Seneca. Incipit Tesi - Università degli Studi di Verona

Quae mihi tunc fuerint solacio dicam, si prius hoc dixero,
haec ipsa quibus adquiescebam medicinae vim habuisse;
in remedium cedunt honesta solacia, et quidquid animum
erexit etiam corpori prodest.
Studia mihi nostra saluti fuerunt; philosophiae acceptum
fero quod surrexi, quod convalui; illi vitam debeo et nihil
illi minus debeo.
Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, IX, 78, 3.
INDICE
Elenco delle abbreviazioni delle opere di Habermas…………………...………….p. 7
Introduzione………………………………………………………………………….p. 9
CAPITOLO PRIMO
Coordinate storico-concettuali di un problema: la “questione scientismo”
all’interno delle scienze sociali……………………………………………………...p.17
§. 1. Sociologia dialettica e sociologia empirica. La prospettiva di Th. W. Adorno...p. 19
§. 2. Più in profondità nel dibattito Adorno-Popper: due relazioni a confronto……..p. 31
CAPITOLO SECONDO
L’ampliarsi del dibattito: l’ingresso di Habermas nella controversia sul positivismo
e la querelle con Hans Albert……………………………………………………….p.51
§. 1. Epistemologia analitica e dialettica: il tentativo di mediazione di Habermas nella
disputa Adorno-Popper………………………………………………………………p. 52
§. 2. Avalutatività: la centralità di fatti e decisioni…………………………………..p. 63
§. 3. La risposta di Hans Albert e l’inasprirsi del dibattito…………………………..p. 77
CAPITOLO TERZO
Per una fondazione teoretico-conoscitiva
della «Kritische Theorie der
Gesellschaft»: il rapporto conoscenza-interesse…………………………………p. 105
§. 1. A partire da Horkheimer. Lo iato tra teoria tradizionale e teoria critica……...p. 107
§. 2. Con Husserl e contro Husserl ovvero la fondazione epistemologica della teoria
critica della società…………………………………………………………………p. 117
§. 3. La suddivisione delle scienze e la definizione degli interessi posti alla loro
guida………………………………………………………………………………..p. 123
Excursus. Gehlen e la teoria delle istituzioni: la critica di Habermas……………...p. 136
CAPITOLO QUARTO
Erkenntnis und Interesse. Lo sviluppo sistematico della connessione di conoscenza e
interesse……………………………………………………………………………p. 149
§. 1. Da Hegel a Marx e ritorno. Tentativi di soluzione e nuove oscurità……...…..p. 153
§. 2. Dall’interesse tecnico all’interesse pratico. Il misconoscimento della
riflessione…………………………………………………………………………...p. 173
§. 3. Dal modello psicoanalitico alla «scienza critica». Autoriflessione e unione di
conoscenza e interesse……………………………………………………………...p. 194
5
CAPITOLO QUINTO
La difficile traduzione del rapporto di teoria e prassi nella sfera politica…….p. 209
§. 1. Poiesis e praxis. La ripresa della valenza pratica della politica aristotelica…..p. 212
§. 2. Il pensiero politico di Hegel: l’ambiguità del rapporto tra teoria e prassi…….p. 226
§. 3. Materialismo storico come critica…………………………………………….p. 245
Conclusione………………………………………………………………………..p. 259
Bibliografia………………………………………………………………………...p. 267
6
ELENCO DELLE ABREVIAZIONI DELLE OPERE DI
HABERMAS
Positivismusstreit: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Luchterhand,
Neuwied-Berlin 1969 (tr. it. di A. Marietti Solmi, Dialettica e
positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972).
Erkenntnis und Interesse: Erkenntnis und Interesse, in Technik und Wissenschaft als
Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. di C.
Donolo, Conoscenza e Interesse, in Teoria e prassi nella
società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 3-18).
LS:
Zur Logik der Sozialwissenschaften, Mohr, Tübingen 1967, numero speciale
della «Philosophische Rundschau», febbraio 1967; (tr. it. di G.
Bonazzi, Intr. di A. Santucci, Logica delle scienze sociali, Il Mulino,
Bologna 1970).
EI:
Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. di Gian
Enrico Rusconi, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari 1970. Terza
edizione con l’aggiunta del Poscritto 1973, trad. di Emilio Agazzi,
1983).
TP:
Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Luchterland, NeuwiedBerlin 1963. Quarta edizione, rivista, ampliata e con una nuova
introduzione, edita da Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973; (tr. it. di A.
Gajano, Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino,
Bologna 1973).
PDM:
Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwolf Vorlesungen, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1985; (tr. it. di Emilio e Elena Agazzi, Il discorso
filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987).
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INTRODUZIONE
Nell’arco di quasi cinquant’anni, il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas
ha sviluppato un complesso percorso teoretico che, già negli anni Ottanta, è
notoriamente approdato alla sistemazione definitiva del nucleo più innovativo e, del
resto, più fecondo del suo pensiero: la teoria dell’agire comunicativo1. Nei decenni
successivi, la sfera d’interesse delle riflessioni habermasiane si è infatti ulteriormente
ampliata a
temi cruciali per l’epoca, quali, ad esempio, la questione dell’etica
normativa2, della modernità3, del multiculturalismo4 e, più di recente, del rapporto tra
scienza e fede5.
Consapevole della complessità tematica che definisce l’intera produzione di
Habermas, il lavoro di ricerca qui presentato va soprattutto a rileggere i suoi testi
giovanili, nell’intento di comprendere la genesi degli snodi problematici che hanno
impresso alle riflessioni habermasiane una svolta fondamentale verso la tematizzazione
dell’interazione dialogica quale paradigma concettuale decisivo del suo pensiero. La
ricerca si concentra quindi su quella fase della formazione habermasiana che può essere
definita di «transizione», ossia sul passaggio dagli anni di collaborazione con l’Institut
für Sozialforschung – sotto l’influenza diretta di Adorno e Horkheimer – fino al
definitivo distacco dall’impostazione dialettica e all’elaborazione autonoma del modello
1
J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 Bdd, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1981; (tr. it.
di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., Il Mulino, Bologna 1986).
2
HABERMAS Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1983; (tr. it.
A cura di E. Agazzi, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985), Id., Erläuterungen zur Diskursethik,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991; (tr. it. di V. Tota, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994) e Id.,
Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992; (tr. it. di L. Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del
diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996).
3
HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt a.
M. 1985; (tr. it. di Emilio e Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari
1987).
4
HABERMAS, Lotta di riconoscimento nello Stato democratico di diritto, in J. HABERMAS, CH:
TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998 (CONTROLLA!!),
Id., Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1996; (tr.
it. di L. Ceppa, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998) e Id., Die Postnationale Konstellation.
Politische Essays, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1998; (tr. it. di L. Ceppa, La costellazione postnazionale.
Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999).
5
HABERMAS, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a.
M. 2005; (tr. it. di M. Carpitella, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006).
9
dell’intesa comunicativa. Si tratta, com’è noto, di anni cruciali - nel periodo compreso
tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta – durante i quali
l’attenzione di Habermas si polarizza sulla cosiddetta critica allo scientismo, da lui
definito come “l’orientamento secondo cui una filosofia scientifica deve procedere, al
pari delle scienze stesse, intentione recta, ossia deve avere innanzi a sé il suo proprio
oggetto (e non può invece accertarsi di se stessa in via riflessiva)”6. Anche per ragioni
biografiche, la sua formazione giovanile si situa direttamente nell’alveo delle scienze
sociali e del dibattito ad esse inerente.
Dopo gli studi universitari a Bonn, Habermas giunge all’Istituto di ricerca sociale
di Francoforte in qualità di Forschungsassistent di Adorno. In quegli stessi anni, il
maestro francofortese è impegnato nella discussione sullo statuto epistemologico delle
scienze sociali e nella contrapposizione diretta con Karl Popper, secondo la suddivisione
ormai celebre tra epistemologi dialettici e analitici o – per usare una definizione che
diventerà usuale – positivisti. I tratti salienti della presa di posizione habermasiana
contro lo scientismo emergono precisamente entro questa cornice che, oltre a fungere da
circostanza, lo vede partecipare in modo attivo al dibattito sociologico in corso.
Ricostruirne in dettaglio lo sfondo e lo svolgimento, dando l’attenzione dovuta ai suoi
maggiori protagonisti, è quindi il punto obbligato da cui la ricerca prende avvio.
L’impostazione adottata per lo svolgimento della ricerca stessa – come sembra
doveroso confessare in questa sede introduttiva – risente tuttavia, e soprattutto, del
colloquio che Jürgen Habermas mi ha gentilmente concesso, nel gennaio 2007. Dalle
risposte alle domande da me poste – che, su richiesta dell’autore, non posso riportare
integralmente sotto forma di intervista – sono emersi gli snodi teoretici fondamentali
connessi alla critica allo scientismo, e si è così rischiarato anche l’andamento
metodologico seguito nella ricostruzione storico-tematica di questa fase del suo
pensiero.
Per la sua esposizione, si rende innanzitutto necessaria una suddivisione del campo
d’indagine in due aree principali: la prima afferente all’ambito sociologico e la seconda
attinente al contesto più propriamente filosofico. Lo scopo di questa ripartizione è
quello di evidenziare, da un lato, la scansione cronologica secondo la quale i temi
dell’analisi habermasiana – sotto l’aspetto storico-genetico – si susseguono tra loro e,
6
HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. di G. E. Rusconi,
Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari 1983, traduzione della terza edizione col Proscritto 1973).
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dall’altro, di mostrare come le questioni emergenti all’interno della discussione
sociologica costituiscano l’ineludibile e costante riferimento di Habermas, anche nel
confronto interno alla filosofia.
Nel primo capitolo viene preso in esame il dibattito, sviluppatosi negli anni
Cinquanta tra Adorno e Popper, sullo statuto epistemologico delle scienze sociali. La
disputa, che va sotto il nome di Positivismusstreit, ha il suo culmine nel congresso La
logica delle scienze sociali della Società Tedesca di Sociologia, svoltosi a Tubinga nel
1961, che vede nelle personalità di Adorno e Popper i due interlocutori principali. Le
loro relazioni – assieme ad alcuni saggi successivi miranti ad argomentare con maggior
precisione le rispettive posizioni – sono perciò esaminate con l’obiettivo di enucleare
soprattutto i punti di divergenza tra l’impostazione «dialettica» (Adorno) e quella
«positivistica» (Popper). I concetti a cui si rivolge qui l’attenzione sono soprattutto
quelli di «totalità» (Totalität) e di «avalutatività» (Wertfreiheit), poiché essi, oltre a
qualificare i due diversi approcci alle scienze sociali, costituiscono anche due dei
termini centrali attorno ai quali si snoda il discorso habermasiano. La definizione di
totalità sociale costituisce, in effetti, un aspetto fondamentale per l’orientamento
dialettico. Detto in sintesi, suo presupposto fondamentale è che si possa condurre lo
studio sulla realtà sociale come su un tutto unitario, all’interno del quale non è possibile
operare astrazioni attraverso un’osservazione asettica, mirante a separare la componente
umana dall’ambiente in cui è naturalmente inserita. Ciò spiega, fra l’altro, perché la
connotazione di avalutatività - attribuita da Popper alle scienze sociali nel suo intento di
omologarle alle scienze empiriche - rappresenti un ulteriore terreno di confronto tra
dialettici e positivisti. In questo preciso orizzonte si inscrive, non a caso, anche la critica
habermasiana contro la pretesa di condurre l’indagine sulla società, presupponendo la
possibilità di una separazione tra fatti e norme,
In questo campo polemico, nel periodo immediatamente successivo, si colloca la
querelle tra Habermas e Hans Albert, sociologo di orientamento positivistico, allievo di
Popper. E’ questo un punto decisivo per la tesi sostenuta nella ricerca. Analizzando in
dettaglio i termini della contrapposizione, essa infatti si sforza di portare alla luce i tratti
innovativi – e già in un certa misura indipendenti dalle posizioni adorniane – che
contraddistinguono la posizione di Habermas nel dibattito sociologico. I testi presi in
considerazione – che, insieme a quelli relativi disputa Adorno-Popper, sono compresi
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nel volume Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie – permettono di seguire
da vicino la nascita di due aspetti fondamentali delle successive riflessioni del giovane
Habermas. Il primo concerne l’idea che alla base delle scienze empirico-analitiche vi sia
un interesse di tipo tecnico, mirante al controllo della natura attraverso processi
oggettivanti: a questo Habermas contrappone un interesse prescientifico di tipo pratico,
che orienta all’azione gli uomini nel mondo in cui vivono. Strettamente connesso al
primo, si palesa il secondo aspetto, relativo al linguaggio: contro i vincoli grammaticali
di teorie miranti alla produzione di sapere tecnico-scientifico, viene portata
all’attenzione la rilevanza del linguaggio ordinario quale unica dimensione – nella
prospettiva habermasiana – che permette il raggiungimento di un accordo
intersoggettivo, non solo nella vita quotidiana, ma anche all’interno della comunità
scientifica.
A partire dalla centralità che le espressioni “precomprensione ermeneutica” e
“naturale ermeneutica del linguaggio quotidiano” acquistano all’interno del contesto
sociologico, la ricerca va poi ad indagare il versante – probabilmente il più innovativo
in questi anni – del tema degli interessi guida della conoscenza. Per economia
argomentativa, viene così operata una breve parentesi cronologica che tralascia – seppur
momentaneamente – il testo Theorie und Praxis, ma permette tuttavia di ricostruire con
una certa chiarezza il percorso che connette l’ambito sociologico con quello filosofico,
secondo il denominatore comune della critica al positivismo.
L’analisi della prolusione Erkenntnis und Interesse – scritta da Habermas nel 1965
in occasione del suo insediamento a Francoforte come successore alla cattedra di
Horkheimer – segna il passaggio alla seconda delle due aree in cui si suddivide la
ricerca. La Antrittsvorlesung dischiude il nuovo orizzonte delle riflessioni del filosofo,
sempre più rivolto all’elaborazione della centralità degli interessi posti alla guida della
conoscenza. Nel discorso sullo statuto delle scienze empirico-analitiche e di quelle
storico-ermeneutiche, ha così modo di venire in primo piano il grande rilievo che
Habermas attribuisce alle scienze critiche, e all’interesse emancipativo posto alla loro
base, secondo il progetto della fondazione di una nuova teoria critica della società. Il
medesimo contesto fa del resto emergere anche il ruolo del linguaggio – tema, a dir
poco, cruciale per il programma habermasiano nei suoi futuri sviluppi –. Nella
prospettiva antropologico-trascendentale che si viene qui delineando, il linguaggio è
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infatti già il solo strumento, naturalmente posseduto dall’uomo, a permettere l’intesa
intersoggettiva, configurandosi al contempo come elemento caratterizzante di un
interesse emancipativo capace di porre le basi per una società libera da costrizioni
ideologiche.
La ricerca si sforza di evidenziare come la prolusione, pur nella sua brevità, offra
un’occasione anche per elaborare un confronto tra Habermas e alcuni dei filosofi più
autorevoli del XX secolo. Il primo raffronto chiama in causa Max Horkheimer e, in
particolare, il testo Traditionelle und kritische Theorie che, secondo la nostra lettura,
costituisce il principale riferimento habermasiano sia per la tematizzazione degli
interessi guida della conoscenza, sia per l’attribuzione del carattere contemplativo alla
teoria tradizionale. Il secondo confronto – direttamente connesso all’idea di teoria
tradizionale come contemplazione – chiama invece in causa Edmund Husserl e il testo
– coevo a quello horkheimeriano sopra citato – Die Krisis der europäischen
Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. In questa circostanza – a
partire dall’assunto che la teoria tradizionale e il positivismo condividono un’attitudine
contemplativa che nega la loro connessione con l’interesse – emergono, da un lato, i
limiti dell’approccio fenomenologico per la soluzione della crisi delle scienze sotto il
dominio positivistico e, dall’altro, le linee guida per la proposta terapeutica
habermasiana di ripristino del rapporto innegabile tra conoscenza e interesse. Infine,
viene proposto il confronto con Arnold Gehlen e la teoria delle istituzioni da lui
elaborata, con l’obiettivo di enucleare la possibile origine della proposta gnoseologica
habermasiana all’interno della cornice dell’antropologia filosofica e, al contempo, di
mostrare il motivo del rigetto habermasiano del concetto di istituzione – quale
strumento in grado di ricondurre all’ordine il caos, cui il genere umano in quanto tale è
naturalmente destinato – a favore della centralità di una filosofia della storia capace di
orientare l’uomo nel mondo.
Di tre anni successiva è la pubblicazione del volume Erkenntnis und Interesse, che
riprende, non solo nel titolo, il tema degli interessi guida della conoscenza. Il testo
rielabora da un punto di vista sistematico i concetti esposti nella prolusione del 1965 e si
propone di ricostruire il processo di dissoluzione della teoria della conoscenza a
vantaggio della teoria della scienza, giunto al suo culmine con il neopositivismo. Nel
ripercorrere la genesi di questa trasformazione – attraverso il pensiero di Hegel e Marx,
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del positivismo di Comte e Mach, del pragmatismo di Peirce e dello storicismo di
Dilthey – la ricerca si propone di mostrare in che cosa consista il nucleo più innovativo
delle riflessioni del giovane Habermas. Perseguendo l’obiettivo di costruire una nuova
teoria critica della società, svincolata da ogni forma di pressione ideologica, un certo
rilievo assume qui, fra l’altro, l’intenzione habermasiana di assumere il modello della
psicoanalisi freudiana come paradigma terapeutico-emancipativo sul quale fondare lo
statuto della scienza critica sociale. Tale paradigma sarebbe infatti capace di realizzare
concretamente il progetto di liberazione, attraverso il principio che intende la critica
come unione di conoscenza e interesse.
