Eduardo De Filippo, Nota autobiografica, in Eduardo De Filippo. Vita e opere, Mondadori, Milano 1986, pp. 58-59. Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall’unione del più grande attore-autore-regista e capocomico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta, con Luisa De Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall’età di quattro anni, quando debuttai nei panni di un giapponesino nella parodia dell’operetta Geisha, d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”. Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata “diversa” dalla società. Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero diverso, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che si è prefissa. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia “diversità” mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada. Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me. Inutile parlare delle difficoltà, degli stenti, della fame: chi, da indipendente, vuole perseguire un ideale va sempre incontro a periodi travagliati, ma se l’ideale ce l’hai e sai di poterlo servire degnamente, sopporti ogni cosa. Per anni e anni feci di tutto: comparsa anche in cinema, attrezzista, direttore di scena, caratterista. Poco a poco mi feci un nome come attore e scrittore e regista. La prima commedia vera e propria, un atto unico intitolato Farmacia di turno, la scrissi nel 1920, la prima regia ufficiale fu la messa in scena di una commedia musicale di Enzo Lucio Murolo, Surriento gentile, nel 1922; ma quante scene avevo scritto e quante regie avevo già fatto senza poterle firmare. Fui in Compagnie di rivista, d’avanspettacolo, di prosa; nel 1931 formai la Compagnia Teatro Umoristico I De Filippo, con Titina e Peppino. Debuttammo trionfalmente con Natale in casa Cupiello e per anni passammo da un successo all’altro in tutta Italia. Nel 1944 Peppino lasciò la Compagnia. Intanto stava per finire la guerra, e con essa il ventennio fascista. Finalmente avrei potuto cambiare il mio modo di scrivere; mentre durante il fascismo avevo dovuto nascondere le verità sociali sotto il grottesco e l’assurdo per non essere censurato, adesso potevo parlar chiaro e cimentarmi nella forma teatrale alla quale da sempre avevo aspirato, che è poi la più antica: corrispondenza ideale tra vita e spettacolo, fusione ora armoniosa ora stridente tra riso e pianto, grottesco e sublime, dramma e commedia, abbandonando quell’artificio scenico che è la netta divisione tra farsa e tragedia. Mi domandavo: «Ma perché per oltre due ore il pubblico deve o solo ridere o solo piangere? E perché gli spettatori, mettiamo, di Molière, accettavano le sue commedie tragiche — o tragedie comiche — e quelli di oggi non ci riescono?» La risposta che mi diedi fu una sola: «Non c’è ragione valida, c’è solo l’uso, divenuto tradizione, di tale artificiale divisione». Scrissi allora Napoli milionaria!, fondai una nuova compagnia, Il Teatro di Eduardo, e, confortato dal grande successo ottenuto dal nuovo genere teatrale, ho continuato per trent’anni a scrivere e recitare una ventina di commedie, oggi conosciute e recitate in tutto il mondo. Riassumere una vita artistica tanto lunga e tanto piena di avvenimenti (mi sono occupato di cinema, televisione, radio, regie liriche; ho costruito un teatro a Napoli, ho formato la Compagnia La Scarpettiana che ho diretto per molti anni; ho scritto poesie, saggi articoli, eccetera) non è cosa facile: tutto sembra importante eppure niente pare indispensabile, nel proprio passato, tanto che a un certo punto non si riesce a capire se si è detto troppo o troppo poco. Forse è perché l’unica cosa che conta veramente nella vita di un artista è il futuro, e il passato, a insistervi a lungo, limita la creatività e la voglia di essere creativi.