NOBEL PER LA PACE – 27 gennaio
ELIE WIESEL
Testimone dell’Olocausto
a cura di Anselmo Palini
U
n volume smilzo, dal potere
terrificante
Nel 1958 usciva a Parigi in prima
edizione francese un libro di memorie,
rapido quanto intenso e sconvolgente, di
un ex deportato nel campo di sterminio
di Auschwitz, dal titolo La notte, che solo
nel 1980 verrà pubblicato anche in edizione italiana da La Giuntina.
L’autore era un giovane ebreo della Transilvania, Elie Wiesel, che, scampato ai lager nazisti, dove aveva perduto padre,
madre e sorellina, si era stabilito a Parigi
come corrispondente di un giornale di Tel
Aviv. Il testo, scritto direttamente in lingua yiddish, dieci anni dopo la drammatica esperienza, con il titolo “E il mondo
rimase in silenzio”, tradotto prima in
francese e poi in inglese, era stato rifiutato dai grandi editori francesi e americani ai quali era stato proposto, “nonostante gli sforzi infaticabili del grande
scrittore cattolico francese e premio Nobel, François Mauriac”, come ricorda
Wiesel nella prefazione all’edizione americana del 2006.
Per renderlo più accettabile agli editori,
il manoscritto venne tagliato. Elie Wiesel
ricorda il disincantato inizio che era e rimane tagliato:
“All’inizio c’è la fede, che è infantile; la
fiducia, che è vana; l’illusione, che è pericolosa. Noi credevamo in Dio, avevamo
fiducia nell’uomo e vivevamo nell’illusione che a ciascuno di noi fosse stata affidata una sacra scintilla della fiamma
della Shekhina. Ma tutto questo fu la
fonte se non la causa delle nostre disavventure”.
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Era stato tagliato anche il finale sconsolato:
“E ora, a dieci anni scarsi da Buchenwald
(l’ultimo lager in cui finì Wiesel, ndr), io
mi accorgo che il mondo dimentica presto. Oggi la Germania è uno Stato sovrano. L’esercito tedesco è stato risuscitato.
(…) Criminali di guerra passeggiano per
le strade di Amburgo e di Monaco. Il passato sembra essere stato cancellato, consegnato all’oblio.
Oggi ci sono antisemiti in Germania,
Francia e perfino negli Stati Uniti, persone che dicono al mondo che “la storia”
di sei milioni di ebrei assassinati è
nient’altro che una truffa. (…) Non sono
così ingenuo da credere che questo esile
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grazia. Se l’Eterno è l’Eterno, l’ultima parola per ciascuno di noi gli appartiene. Ecco ciò che avrei dovuto dire al ragazzo
ebreo. Ma non ho potuto fare altro che
abbracciarlo, piangendo».
(François Mauriac, Prefazione a La notte
di Elie Wiesel).
libro possa cambiare il corso della storia
o scuotere la coscienza del mondo. I libri
non hanno più il potere che avevano una
volta.
Quelli che rimasero in silenzio ieri, rimarranno in silenzio domani”.
Non fu facile far accettare il libro, ma alla
fine le insistenze dell’autore e di François
Mauriac, che stese la prefazione, riuscirono a farlo pubblicare, con ulteriori tagli,
da una piccola ma prestigiosa casa editrice di Parigi, Le Minuit. Non fu subito un
successo, come era stato un decennio
prima per il Diario di Anna Frank, ma poi
il suo valore di testimonianza emerse in
modo netto ed inequivocabile, ed il libro
ebbe un’enorme risonanza in tutto il
mondo. Il «New York Times» lo definì: “Un
volume smilzo dal potere terrificante”.
Il libro di Elie Wiesel stimolò quella riflessione che va sotto il nome di “Teologia dell’Olocausto” o “Teologia dopo Auschwitz”. Il nome del campo di sterminio
di Oswiecim-Auschwitz, evocando i sei
milioni di ebrei che vi trovarono la morte
(e tra questi un milione e mezzo di bambini), è diventato la cifra del male assoluto, un fatto non comparabile con altri fatti storici nella sua disumanità. La Shoah,
cioè la catastrofe che si è abbattuta sul
popolo ebraico, spicca per la sua unicità.