Nell’ultimo capitolo viene finalmente analizzata la raccolta di saggi Theorie und
Praxis, prima appunto tralasciata. Dei tre gruppi tematici qui presi in esame da
Habermas – manifestazione dei diversi modi in cui si esprime il rapporto tra «teoria» e
«prassi» – viene privilegiato quello che più propriamente rimanda alla sfera politica e,
in particolare, alla difficoltosa traduzione, al suo interno, della coppia categoriale teoriaprassi. In primo luogo, la ricerca va così a riflettere sulla nota questione della valenza
aristotelica della politica, contro l’omologazione, emersa nell’età moderna, dell’agire
tecnico con quello pratico, intesi rispettivamente come poiesis e praxis. In secondo
luogo, sposta la sua attenzione sugli scritti politici di Hegel, all’interno dei quali la
relazione tra teoria e prassi si mostra nella sua ambivalenza, emergente soprattutto nel
passaggio dagli scritti più propriamente teoretici e sistematici (Filosofia del diritto) a
quelli inerenti all’attività di pubblicista. Infine, prende in esame la peculiare
interpretazione habermasiana del materialismo storico come teoria critica della società,
concezione che si inserisce ancora nella tradizione dialettica francofortese.
Proprio l’eredità francofortese sta, del resto, per essere superata definitivamente e,
con essa, l’itinerario che ha portato Habermas fin qui. Per quanto alcuni dei temi trattati
– ad esempio, la centralità concettuale del linguaggio e dell’intesa dialogica – anticipino
quelli che saranno i nuclei fondamentali delle successive riflessioni, a partire dai primi
anni Settanta, l’intero programma fin qui elaborato viene infatti abbandonato dal
filosofo. Per comprendere le ragioni che hanno determinato questa rinuncia, nelle sue
pagine conclusive, la ricerca tenta appunto di riflettere sui punti che hanno portato a tale
esito. L’emblematica svolta del pensiero di Habermas nella direzione della Teoria
dell’agire comunicativo si deve, forse, a più di una ragione, non ultime le ragioni di una
14
critica, per così dire esterna, che non ha mancato di sottolineare alcuni aspetti della sua
teoria ritenuti discutibili o non sufficientemente sostenuti da solide argomentazioni.
Come la ricerca si sforza di argomentare, il principale movente del cambiamento è però
tutto interno al processo di riflessione che, snodandosi dagli anni giovanili e
consumandosi sulle questioni inaugurate dal dibattito sullo scientismo, porta Habermas
a scoprire l’obsolescenza di certi temi e la centralità epocale di altri. Non del tutto
imprevista o, per lo meno, rintracciabile nei sui percorsi pur tortuosi, questa scoperta
lascia nei testi del primo Habermas interessanti sintomi che sono degni di un’attenta
considerazione.
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CAPITOLO PRIMO
Coordinate storico-concettuali di un problema: la genesi della
“questione scientismo” all’interno delle scienze sociali.
Benché sia arduo fornire una descrizione esaustiva del XX secolo, appare chiaro
come il termine «tecnica» rappresenti un sostantivo che ben si coniuga con una delle
peculiarità del centennio da poco conclusosi, caratterizzato dal rapidissimo progresso
tecnico e dallo sviluppo scientifico, responsabili di epocali trasformazioni, in particolare
di tipo economico e sociale. Non può dunque stupire il fatto che questioni riguardanti il
rapporto dell'uomo con la tecnica siano diventate centrali nelle riflessioni dei più grandi
pensatori del Novecento1 e che siano stati posti importanti interrogativi circa il valore da
attribuire a tali incommensurabili mutamenti nell'assetto sociale ed economico
dell'Europa. È indiscutibile che la tecnica, a partire dalla Rivoluzione Industriale, abbia
acquisito un ruolo tale nella vita dell'uomo da non potersi sottrarre allo sguardo
indagatore della filosofia2.
Molteplici sono le forme in cui la tecnica e la scienza, e più precisamente il ruolo
dell'uomo nei loro confronti, sono state analizzate dai filosofi nel corso del secolo
scorso; diversi appaiono gli approcci problematizzanti con cui la questione è stata
trattata; punti di osservazione talvolta del tutto contrapposti tra loro hanno fatto sì che
questa si trasformasse in un topos filosofico, e non solo, del pensiero continentale.
Il riferimento di Jürgen Habermas, nel corso degli anni Sessanta, alla sfera del
progresso tecnico e scientifico del XX secolo assume dei caratteri del tutto peculiari se
1 Data la mole della letteratura critica sul tema, mi limito qui a segnalare i testi più significativi: J.
ORTEGA Y GASSET, Meditación de la técnica, Buenos Aires 1959; M. HEIDEGGER, Die Frage nach
der Technik, die Technik und die Kehre; O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer
Philosophie des Lebens, München 1931; B. RUSSEL, The scientific outlook, London 1931; H.
SCHELSKY, Der Mensch in der wissenschaftlichen Zivilisation, Köln 1961; H. FREYER, Über das
Dominantwerden technischen Kategorien in der Lebenswelt der industrielle Gesellschaft; H. MARCUSE,
Der eindimensionale Mensch, Berlin 1968; E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a. M. 1959; K.
JASPERS, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, München-Zurich 1949.
2 “Es ist unbestreitbar, dass die Technick seit der Industrielle Revolution an Bedeutung zugenommen hat
– ihr Einfluß auf die Lebenswirklichkeit des Menschen wächst mit exponentieller Geschwindigkeit, so
daß eine Philosophie, die Vollständigkeit anstrebt, es sich einfach nicht leisten kann, an dieser Phänomen
vorbeizusehen.” in V. HÖSLE, Warum ist die Technik ein philosophisches Schlüsselproblem geworden?,
in id, Praktische Philosophie in der modernen Welt, Beck, München 1992, p. 87.
17
confrontati con le trattazioni di altri pensatori a lui precedenti o contemporanei. È
dunque necessario, ai fini di una comprensione della produzione del filosofo tedesco,
tracciare le direzioni lungo le quali si svolge la sua analisi critica, che interessa ambiti
diversi e molto specifici di applicazione.
Innanzitutto è necessario richiamare l’attenzione sulla controversia generatasi
nell’ambito delle scienze sociali tra Th. W. Adorno e K. Popper. Solo in relazione alla
disputa, che va sotto il nome di Positivismusstreit, sorta tra questi due pensatori, è infatti
possibile rinvenire i motivi strutturali che stanno alla base del dibattito tra Habermas e
H. Albert e che costituiscono il nucleo di partenza della critica allo scientismo
sviluppata da Habermas per tutto il decennio successivo. Tale critica, com’è noto, non
si limita solo all’ambito delle discipline sociologiche, ma si estende su un’area
decisamente più ampia che comprende in maniera molto profonda anche una sfera più
genuinamente filosofica. Il quadro presenta, pertanto, una trama molto fitta tra settori
disciplinari talvolta molto distanti tra loro e che tuttavia sono indagati secondo lo stesso
sguardo antiscientistico. Ogni tentativo di separare tra di loro vari aspetti dell’indagine
habermasiana risulta così permeato da numerose difficoltà che rischiano di evidenziare
una serie di elementi di per sé sterili, privandoli del loro tratto costituivo e propriamente
legato al modo di operare dell’autore, ossia al loro essere intimamente connessi, pur in
relazione a questioni appartenenti ad ambiti diversi. Va dunque sempre considerata
tanto la contemporaneità di testi che trattano di settori disciplinari differenti, quanto il
sostrato teoretico entro cui tale presa di posizione viene a formarsi. Risulta insomma
necessario, almeno in fase ricostruttiva, attenersi ad un andamento strettamente storico,
secondo una progressione cronologica indispensabile sia per rendere conto della
coerenza con cui Habermas affronta il problema dello scientismo, sia per rendere
giustizia alla grande originalità che permea il suo pensiero complessivo,
differenziandolo dalle posizioni di altri pensatori solo superficialmente analoghe.
Per ricostruire con puntualità la genesi della contrapposizione habermasiana allo
scientismo, è utile ricondurre innanzitutto l’indagine nel cuore della sociologia, ed in
particolare al congresso della Società Tedesca di Sociologia, tenutosi a Tubinga nel
1961 dal titolo La logica delle scienze sociali. È infatti possibile individuare in questo
preciso momento l’espressione più chiara della contrapposizione tra dialettici e
scientisti, dove per la prima volta vengono confrontate due concezioni della sociologia
18
ben distinte, riconducibili una alla figura di Theodor W. Adorno e l’altra a quella di
Karl Popper.
Come correttamente fa notare Rolf Wiggerhaus, il Seminario di Tubinga rappresenta
il prosieguo di un dibattito risalente agli anni Cinquanta, durante il quattordicesimo
Congresso dei Sociologi Tedeschi, svoltosi a Berlino nel 1959. Le relazioni principali,
quella di Max Horkheimer, Soziologie und Philosophie, e quella di René König,
Wandlungen in der Stellung der sozialwissenschaftlichen Intelligenz, indicano già
chiaramente due concezioni della disciplina nettamente contrapposte. Horkheimer nel
suo intervento, ribadisce la necessità di non tralasciare il compito fondamentale della
sociologia come “riflessione della società su se stessa”, dal momento che il suo scopo
primario consiste nella “giusta convivenza tra gli uomini”3; König, respingendo con
vigore la posizione horkheimeriana, vi contrappone l’idea di una sociologia pura, come
scienza rigorosamente specialistica. Secondo Wiggerhaus, sul terreno di questa nuova
idea di sociologia come «scienza pura» e nel richiamo alla «realtà delle cose», possono
ragionevolmente collocarsi tanto la “diagnosi tecnocratica dell’epoca contemporanea di
Schelsky” quanto la “teoria scientifica neoliberale di Popper”4.
§. 1. Sociologia dialettica e sociologia empirica. La prospettiva di T. W. Adorno.
Il seminario di Tubinga aveva visto – secondo le parole di Ralf Dahrendorf - la
ricerca di posizioni “commensurabili” da parte dei due relatori principali, al punto tale
da far apparire in taluni punti
le relazioni di entrambi pressoché prive di ogni
contrasto5. Tuttavia, queste stesse formulazioni comuni nascondevano in realtà
“profonde differenze nella sostanza”6, rinvenibili in primo luogo nel differente
riferimento alla filosofia, come ricorso esplicito per i «dialettici» o come interesse
metodologico non ingenuo da parte dei «positivisti»7. Per Adorno, entrambe le fazioni
3
R. WIGGERHAUS, Die Frankfurter Schule. Geschichte, Theoretische Entwicklung. Politische
Bedeutung, Carl Hanser Verlag, München 1986 (tr. it. di P. Amari e E. Grillo, La Scuola di Francoforte.
Storia. Sviluppo teoretico. Significato politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 581).
4
Ivi, p. 582.
5
TH. W. ADORNO, K. R. POPPER, R. DAHRENDORF, J. HABERMAS, H. ALBERT, H. PILOT, Der
Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Luchterland, Neuwied-Berlin 1969 (tr. it. di A. Marietti
Solmi, Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972). Da qui Positivismusstreit.
6
ADORNO, Einleitung, in Positivismusstreit, p. 7 (p. 9).
7
Ho racchiuso tra virgolette i termini dialettici e positivisti perché tali definizioni, emerse proprio in
occasione del Congresso di Tubinga, meritano una più ampia precisazione sul loro utilizzo. Mi riservo di
19
contrapposte nel dibattito sulle scienze sociali non erano state in grado di varcare il
limite dell’astrattezza, del discorso metodologico, attuando un effettivo passaggio alla
discussione sulla sociologia in quanto tale.
Un punto fondamentale della lunga Introduzione adorniana al testo che raccoglie le
principali relazioni di Tubinga emerge proprio nelle prime pagine, dove il maestro
francofortese, riferendosi alle difficoltà insite in un procedimento metodologico basato
sulla logica formale, afferma che
la tesi della priorità di quest’ultima è, a sua volta, il nucleo centrale della concezione
positivistica, o (se vogliamo sostituire questa espressione forse troppo compromessa
con un’altra che Popper dovrebbe accettare) scientistica di ogni scienza, sociologia e
teoria della società comprese. Tra gli oggetti della controversia non deve essere eluso il
problema se l’irrinunciabile logicità del procedimento procuri effettivamente alla
logica una posizione di primato assoluto8.
Emerge chiaramente da questo passo il punto focale attorno al quale si snoda l’intero
dibattito, nonché la questione sollevata da Adorno nei confronti dell’approccio
popperiano. La tesi è che l’applicazione di una metodologia esclusivamente logica,
sebbene condotta secondo un’autoriflessione critica, rischi di risultare in una posizione
particolarmente svantaggiosa se messa in atto nell’ambito di “discipline di carattere
contenutistico”9. La ricerca di un punto di equilibrio tra le due prospettive rischia, d’altra
parte, di sortire un effetto paradossale, ossia quello di discutere di problemi complessi
“senza pregiudizi logistici, ma anche senza dogmatismi”; per far fronte all’impasse, cui
inevitabilmente si andrebbe incontro, è dunque fondamentale un cambio scenico, la
ricerca di un campo neutro di confronto, un “luogo mentale” come luogo d’incontro
alternativo, senza tuttavia che vi sia l’accettazione incondizionata di un sistema di regole
che sottostà alla medesima discussione. Secondo Adorno, questo “luogo mentale” non
costituisce una dimensione più astratta di quelle che sono pertinenti ai dialettici e ai
positivisti: esso potrebbe invece rivelarsi come un terreno concreto e reale se si
considerasse il fatto che la logica formale e la scienza nella sua valenza più ampia
affrontare la questione nel corso del testo; qui basta ora ricordare che i termini indicano due precisi
schieramenti nel dibattito sociologico di quegli anni in Germania, il primo facente riferimento a T. W.
Adorno e più in generale alla Scuola di Francoforte, il secondo a K. Popper.
8
Positivismusstreit, p. 9 (p. 11).
9
Ibidem.
20
costituiscono un “rapporto sociale di produzione”, e non solamente forza produttiva
sociale.
Nei confronti dei positivisti, così come sono intesi dal francofortese, tale
affermazione rappresenta un affondo contro l’assunto che sostiene l’esclusiva autonomia
della scienza, “del suo carattere costitutivo per ogni conoscenza”10. Adorno si interroga
sull’esistenza di una reale dicotomia tra conoscenza e processo reale della vita, e si
chiede se questi non debbano essere invece considerati come strettamente connessi, o se
ancora non sussista la possibilità che la conoscenza, nella sua presunta autonomia, non si
generi dalla sua funzione sociale: mantenendo inalterata tale duplicità si incorre nel
rischio di creare un’antinomia rispetto al principio di non-contraddizione, poiché in tal
modo la scienza apparirebbe, al tempo stesso, “autonoma e priva di autonomia”.
Il contrasto tra le due prospettive, quella critica e quella positivista, insiste Adorno, si
palesa nella pretesa di entrambe a presentarsi come l’unico approccio idoneo per
un’indagine rigorosa all’interno delle scienze sociali:
la dialettica […] non ha qui più che altrove il diritto di atteggiarsi a «pensiero
privilegiato»: di darsi l’aria di una facoltà soggettiva eccezionale, di cui l’uno sarebbe
dotato e che sarebbe preclusa all’altro, o di atteggiarsi addirittura ad intuizionismo.
Viceversa, i positivisti devono rinunciare all’atteggiamento che Habermas chiama del
Kannitverstand [in olandese, non riesco a capire], e che consiste nel dichiarare
incomprensibile e squalificare senza esitazioni come tale tutto ciò che non collima con
categorie come i loro «criteri di senso»11.
Sembrerebbe qui che Adorno inviti a valutare come affatto scientifico e
oggettivamente valido solo il metodo dei positivisti, negando che la filosofia tradizionale
possegga i medesimi criteri di precisione metodologica, anche in forza della
volgarizzazione del termine “speculativo”12, privato del suo rigore concettuale. Il tracollo
del sistema hegeliano ha generato la deformazione di ciò che doveva invece
10
Ivi, p. 10 (p. 12).
Ivi, pp. 10-11 (p. 13).
12
Qui Adorno intende due differenti concezioni del termine «speculativo», una rigorosamente hegeliana e
l’altra di utilizzo “popolare”. L’accezione hegeliana del termine è quella utilizzata dall’autore, che
pertanto rivendica un’autoriflessione critica dell’intelletto, attraverso la sua limitazione e autocorrezione;
l’altra, quella comunemente e volgarmente adoperata, invece, considera il termine speculativo come
l’esatto contrario di quello elaborato da Hegel, vale a dire “una sorta di pensiero a ruota libera, privo di
rigore, vano, dove sono assenti l’autocritica logica, appunto e il confronto con le cose” (Ibidem).
11
21
rappresentare la liberazione del pensiero dai propri limiti, il
raggiungimento
dell’obiettività. Ora, la prospettiva oggettiva cede il passo da un lato all’arbitrio
soggettivo, dal momento che la speculazione non è più in grado di esercitare un controllo
universalmente valido; dall’altro al soggettivismo, poiché proprio la speculazione
sarebbe responsabile, a detta dei positivisti, del dissolversi del concetto di «fatto»
insistendo sul «concetto», inteso come una sorta di regressione al realismo scolastico o
ad una creazione ex novo del soggetto pensante al posto della realtà in sé.
Secondo Adorno, la critica più energica contro tale presupposizione è insita nella
stessa natura del positivismo, nella connaturata contraddizione che trae origine dalla sua
pretesa di obbiettività. La purezza da ogni contraddizione e l’abbandono di ogni
presupposto di proiezione soggettiva non sono in grado di rendere il positivismo
effettivamente libero, mostrando al contrario come esso sia “tanto più prigioniero della
particolarità di una ragione meramente soggettiva, strumentale”. In tal senso i positivisti
“ipostatizzano il soggetto conoscente, non più – è vero – come creatore, assoluto, ma pur
sempre come il tópos noetikós di ogni validità, del controllo scientifico”13.
