno dell’obesità sia da ricondurre a una molteplicità di cause, che vanno ben oltre le spiegazioni genetico-alimentari date dal sistema biomedico e che, invece, contemplano gli aspetti storici, culturali e sociali delle comunità native. La letteratura antropologica attesta ideali di bellezza espansi (e in alcune zone dell’Oceania pratiche rituali d’ingrassamento) e una radicata corrispondenza tra dimensioni del corpo e status sociale. Inoltre, dagli anni Settanta in avanti, caratterizzati dalla nascita dei movimenti per la sovranità nazionale e dal revival delle “tradizioni” locali, alle isole Hawaii si è creato un profondo legame tra dimensione del corpo e identità nativa. «Certo che sono grande e grosso, sono hawaiano!» è facile sentirsi rispondere. .