Il nome di Hiroshima, per esempio, per il
mondo politico e militare americano è
collegato con la volontà di porre fine al
secondo conflitto mondiale; quello che va
sotto il nome di “arcipelago gulag”, per il
sistema politico dittatoriale russo mirava
alla
eliminazione
dei
dissidenti;
l’apartheid in Sudafrica, e prima ancora
la schiavitù nelle Americhe, erano sistemi
disumani che una ristretta élite di privilegiati utilizzava per mantenere il proprio
potere.
Ma il genocidio del popolo ebraico che
senso poteva avere?
Perché tanta disumana sofferenza?
Ha scritto Theodor W. Adorno in Dialettica negativa (1966): «La morte nei campi
di concentramento ha un nuovo orrore:
dopo Auschwitz la morte significa terrore, temere qualcosa di più orribile della
morte». I teologi ebraici fanno osservare
che la Shoah mirava a sradicare dalla storia quel popolo il cui genio religioso si era
espresso nella Bibbia. Proprio questo popolo si voleva distruggere, il popolo
dell’alleanza, il popolo di Dio, il popolo
che nelle sue feste celebrava gli interventi di liberazione del Dio della storia.
Benedetto XVI, il papa venuto dalla Germania, nella sua visita del 28 maggio 2006
Perché tanta disumana sofferenza?
Il libro di Elie Wiesel La notte contribuì a
innescare una grande discussione tra i
pensatori ebraici, ma anche tra i teologi
cristiani,
sull’interrogativo
radicale:
“Dov’era Dio?”.
Già François Mauriac nella prefazione al
testo di Wiesel affrontò questo tema:
«E io, che credo che Dio è amore, cosa
potevo rispondere al mio giovane interlocutore (si riferisce a Wiesel, ndr), i cui occhi azzurri conservavano il riflesso di quella tristezza d’angelo apparsa un giorno sul
volto del bambino impiccato? Cosa gli ho
detto? Gli ho parlato di quell’israeliano,
quel fratello che forse gli assomigliava,
quel crocifisso, la cui croce ha vinto il
mondo? Gli ho confidato che quella che
per lui fu pietra d’inciampo è diventata
per me pietra angolare e che nella corrispondenza fra la croce e la sofferenza
umana si trova, ai miei occhi, la chiave di
quel mistero insondabile dove si è perduta
la sua fede di bambino? Eppure Sion è risorta dai crematori e dai carnai. La nazione ebraica è risuscitata da questi milioni
di morti. È per essi che vive di nuovo. Noi
non conosciamo il prezzo di una sola goccia di sangue, di una sola lacrima. Tutto è
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al campo di Auschwitz, così si è espresso:
«In un luogo come questo vengono meno
le parole, in fondo può restare solo uno
sbigottito silenzio che è un interiore grido
verso Dio: Perché hai taciuto? Perché hai
potuto tollerare tutto questo?».
Accanto a quanti hanno parlato della morte di Dio ad Auschwitz, c’è stato chi, invece, come Etty Hillesum, ha indicato ad
alta voce le responsabilità dell’uomo e la
necessità di salvaguardare l’immagine di
Dio dalla devastazione e dall’annientamento. Hans Jonas ha parlato di un Dio
che, dopo la creazione, non è più onnipotente e non può intervenire a risolvere i
problemi che l’uomo determina con le sue
azioni. Per altri autori dal fallimento di
Auschwitz è scaturita paradossalmente la
speranza. In questo senso vanno le riflessioni di Ernst Bloch e di Jürgen Moltmann.