La stessa esasperazione dell’esigenza di oggettività dichiarata nel Tractatus di
Wittgenstein14, secondo l’argomentazione adorniana, produce l’effetto di condurre
inesorabilmente verso il paradosso della filosofia, verso una forma di soggettivismo
latente. Gli scientisti, così come sono definiti da Adorno, si ostinano ad ignorare tale
deriva del loro rinnegare la coscienza soggettiva e non sono in grado di mediare fatticità
e concetto, i quali risultano essere logicamente incompatibili se privati della loro
connessione.
Per comprendere il trapasso da queste considerazioni generali alla questione chiave
che interessa le scienze sociali è necessaria, secondo Adorno, una considerazione in
merito all’assunto fondamentale del positivismo. Non è infatti possibile asserire la
preminenza assoluta del dato empirico sulle idee e, allo stesso tempo, asserire
l’autonomia della matematica, che altro non è se non una dimensione affatto ideale.
Adorno rileva che, fintanto che si mantiene inalterato l’assunto berkeleyano “esse est
percipi”, non emerge la base su cui la pretesa di validità delle scienze formali è fondata;
contemporaneamente la logica formale è sempre postulata dalle operazioni mentali tese a
stabilire connessioni. Per il francofortese, quindi, “questa semplice considerazione
13
14
Ivi, p. 12 (p. 14).
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1968.
22
dovrebbe essere sufficiente per indurre lo scientismo alla dialettica”15, anche se proprio
la “cattiva astrazione” insita tra l’aspetto formale e quello empirico è ciò che si manifesta
con maggior virulenza nelle scienze sociali.
Seguendo l’interpretazione adorniana, la sociologia positivista può a ragione essere
definita soggettiva, sia perché opera per mezzo di schemi applicati al materiale oggetto
di studio, sia perché non ha come momento iniziale lo studio della società nel suo
complesso, bensì l’analisi di opinioni e comportamenti dei singoli soggetti. Nel primo
caso è indubbio che il materiale conservi la sua rilevanza nell’indagine, tuttavia è
altrettanto evidente una divergenza qualitativa tra i due approcci, dal momento che i
positivisti interpretano differentemente i fenomeni sociali, ossia in base alla “struttura
che appartiene loro a priori”. La differenza è tuttavia solo apparentemente di carattere
metodologico, perché celerebbe dietro questa parvenza una diversità a livello
contenutistico, che attribuisce alle categorie analizzate il “valore di un dato assoluto e
virtualmente immodificabile”16. Nel secondo caso la sociologia positivistica concepisce
la società come “coscienza o l’inconscio medio – quale risulta dai rilievi statistici – dei
soggetti socializzati e socialmente agenti, e non il medium in cui essi si muovono"17.
Per la sociologia di tipo dialettico ciò che costituisce il terreno su cui fondare una
“ragione soggettiva conoscente” è rappresentato dall’oggettività della struttura, quella
stessa oggettività rifiutata dai positivisti. È proprio tale struttura a realizzare tanto la
condizione quanto il contenuto dei fatti sociali accertabili nei soggetti singoli. È un dato
di fatto inconfutabile, secondo Adorno, che, a prescindere dai dati e dai successi
realmente ottenuti, la “concezione dialettica della società” tenga in considerazione
maggiore l’esigenza dell’oggettività; molto più della sua controparte che misconosce tale
esigenza, avvalendosi della sicurezza fornita da un’indagine oggettivamente valida. Ma il
«progresso» che i positivisti si propongono di incarnare può avere anche l’effetto di far
regredire, se viene negato il dibattito con ciò che è definito come «arcaico»:
L’esigenza di modernità non può essere altra che quella dell’illuminismo avanzato. Ma
essa ha bisogno dell’autoriflessione critica della ragione soggettiva. Il progresso della
quale – intrecciato fin nelle più intime fibre con la dialettica dell’illuminismo – non
15
Positivismusstreit, p. 13 (p. 15).
Ivi, p. 14 (p. 16).
17
Ibidem, (p. 17).
16
23
può essere considerato senz’altro come superiore oggettività. È questo il punto focale
della controversia18.
Alla luce di tali osservazioni, è possibile ricostruire con più precisione in che cosa
consista precisamente l’approccio dialettico alle scienze sociali, per comprendere più
profondamente le ragioni addotte da Adorno nel confronto-scontro con i positivisti.
Innanzitutto la dialettica si mostra nella sua dipendenza dall’oggetto e pertanto essa non è
un “per-sé”; in secondo luogo essa critica il criterio della definizione. Ciò che tuttavia la
rende un facile bersaglio, tanto dei positivisti quanto della filosofia dominante, è
l’assenza di un fondamento, un arché, quale supporto di una possibile costruzione delle
sue componenti. Si tratta, come mette in rilievo Adorno, di una conseguenza del
fallimento idealistico della possibilità di “rappresentare l’essere come interamente
identico con lo spirito”, grazie alla sua non-identità con lo spirito medesimo. Il
movimento dialettico come “scienza assoluta” assume le sembianze di un circolo chiuso
e tale chiusura, da principio intesa come barriera protettiva in grado di escludere quanto
di non necessario o ignoto potesse penetrare all’interno della dialettica, è ciò che è andato
perduto assieme alla sua “coattività e univocità”. Ciò nonostante, secondo Adorno, la
dialettica non perde la sua ragione d’essere, poiché “l’idea di un sistema oggettivo,
esistente in sé, non è così chimerica come sembrava dopo la caduta dell’idealismo, e
come assicura il positivismo”19. Secondo Adorno, infatti, esiste ancora la possibilità che
essa si possa legittimare “ritraducendo quel contenuto nell’esperienza da cui esso
scaturì”.
Quello della «totalità» è un problema di rilevanza fondamentale per il metodo
dialettico, che riporta ancora una volta l’argomentazione in termini hegeliani. La totalità
per Adorno è sostanzialmente una “categoria critica”, non affermativa, e pertanto essa
cerca di aiutare a salvare o a produrre ciò che non appartiene alla totalità, che le si
oppone, oppure, come potenziale dell’individuazione che non esiste ancora, si sta solo
formando. L’interpretazione dei fatti guida alla totalità, senza che questa sia essa stessa
18
19
Ivi, p. 15 (p. 17).
Ivi, p. 16 (p. 18).
24
un fatto. Non vi è nessun fatto sociale che non abbia il suo posto e il suo significato
nella totalità20.
La totalità è il sostrato comune a tutti i soggetti ed è la loro stessa costituzione
“monadologica” a configurarla. In questo senso, si può comprendere l’affermazione
adorniana per cui la totalità è “l’essere supremamente reale”, poiché essa è ciò che
accomuna tutti i soggetti determinandoli nella loro specificità. Essa, in altri termini, è
ciò che realizza quel vincolo sociale che pone in relazione i soggetti costituenti la
società; ma essa è anche ciò che non si mostra chiaramente ed evidentemente, perché,
al contrario, si cela per non essere riconosciuta, divenendo parvenza, “ideologia”.
Questo aspetto ambivalente, ma soprattutto contraddittorio, della totalità è ciò che
conferisce al medesimo tempo lo status di libertà e di “illibertà” all’umanità, ed è anche
ciò che viene duramente contestato dai positivisti come ambito d’analisi21. La totalità è
per Adorno “la società come cosa in sé, con tutta la colpa della reificazione”22, come
continuazione della natura e non ancora come soggetto sociale comune. Solo grazie a
questa consapevolezza è allora possibile parlare di “fattuale”, così come fanno i
positivisti; errato è però il ritenere la fattualità come funzione della società e come
sfondo impenetrabile: “l’assoluta separazione di fatto e società è un prodotto artificiale
della riflessione, che una seconda riflessione deve spiegare e revocare”23.
Il fulcro su cui si impernia l’argomentazione adorniana comincia ora ad apparire
più nitidamente, nel momento in cui si svela il dato di “non controllabilità” della
società intesa nei termini di totalità avanzata dai positivisti. Questa non può essere
valutata come un che di fattuale, solo i singoli fenomeni che la compongono rientrano
in questa definizione. Albert e i positivisti in generale mettono in atto un’operazione di
astrazione, che per Adorno si configura come «cattiva astrazione». Essa perviene
specificamente alla società dello scambio: “è nell’esecuzione universale di questo, e
20
Ivi, p. 19 (p. 21).
Il riferimento è qui, come vedremo successivamente, al contrasto tra Hans Albert e Jürgen Habermas,
dove il primo contesta la possibilità d’analisi della totalità, dal momento che questa si conclude con una
“contraddizione oggettiva”, e il secondo si difende dall’accusa di “arbitrario decisionismo” negando che
la totalità possa essere indagata attraverso un criterio fattuale che trascende il movimento stesso verso la
categoria di totalità.
22
Positivismusstreit, p. 19 (p. 22).
23
Ivi, p. 20 (p. 22).
21
25
non solo nel resoconto che ne dà la scienza, che ha luogo, oggettivamente,
l’astrazione”24.
Il valore di scambio come entità astratta si congiunge a priori, secondo Adorno, con
quella peculiare forma di dominio dell’universale sul particolare che si concretizza
nell’egemonia della società sugli individui che la compongono. L’intero processo di
dominio così come si configura all’interno della società non è neutrale, ma al contrario,
riducendo gli uomini “ad agenti e veicoli di scambio”, inasprisce maggiormente la
medesima sfera coercitiva esercitata dagli uomini sugli uomini. Ancora una volta
Adorno riprende il concetto di “totalità”, marcando quella che secondo il ragionamento
da lui fin qui svolto costituisce la differenza sostanziale tra l’approccio dialettico e
quello positivista:
appare radicale se si considera che il concetto dialettico di totalità ha carattere
«oggettivo», è inteso nella comprensione di ogni accertamento sociale particolare,
mentre le teorie sistematiche del positivismo vorrebbero semplicemente raccogliere gli
accertamenti in un continuum logico non contraddittorio, attraverso la scelta di
categorie quanto più generali possibile, senza riconoscere che i supremi concetti
strutturali sono la condizione dei contenuti che sono sussunti sotto di essi25.
Il primato che in tal modo è conferito ai metodi della scienza, che come primo
obiettivo hanno quello di eliminare completamente i residui “mitologici e
prescientifici” legati alla totalità, rischia di ostacolare tanto il procedimento scientifico
quanto l’oggetto stesso d’indagine. Ecco allora che si esplicita più precisamente in che
cosa consista la critica adorniana al positivismo, vale a dire al suo opporsi
all’esperienza della totalità dominante e contemporaneamente alla possibilità di un
cambiamento effettivo, accontentandosi
delle macerie svuotate di ogni senso che sono rimaste dopo la liquidazione
dell’idealismo, senza cercare di interpretare la liquidazione e ciò che è stato liquidato e
portarli così alla verità26.
24
Ivi, p. 21 (p. 23).
Ibidem.
26
Ivi, p. 22 (p. 24).
25
26
Il positivismo, per Adorno, mescola indistintamente tanto il dato interpretato
soggettivisticamente quanto le forme pure di pensiero, realizzando pertanto la forma
stessa dello scientismo; questo, assemblando tali elementi eterogenei, riprende la stesso
modo di operare della filosofia della riflessione, bersaglio critico della dialettica
speculativa. Da tali considerazioni, Adorno giunge quindi a spiegare perché la
dialettica risulti essere l’approccio migliore alla realtà effettiva delle cose: essa infatti,
elimina “la parvenza di una qualche dignità naturale-trascendentale del singolo
soggetto, […], è una realtà di carattere intrinsecamente sociale”27 e, grazie ai suoi
criteri di senso, più realistica di qualsiasi forma di scientismo.
Adorno descrive la società, in quanto oggetto d’analisi, come un qualcosa che al
tempo stesso mantiene la caratteristica di commensurabilità e incommensurabilità, di
comprensibilità e incomprensibilità. Essa è comprensibile nella misura in cui lo
scambio, che determina oggettivamente le regole che le sono proprie, è anch’esso
un’astrazione e quindi, nella sua oggettività, un atto soggettivo nel quale “il soggetto
riconosce e ritrova veramente se stesso”28. A questo, nell’interpretazione adorniana, si
riallaccerebbe il tentativo di Weber di ricondurre in termini di identità la relazione
sussistente tra soggetto e oggetto, in modo tale da acquisire un’effettiva conoscenza
della cosa indagata, in una prospettiva ricostruttiva anziché distruttiva. Il celeberrimo
concetto weberiano di razionalità oggettiva della società, tuttavia, sembra staccarsi
sempre più dall’archetipo della ragione logica, trasformando la società in un che di
incomprensibile: essa diviene “solo la legge di questa autonomizzazione”29. Ciò che
più di tutto, secondo Adorno, concorre a creare questa sfera di incomprensibilità è da
ricercarsi non solo nella sua struttura, bensì nell’ideologia che essa innalza a muro
difensivo nei confronti della critica alla sua irrazionalità. La scissione della razionalità,
nelle sembianze di spirito, nella molteplicità dei soggetti come momenti particolari, si
trasfigura in razionalizzazione, vale a dire in un movimento che si dirige contro i
soggetti stessi. Per Adorno, quindi, la contraddittorietà del concetto di società porta
inevitabilmente alla critica razionale della stessa e alla sua particolare forma di
razionalità, che è proprio la razionalizzazione. Senza perdere di vista il punto focale
27
Ibidem.
Ibidem, (p. 25).
29
Ivi, p.23 (p. 25).
28
27
della diatriba dialettico-positivistica, Adorno ribadisce la correttezza dell’approccio
critico, sostenendo ancora una volta che
La coscienza che non si benda gli occhi davanti alla natura antagonistica della società,
neppure davanti alla contraddizione di razionalità e irrazionalità che le è immanente,
deve procedere alla critica della società senza metábasis eis állo génos , senza usare
mezzi diversi da quelli razionali30.
Adorno asserisce la volontà della dialettica di incontrare “lo scientismo sul proprio
terreno”31, concordemente al suo obiettivo primario di conoscere effettivamente la realtà
sociale del tempo presente; essa potrebbe così costituire un aiuto per la scienza,
impegnata a fare breccia in una muro innalzato da lei stessa e che le impedisce di
accedere effettivamente alla realtà. Il metodo classificatorio del positivismo, che elimina
le opposizioni e le antinomie tra elementi della realtà spesso molto diversi tra loro, ben si
coniuga con un’abilità armonizzante che rimane tuttavia inconsapevole e involontaria.
Riprendendo il progetto di Talcot Parsons di realizzare una scienza unitaria, Adorno
mostra nuovamente qual è secondo la sua prospettiva il limite intrinseco a questa pretesa.
Essa infatti, nel tentativo di realizzare una macrocategoria che racchiude al suo interno
tanto l’individuo quanto la società, si scontra violentemente con l’occultamento
dell’innegabile frattura esistente tra particolare e universale, manifesta nell’intrinseco
antagonismo che le contraddistingue; inoltre, l’idea di continuità mutuata dalle scienze
naturali mal si coniuga con la necessaria manifestazione delle contraddizioni insite
nell’oggetto di indagine. Pertanto, secondo Adorno, in questo ambizioso, ma al
contempo illusorio progetto si rivela il tratto peculiare dell’oggetto d’indagine qui
considerato: all’approccio unitario “sfugge il momento socialmente posto della
divergenza di individuo e società, e delle rispettive discipline”32.
Tale scissione tra individuo e società, che è un fatto storicamente oggettivo, non
consiste per il francofortese in una totale diversità, bensì – e qui si colloca il nucleo più
profondo della teoria critica – nella continua e reiterata non realizzazione delle promesse
fatte dalla società stessa agli individui nel perseguimento di interessi; allo stesso modo, i
30
Ibidem, (p. 25).
Ivi, p. 24 (p. 26).
32
Ibidem.
31
28
soggetti perseverano nel raggiungimento di interessi individuali, allontanando sempre
più l’ideale della creazione di interessi comuni.
Adorno passa quindi a considerare il progetto, cui anche Popper in un certo senso
aderisce, di «scienza unitaria». Secondo la prospettiva del francofortese, tale programma
ha come mira principale una forma di razionalizzazione organizzativa che
inevitabilmente tralascia tutte le questioni di tipo epistemologico direttamente connesse
alla società. Non è possibile ignorare la mediazione sociale alla quale la stessa scienza è
soggetta, e tuttavia si permette a questa di monopolizzare i criteri di valutazione di vero e
falso.
Ciò che i positivisti presumono come indiscutibilmente certo è proprio il concetto
di scienza come un’entità data, che tuttavia, sottolinea Adorno, mantiene dentro di sé
un’innegabile dialettica storica, che non autorizza a parlare semplicemente di progresso
nel momento in cui ci si rapporta al divenire storico. È con l’idealismo, in particolare a
partire dalla Scienza della logica di Hegel, che la scienza assume una valenza nuova,
come sapere assoluto o
come “il concetto dispiegato di ciò che è così e non
altrimenti”. Il bersaglio della critica all’idea di sviluppo sostenuta dai positivisti,
argomenta Adorno, non è costituita da un attacco verso i metodi peculiari delle scienze
particolari, bensì dal principio “che gli interessi extrascientifici sono estranei alla
scienza, che gli uni e l’altra devono essere accuratamente distinti”33. Tuttavia, prosegue
Adorno, gli interessi che pretendono di essere esclusivamente scientifici consistono
nella neutralizzazione di interessi extrascientifici che continuano a permanere
all’interno della stessa scienza; inoltre, lo strumentario scientifico, che rappresenta
l’unità di misura in base alla quale si definisce ciò che è scientifico, rappresenta anche
il mezzo risolutivo per questioni che nascono al di fuori della scienza e che
necessariamente esercitano pressione all'esterno dei propri confini.
