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slow food on film 2008
Un mare di isole
Certo che
sono grasso,
sono Hawaiano!
Testo e foto di Gaia Cottino
«La lingua hawaiana ha una sola parola per indicare il tempo e moltissime per il cibo e il mangiare», scrive la linguista hawaiana Mary
Pukui: sono infatti numerose le parole composte dalla radice ai,
“mangiare”, a testimonianza della centralità del cibo nella vita
della popolazione nativa. Aihue, ad esempio, significa “ladro”, e
si compone di ai, cibo, e hue, dita delicate, a indicare che il ladro
per eccellenza era chi sottraeva cibo alla comunità. Allo stesso
modo, il “sentirsi stufo di qualcosa” si indica con la parola aikena, composta da ai e da kena: “sazio di cibo”.
Autentico è tradizionale?
Nell’antica società hawaiana, l’aristocrazia si distingueva dal
resto della popolazione per un maggior accesso alle risorse alimentari e tale disponibilità inevitabilmente segnava i loro corpi:
il corpo grasso era infatti un indicatore di appartenenza sociale
e di potere.
Tra gli alimenti base della dieta hawaiana si annoveravano: il
taro, tubero da cui secondo la mitologia ebbe origine l’essere
umano, che veniva cotto al vapore nel forno a terra, schiacciato
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e consumato in purea (detta poi); il frutto dell’albero del pane,
molto ricco di fibre e vitamina B; la patata dolce, della quale
esistevano più di 200 varietà; l’igname, che però cresceva solo
sulla secca isola di Ni’ihau; diverse specie di alghe, di pesce e di
frutta; e, infine, carne di cane e galline in modesta quantità (per
la sua scarsità e difficoltà di conservazione).
È attualmente in corso un dibattito tra studiosi di alimentazione tradizionale riguardo a quali cibi possano essere considerati
parte della dieta hawaiana tradizionale. Secondo il dottor Akina
«la dieta tradizionale è da considerarsi la dieta degli hawaiani prima del 1820 (anno in cui la regina Ka’ahumanu abolì il
complesso sistema dei tabù, kapu in hawaiano, che imponeva
regole sociali molto precise anche sull’alimentazione). Sono tre
i maggiori carboidrati complessi: taro, patata dolce e zucche.
Tutto il resto veniva dal mare: alghe, pesce e molluschi. (…) Gli
hawaiani non erano come i tahitiani, i samoani o i tongani che
usavano il latte di cocco. Essi avevano quasi lo zero percento di
colesterolo nella loro dieta».
In realtà la dieta nativa prima del 1820 era già a sua volta il risultato di una stratificazione alimentare costruita nel tempo: dai
flussi migratori provenienti dalle altre isole polinesiane e dai
prodotti alimentari importati dai commercianti d’Oriente e d’Occidente. L’associazione tra il concetto di tradizionalità e quello
di autenticità è dunque fuorviante nel contesto hawaiano, un po’
come gran parte degli alimenti oggi considerati autenticamente
parte della dieta mediterranea sono in realtà provenienti da luoghi ben più remoti, come le Americhe.
Il problema dell’obesità
della popolazione nativa
e dello sviluppo di gravi patologie
a essa collegate, si è imposto
con urgenza, a tal punto
da spingere l’Oms
a pubblicare un documento
in cui si denuncia una «epidemia
di obesità» e si specifica
che l’area maggiormente colpita
dal fenomeno è l’Oceania
Il quotidiano e la festa
I nativi hawaiani contemporanei hanno assunto uno
stile alimentare molto diverso da quanto descritto finora: a partire dalla rottura dei kapu essi hanno iniziato a nutrirsi di cibi provenienti dall’esterno; hanno poi
venduto, ceduto o sono state loro espropriate le terre
dai coloni europei, per cui la coltivazione dei “prodotti
tradizionali” è lentamente venuta meno, trasformando
l’economia di sussistenza in un’economia di piantagione rivolta all’esportazione dei prodotti tropicali e all’importazione dei prodotti base per l’alimentazione. Inoltre, gli hawaiani vissero un periodo di grave povertà a
causa dell’isolamento della seconda guerra mondiale
Pu’uhonua O Honaunau, Big Island. Luogo sacro dove sono sepolti i capi.
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Ballerine di hula sulla costa di Wai’anae.
che li ha portati all’assunzione di uno stile alimentare basato sul cibo in scatola e sul riutilizzo dei grassi.
«Una cosa che i nativi hawaiani continuano a fare dai
tempi della guerra è di conservare il grasso del cibo:
l’olio che si è usato per friggere o il grasso disciolto
delle salsicce li serbano in un contenitore e li riusano
per cucinare» racconta Donna Polealakake, impiegata
del Dipartimento della Salute delle Hawaii. Infine è arrivata l’America, con i suoi fast food e modelli alimentari del big and fast.
Che tipo di alimenti si mangiano dunque nella quotidianità e quali, invece, nelle occasioni di festa? Si cucina e in quali quantità? A quale tipo di cibo ha accesso
la popolazione nativa (che rappresenta oggi la fascia
più povera)?