Durante un viaggio in Polonia nell’ottobre
del 1962, Moltmann visitò il campo di concentramento di Maidanek e così descrisse
quell’esperienza nella sua Autobiografia:
«Provai lo sconvolgimento più profondo
quando attraversammo il campo di concentramento e di morte di Maidanek,
presso Lublin. I tavolacci delle baracche
erano stati gli ultimi giacigli di persone
affamate e tormentate. Dietro lastre di
vetro giacevano le piccole scarpe dei
bambini ebrei uccisi, i capelli tagliati delle donne gassate. Vedevamo le fosse nelle quali in un solo giorno erano state fucilate più di 10.000 persone. Sarei caduto a
terra dalla vergogna e dallo sdegno e sarei rimasto soffocato dalla persistenza
dello sterminio di massa, se su una delle
strade del lager non avessi avuto una visione: vidi il mondo della resurrezione e
vidi tutti quegli uomini, quelle donne,
quei bambini venirmi incontro. Da allora
so che la storia di Dio non si è interrotta
ad Auschwitz e Maidanek, ma che continua insieme alle vittime e ai colpevoli:
senza speranza nella “nuova terra nella
quale avrà stabile dimora la giustizia” (2
Pt. 3, 13), questa terra, che ha patito
Treblinka e Maidanek, sarebbe insopportabile».
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Zakhòr, ricorda!
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche
dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli
di Auschwitz, liberando i pochi prigionieri
superstiti. Proprio in ricordo di questo
evento, la giornata del 27 gennaio è stata
scelta a livello internazionale come
“Giornata della Memoria”. In Italia questa Giornata è stata istituita con la legge
n. 211 del 20 luglio 2000. Questi i due articoli della legge:
1 – La Repubblica Italiana riconosce il
giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno
della memoria”, al fine di ricordare la
Shoah (sterminio del popolo ebraico), le
leggi razziali, la persecuzione italiana dei
cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio, e a rischio della
propria vita hanno salvato altre vite e
protetto i perseguitati.
2 – In occasione del “Giorno della Memoria”, di cui all’art. 1, sono organizzati cerimonie, incontri, iniziative e momenti
comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di
ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, in
modo da conservare nel futuro dell’Italia
la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia del nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano
mai più accadere.
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Come ha osservato lo storico Georges
Bensoussan, il rischio di tali eventi è
quello di creare una “mistica della memoria”: preoccupati che i nostri figli o i
nostri studenti conoscano la realtà storica
e le atrocità commesse, si corre spesso il
rischio di isolare i crimini compiuti dal loro contesto storico rendendoli atemporali, segno di un passato lontano che non ci
interpella più.
Il senso della “Giornata della memoria”
deve essere radicalmente differente. Nella lingua ebraica l’imperativo zakhòr
(“ricorda”), che ricorre 169 volte nella
Bibbia, è sinonimo di “non dimenticare”.
Non basta ricordare ciò che è avvenuto
perché non si ripeta; occorre anche coglierne il senso più profondo, rinsaldando
continuamente quei valori di tolleranza e
di rispetto la cui negazione ha determinato l’orrore di Auschwitz.
E qui ci viene in soccorso un altro termine ebraico: Tiqqun, che significa riparare, cioè aggiustare il mondo, ossia farlo
più giusto. Tiqqun significa poi anche
emendare, correggere, perfezionare, redimere, cioè accompagnare al ricordo un
atteggiamento positivo di costruzione di
un mondo più giusto e solidale.
momento che questo incluse i più ebrei
degli ebrei – quelli dell’Europa orientale –
la sopravvivenza dell’ebraismo fu messa
in grave pericolo.
2 - Questa uccisione fu letteralmente uno
“sterminio”: non un singolo ebreo, uomo,
donna o bambino, doveva sopravvivere, o
sarebbe sopravvissuto se Hitler avesse vinto la guerra (eccetto che per quei pochi
che avrebbero trovato rifugio chissà dove).
3 – Questo accadde perché essere ebrei di
nascita era motivo sufficiente per meritare tortura e morte; mentre il “crimine”
dei polacchi e dei russi era che ve n’erano
troppi, con la possibile eccezione degli
zingari, solo gli ebrei avevano commesso il
“crimine” di esistere in quanto tali.
4 – La “soluzione finale” non fu il progetto
pragmatico che perseguisse un fine come il
potere politico o la ricchezza economica.
Non fu il lato negativo di un fanatismo positivo, religioso o politico. Fu un fine in sé.
E, per lo meno nell’ultima fase del dominio
del Terzo Reich (quando Eichmann deviò i
treni dal fronte russo a Auschwitz), fu
l’unico vero fine rimasto.