Finché la razionalità strumentalistica della scienza ignora il télos insito nel concetto di
strumentalismo e fa di se stessa il suo unico scopo, essa contraddice alla propria
strumentalità. Proprio questo la società pretende dalla scienza. In una società
determinabile come falsa, che contraddice agli interessi dei suoi membri come a quelli
33
Ivi, p. 26 (p. 28).
29
del tutto, ogni conoscenza che si sottomette di buon grado alle regole di questa società
coagulate in scienza partecipa della sua falsità34.
Adorno riprende la distinzione elaborata da Popper, e successivamente ripresa da
Albert, tra ciò che è definito come scientifico e ciò che è considerato prescientifico,
con l’intenzione di mostrare la precarietà di tale tesi e la sua intrinseca mendacia.
Secondo l’argomentazione popperiana esistono questioni “scientifiche” e questioni
“extrascientifiche”, sebbene sia impossibile eliminare ogni traccia di interessi
extrascientifici dalla ricerca scientifica propriamente detta. È tuttavia basilare, in un
procedimento corretto d’analisi, distinguere “quegli interessi che non appartengono
alla ricerca della verità dall’interesse puramente scientifico per la verità”35.
Parallelamente alla verità esistono altri valori scientifici significativi, quali l’interesse,
la rilevanza di un’affermazione, ma anche la forza esplicativa, l’esattezza e la
semplicità; tale constatazione porta Popper ad eseguire un’ulteriore suddivisione tra
valori e disvalori propriamente inerenti alla scienza e valori e disvalori esterni alla
scienza. Data l’impossibilità, quindi, di tutelare l’indagine scientifica dalle infiltrazioni
dovute all’esistenza di valutazioni extrascientifiche, Popper ribadisce ancora una volta
che
uno dei compiti della critica e della discussione scientifica è quello di lottare contro la
confusione delle diverse sfere assiologiche, e, in particolare, di escludere dai problemi
di verità le valutazioni extrascientifiche36.
Secondo Adorno è compreso all’interno dell’ordine prescientifico – o
extrascientifico – non solo ciò che non è stato ancora sottoposto alla funzione
autocritica delle scienze, bensì anche “quella parte di razionalità e di esperienza che
viene scartata dalle determinazioni strumentali della ragione”37. Per il francofortese,
tuttavia, la scienza non
può non considerare entrambi i momenti come parti
complementari e quindi necessariamente connesse tra loro: “la scienza che non
accoglie in sé, trasformandoli, gli impulsi prescientifici, si condanna all’irrilevanza non
34
Ibidem, (pp. 28-29).
POPPER, Die Logik der Sozialwissenschaften, in Positivismusstreit, p. 114 (p. 115).
36
Ibidem.
37
Ivi, p. 27 (p. 29).
35
30
meno della mancanza di rigore dilettantesca”38. Paradossalmente, il continuo irrigidirsi
della scienza entro i suoi propri confini fa sì che tutto ciò che è annoverato come
prescientifico divenga il ricettacolo della conoscenza. Il misconoscere il contenuto di
verità ricorrendo al relativismo della sociologia del sapere e il rifiutare la relazione
connaturata con i fatti sociali conducono inesorabilmente la scienza a non essere in
grado di realizzare proprio ciò che dovrebbe essere la sua peculiare competenza,
limitandosi invece a mere illusioni.
Si tratta, dalla prospettiva adorniana, di riconoscere la diversità dei due momenti,
ma al contempo di osservarne la loro reciproca dipendenza; questo però è proprio ciò
che manca alla scienza nella sua continua ricerca di oggettività, dal momento che essa
necessita solamente del consenso di quelle mediazioni sociali ad essa immanenti, pur
non essendo il consenso strumento di corrispondenze e interessi sociali. Solo
l’assolutizzazione e la strumentalizzazione della scienza giungono a una reale
integrazione, in modo tale che
impegnandosi unilateralmente per il momento dell’unità di individuo e società – per
amore della sistematicità logica –, e riducendo ad epifenomeno privo di valore il
momento antagonistico che non si adatta a questa logica, lo scientismo diventa falso
rispetto a stati di cose d’importanza centrale39.
Per Adorno è proprio la riflessione della conoscenza sociale sul proprio ruolo, nel
contesto di ciò che conosce, a generare la necessità di andare oltre questa semplice
non-contraddittorietà.
§. 2. Più in profondità nel dibattito Adorno-Popper: due relazioni a confronto.
Quanto finora detto relativamente all’introduzione di Adorno al testo Dialettica e
positivismo in sociologia deve essere inteso come un ulteriore tentativo del
francofortese di chiarire, attraverso un’argomentazione retrospettiva, il punto di vista
dialettico, con l’intento non troppo velato di apportare giustificazioni e precisazioni
38
39
Ibidem.
Ivi, p. 27-28 (p. 30).
31
aggiuntive a favore delle proprie tesi, e che non poche perplessità aveva suscitato negli
altri partecipanti alla discussione.40
Il testo di Adorno Sociologia e ricerca empirica41 si apre con la distinzione,
all’interno della comune appartenenza alla sociologia come disciplina, tra l’approccio
dialettico – o di teoria della società – e l’approccio positivista – o di ricerca sociologica
empirica. La prima
è scaturita dalla filosofia, mentre nello stesso tempo cerca di riformulare e impostare
diversamente i suoi problemi, individuando nella società quel sostrato che per la
filosofia tradizionale era rappresentato dalle verità eterne o dallo spirito. […] La teoria
vuole chiamare per nome ciò che tiene segretamente insieme tutto il meccanismo42.
A questo tipo di orientamento si contrappone quella che Adorno definisce
“l’indagine sociologica dei fatti”, per la quale l’analisi della totalità, della società nel
suo insieme come oggetto unitario e non scindibile nelle sue singole componenti,
appare privo di senso e sostanzialmente inutile:
ciò che oggi si intende comunemente per ricerca sociologica empirica si richiama (dal
positivismo di Comte in poi) in forma più o meno esplicita al modello delle scienze
naturali. Le due tendenze non possono essere ridotte ad un comune denominatore43.
Questa seconda tipologia di indagine sociologica, servendosi del metodo impiegato
dalle scienze empiriche, procede dal particolare all’universale, vale a dire muovendo da
indagini su singoli elementi per poi giungere alla totalità della società; in tal modo,
però, afferma Adorno, l’unico risultato ottenibile consiste in concetti generali
classificatori che nulla esprimono circa la vita della società. Tuttavia, anche il
40
Si veda a proposito quanto afferma Albert nella sua Breve nota conclusiva a proposito di una lunga e
sorprendente introduzione: “Anzitutto vorrei precisare che non sono soltanto colpito dal numero di pagine
che sono state scritte dall’altra parte […], ma anche dal contesto delle integrazioni che sono state
apportate alla discussione precedente, soprattutto (per esprimermi un po’ più chiaramente) dalla maniera
in fondo relativamente semplice (nonostante il solito modo complicato di esprimersi) in cui Adorno
riproduce tutti i malintesi che si sono annidati nell’area linguistica tedesca nel dibattito generale sul
positivismo che si è sviluppato dopo l’inizio della nostra discussione e in parte sotto la sua influenza –
malintesi che avrebbero potuto essere preliminarmente evitati, se non con la semplice lettura degli
interventi a disposizione, certamente con lo studio di altri lavori dei propri interlocutori”. Ivi, p. 325.
41
ADORNO, Soziologie und empirische Forschung, in Positivismusstreit.
42
Ivi, p. 81 (p. 83).
43
Ivi, p. 82 (p. 84).
32
procedimento opposto – quello che a partire dalla totalità procede verso il particolare –
produce alcune limitazioni all’indagine sociologica. Secondo Adorno infatti, lo studio
della totalità ha come presupposto un’ipotesi di partenza, ma proprio questa genera
un’inevitabile modificazione interna della struttura della società. In tal modo la capacità
di penetrazione e la profondità dell’analisi stessa si indeboliscono, e “ciò che si riferisce
al principio viene appiattito, ridotto al fenomeno in base al quale viene controllato”44.
Ne consegue, dunque, che entrambe le direzioni, lungo le quali i due versanti
opposti della ricerca sociologica si muovono, non conducono alla realtà della ricerca
sociale: entrambe astraggono dal reale oggetto d’indagine senza recuperarne il valore
effettivo. Nella riflessione di Adorno, l’esito di quanto osservato si traduce in termini
sostanzialmente negativi per quel che concerne la possibilità di una mediazione tra le
due impostazioni contrapposte. Non ci sono, secondo il francofortese, i presupposti per
pensare una possibile mediazione tra la teoria e la prassi scientifica:
ancor meno si può sperare dalle promesse […] di operare una sintesi di teoria e
empiria, dove queste promesse identificano falsamente la teoria con l’unità formale e
non vogliono ammettere che una teoria della società epurata dell’elemento
contenutistico sposta tutti gli accenti. […] La costruzione della teoria sociale secondo il
modello dei sistemi classificatori costituisce il residuo concettuale più rarefatto di ciò
che prescrive alla società la sua legge: empiria e teoria non possono essere riportate in
un continuum45.
Quanto detto trova una giustificazione coerente all’interno della riflessione
adorniana, dal momento che l’impossibilità di creare una sintesi armonica tra i due
approcci è una conseguenza proprio del modo in cui la totalità sociale è pensata
nell’impostazione dialettica. Una ricerca di tipo empirico sulla società è destinata a
fallire a causa della sua organizzazione: la società non può essere intesa come una
superficie liscia, sulla quale applicare regole d’analisi induttive. Al contrario, essa è un
terreno composito, la cui caratteristica precipua è costituita da divergenze mai uguali,
da conflitti sociali; compito della sociologia non è il livellamento degli urti interni,
44
45
Ivi, p. 83 (p. 85).
Ibidem.
33
bensì il focalizzare l’attenzione su di essi poiché “le tensioni devono essere realizzate
fino in fondo, per diventare feconde”46.
Sicuramente il successo della sociologia di tipo empirico sulle altre – la sociologia
intesa come scienza dello spirito e la sociologia formale – è da attribuirsi al metodo di
cui essa si serve per l’indagine, un metodo che gode di una maggior forza di attuazione
pratica, ma non di una superiorità di altro tipo. Adorno, tuttavia, mette in guardia dalla
pretesa obiettività dei metodi empirici, rilevando al contrario un paradosso di fondo:
questi rivolgono la loro attenzione non verso il materiale di carattere oggettivo, bensì
verso quello di carattere soggettivo. Concordemente alla logica di mercato, da cui
questo tipo di ricerca prende avvio, l’interesse si convoglia su dati soggettivi, quali
opinioni e comportamenti dei singoli soggetti. Questa constatazione induce Adorno a
sostenere che l’obiettività supposta non è quella dell’oggetto preso in analisi, quanto
piuttosto quella dei metodi empirici impiegati per condurre l’indagine su
comportamenti soggettivi. Ma il peso di tutta la sfera del soggettivo, che qui si mette in
mostra, porta il francofortese ad un’ulteriore osservazione: nonostante la pretesa
oggettività dei metodi impiegati per l’indagine dalla sociologia di tipo empirico,
emerge l’idea che ciò che costituisce la possibilità della comprensione del processo
sociale è l’“universo statistico” plasmato dall’insieme dei contenuti della coscienza e
dell’inconscio degli uomini. Le opinioni considerate non si differenziano tra loro, sono
potenzialmente tutte uguali poiché non è valutata come significativa la loro
provenienza, vale a dire la loro portata sociale. Questo fa sì che, nonostante la netta
presa di distanza della sociologia empirica dall’antropologia filosofica, le due discipline
convergano in un punto centrale: secondo Adorno, infatti, emerge chiaramente come
queste ritengano di potersi occupare dell’uomo in maniera immediata, senza
considerarlo come “momento della totalità sociale”, senza una precedente valutazione
del suo essere “individuo socializzato”.
La cosalità del metodo, la sua innata tendenza a fissare stati di fatto, si trasferisce sui
suoi oggetti, e cioè sugli stati di fatto soggettivi e accertati, come se questi fossero cose
in sé, e non il prodotto di una reificazione. Il metodo minaccia sia di feticizzare la cosa
a cui è rivolto che di degenerare a sua volta in feticcio47.
46
47
Ivi, p. 84 (p. 86).
Ivi, p. 86 (p. 88).
34
Viene a mancare, secondo l’argomentazione adorniana, il valore dell’oggetto
analizzato, la sua intrinseca essenzialità, per conferire valore e validità esclusivamente
al metodo: il primato di quest’ultimo è ciò che consacra in definitiva “l’arbitrio
dell’istituzione scientifica”. Questa autorità si manifesta nella successiva definizione di
che cos’è la cosa indagata, proprio in forza dello strumento impiegato per lo studio e
della sua composizione, anteponendo “all’oggetto l’esercizio della ricerca divenuto
scopo a se stesso”48.
Per Adorno appare del tutto ovvia l’impossibilità dell’applicazione del modello
delle scienze naturali alla società, a maggior ragione se tale attuazione avviene senza
scrupolo alcuno. Non si tratta, tuttavia, di leggere questa inattuabilità nella volontaria
negazione della dignità umana, nel momento in cui l’uomo è considerato come una
parte della natura dai metodi impiegati nell’analisi. In realtà, secondo Adorno, tutto
questo è nient’altro se non la continua riproposizione dell’assoggettamento dell’uomo
agli impulsi istintuali, al dominio della natura. Lette in questi termini, l’applicazione di
metodi di studio derivati della scienze naturali e la conseguente involuzione degli
uomini allo status di oggetti non assumono delle connotazioni particolarmente
inammissibili: se la situazione analizzata da tali metodi scientifici, che è colta per
mezzo di questi e della quale questi stessi sono manifestazioni, anziché diventare
l’oggetto del pensiero, viene ipostatizzata nella forma di ragione immanente della
scienza, allora la si perpetua all’infinito. Secondo Adorno, quindi,
la ricerca sociale empirica scambia, allora, l’epifenomeno, ciò che il mondo ha fatto
per noi, per la cosa stessa. Nel suo modo di procedere si cela una premessa che non
dovrebbe essere tanto dedotta dalle esigenze del metodo, quanto dalle situazione della
società, e cioè in forma storica. Il metodo reificante postula la coscienza reificata delle
persone prese in esame49.
Uno dei limiti maggiori della ricerca sociologica contemporanea consiste, per
Adorno, nell’ostinazione a non voler considerare la centralità della connessione
esistente tra i metodi più propriamente scientifici – in questo caso le leggi statistiche – e
48
49
Ibidem.
Ivi, p. 88 (p. 90).
35
la controparte sociale, quale criterio per rendere universali le leggi sociali. Questa
abnegazione comporta anche la rinuncia alla connessione tra altre componenti, ossia tra
le generalizzazioni e le determinazioni più concrete della struttura sociale. Ecco che
pertanto, così secondo Adorno,
il rispecchiamento scientifico resta, di fatto, puro raddoppiamento, appercezione
reificata di una realtà reificata, che deforma l’oggetto proprio in quanto lo raddoppia,
trasformando magicamente il mediato in un immediato50.
La società, ribadisce ancora una volta Adorno, è una e le stratificazioni sociali che
comunque sono presenti restano di fatto interdipendenti l’una dall’altra, formando un
unico insieme. Se non si considera questo dato – fondamentale nel pensiero adorniano –
la sociologia diventa nient’altro che l’insieme della pluralità dei metodi, assumendo
sempre più le connotazioni di ideologia. Ciò che pertiene alla sociologia, in quanto
ideologia, è esclusivamente l’apparenza: l’unità dell’oggetto non è raggiunta dalla
molteplicità dei metodi che essa accoglie al suo interno, poiché proprio i numerosi
approcci metodologici procedono verso lo smembramento sempre più minuzioso e
particolareggiato di questo oggetto, per tentare di conoscerlo con maggior semplicità.
Quel
che
definitivamente
scompare,
all’ombra
della
continua
e
ambigua
contrapposizione tra sociologia formale e “cieco accertamento dei fatti”, è il rapporto di
generale e particolare così peculiare per la struttura della società, in cui la società stessa
“ha la propria vita, e che perciò costituisce, per la sociologia, il suo solo oggetto
veramente umano”51.
La società e tutte le componenti in essa esistenti si presentano con la caratteristica
principale di “disarmonia”: il suo essere composita la allontana enormemente dalla
“omogeneità” delle scienze naturali, e ciò rende manifestamente discutibile la
possibilità dell’impiego dei metodi di accertamento empirico, modulati sul modello
delle scienze della natura. Non è possibile, prosegue Adorno, identificare l’universalità
delle leggi sociali con l’universalità del procedimento induttivo della scienza, poiché
50
51
Ivi, p. 89 (pp. 91-92).
Ivi, p. 90 (p. 93).
36
l’universalità delle leggi sociali non è quella di una sfera concettuale in cui i singoli
pezzi si inseriscono perfettamente, ma si riferisce sempre ed essenzialmente al rapporto
di universale e particolare nella sua concretezza storica52.
L’«anarchia» in cui versa la situazione sociale rende evidente il carattere
antagonistico della società, che rappresenta un dato centrale nell’analisi adorniana.
Questa natura contrastante emerge in forza di un dato ineludibile che definisce l’uomo
in quanto tale, non meramente come esponente di una specie, bensì come portatore di
comportamenti mediati dalla ragione. È vero che in tal modo emerge una forte
componente di singolarità, ma ciò non legittima la scienza sociale empirica ad avanzare
considerando solamente l’idea di uomo come «atomo sociale», poiché l’universalità
rimane comunque un momento essenziale della società.