Il problema dell’alimentazione ruota prevalentemente
attorno alla povertà: le famiglie native, pressoché tutte
numerose, non possono permettersi di comprare cibo di
alta qualità e i prezzi dei fast food sono estremamente
competitivi. «Qui nessuno spende cinque o sei dollari per
un panino biologico! C’è il McDonald’s a 99 cent! Con 20
dollari sfami tutta la famiglia» si sente spesso asserire.
A questa situazione di povertà economica si aggiungono altri fattori importanti: l’enormità delle porzioni,
il rifiuto della popolazione nativa di coltivare la poca
terra di cui dispone (sia a causa della perdita di abitudine sia a causa della volontà di emanciparsi dallo stereotipo dell’indigeno) e l’incapacità di cucinare. Pres-
soché nessuno degli abitanti nativi delle zone rurali ha infatti
una cucina, come la si intende in Europa: le cucine dispongono
mediamente di un paio di piastre elettriche per riscaldare il cibo
e di un microonde.
È tuttavia evidente uno scarto profondo tra la penuria che si
riscontra nella quotidianità delle famiglie native e l’abbondanza
del cibo nelle situazioni di festa: la festa sospende i corpi dalla
quotidianità e li alimenta di cibo raro. Girando le isole non è
infatti difficile imbattersi in ricchi banchetti, chiamati lu au. Essi
originariamente celebravano il primo anno di vita di un bambino
coinvolgendo tutta la comunità: veniva ucciso un grosso maiale,
tagliato a pezzetti, avvolto in foglie di taro e messo dentro l’imu
(forno interrato) a cuocere per una giornata.
La festa col tempo si è modificata: lu au e festa sono diventati
sinonimi. Se in città sono organizzate per offrire un pizzico di
tradizionalità hawaiana ai turisti o ai dipendenti, generalmente
L’associazione tra il concetto
di tradizionalità e quello di autenticità
è fuorviante nel contesto hawaiano,
un po’ come gran parte degli alimenti
oggi considerati autenticamente parte
della dieta mediterranea sono in realtà
provenienti da luoghi ben più remoti,
come le Americhe
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non nativi, di grandi imprese, nelle zone rurali i lu au sono legati
a eventi diversi, quali matrimoni, compleanni e battesimi, e rappresentano il frutto di un processo di “riscoperta” e reinvenzione della tradizione locale. Chi organizza la festa, pur trovandosi
in difficili condizioni economiche, prepara enormi quantità di
cibo ostentando un pieno controllo delle risorse. Come testimoniato da più fonti: «Se si aspettano 300 invitati si cucina per 500.
Sarebbe vergognoso non avere abbastanza cibo per tutti. La
gente così mangia molto di più di quanto sia ragionevole».
Epidemia di obesità
Che le abitudini alimentari siano cambiate e che si registri una
maggiore accessibilità al cibo è dunque indubbio, tuttavia non
sembra che esse abbiano subìto un miglioramento della qualità,
al contrario, l’attuale dieta costituisce uno dei fattori che contribuiscono all’obesità.
In sostanza, oggi alle Hawaii non si muore di sottoalimentazione
quanto invece di malnutrizione.
I corpi infatti crescono e finiscono per pesare anche oltre i 300
chili: «Negli ospedali della comunità indigena i miei pazienti sono
di 150, 200, 250, 300 chili…» spiega il dottor Bradley. Il problema
Il problema
dell’alimentazione
ruota prevalentemente
attorno alla povertà:
le famiglie native,
pressoché tutte
numerose, non possono
permettersi di comprare
cibo di alta qualità
e i prezzi dei fast food
sono estremamente
competitivi.
«Qui nessuno spende
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per un panino biologico!
C’è il McDonald’s a 99
cent! Con 20 dollari
sfami tutta la famiglia»
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dell’obesità della popolazione nativa e dello sviluppo di gravi patologie a essa collegate, si è infatti imposto con urgenza, a tal punto
da spingere l’Oms a pubblicare un documento (Who 2007) in cui
si denuncia una «epidemia di obesità», quasi a supporne un effetto
virale, e si specifica che l’area maggiormente colpita dal fenomeno
è l’Oceania: i primi sei paesi su 12 a maggior tasso di obesità sono
siti nell’oceano Pacifico e comprendono le Samoa, le Tonga, gli
Stati Confederati della Micronesia, le Cook, Nauru e Niue.
Pertanto è importante sottolineare quanto il fenomeno dell’obesità sia da ricondurre a una molteplicità di cause, che vanno ben
oltre le spiegazioni genetico-alimentari date dal sistema biomedico e che, invece, contemplano gli aspetti storici, culturali e
sociali delle comunità native. La letteratura antropologica attesta ideali di bellezza espansi (e in alcune zone dell’Oceania
pratiche rituali d’ingrassamento) e una radicata corrispondenza
tra dimensioni del corpo e status sociale. Inoltre, dagli anni Settanta in avanti, caratterizzati dalla nascita dei movimenti per la
sovranità nazionale e dal revival delle “tradizioni” locali, alle
isole Hawaii si è creato un profondo legame tra dimensione del
corpo e identità nativa. «Certo che sono grande e grosso, sono
hawaiano!» è facile sentirsi rispondere. .
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