5 – Solo una minoranza dei responsabili
era sadica o perversa. La maggior parte
era composta da normalissimi lavoratori
che svolgevano compiti straordinari. E chi
intonava il coro era, di solito, niente più
che un normale idealista, solo che gli
ideali erano la tortura e la morte».
(da Emil Fackenheim, Tiqqun-Riparare il
mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah, Medusa 2010, p. 42)
Dei fatti del tutto fuori discussione
«I fatti fondamentali dell’Olocausto sono
così semplici da essere del tutto fuori discussione:
1 – Non meno di un terzo dell’intera popolazione ebraica fu assassinato: e dal
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Dagli scritti di Elie Wiesel
L’Oberkapo fu subito arrestato. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si sentì più parlare. Ma il
suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in
prigione. Messo alla tortura, restò anche
lui muto. Allora le SS lo condannarono a
morte, insieme a due detenuti presso i
quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale
dell’appello. Tre corvi neri. Appello. Le
SS intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati e tra loro un ragazzino, un pipel, come li chiamavamo noi. Un
bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo, un angelo che in quel
momento aveva gli occhi tristi.
Le SS sembravano più preoccupate, più
inquiete del solito. Impiccare un bambino
davanti a migliaia di spettatori non era
un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati
sul bambino. Era livido, quasi calmo e si
mordeva le labbra. L’ombra della forca lo
copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre SS lo sostituirono. I tre
condannati salirono insieme sulle loro
seggiole. I tre colli vennero introdotti
contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà, gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov’è il Buon Dio? Dov’è?, domandò
qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre
Eravamo arrivati. A Birkenau
Verso le undici il treno si rimise in movimento. Ci si affollava alle finestre. Il
convoglio rotolava lentamente. Un quarto
d’ora dopo rallentò ancora. Dalle finestre
si scorgevano dei reticolati: capimmo che
doveva trattarsi del campo.
Avevamo dimenticato l’esistenza della signora Schächter, quando improvvisamente sentimmo un urlo terribile:
- Ebrei, guardate! Guardate il fuoco! Le
fiamme, guardate!
E mentre il treno si era fermato, noi vedemmo questa volta delle vere fiamme
salire da un alto camino, nel cielo nero.
La signora Schächter aveva smesso da sé
di urlare; era ritornata muta, indifferente, assente, nel suo angolo.
Noi guardavamo le fiamme nella notte. Un
odore abominevole aleggiava nell’aria.
Improvvisamente le porte si aprirono. Dei
curiosi personaggi, con delle giacche a righe e dei pantaloni neri, saltarono sul carro. In mano una lampada elettrica e un
bastone. Si misero a picchiare a destra e a
sinistra, prima di gridare:
- Scendere tutti! Lasciate tutto sul carro!
Presto!
Noi saltammo giù. Diedi un ultimo sguardo alla signora Schächter. Il suo bambino
le teneva la mano. Davanti a noi, quelle
fiamme. Nell’aria, quell’odore di carne
bruciata. Doveva essere mezzanotte.
Eravamo arrivati.
A Birkenau.
(Elie Wiesel, La notte, editrice La Giuntina, p. 34)
Dov’è il buon Dio? Il piccolo pipel dagli
occhi tristi
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto, la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una
traccia: portava al blocco dell’Oberkapo
olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu
trovata una notevole quantità di armi.
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e lo spazio, di sottometterli alla loro volontà.
“Chi sei Tu, mio Dio – pensavo con rabbia –
in confronto a questa folla addolorata
che viene a gridarTi la sua fede, la sua
ira, la sua rivolta? Che significa la Tua
grandezza, Signore dell’Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a
questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?”.
Diecimila uomini erano venuti ad assistere alla solenne funzione! Capiblocco, kapò, funzionari della morte.
- Benedite l’Eterno…
La voce dell’officiante si faceva appena
sentire. All’inizio credetti che fosse il
vento.
- Sia benedetto il Nome dell’Eterno!
Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella
tempesta.
- Sia benedetto il Nome dell’Eterno!