‘Totalità’: è questa la parola chiave, secondo Adorno, per operare correttamente
all’interno delle scienze sociali, sotto la cui guida si devono muovere tutti gli
orientamenti d’analisi che convergono sotto il nome della sociologia. La social
research non può esimersi dal raffronto con la teoria e dalla conoscenza delle strutture
sociali oggettive; se si sottrae a tale corrispondenza, allora essa cade inevitabilmente “in
quisquilie prive di rilievo”:
la social research isolata diventa falsa non appena cerca di sopprimere la totalità
[Totalität] come un pregiudizio cripto-metafisico, perché questa sfugge per principio ai
suoi metodi. La scienza si vota allora al puro fenomeno53.
La conoscenza, afferma Adorno, è ciò che protegge i nessi fondamentali della
società, nel momento in cui la questione dell’essenza è bollata come un che di illusorio,
poiché non risolvibile tramite il metodo scientifico. L’accusa di idealismo mossa nei
confronti dei sostenitori della sociologia dialettica, che conferiscono un carattere
concettuale alla realtà sociale, non deve essere temuta: al contrario, argomenta Adorno,
essa può diventare un ulteriore elemento a discredito della sociologia empirica. Basti
pensare all’elaborazione hegeliana sulla legge dello scambio: i beni che sono sottoposti
allo scambio tra di loro sono commutati in altro, in un qualcosa cioè che è astratto e
52
53
Ibidem, (p. 91)
Ivi, p. 93 (p. 96).
37
immateriale. Secondo Adorno, se si ritiene che questa essenza concettuale sia solo
apparenza – nonostante la realtà effettiva –, allora bisogna anche considerare che tale
apparenza non è stata determinata dalla sublimazione operata dalla scienza nei
confronti della realtà, bensì di un’apparenza che si rende immanente alla stessa realtà.
Se l’apparenza è ciò che contraddistingue in un certo qual modo la realtà, allora
l’intervento razionale diviene indispensabile. Ma, prosegue l’argomentazione
adorniana, l’apparenza è quanto di più reale appartenga alla realtà, “la formula con cui
ha stregato il mondo”. La critica che qui deve essere esercitata non può certamente
essere quella di tipo positivista, dal momento che questa stessa definisce come non
meritevole della definizione di reale “quell’essenza oggettiva dello scambio la cui
validità è tuttavia confermata incessantemente dalla realtà stessa”54. È qui che, secondo
il francofortese, si mostra la debolezza dell’approccio della sociologia empirica, nella
definizione della legge come di un qualcosa che non è un dato reale preesistente, che
implicitamente indica l’accenno “all’apparenza sociale della cosa che esso attribuisce
erroneamente al metodo”.
Proprio il preteso antiidealismo dell’atteggiamento scientistico torna a vantaggio
dell’ideologia, favorisce la sua permanenza. Essa sarebbe inaccessibile alla scienza
appunto perché non costituisce un fatto; mentre nulla ha maggior potere della
mediazione concettuale che fa passare per in-sé ciò che è invece per-altro, impedendo
agli uomini di prendere coscienza delle condizioni a cui è soggetta la loro vita55.
Secondo Adorno, anche il lavoro scientifico deve comprendersi come “sforzo e
lavoro del concetto”, in modo del tutto antitetico rispetto alla comune e largamente
condivisa idea che sta alla base del suo procedimento meccanico. Il vero significato di
scienza risiede nella capacità di discernere il vero dal falso rispetto a quello che
l’oggetto indagato dà a vedere si sé; di più, non è lecito considerare scienza “una
conoscenza che non sia insieme critica, in forza della distinzione ad essa immanente di
vero e falso”56. Solo nella totale consapevolezza di tale presupposto, si può realmente
54
Ivi, p. 94 (p. 97).
Ibidem.
56
Ivi, p. 97 (p. 99).
55
38
ritenere plausibile che la sociologia pervenga a se stessa, mettendo in movimento “le
pietrificate antitesi della sua organizzazione”57.
Un ulteriore aspetto di importanza centrale nella riflessione adorniana si colloca nel
dato non trascurabile della mediazione che la società mette in atto proprio su quei dati,
oggettivi e soggettivi, che la ricerca di tipo empirico intende sondare. Lo scambio che
ha luogo nel momento in cui questo modello di ricerca sociologica intende il proprio
fondamento gnoseologico come fondamento reale, porta all’attribuzione del carattere di
in-sé, di assoluta immediatezza ai fatti. Le situazioni oggetto d’indagine non
rispecchiano attendibilmente le relazioni sociali che stanno alla loro base, poiché esse
sono sempre celate dietro una patina che si sono date esse stesse. Tuttavia, prosegue
Adorno riprendendo lo Hegel della Filosofia del diritto, anche questi risultati fallaci
meritano una certa attenzione: da un lato la considerazione, “perché anche le ideologie,
la falsa coscienza necessaria, sono una parte della società che deve conoscere chi vuole
conoscere quest’ultima”; dall’altro il disprezzo, perché “la sua pretesa di verità deve
essere criticata”58.
Appare chiaro, a questo punto, quale sia il ruolo che la filosofia mantiene nella
ricerca sociologica: ancora una volta Adorno ribadisce la necessità di oltrepassare la
mera datità dei fatti stessi e l’esigenza che la sociologia empirica si appropri di tale
orientamento; ma se ciò non avviene, “se essa non viene assolta, o viene repressa, e
cioè ci si limita alla semplice riproduzione dei fatti, tale riproduzione è insieme la
falsificazione dei fatti, la loro trasformazione in ideologia”59.
È opportuno a questo punto dell’analisi mettere direttamente in relazione tra loro i
due interventi più significativi del congresso di Tubinga, vale a dire la relazione di
Popper e quella successiva di Adorno. L’intervento di Adorno si articola attorno ad
alcuni punti chiave del discorso del primo oratore e da tale impostazione ci si potrebbe
aspettare una veemente contrapposizione tra i due, nel tentativo di conferire maggiore
credibilità da parte di entrambi ai rispettivi orientamenti. In realtà tutto questo viene a
mancare e le due relazioni sembrano non avere nessuna carica polemica; in taluni punti
le due relazioni sembrano concordare. Come correttamente ha evidenziato R.
Dahrendorf e come si vedrà nel procedere di questa analisi, questa corrispondenza tra
57
Ibidem.
Ivi, p. 100 (p. 102).
59
Ivi, p. 101 (p. 103).
58
39
Adorno e Popper non deve trarre in inganno, poiché “l’ironia di tali coincidenze poteva
difficilmente sfuggire all’ascoltatore attento”60.
La relazione di Popper Logica delle scienze sociali si svolge per tesi, talvolta molto
sintetiche, che in modo esemplarmente lineare mettono in evidenza i presupposti che
guidano la ricerca sociologica di tipo empirico – per riprendere il lessico adorniano – , e
prende avvio dalla contrapposizione tra “il nostro sapere” e “la nostra ignoranza”61.
Innanzitutto, argomenta Popper, noi sappiamo molte cose nei più disparati ambiti
dello scibile, e queste costituiscono tanto un bagaglio di nozioni di poco conto quanto
un apparato di conoscenze molto importanti, che permettono di penetrare in profondità
nell’analisi della realtà circostante. Allo stesso tempo, tuttavia, la nostra ignoranza è
illimitata, e dimostrazione continua di tale dato di fatto è l’inarrestabile progresso delle
scienze naturali. Nell’incessante progressione verso la risoluzione dei problemi
acquisiamo sempre maggiore consapevolezza di quanto carente sia la nostra
conoscenza, poiché sempre nuovi questioni insolute si pongono alla nostra attenzione.
Adorno
nel
suo
intervento
immediatamente
successivo62
si
riallaccia
immediatamente a queste prime tesi popperiane, concordando sulla distinzione tra
sapere e ignoranza, in particolare entro l’ambito della sociologia. Egli, tuttavia, sostiene
che tale suddivisione porti con sé alcune difficoltà di grande rilievo, in particolare sul
compito che conseguentemente spetta alla scienza sociale. Questa, “dato il suo
clamoroso ritardo rispetto alle scienze esatte”63, dovrebbe limitarsi esclusivamente
all’accumulazione di fatti, non potendo aspirare in alcun modo a una forma di sapere
rilevante e rigoroso. Come già visto precedentemente, Adorno ripropone la sua idea di
società come di un terreno niente affatto omogeneo, allo studio della quale non si
conforma un approccio matematico-scientifico, poiché essa
non è coerente, non è semplice e neppure neutrale, suscettibile di qualsiasi
strutturazione categoriale, ma è diversa da quello che il sistema di categorie della
60
R. DAHRENDORF, Anmerkungen zur Diskussion von Karl R. Popper und Theodor W. Adorno, in
Positivismusstreit, p. 146 (p. 146).
61
“[…] ho ritenuto opportuno esporre la mia relazione sotto forma di tesi per facilitare al secondo relatore
[Adorno] una formulazione drastica delle sue antitesi critiche. Ho pensato che questa stimolazione fosse
molto utile, anche se questa forma può forse suscitare un’impressione di dogmatismo”, in POPPER, Der
Logik der Sozialwissenschaften, p. 104 (p. 106).
62
ADORNO, Zur Logik der Sozialwissenschaften, in Positivismusstreit.
63
Ivi, p. 125 (p. 125).
40
logica discorsiva si aspetta a priori che siano i suoi oggetti. La società è contraddittoria
eppure determinabile; è razionale e irrazionale insieme, è sistematica e irregolare, è
cieca natura ed è mediata dalla coscienza. Di questo deve tener conto il metodo della
sociologia. Altrimenti finisce, per zelo puristico contro la contraddizione, nella
contraddizione più fatale: quella tra la sua struttura e la struttura del suo oggetto64.
Secondo Adorno la forma peculiare di ignoranza che pertiene alla sociologia è
indice del divario strutturale esistente tra la società intesa come oggetto e il metodo
tradizionale di ricerca. Ancora una volta il francofortese insiste qui sull’idea di totalità
sociale, composta da singoli momenti, alcuni dei quali autonomi, in forza dei quali essa
si riproduce; nessun elemento può, quindi, essere considerato slegato dal tutto, così
come il tutto non può essere privato della sua vita, ossia dai singoli momenti che ne
perpetuano la vita.
La quarta tesi della relazione di Popper riprende la necessità del riconoscimento
della tensione tra sapere e non sapere, e mostra un’importante conseguenza di tale
considerazione. Egli infatti sostiene che, a partire dalla constatazione che la conoscenza
debba avere inizio in qualche modo, allora
la conoscenza non comincia con percezioni o osservazioni o con la raccolta di dati o di
fatti, ma comincia con problemi. Non c’è sapere senza problemi – ma neppure
problema senza sapere. Ciò significa che essa comincia con la tensione tra sapere e
ignoranza: non c’è problema senza sapere – non c’è problema senza ignoranza65.
Alla constatazione che il problema, che si crea nello iato tra ciò che si ritiene di
conoscere e la realtà effettiva dei fatti, costituisce il nucleo di partenza di ogni indagine
si ricollega Adorno nella sua relazione. Egli, tuttavia, va oltre l’osservazione
popperiana, sostenendo che la contraddizione non è relativa esclusivamente al soggetto
e all’oggetto in questione, per un limite intrinseco del primo nel suo apparato
conoscitivo. Non si tratta di una antinomia solo apparente: essa può essere reale se la si
colloca internamente alla cosa indagata; in questo modo, prosegue Adorno, non è
sufficiente un raffinamento del metodo impiegato nell’analisi per rimuovere la
64
65
Ivi, p. 126 (p. 126).
Ivi, p. 104 (p. 106).
41
contraddizione66. Il rischio di un radicale smembramento dei problemi immanenti da
quelli reali consisterebbe, secondo il francofortese, nella feticizzazione della scienza:
“nessuna dottrina dell’assolutismo logico […] ha il diritto di decretare che i fatti
ubbidiscono a principi logici che traggono la loro pretesa di validità dalla loro purezza,
dall’eliminazione di qualsiasi elemento contenutistico”67.
Popper sostiene che tutte le scienze, e di conseguenza anche le scienze sociali,
possono condurre a risultati rilevanti ed utili oppure a risultati di per sé sterili e di
scarso rilievo. Che si tratti di affrontare problemi teorici o pratici – che peraltro portano
inevitabilmente, mediante la riflessione, a porre nuovi problemi di tipo teorico – ciò che
conferisce valore alla performance scientifica è “il carattere e la qualità del
problema”68. Secondo Popper, quindi, il vero momento d’avvio dell’analisi scientifica è
rappresentato da un tipo particolare di osservazione, quella cioè che genera problemi.
L’argomentazione popperiana giunge così alla Sesta tesi, quella che l’autore definisce
tesi principale, suddivisa in sei punti e che è possibile riassumere nel seguente modo: a)
il metodo delle scienze sociali consiste di sperimentazioni di tentativi per risolvere i
suoi problemi, dai quali prende avvio. Un tentativo di soluzione che non è accessibile
alla critica oggettiva è scartato come non scientifico; b) se esso è accessibile alla critica
oggettiva, si cerca di confutarlo; c) se questo è confutato dalla critica oggettiva, si
procede con un altro; d) se questo resiste alla critica, allora è provvisoriamente
accettato; e) il metodo della scienza è quello del tentativo di soluzione, sotto il controllo
della critica – prosecuzione critica del procedimento «trial and error»; f) l’oggettività
della scienza è l’oggettività del metodo critico; nessuna teoria può sottrarsi alla critica,
la quale agisce attraverso strumenti logici oggettivi. Appare chiaro, quindi, come per
Popper la critica costituisca il presupposto fondamentale per ogni tipo di indagine
scientifica, compresa quella sociologica, e come questa si basi essenzialmente sul
procedimento di continua ricerca di soluzioni.
66
A tale proposito e per conferire validità alle sue affermazioni, Adorno argomenta come gia Hegel nel
paragrafo 243 della Filosofia del diritto abbia chiaramente mostrato la contraddizione che
ineluttabilmente prende vita internamente alla cosa: “Con la generalizzazione del collegamento fra gli
uomini attraverso i loro bisogni, e dei modi di preparare e fornire i mezzi per soddisfarli, aumenta, da un
lato, l’accumulazione delle ricchezze, poiché da questa duplice universalità si trae il massimo profitto,
mentre, d’altro lato, aumenta la divisione e la limitatezza del lavoro particolare, e, quindi, la dipendenza e
l’indigenza della classe legata a questo lavoro”, in G. W. F. HEGEL, Filosofia del diritto, tr. it. di F.
Messineo, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 201.
67
Positivismusstreit, p. 129 (p. 129).
68
Ivi, p. 105 (p. 107).
42
L’accordo di Adorno in merito alla tesi popperiana sopra riportata non deve trarre in
inganno: se si può parlare di assonanza tra le due concezioni, essa deve
necessariamente essere considerata, come giustamente ha rilevato Dahrendorf, solo
nella sua esteriorità, come concordanza esclusivamente terminologica. La critica per
Popper consiste in una categoria “interamente priva di determinazioni contenutistiche –
è un puro meccanismo della conferma provvisoria di proposizioni universali della
scienza”69. Di natura affatto diversa è la critica per Adorno: essa è innanzitutto “teoria
critica della società”, ossia quel “dispiegamento delle contraddizioni della realtà
attraverso la loro conoscenza”70.
Riprendendo più da vicino l’argomentazione adorniana, si nota come dopo una
prima dichiarazione d’accordo sulla centralità della critica, segua immediatamente una
precisazione carica di conseguenze concettuali fondamentali. La conoscenza
sociologica, per Adorno, è essenzialmente critica, ma non nel significato di “riduzione
ai cosiddetti fatti, la completa sostituzione del pensiero con l’osservazione”71, poiché la
critica dei meccanismi costitutivi della società è compiuta dalla ragione, dagli sviluppi
del pensiero e dalla riflessione. Nuovamente Adorno rimarca il principio che
i fatti non sono, nella società, la realtà ultima, in cui la conoscenza troverebbe il
proprio fondamento e criterio, perché sono essi stessi mediati attraverso la società. Non
tutti i teoremi sono ipotesi; la teoria è lo scopo, non il veicolo della sociologia72.
Vi è un ulteriore motivo di differenza tra ciò che i due filosofi intendono per critica,
e che Adorno non manca di evidenziare, e cioè l’equiparazione di critica e di
accertamento tramite confutazione. Riprendendo Hegel e la Logica nella parte relativa
al «giudizio del concetto», il maestro francofortese afferma come la confutazione
potrebbe acquisire significato e fecondità solo se intesa come “critica immanente”73. La
forma di scetticismo che si mostra nell’idea che esternamente tutto può e non può
69
Ivi, p. 146 (p. 146).
Ibidem.
71
Ivi, p. 132 (p. 132).
72
Ibidem.
73
“[…] i predicati buono, cattivo, vero, bello, giusto ecc. indicano che la cosa è o non è conforme al suo
concetto universale, a ciò che si presuppone debba essere, che coincide o non coincide con esso”,
HEGEL, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1974, p. 118.
70
43
essere confutato, secondo Adorno ben si conforma a quella fiducia della scienza in se
stessa come la forma della verità, e contro la quale proprio la sociologia deve opporsi.
Popper riconduce l’idea dell’oggettività scientifica
alla tradizione critica,
sostenendo nella Dodicesima tesi che
l’oggettività della scienza non è una faccenda individuale dei diversi scienziati, ma è
una faccenda sociale della loro critica reciproca, dell’amichevole-ostile divisione del
lavoro degli scienziati, dalla loro collaborazione e anche dai loro contrasti. E quindi
dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono
possibile questa critica74.
In questo modo si rende possibile, nella prospettiva popperiana, una critica
considerevole in grado di contrastare il “dogma dominante”. Secondo Adorno, Popper
muove qui dal presupposto di una forma di pensiero che non può eliminare il suo
riferimento all’esperimento; quest’ultimo termine, nella sua equivocità causata dal
richiamo alle scienze naturali, si scontra inevitabilmente con quelle forme di pensiero
che si sottraggono totalmente ad ogni forma di controllo sperimentale. Gli stessi
pensieri, prosegue l’argomentazione adorniana, pur sottraendosi al controllo non si
spogliano del loro contenuto di verità: non è possibile dimostrare che i fenomeni sociali
sono dipendenti dalla totalità tramite esperimenti, dal momento che non può essere
ricondotto ad un controllo sperimentale quel tutto che dà forma ai fenomeni. Tuttavia,
Adorno sostiene che
quella dipendenza dei fenomeni sociali osservabili dalla struttura complessiva è più
reale e più vera di tutti gli accertamenti particolari che possono essere verificati con
inconfutabile certezza, ed è tutto meno che pura fantasticheria75.
Per mantenere la differenza sostanziale esistente tra le scienze naturali e la
sociologia, sarebbe necessario estendere il concetto di esperimento anche al pensiero,
che va oltre l’esperienza nutrendosi al contempo di essa. Resta comunque il
presupposto, secondo Adorno, secondo il quale tale applicazione sperimentale nella
74
75
Positivismusstreit, p. 112 (pp. 113-114).
Ivi, p. 134 (p. 134).
44
sociologia non sortisca alcun effetto produttivo. Soluzione e critica devono
ineluttabilmente accompagnarsi, una loro separazione non sortisce effetti positivi,
soprattutto nel caso in cui spesso accade che una critica impostata correttamente
contenga già al suo interno la soluzione.
Riprendendo nuovamente la dipendenza del metodo dalla cosa indagata, espressa
nella relazione di Popper, Adorno trae una conseguenza importante circa il compito
della critica così come essa è intesa dalla sociologia empirica. Egli sostiene che se la
subordinazione del metodo alla cosa è tanto sicura, al punto da implicare la
determinazione dell’interesse e della rilevanza a criteri della conoscenza sociale, allora
la critica dovrebbe rivolgersi con vigore anche nei confronti dell’oggetto; da
quest’ultimo, infatti, dipendono teoremi, apparati concettuali e metodi che costituiscono
momenti soggettivi propri della comunità degli scienziati. Non è possibile, prosegue
Adorno, negare la necessità dell’adeguamento del procedimento metodologico, per
quanto strumentale esso possa essere, all’oggetto d’analisi, poiché
il metodo deve rendere conto della cosa nel suo peso specifico, altrimenti anche il
metodo più affinato è un cattivo metodo. Ma ciò implica nulla di meno che nella figura
della teoria si manifesti quella della cosa. Quando la critica delle categorie sociologiche
è solo critica del metodo, e quando la discrepanza di concetto e cosa deve essere
addebitata alla cosa, che non è ciò che pretende di essere – di ciò decide il contenuto
del teorema che si tratta di criticare. […] la sociologia critica è anche e necessariamente
critica della società76.
In questa affermazione è presente il rimando adorniano al saggio del 1937 di
Horkheimer Traditionelle und kritische Theorie, che espone proprio la peculiarità
dell’approccio critico rispetto alla teoria tradizionale e che propone la prospettiva di
teoria critica condivisa all’interno della Scuola di Francoforte77.
Un’ulteriore questione che si pone nella discussione tra Popper e Adorno è quella
relativa al problema della «avalutatività», che si connette direttamente a quello della
contrapposizione tra valori scientifici ed extrascientifici. Popper dichiara che non è
76
Ivi, p. 135 (pp. 134-135).
M. HORKHEIMER, Traditionelle und kritische Theorie, Fisher Verlag, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. G.
Backhaus, vol. a cura di S. Petrucciani, Teoria tradizionale e teoria critica, in Filosofia e teoria critica,
Einaudi, Torino 2003, pp. 1-56). Come si vedrà in seguito, questo di Horkheimer è un saggio che ricopre
un ruolo decisivo nell’elaborazione di Habermas del rapporto che intercorre tra conoscenza e interesse.
77
45
possibile privare lo scienziato – come uomo – dalle sue valutazioni nell’ambito
dell’indagine scientifica, poiché questo comporterebbe, insieme alla distruzione delle
sua valutazioni anche lo stesso annientamento dello scienziato e dell’uomo-scienziato:
i nostri moventi e i nostri ideali puramente scientifici, come l’ideale della pura ricerca
della verità, sono profondamente radicati in valori extrascientifici e in parte religiosi.
Lo scienziato oggettivo e avalutativo non è lo scienziato ideale78.
Secondo Popper, il problema non consiste tanto nell’impossibilità per lo scienziato
di raggiungere il più alto grado di oggettività e di avalutatività, quanto nel fatto che
queste sono entrambe dei valori: risulta pertanto paradossale poter pensare
l’avalutatività quando proprio questa è un valore. Nella prospettiva popperiana il
paradosso è tuttavia eliminabile, considerando la possibilità di porre al posto della
avalutatività il presupposto che scopo della critica scientifica sia quello di vagliare e
separare attentamente ciò che è propriamente scientifico da ciò che invece non lo è,
secondo criteri quali verità, rilevanza e semplicità.
Nella sua relazione Adorno caratterizza il rapporto che intercorre tra
comportamento valutativo e comportamento avalutativo con due connotazioni antitiche:
essa è falsa nella misura in cui il valore e il suo opposto sono reificazioni, e al tempo
stesso essa è vera poiché “il comportamento dello spirito non può sottrarsi a suo arbitrio
alla condizione della reificazione”79. La controversia legata al valore è una diretta
conseguenza del tentativo continuo di dominio della natura, che si associa ad un
incremento tanto della razionalità dei mezzi quanto all’irrazionalità dei fini che ad essa
si associa. È necessario, secondo Adorno, ricondurre l’origine del concetto di valore
all’economia politica e considerare il suo sviluppo nel rapporto di scambio come
«essere-per-altro». Ma dal momento che la società contemporanea si distingue per il
fatto che tutto è fungibile, il «per-altro» diviene «per-sè» e per questo esso diventa
falso, per poter cioè meglio corrispondere a quelli che sono gli interessi dominanti. Il
valore è immanente alla cosa e non le si attribuisce dall’esterno, e il giudizio
sull’oggetto d’indagine non solo necessita di una componente soggettiva, ma esso è
anche determinato dalla cosa stessa. La questione del valore, che è relativa alla
78
79
Positivismusstreit, p. 114 (p. 115).
Ivi, p. 138 (p. 138).
46
sociologia ma anche ad altre discipline, è posto in termini erronei, poiché secondo
Adorno
una coscienza scientifica della società che si compiace della propria avalutatività manca
la cosa allo stesso modo di quella che si richiama a valori più o meno imposti e
arbitrari; se si acconsente all’alternativa, si finisce per cadere in antinomie80.
La sociologia deve essere cosciente di tali antinomie e diventare critica sociale
riconoscendo l’inevitabilità di queste, dal momento che se ciò non avviene il rischio
che si pone è quello in cui lo stesso Popper, secondo l’argomentazione adorniana, cade:
egli rifiuta la separazione tra valore e conoscenza, ma allo stesso tempo auspica che
l’autoriflessione della conoscenza possa da sé intendere i valori di verità impliciti in
essa senza falsarli.
Un ulteriore punto di accordo tra i due filosofi, sebbene caratterizzato
dall’esteriorità sopra descritta, consiste nell’assunto che la psicologia non è la scienza
sociale per eccellenza. Popper argomenta tale affermazione sostenendo l’impossibilità
di spiegare in termini psicologici l’ambiente sociale nel quale l’uomo è calato, e che
costituisce il presupposto di ogni spiegazione psicologica. L’ambiente sociale è ambito
d’indagine della sociologia, che può conoscerlo attraverso l’applicazione di teorie
esplicative. A partire dalla Ventitreesima tesi fino alla conclusione della sua relazione,
Popper espone le motivazioni metodologiche che sostengono il duplice senso
dell’autonomia della sociologia. Da un lato, essa deve slegarsi definitivamente dalla
psicologia dal momento che “la sociologia è posta continuamente di fronte al compito
di spiegare conseguenze sociali involontarie e spesso indesiderate dell’agire umano”81,
come ad esempio la concorrenza come fenomeno sociale non desiderato dai soggetti
concorrenti e che trova la sua spiegazione nella conseguenza sociale di azioni che non
possono essere spiegate psicologicamente. Dall’altro lato, “la sociologia è autonoma
anche in un secondo senso, e cioè come quella che è stata spesso chiamata «sociologia
della comprensione»”.
A sostegno di tale presa di distanza delle scienze sociali dalla psicologia Popper
mostra come all’interno delle prime vi sia un “metodo puramente obiettivo”, definito
80
81
Ivi, p. 139 (p. 139).
Ivi, p. 120 (p. 120).
47
“metodo della comprensione oggettiva” o “logica della situazione”82. Questa
metodologia è ciò che garantisce l’autonomia della sociologia rispetto a deviazioni
soggettive o psicologiche, poiché lo scopo dell’analisi diviene la situazione entro la
quale l’uomo agisce e in forza della quale l’azione può essere esaustivamente spiegata.
Le conseguenze che si traggono da questo tipo di comprensione della situazione sociale
si concretizzano nella possibilità di analizzare quei tratti che sembrano psicologici –
come ad esempio desideri, associazioni, ricordi – trasformandoli in momenti della
situazione. Così facendo, secondo Popper,
la persona che aveva questi o quei desideri si trasforma allora in una persona alla cui
situazione appartiene il fatto di perseguire questi o quegli scopi oggettivi. E la persona
che aveva questi o quei ricordi e associazioni diventa una persona della cui situazione
fa parte il fatto che sia oggettivamente provvista di queste o quelle teorie, di questa o
quell’informazione83.
Popper definisce questo tipo di indagine analitica della situazione come un metodo
individualistico e non psicologico, dal momento che l’escludere le componenti
psicologiche, sostituendo ad esse elementi oggettivi della situazione, comporta l’aprirsi
di un campo d’analisi caratterizzato dall’obiettività, che va sotto il nome di «logica
della situazione».
Le
osservazioni
condotte secondo
tale logica,
prosegue
l’argomentazione popperiana, sono ricostruzioni teoriche semplificate, e tuttavia esse
potenzialmente
posseggono
un
grande
contenuto
di
verità
come
“buone
approssimazioni alla verità – e persino migliori di altre spiegazioni controllabili. […]
Ma, soprattutto, le analisi situazionali sono suscettibili di critica razionale ed empirica,
e di miglioramento”84.
I presupposti fondamentali per l’impiego della logica della situazione sono
l’esistenza di un mondo fisico in cui si svolge l’azione, di un mondo sociale composto
di persone e di istituzioni sociali. Secondo Popper, sono queste che determinano “il
carattere sociale proprio del nostro ambiente sociale”, ed esse sono formate dalle entità
sociali corrispondenti alle cose del mondo fisico:
82
Ibidem, (p. 121).
Ibidem.
84
Ivi, p. 121 (p. 122).
83
48
un negozio di verdura o un istituto universitario o un potere poliziesco o una legge sono
in questo senso istituzioni sociali. Sono istituzioni sociali anche la chiesa e lo stato e il
matrimonio, e certe usanze coattive come ad esempio il karakiri in Giappone. Ma nella
nostra società europea il suicidio non è un’istituzione nel senso in cui uso la parola, e in
cui affermo che la categoria è importante85.
Rispetto alla presa di distanza di Popper dalla psicologia, Adorno sottolinea come la
concordanza su tale punto si origini da motivazioni assai differenti. La società non solo
influenza i soggetti, ma ne determina profondamente la loro formazione interiore; allo
stesso tempo la società, o “ambiente socialmente operante”, è plasmata dai soggetti
organizzati nella società. Le istituzioni o forme della socializzazione hanno raggiunto un
livello altissimo di autonomia rispetto al singolo soggetto e alla sua psicologia, al punto
tale che non è possibile considerare la psicologia la scienza sociale per eccellenza.
Nonostante la superiorità della società sulla psicologia sia un dato assodato, Adorno non
ritiene che i due ambiti siano così radicalmente indipendenti l’uno dall’altro: la società,
infatti, è un’evoluzione collettiva in cui i soggetti sono sì formati dall’oggettività, ma a
loro volta agiscono su di essa. I processi sociali, prosegue l’argomentazione adorniana,
non possono essere considerati un in-sé, poiché esse si basano su sulla reificazione e i
processi estraniati rimangono per gli uomini dei processi umani: in tal modo si mostra
quanto poco definitivo sia il limite che separa l’ambito sociologico da quello psicologico.
Secondo Adorno l’idea di società come totalità, così spesso evidenziata,
necessariamente pretende che siano tenuti in considerazione tutti i momenti che in questa
totalità agiscono. Lo studio della realtà sociale non può lasciarsi “terrorizzare dalla
divisione del lavoro scientifico”, ma ciononostante
l’autoriflessione della sociologia deve anche stare in guardia contro l’eredità storica
della scienza, che induce erroneamente a esagerare l’autonomia di una scienza, come
questa, di recente formazione, e che l’universitas litterarum europea non ha ancora
riconosciuto con parità di diritti86.
85
86
Ivi, p. 122 (p. 122).
Ivi, p. 141 (p. 141).
49
Nella situazione di crisi in cui versa la società attuale, mettendo in grave pericolo la
stessa sopravvivenza di quest’ultima, la sociologia deve mostrare la propria validità e
competenza se davvero intende affrontarla. Ciò che Adorno osserva è una sorta di stato di
rassegnazione in cui la sociologia è rovinata con l’abbandono dell’obiettivo di essere
teoria critica della società: il suo rivolgersi ora ad “una conoscenza di facts and figures al
servizio dell’esistente” non può che comportare “l’irrilevanza [di] quelle stesse
cognizioni particolari con cui essa immagina di trionfare sulla teoria”87.
87
Ivi, pp. 142-143 (p. 142).
50
CAPITOLO SECONDO
L’ampliarsi del dibattito: l’ingresso di Habermas nella controversia sul
positivismo e la querelle con Hans Albert.
La lunga digressione in merito al congresso di Tubinga e alla contrapposizione tra
Adorno e Popper ha creato le condizioni per poter comprendere le motivazioni che hanno
portato Habermas a prendere parte attivamente alla discussione in corso e che,
successivamente, hanno determinato lo sviluppo autonomo nel suo pensiero della critica
allo scientismo.
Un dato che colpisce relativamente al confronto delle relazioni presentate a Tubinga
da Popper e Adorno è l’assenza di grandi contrapposizioni, quanto meno evidenti, tra le
posizioni difese rispettivamente dai due relatori. Si è già sottolineato il fatto che in
entrambi gli autori era emersa una forma di concordanza anche se solo apparente. Resta
comunque il dato rilevato dai partecipanti al congresso in merito al “forte senso di
delusione” lasciato dalla discussione di Tubinga, alla sensazione di una incapacità di far
emergere con vigore i contrasti forti presenti in quegli anni tra i sociologi tedeschi1.
Ai fini di questa ricerca, tuttavia, la discussione finora analizzata riveste un ruolo
fondamentale: essa è, infatti, il preludio a un discorso che grande rilievo assumerà nelle
riflessioni teoretiche di Habermas. Da questo momento si apre un universo tematico che è
destinato a essere il fulcro principale attorno al quale ruotano i testi principali
habermasiani del periodo compreso tra gli anni Sessanta e Settanta, tanto in ambito
sociologico, quanto in quello più propriamente filosofico. Come ha correttamente
osservato Stefano Petrucciani, è proprio con l’ingresso di Habermas nella discussione tra
epistemologi analitici e dialettici che “un salto qualitativo di notevole portata si compie
per quanto riguarda la riflessione sullo statuto filosofico della critica”2. Ciò che emerge
ora come dato decisamente significativo è l’esplicitarsi di quello che si configura come lo
statuto stesso della teoria critica della società, che “viene attinto attraverso una via
1
R. DAHRENDORF, Anmerkungen zur Diskussion der Referate von Karl R. Popper und Theodor W.
Adorno, in Positivismusstreit, p. 151 (p. 152).
2
S. PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 22.
51
peculiare, e cioè attraverso l’esame critico di quelle posizioni, che Habermas e Adorno
definiscono positivistiche”: non quindi una mera contrapposizione tra prospettive
antitetiche, ma un’attenta analisi volta a rinvenire anche all’interno dell’approccio
analitico, in particolare popperiano, alcune possibili soluzioni al contrasto3.
In questo contesto si delinea con maggior chiarezza il significato che Habermas
attribuisce al termine scientismo. Esso è innanzitutto un metodo derivato dalle scienze
empiriche e successivamente applicato ad altre sfere, che tuttavia non possono e non
devono rientrare all’interno della categoria delle scienze esatte4. Le scienze sociali, ad
esempio, appartengono ad un ambito che esula da quello naturale, che non ha nulla a che
fare con l’applicazione di regole empiriche: il loro oggetto di studio è l’uomo e la realtà
sociale all’interno della quale egli agisce.
§. 1. Epistemologia analitica e dialettica: il tentativo di mediazione di Habermas nella
disputa Adorno-Popper.
Il saggio Analytische Wissenschaftstheorie und Dialektik. Ein Nachtrag zur
Kontroverse zwischen Popper und Adorno rappresenta il primo intervento di Habermas
nel dibattito sociologico tedesco, a qualche anno di distanza dal congresso di Tubinga5.