Ma perché, perché benedirlo? Tutte le mie
fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare
migliaia di bambini nelle fosse? Per aver
fatto funzionare sei crematori giorno e
notte, anche di sabato e nei giorni di festa?
Per aver creato nella sua grande potenza
Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre
fabbriche di morte? Come avrei potuto dirgli: “Benedetto Tu sia, o Signore, Re
dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli
per venire torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri
fratelli finire al crematorio? Sia lodato il
Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per
essere sgozzati sul Tuo altare?”.
Sentivo la voce dell’officiante alzarsi, potente e affranta a un tempo, fra le lacrime, i singhiozzi e i sospiri di tutti i presenti:
- Tutta la terra e l’universo appartengono
a Dio!
Si fermava a ogni istante, come se non
avesse la forza di ritrovare sotto le parole
il loro contenuto. La melodia gli si strozzava in gola.
E io, il mistico di una volta, pensavo: "Sì,
l’uomo è più forte, più grande di Dio.
seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto.
All’orizzonte il sole tramontava.
Quanto a noi, noi piangevamo.
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata,
bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora…
Più di una mezzora restò così, a lottare
fra la vita e la morte, agonizzando sotto i
nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo
bene in faccia. Era ancora vivo quando gli
passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me sentii il solito uomo domandare:
- Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov’è? Eccolo. È appeso lì, a quella forca…
(Da Elie Wiesel, La Notte, La Giuntina
1995, pp. 65-67)
Ma perché, perché benedirlo?
L’estate era agli sgoccioli. L’anno ebraico
stava terminando. La vigilia di Rosh Hashanà, ultimo giorno di quell’anno maledetto, il campo era elettrizzato dalla
tensione che regnava nei cuori. Era, malgrado tutto, un giorno diverso dagli altri:
l’ultimo giorno dell’anno.
Sul piazzale dell’appello, circondati dai
reticolati elettrici, migliaia di ebrei silenziosi si erano riuniti, il volto stravolto.
La notte scendeva. Da tutti i blocchi altri
prigionieri continuavano ad affluire, capaci improvvisamente di vincere il tempo
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all’ospedale e passai due settimane fra la
vita e la morte.
Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi
nello specchio che era appeso al muro di
fronte: non mi ero più visto dal ghetto.
Dal fondo dello specchio un cadavere mi
contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più.
(Da Elie Wiesel, La notte, La Giuntina
1995, p. 112).
Quando fosti deluso da Adamo ed Eva, Tu
li scacciasti dal Paradiso. Quando la generazione di Noè non Ti piacque più, facesti venire il diluvio. Quando Sodoma
non trovò più grazia ai Tuoi occhi, Tu facesti piovere dal cielo il fuoco e lo zolfo.
Ma questi uomini qui, che Tu hai tradito,
che Tu hai lasciato torturare, sgozzare,
gassare, bruciare, che fanno? Pregano
davanti a Te! Lodano il Tuo Nome!"
- Tutta la creazione testimonia la grandezza di Dio!
In altri tempi il giorno del nuovo anno
dominava la mia vita; sapevo che i miei
peccati rattristavano l’Eterno e imploravo il Suo perdono. In altri tempi credevo
profondamente che da uno solo dei miei
gesti, che da una sola delle mie preghiere, dipendesse la salvezza del mondo.
Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo, al contrario,
molto forte. Ero io l’accusatore, e
l’accusato, Dio. I miei occhi si erano
aperti ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza
amore né pietà. Non ero nient’altro che
cenere, ma mi sentivo più forte di
quell’Onnipotente al quale avevo legato
la mia vita così a lungo. In mezzo a quella
riunione di preghiera ero come un osservatore straniero.
(Elie Wiesel, La Notte, La Giuntina 1995,
pp. 68-70)
Il pericolo è normalizzare l’Olocausto
Non voglio scoraggiare nessuno, ma a
volte credo che abbiamo perso la lotta
per il ricordo. Questo non significa che
dobbiamo smettere di lottare. Al contrario, dovremmo continuare a combattere.