Habermas si ricollega immediatamente ad un punto fondamentale della relazione di
Adorno – che costituisce in realtà un argomento centrale del pensiero sociologico del
maestro francofortese – ossia all’idea di totalità sociale. Come precedentemente visto, il
concetto di totalità gioca un ruolo fondamentale per l’approccio dialettico allo studio
della società e Habermas sottolinea come il significato di questo sia da rinvenire nella
logica hegeliana: la totalità è essenzialmente dialettica, essa
3
Ivi, p. 23.
In occasione del colloquio con Habermas è emerso proprio questo aspetto della presa di posizione
contro il positivismo, vale a dire l’intenzione di estremizzare, all’interno della scienze sociali,
un’attitudine conoscitiva completamente modellata sull’esempio della fisica.
5
HABERMAS, Epistemologia analitica e dialettica. A proposito della controversia fra Popper e Adorno,
in AA. VV., Dialettica e positivismo in sociologia, tr. it. cit., pp. 153-187. Il testo in lingua originale
Analytische Wissenschaftstheorie und Dialektik. Ein Nachtrag zur Kontroverse zwischen Popper und
Adorno è apparso per la prima volta in Zeugnisse. Theodor W. Adorno zum sechzigsten Geburtstag,
Europäische Verlaganstalt, Frankfurt a. M. 1963, volume curato da M. Horkheimer per l’Institut für
Sozialforschung di Francoforte. Una versione leggermente modificata è apparsa in E. Topisch (a cura di),
Logik der Sozialwissenschaften, Kipenheuer und Witsch, Köln-Berlin 1965. In lingua italiana questo
testo, nella sua seconda versione, è stato tradotto anche da C. Donolo e inserito nel volume Teoria e
prassi nella società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1967.
4
52
vieta di concepire organicamente il tutto, secondo la formula: il tutto è più della somma
delle sue parti; ma la totalità è altrettanto poco una classe che si possa determinare –
secondo la logica estensionale – come l’insieme di tutti gli elementi che essa
comprende6.
Secondo Habermas, la totalità, così come è intesa dai dialettici, non si colloca né
all’interno della critica contro i fondamenti logici delle teorie che vorrebbero sgombrare
il campo dalle regole formali dell’impostazione analitica, né entro i confini della logica
formale – “regno delle ombre” – che considera la dialettica nient’altro che una forma di
illusione. Proprio questa autonomia che contraddistingue l’approccio dialettico è causa,
secondo Habermas, della sua caratterizzazione come modello ideologico, formulata dalla
controparte analitica: l’interesse che la sociologia dialettica riversa sulla vita sociale,
sull’intero contesto sociale e in particolare sulla sua componente umana, tutto questo
sarebbe ideologia. Secondo Habermas, ciò deriva dal fatto che le scienze sociali sono
ormai totalmente modulate secondo i dettami della teoria analitica della scienza, cosicché
quanto mantiene anche solo una parvenza dialettica è ritenuto come portatore di una
qualche traccia di mitologia. In effetti, prosegue Habermas, l’illuminismo dialettico
deriva proprio dal mito ciò che è rigettato dal positivismo, vale a dire “l’idea che il
processo di ricerca organizzato dai soggetti appartiene a sua volta al contesto oggettivo
che deve essere conosciuto, per il tramite di atti di conoscenza”7.
Il presupposto principale della sociologia dialettica, che si collega a quanto detto
sopra – e come è stato ampiamente sottolineato a proposito di Adorno – è l’idea di
totalità, quale campo d’indagine privilegiato e indispensabile all’interno delle scienze
sociali. Habermas sottolinea come anche per la sociologia di tipo analitico debba esserci
un riferimento ad un concetto di “tutto”, dal momento che anche le teorie sistemiche, in
quanto teorie, devono riferirsi al complesso del sistema sociale. Ciò, tuttavia, non elimina
la differenza sostanziale che separa i due approcci, poiché le scienze sociali di tipo
empirico-analitico intendono lo svolgersi dei fatti sociali
6
7
Ivi, p. 155 (p. 153).
Ivi, p. 156 (p. 154).
53
come una connessione funzionale di regolarità empiriche; nei modelli sociologici le
relazioni deduttive fra grandezze covarianti valgono, nel loro complesso, come
elementi di una connessione interdipendente. Ma questo rapporto del sistema e dei suoi
elementi che ha carattere ipotetico, secondo il modello di una connessione deduttiva
delle funzioni matematiche, deve essere nettamente distinto da quel rapporto della
totalità e dei suoi elementi che può avere soltanto uno sviluppo dialettico8.
Habermas sostiene che la differenza insita tra sistema e totalità non può essere
direttamente definita, poiché tale divergenza dovrebbe essere dissolta dal linguaggio della
logica formale e allo stesso tempo tolta e superata dal linguaggio dialettico. Proprio per
ovviare a tale difficoltà, l’argomentazione habermasiana procede tentando di riavvicinare
i due termini della contrapposizione da una prospettiva esterna ed essi, intraprendendo,
come ha messo opportunamente in rilievo Wiggerhaus, “con tutta serietà quel tentativo di
aggancio critico-immanente a Popper che Adorno aveva intrapreso con scarso
entusiasmo”9. Habermas procede, quindi, enucleando e discutendo quattro differenze
principali emerse nelle analisi di Adorno e Popper.
In primo luogo, secondo Habermas, è necessario un chiarimento circa ciò che il
sistema rappresenta secondo l’impostazione empiristica. Esso è ciò che denota “la
connessione interdipendente di funzioni che sono a loro volta interpretate ad esempio
come rapporto fra variabili del comportamento sociale”10. Ogni procedimento empiricoanalitico accoglie al suo interno sia regole logico-formali, indispensabili per la
“costruzione di un complesso deduttivo di proposizioni ipotetiche”, sia la possibilità di
“scegliere le assunzioni fondamentali semplificate in modo che esse consentano la
deduzione
di
ipotesi
nomologiche
che
abbiano
empiricamente
un
senso”11.
Conseguentemente la teoria è uno schema ordinatore, vale a dire una costruzione
effettuata mediante ed internamente ad una “cornice sintatticamente vincolante”.
L’applicabilità delle teorie è quindi possibile ogni qualvolta, in un determinato campo di
8
Ibidem.
Wiggerhaus affermas, inoltre, che Habermas in qualità di “teorico dell’opinione pubblica critica e della
prassi nel senso enfatico dell’agire etico-politico, poteva assumere nei confronti di Popper e della sua
critica al positivismo un atteggiamento analogo a quello assunto da Marx nei confronti del liberalismo, in
quanto all’idea ortodossa della pubblica opinione borghese aveva specularmente contrapposto le
condizioni sociali di una possibile realizzazione non borghese”, in Id., La scuola di Francoforte, tr. it. cit.,
p. 585.
10
Positivismusstreit, p. 157 (p. 155).
11
Ibidem.
9
54
oggetti, esse siano in armonia con la molteplicità reale. È questo, secondo Habermas,
l’elemento che permette alla teoria analitica di pensare e di sostenere incessantemente la
possibilità di una scienza unitaria e, al contempo, di ritenere illegittima qualsiasi indagine
che si discosti da questo procedimento.
In posizione del tutto antitetica si colloca la teoria dialettica, per la quale non è
possibile che la scienza si rivolga allo studio del mondo, come prodotto dell’uomo, con la
medesima “indifferenza con cui procede con successo nelle scienze esatte della natura”12.
Secondo Habermas, nell’ambito delle scienze sociali si rende necessario un preliminare
accertamento della conformità delle categorie agli oggetti d’indagine, dal momento che
un eventuale accordo tra schemi ordinatori e grandezze covarianti può avvenire solo
accidentalmente. Habermas non nega qui la possibilità che le relazioni istituzionalmente
reificate si inseriscano all’interno di alcuni modelli sociologici con la stessa regolarità
appartenente alle grandezze empiriche, e che in questo modo si possa realizzare un
controllo tecnico su alcune grandezze sociali. Tuttavia,
non appena l’interesse che guida la conoscenza va al di là del dominio della natura, e
cioè (in questo caso) al di là della manipolazione di settori di tipo naturale,
l’indifferenza del sistema per il suo campo d’applicazione si rovescia in una
falsificazione dell’oggetto. La struttura dell’oggetto trascurata a favore di una
metodologia generale condanna all’irrilevanza la teoria in cui non può penetrare13.
Habermas parla di «vendetta dell’oggetto» per descrivere ciò che avviene all’interno
delle scienze sociali qualora il soggetto impegnato nell’attività conoscitiva sia sopraffatto
proprio dalla sfera che egli intende indagare. L’unico mezzo, prosegue l’argomentazione,
in grado di eliminare questo giogo che limita il soggetto consiste nell’intendere la realtà
sociale come totalità: è solo questa, infatti, a determinare l’andamento dell’intera
indagine14. A partire dal concetto di totalità, che come si è visto rappresenta il cardine
12
Ibidem.
Ivi, p. 158 (p. 156).
14
Contrapposta a tale prospettiva è quella popperiana, che Wiggerhaus sintetizza nei seguenti punti: “La
teoria della scienza di Popper infatti escludeva che singole osservazioni concrete fossero possibili soltanto
in rapporto costante con una immagine sia pur provvisoria della totalità sociale. Escludeva che teorie non
deduttive potessero essere la forma adeguata di conoscenza di società antagonistiche e ricche di
contraddizioni. Escludeva che le esperienze di singoli individui potessero essere più esatte dei risultati
ottenuti nell’attività scientifica ufficiale e organizzata. Escludeva l’idea che la valutazione in sociologia
13
55
dell’intera argomentazione adorniana precedentemente analizzata, Habermas prosegue
indicando nel metodo dialettico l’unica via che permette l’adeguamento della teoria alla
cosa sia nella costruzione del concetto, sia al suo interno, dando la possibilità all’oggetto
di indagine di essere riconosciuto nel suo valore durante il processo d’analisi. L’accesso
all’ente da analizzare può avvenire solo nel momento in cui esso è sottoposto ad una
riflessione dialettica, che non spezzi la sua intrinseca relazione con l’ambiente sociale dal
quale proviene, come al contrario è sostenuto e praticato dall’indagine empirica.
L’approccio dialettico sostituisce l’ermeneutica del senso alla forma ipotetico-deduttiva
delle proposizioni, permettendo in tal modo una chiarificazione di quelle categorie che
ora sostituiscono “un’associazione univoca e reversibile di simboli e significati”; inoltre
si rende possibile la sostituzione di concetti in grado di palesare la connessione di
sostanza e funzione a “concetti relazionali”. Secondo Habermas, grazie a questa
impostazione l’approccio dialettico acquisisce la consapevolezza di essere un momento di
quel nesso oggettivo sottoposto all’analisi.
La relazione che intercorre tra la teoria e l’oggetto d’analisi influisce anche sul
rapporto che lega la teoria all’esperienza, e quest’ultimo costituisce, secondo
l’argomentazione habermasiana, un ulteriore elemento differenziante il metodo dialettico
da quello empirico. Secondo il procedimento empirico è dato un solo tipo di esperienza,
determinato da questo stesso procedimento; se è possibile il controllo di un dato,
all’interno di un determinato campo d’analisi e di circostanze riproducibili, allora i
giudizi che se ne possono trarre sono “intersoggettivamente validi”.
Le scienze
sperimentali quindi assumono come uno dei loro presupposti principali il fatto che debba
essere esercitato un controllo, sia esso diretto o indiretto, su tutte le proposizioni oggetto
di discussione, attraverso un tipo di esperienza fortemente regolata. È in questo punto
che, secondo Habermas, si manifesta un ulteriore motivo di distacco da parte della teoria
dialettica della società: la teoria, infatti, non può ammettere di costruirsi sull’oggetto
d’analisi a posteriori, bensì deve preliminarmente modularsi su quell’oggetto che intende
indagare. Non si nega qui il riferimento all’esperienza, perché ciò equivarrebbe alla
negazione del contesto sociale entro cui si colloca di necessità la ricerca sociologica; la
differenza, argomenta Habermas, si situa nell’identità di tale esperienza: essa è
non fosse qualcosa di neutralizzabile attraverso l’autoconoscenza ma un elemento costitutivo specifico
della conoscenza”; in La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 584.
56
un’esperienza prescientifica accumulata, che non ha ancora espunto, come costituita di
elementi puramente soggettivi, la cassa armonica di un ambiente sociale accentrato
intorno alla biografia della persona, e quindi la cultura conquistata dal soggetto nella
sua interezza15.
La totalità di questo tipo di esperienza è ciò che, per Habermas, precede la
costruzione di qualsiasi teoria, senza tuttavia rinunciare alla necessità dell’accordo; la
teoria dialettica non può opporsi all’esperienza così costituita e, nel fare ciò, non è
obbligata a rinnegare quei pensieri che si sottraggono al controllo perché non organizzati
secondo la “forma di proposizioni ipoteticamente necessarie”. Concordemente a quanto
espresso in proposito da Adorno nel testo Sulla logica delle scienze sociali, Habermas
ribadisce l’idea secondo la quale non è possibile rendere in una forma di linguaggio
ipotetico-deduttivo tutti i “teoremi” di cui si compone la teoria dialettica: l’accertamento
empirico su di essi non sempre è possibile, e ciò nonostante la loro validità e veridicità
non viene assolutamente inficiata16.
A sostegno della necessità dell’adeguamento tra strumenti analitici e strutture sociali,
Habermas riprende il concetto dialettico di società come totalità: la rappresentazione
della realtà sociale come ingranaggio, costituito da diverse parti solidamente strutturate,
tra loro rende giustizia dell’idea portante dell’adeguamento reciproco tra le parti.
L’esplicitazione ermeneutica del senso della totalità deve manifestarsi nella sua esattezza
di concetto adeguato alla cosa indagata e non solo come valore strumentale. Questa
impostazione comporta una conseguenza decisiva nel rapporto tra teoria ed empiria:
da un lato, nel quadro della teoria dialettica devono essere legittimati dall’esperienza
quegli stessi strumenti categoriali che altrove rivendicano una validità puramente
analitica; ma d’altro lato questa esperienza è identificata con l’osservazione controllata,
cosicché un pensiero può avere una legittimazione scientifica anche senza essere
nemmeno indirettamente suscettibile di falsificazione rigorosa17.
Da quanto appena sostenuto, Habermas deriva un ulteriore effetto che incide
profondamente sul rapporto che lega teoria e storia. L’andamento metodologico che
15
Positivismusstreit, pp. 159-160 (p. 157).
Cfr. ADORNO, Zur Logik der Sozialwissenschaften, cit.
17
Positivismusstreit, p. 160 (p. 159).
16
57
pertiene alla scienza in senso stretto ha un carattere fortemente generalizzante,
assicurando entro una forma logica sempre identica i rapporti di dipendenza da questo
posti. Per Habermas, infatti, “le prognosi condizionate di processi oggettivi o oggettivati”
definiscono propriamente il compito della teoria nelle scienze sperimentali. “Prognosi
condizionate” – sulla scorta del controllo empirico e dell’utilizzo di proposizioni o leggi
universali – e “spiegazione causale” – derivata dalla corrispondenza, empiricamente
verificata, tra una causa e un effetto – sono, secondo Habermas, espressioni equivalenti
per descrivere le prestazioni delle “scienze teoriche”.
Habermas procede nella sua analisi proponendo il parallelismo tra scienze empiriche
e scienze storiche avanzato da Popper nel testo The Open Society and its Enemies18.
Secondo l’impostazione analitica, ciò che contraddistingue le discipline storiche è
l’interesse che le guida nel raggiungimento del loro obiettivo: “non quello di dedurre e
confermare leggi universali, ma quello di spiegare singoli eventi”19. Nel risalire da un
determinato evento ad una causa ipotetica, gli storici, allo stesso modo degli scienziati,
fanno uso di un apparato di leggi, consistenti per lo più in regole empiriche che
mantengono forti caratteri sociologici e psicologici. Nel momento in cui l’interesse
dell’analisi si indirizza verso “proposizioni ipotetiche generali” – o “leggi di
comportamento sociale” –, tralasciando l’ambito di “leggi ipotetiche singolari”, avviene
un importante mutamento relativamente alla figura stessa dell’“indagatore”, che, da
storico diviene sociologo. Da ciò consegue un ulteriore cambiamento relativamente al
tipo di approccio utilizzato nell’azione dell’analisi: essa è ora totalmente inserita
all’interno di una scienza teorica. A partire da tale considerazione, prosegue Habermas,
Popper asserisce l’impossibilità per le scienze storiche di esercitare un controllo delle
ipotesi nomologiche20. Esiste una profonda differenza tra le condizioni iniziali poste alla
18
K. POPPER, The Open Society and its Enemies, London 1962; (tr. it. di R. Pavetto, a cura di D.
Antiseri, La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Armando, Roma 1975).
19
Positivismusstreit, p. 160 (p. 159).
20
Per chiarire il valore che in questo contesto assume l’aggettivo «nomologico», è necessario risalire a
quanto afferma Max Weber a proposito di “nomologia sociale” o “sapere nomologico”. Alla voce
Nomologie dell’Historisches Wörterbuch der Philosophie si legge: “M. Weber spricht von sozialer
Nomologie oder «nomologischem Wissen» im Blick auf methodische Konstruktionen der Soziologie,
insbesondere im Zusammenhang mit seiner Lehre vom Idealtypus. Die soziale N. auf der Basis
idealtypischer Konstruktionen unterliegt dabei allerdings den Postulaten der Sinn- und der
Kausaladequänz: Sinnadequänz ist gegeben, wenn der soziologisch rekonstruierte Handlungssinn die
Zustimmung der Handelnden findet (oder finden würde), die Kausaladäquanz ist – nach der sich an
Weber anschließenden Definition von A. Schütz – gegebenen, «wenn die Chance dafür besteht, dass (…)
nach Regeln der Erfahrung tatsächlich in einer Weise gehandelt wird, welche der typischen Konstruktion
entspricht»”.