Il tempo però lavora contro di noi, come
diceva Joachim Fest: il tempo è un alleato potente di coloro che parteggiano
per la storicizzazione del nazismo. La
gente non vuole più ricordare. Non può
convivere con la verità e allora pensa di
poter vivere contro di essa. Ma anche se
siamo solo in pochi e se diventiamo sempre meno, dovremo continuare a ricordare. Fra cento anni gli studenti scopriranno che ci furono alcuni che rimasero
fedeli alla memoria. Questo è un motivo
sufficiente per continuare a ricordare.
Spiegare la singolarità di Auschwitz non
è semplice. L’argomento che più frequentemente si ripete è ancora valido: il
popolo ebreo era ed è l’unico popolo destinato all’estinzione completa. Questo
significa che un ebreo nell’Estremo
Oriente o un ebreo a New York o in Nor-
Dal fondo dello specchio un cadavere
mi contemplava
Il nostro primo gesto di uomini liberi fu
quello di gettarci sulle vettovaglie. Non
pensavamo che a quello, né alla vendetta, né ai parenti: solo al pane.
E anche quando non avemmo più fame,
non ci fu nessuno che pensò alla vendetta. Il giorno dopo, qualche giovanotto
corse a Weimar a raccogliere patate e vestiti, e qualche ragazza, ma di vendetta
nessuna traccia.
Tre giorni dopo la liberazione di
Buchenwald, io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito
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vegia era condannato a morte. Nessun
altro popolo condivide questo destino
tranne un popolo dell’antichità, gli etruschi. Furono estinti e nessuno sa il perché. Un bel giorno i romani decisero di
ammazzare tutti gli etruschi e questa
decisione si trasformò in un fatto. Questa decisione fu tale che i romani giunsero a distruggere completamente la cultura e la lingua etrusca.
Un ulteriore motivo della singolarità di
Auschwitz è che nessun popolo fu mai
tanto solo quanto quello ebreo. Durante
la guerra anche altri uomini furono eliminati dai tedeschi, non solo gli ebrei. Per
tutti esistevano comitati di soccorso che
sostenevano questa gente. I comunisti furono sostenuti da Mosca, altri da Washington o da Londra, gli ebrei non ebbero alcun aiuto. Non ebbero nessuno al loro fianco. Perfino dopo la guerra gli ebrei
non avevano una patria dove poter andare. Quando un francese fu liberato dal
campo di concentramento, poté ritornare
a casa sua; addirittura i tedeschi, che
erano nei lager, poterono farlo. Gli ebrei
non sapevano dove andare. Se fossero
tornati dove vivevano prima, sarebbero
stati perseguitati anche dopo la guerra, e
perfino uccisi. In Ungheria, ad esempio,
l’antisemitismo fu più forte dopo la guerra che non prima, poiché coloro che si
erano impossessati delle proprietà degli
ebrei non volevano restituire nulla a coloro che erano riusciti a tornare. Le vittime
dovevano sopportare una pena doppia.
Nonostante tutti questi argomenti “razionali”, ci deve essere di più, qualcosa di
sconosciuto che rende tanto singolare la
singolarità. Ci sono storici che vorrebbero
far rientrare l’Olocausto nel corso generale della storia, vorrebbero “normalizzare” questo evento. Fare questo è completamente assurdo. Un evento di questa
portata non si può rimuovere. Se accadesse questo, tale evento riemergerebbe
con una potenza indomabile. Finché la
Germania evita consapevolmente il suo
passato, sarà sempre in pericolo. Quando
una persona singola rimuove un avvenimento di un certo peso del suo passato,
si ritroverà un giorno o sul lettino dello
psichiatra o in un manicomio. E lo stesso
può succedere a una comunità.
(da Elie Wiesel, Johann Baptist Metz, Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz, Rubettino 2011)
Per approfondire
•
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Elie Wiesel, La Notte, La Giuntina 1995
Elie Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare. Memorie, Bompiani 2002
Elie Wiesel, Il processo di Shamgorod, La Giuntina 1995
Elie Wiesel, J. Baptist Metz, Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz, Rubettino 2011
• Elie Wiesel, Jorge Semprùn, Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto, Guanda 1996
• Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il melangolo 2002
• Emil L. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana 2011
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