58
base degli eventi storici e la coerenza ed uniformità empirica che pertiene alle scienze
analitiche, espressa nella forma di proposizioni universali: nella prospettiva popperiana,
di conseguenza, “non si può quindi parlare di «leggi storiche». Le leggi che possono
essere applicate nelle scienze storiche hanno lo stesso status di tutte le altre leggi
naturali”21.
Di contro, la teoria dialettica non può ammettere un uso limitativo del concetto di
legge, poiché in tal ottica i singoli fenomeni sono dipendenti dalla totalità. È vero,
prosegue l’argomentazione habermasiana, che le scienze storiche non si avvalgono di
quelle «regolarità dinamiche» che contraddistinguono i modelli temporali d’indagine
delle scienze sperimentali; ma ciò non produce un difetto: al contrario, “le leggi
dinamiche della storia pretendono a una validità insieme più ampia e più limitata”22. Da
un lato, infatti, non potendo astrarre dai confini temporali di un’epoca o di una
determinata situazione, esse non presuppongono alcuna validità generale: il riferimento a
cui esse si rifanno è la concretezza di un circoscritto ambito d’azione,
che appartiene alla dimensione di un processo di sviluppo nel suo complesso unico e
irripetibile, dove la successione delle fasi è irreversibile, e quindi non può essere
definito in modo puramente analitico, ma solo dalla conoscenza della cosa stessa23.
D’altro lato, prosegue Habermas, le leggi dialettiche fanno riferimento ad uno spettro
di validità decisamente più ampio, dal momento che implicano rapporti di dipendenza
fondativi riguardanti tanto il contesto sociale di vita, quanto gli stessi accadimenti
epocali, manifestando in tal modo l’idea di totalità che sta alla base di questo processo24.
“La teoria dialettica della società procede ermeneuticamente. La comprensione del
senso, a cui le teorie analitico-empiriche attribuiscono un valore meramente euristico, per
essa ha invece carattere costitutivo”: questa affermazione di Habermas appare
estremamente esemplificativa della natura dell’impostazione dialettica. Le leggi storiche
ottengono una loro attuazione tramite l’azione della coscienza dei soggetti e,
contemporaneamente, muovono verso l’esplicitazione del senso oggettivo di un universo
21
Positivismusstreit, p. 162 (p. 160).
Ibidem.
23
Ivi, p. 163 (p. 161).
24
Crf. Adorno: “L’universalità delle leggi sociali non è quella di una sfera concettuale in cui i singoli
pezzi si inseriscono perfettamente, ma si riferisce sempre ed essenzialmente al rapporto di universale e
particolare nella sua concretezza storica”, Soziologie und empiriche Forschung, cit., p. 91 (p. 93).
22
59
storico di vita. Il modo in cui questi due aspetti si articolano mostrano come nel primo
caso la comprensione del senso – il procedere ermeneuticamente della teoria dialettica –
tragga le sue leggi dalla coscienza, come comprensione, che i soggetti hanno della
situazione in cui sono calati; il secondo aspetto mette in evidenza come il senso dato
dall’analisi sociologica ad una determinata situazione sociale si articoli nello spirito
oggettivo del medesimo mondo sociale, tanto sotto forma di identificazione quanto di
critica. Non è tuttavia sufficiente, argomenta Habermas, che la teoria dialettica
interrompa il proprio procedimento limitandosi alla sola ermeneutica soggettiva,
limitandosi cioè alla messa in luce del legame fondamentale tra interpretazioni e idee con
gli interessi oggettivi della riproduzione sociale; deve essere portata al cuore
dell’indagine anche la circostanza della reificazione, l’unica a conservare assoluta
centralità all’interno dei procedimenti oggettivanti, affinché la teoria raggiunga il livello
della comprensione oggettiva del senso.
Secondo l’analisi habermasiana, vi è un secondo livello in cui si manifesta
chiaramente il motivo per cui la teoria dialettica supera l’approccio empirico
nell’indagine del contesto sociale. Essa, infatti, si affranca anche dal rischio di rimanere
intrappolata nelle maglie dell’ideologia: procedendo oltre i rapporti soggettivi che legano
gli individui nella direzione dell’analisi del senso oggettivo di queste stesse connessioni,
la dialettica
si procura l’accesso alla totalità storica di un complesso sociale, il concetto del quale
fornisce anche la chiave per intendere il senso della coazione, soggettivamente assurda,
dei rapporti che vengono ciecamente a colpire gli individui, indicando in essa i
frammenti di una connessione significativa oggettiva – e così la critica25.
È questo il luogo dove emerge il tentativo di Habermas di trovare un punto di
congiunzione tra le due prospettive metodologiche prese in considerazione nella loro
opposizione; è infatti possibile connettere il “metodo della comprensione” – dialettico –
con i “procedimenti oggettivanti della scienza analitico-causale” per mezzo di un
continuo rapporto di critica reciproca e di acquisizione degli elementi ritenuti validi in
entrambi gli approcci. Attraverso questo compromesso, prosegue Habermas, la teoria
25
Positivismusstreit, p. 165 (p. 162).
60
dialettica può effettivamente rimuovere la frattura tra teoria e storia, all’interno della
quale la storia è soggetta a diverse letture circa il suo compito precipuo, ora come
semplice spiegazione di eventi specifici, ora come riproduzione contemplativa di
“orizzonti di senso passati”. Secondo l’autore, infatti,
affinché la comprensione oggettiva del senso della storia consenta di penetrarla
teoreticamente, e se si vuole d’altro lato evitare l’ipostatizzazione filosofica di tale
senso, la storia deve aprirsi al futuro. La società rivela le tendenze del suo sviluppo
storico, quindi le leggi del suo movimento storico, anzitutto se si considera ciò che essa
non è26.
A sostegno di quanto appena formulato, Habermas riprende Hans Freyer e la sua
analisi relativa al medesimo obiettivo di mediazione tra approccio analitico e dialettico,
ribadendo il ruolo fondamentale dell’intenzione pratica – o, come si vedrà più avanti nel
corso dell’analisi, dell’interesse pratico – delle scienze sociali, che così operando sono in
grado di avanzare secondo un andamento sia storico che sistematico, derivato dal
medesimo contesto oggettivo27.
L’analisi della relazione che intercorre tra teoria e storia conduce l’argomentazione
habermasiana ad un grado successivo, vale a dire al conseguente e modificato rapporto
della scienza con la prassi. Come sarà evidente in seguito, il discorso che ora si sta
analizzando in relazione alle scienze sociali apre già verso il secondo livello sul quale si
muove la speculazione di Habermas nella critica allo scientismo; è infatti importante
segnalare come già qui il suo lessico si arricchisca di un supporto terminologico di
fondamentale importanza per la successiva riflessione nell’ambito più strettamente
filosofico. Mi limito a segnalare qui l’uso di termini quali teoria e prassi che, sebbene
impiegati in un contesto diverso, assumono già alcune connotazioni peculiari del
vocabolario habermasiano, nonché una rilevanza centrale all’interno delle riflessioni
teoretiche successive del filosofo tedesco.
26
Ivi, p. 165 (pp. 162-163).
“Ogni concetto strutturale dell’ordine sociale presente presuppone che una determinata volontà di
trasformare in futuro, questa struttura sociale, di darle questa o quella direzione di sviluppo, sia posta o
riconosciuta come storicamente valida (e cioè efficace). È ovvio che sono e restano due cose alquanto
diverse, volere praticamente questo futuro, lavorare effettivamente nella sua direzione, ad esempio
facendo politica, o invece usarlo come elemento costitutivo della teoria, come ipotesi”, in H. FREYER,
Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft, Leipzig-Berlin 1930, p. 304.
27
61
Ritornando al testo Epistemologia analitica e dialettica, Habermas ribadisce l’idea
precedentemente sviluppata che la storia non può procedere come una scienza
sperimentale, secondo un andamento che non è in grado di oltrepassare i limiti della
spiegazione causale: in tal modo essa acquisterebbe un valore solamente retrospettivo,
capace cioè solo di dar conto di avvenimenti già sviluppati e conclusi nel loro
svolgimento temporale e incapace, allo stesso tempo, di avere alcun tipo di applicazione
nella vita pratica della realtà contingente. Verrebbe così a mancare quella capacità di
prognosi sulla quale si struttura la validità delle scienze empiriche, attraverso la scelta di
mezzi razionali per il raggiungimento di fini predefiniti quando i fini da perseguire sono
già stabiliti. Ciononostante, l’applicazione di competenze prognostiche può essere
tradotta anche all’interno delle scienze sociali, così come è attuato dalla sociologia
empirica: le leggi sociali permettono l’acquisizione di tecniche da applicare alla realtà
della prassi umana, al fine di controllare gli andamenti sociali alla stregua di accadimenti
naturali.
Per Habermas, tuttavia, esiste una differenza sostanziale circa la reale possibilità di
applicare le competenze appena descritte alle scienze sociali o a quelle empiriche, poiché
i sistemi sociali sono situati in contesti di vita storica, non appartengono ai sistemi
ripetitivi, per i quali sono possibili asserzioni empiricamente esatte. Di conseguenza,
anche il raggio delle tecniche sociali si limita a relazioni parziali fra grandezze isolabili;
le connessioni di interdipendenza più complesse, di alto livello, si sottraggono agli
interventi scientificamente controllati; i sistemi sociali nel loro complesso vi si
sottraggono più che mai28.
Secondo la prospettiva di Popper, l’impiego di tali tecniche nelle scienze sociali
permetterebbe di organizzare e pianificare tanto l’azione politica quanto la
riorganizzazione della stessa società. Si potrebbe, cioè, derivare un’azione il cui soggetto
sia la società, tramite una dettagliata analisi dei nessi storici; in tal modo sarebbe anche
possibile individuare all’interno di questo macrosoggetto le relazioni fine-mezzo che
consentano un’adeguata applicazione delle tecniche migliori. Non si tratta, nell’ambito
delle scienze storiche, di poter dedurre teorie che siano empiricamente verificabili,
quanto piuttosto – sempre nell’ottica di Popper – di ripercorrere il passato come se i fatti
28
Positivismusstreit, pp. 166-167 (p. 164).
62
accaduti rappresentassero delle indicazioni da attuare sul presente, “in modo da rendere
riconoscibili certe relazioni parziali di determinati punti di vista pratici”29. Secondo
l’approccio analitico, il nesso che connette scienza e prassi mantiene le stesse
caratteristiche di quello tra teoria e storia, ossia insiste sulla netta distinzione tra fatti da
un lato e decisioni dall’altro: il senso che può essere accordato alla storia è una diretta
conseguenza del raggiungimento di determinate decisioni e, conseguentemente, questo
stesso senso può essere tradotto nella storia attraverso l’impiego di specifiche tecniche
scientifico-sociali.
Habermas prosegue la sua analisi proponendo, giunti a questo snodo, l’obiezione che
potrebbe essere rivolta dalla teoria dialettica. Tenendo ben saldo il concetto di realtà
sociale come totalità, si manifestano nel moto storico ad essa intrinseco una serie di
“contraddizioni reali” e “interpretazioni” che conducono all’utilizzo di tecniche sociali
“in funzione di scopi in apparenza liberamente scelti”30. Le intenzioni pratiche e le
interpretazioni generali devono essere svincolate da qualsiasi forma di arbitrio, al fine di
recuperare la propria legittimità, seguendo la via dialettica, su un contesto oggettivo. Così
operando, prosegue Habermas, la sociologia critica può, o meglio deve, farsi investire
direttamente dai problemi propri dell’oggetto. È nel saggio di Adorno Sulla logica delle
scienza sociali che Habermas individua la risposta dialettica all’impostazione analitica
circa il modo in cui i problemi si pongono alla ricerca: “si feticizzerebbe la scienza, se si
separassero radicalmente i suoi problemi immanenti da quelli reali, di cui i suoi
formalismi sono soltanto un pallido riflesso”31.
§. 2. Avalutatività: la centralità di fatti e decisioni.
Si pone ora una questione centrale per l’intero dibattito interno alle scienze sociali,
già ampiamente discussa sia da Adorno che da Popper, relativa al problema
dell’avalutatività connessa alla ricerca storica e teorica. L’atteggiamento con cui
Habermas si accinge ora all’analisi della questione cambia e trasla da una dimensione
puramente descrittiva, come nei punti precedenti, ad una problematizzante, a partire dal
seguente assunto metodologico:
29
Ivi, p. 167 (p. 164).
Ivi, p. 168 (p.165).
31
ADORNO, Zur Logik der Sozialwissenschaften, cit., p. 129 (p. 129).
30
63
poiché entrambe le parti avanzano con uguale intransigenza la stessa pretesa
razionalistica di costituire una forma di conoscenza critica e autocritica bisogna
decidere: o la dialettica trascende i limiti della riflessione verificabile, e usurpa,
semplicemente, il nome di ragione per un oscurantismo tanto più pericoloso – come
afferma il positivismo; o, viceversa, il codice delle scienze sperimentali rigorose
impedisce arbitrariamente un ulteriore sviluppo della razionalizzazione, la blocca, e
stravolge la forza della riflessione, in nome della distinzione puntuale della
solida e tangibile empiria, facendo di essa uno strumento per punire il pensiero
stesso32.
La lunga citazione riportata è sintomatica del punto d’osservazione dal quale
Habermas intende analizzare la problematica relativa all’avalutatvità, vale a dire
sottoponendo ad un significativo esame critico non solo l’approccio empirico, bensì
anche quello dialettico, al quale egli stesso si richiama. Deve emergere, seguendo
l’argomentazione habermasiana, la pars construens della teoria dialettica contro il suo
avversario, e non solo quella destruens: non basta, cioè, che nello scontro l’impostazione
analitica venga abbattuta perché portatrice di menzogne; deve emergere la validità e la
veridicità di quanto finora affermato, anche sottoponendo “i procedimenti analiticoempirici a una critica immanente, in nome della loro stessa pretesa”33. Di rilevanza
assoluta diviene per Habermas la necessità che il pensiero dialettico, considerato nella
sua integrità e serietà come approccio metodologico interno alle scienze sociali, si cali
all’interno della dimensione ad esso opposta; la nuova visuale prospettica, che la
dialettica è costretta ad assumere per valutare con maggior nitidezza i termini della
contrapposizione, può offrire il terreno più idoneo per una critica che costringa il
razionalismo empiristico a prendere atto della propria parzialità, della propria deficitaria
forma di razionalizzazione.
Il primo dato significativo da prendere in considerazione, e attorno al quale si snoda
l’intera argomentazione habermasiana in merito, è la caratterizzazione posivitistica – e
più propriamente popperiana – dell’avalutatività (Wertfreiheit) come “dualismo tra fatti e
decisioni”. Tale dualismo comporta un’ulteriore suddivisione delle leggi che vi stanno
32
33
HABERMAS, Analytische Wissenschaftstheorie und Dialektik, cit., p. 169 (p. 166).
Ibidem.
64
alla base: leggi naturali, relativamente a ciò che concerne fenomeni di tipo naturale e
storico, e norme sociali, ossia le regole che disciplinano i comportamenti umani. Come
più volte osservato, Habermas concorda con la visione adorniana, e più in generale
dialettica, sull’illegittimità di un’equiparazione tra ciò che pertiene ai fenomeni naturali,
scientificamente intesi, e ciò che invece è pertinente alla più complessa e irregolare realtà
umana.
Le norme sociali sono dipendenti dal riconoscimento che su di esse i soggetti mettono
in atto, anche attraverso una regolamentazione attuata in base al pericolo delle sanzioni.
L’accettare o rifiutare una norma non dipende da ipotesi che mantengono uno status
assoluto di verità o falsità, in quanto i processi che determinano una presa di posizione
del soggetto sull’accordo o il disaccordo relativamente ad una norma non possono essere
definiti come veri o falsi. Habermas distingue nettamente il tipo di giudizio che
costituisce il principio delle due sfere in esame: le ipotesi relative alle scienze naturali si
costituiscono sulla «conoscenza», mentre quelle inerenti le norme sociali sulla
«decisione». In tal modo,
al dualismo di fatti e decisioni corrisponde la separazione epistemologica tra il
conoscere e il valutare, e l’esigenza metodologica di limitare le analisi delle scienze
sperimentali alle uniformità empiriche che si riscontrano nei processi naturali e
storici34.
Da quanto appena sostenuto Habermas deriva un’ulteriore conseguenza circa i giudizi
valutativi che, in quest’ottica, non possono avanzare alcuna pretesa teorica, non possono
cioè rientrare all’interno del processo prognostico peculiare delle scienze sperimentali; le
norme presuppongono la scelta di un fine nel momento in cui il soggetto decide se
accettarle, ed esso non è passibile di nessuna forma di controllo tecnico-scientifico.
Inoltre, argomenta Habermas, conseguentemente a questa forma di dualismo postulata dal
positivismo, si viene a creare una sorta di gerarchia tra le scienze: è, cioè, riconosciuta
come conoscenza legittima solo quella derivata dalle scienze sperimentali in senso stretto.
E tuttavia da ciò Habermas trae una considerazione piuttosto significativa ed antitetica
rispetto al monopolio da parte della scienza empirica sulla conoscenza:
34
Ivi, p. 171 (p. 167).
65
è vero che il confine positivisticamente netto fra il conoscere e il valutare indica meno
un risultato che un problema. Una volta, infatti, che la sfera dei valori, delle norme e
decisioni è stata così separata dalla sfera scientifica, di essa si impadroniscono
nuovamente le interpretazioni filosofiche, appunto sulla base di una suddivisione del
lavoro con la scienza positivisticamente ridotta35.
La pretesa di rimuovere le questioni di tipo pratico dalla sfera della conoscenza
empirica e dalla cornice della discussione razionale, seguendo il miraggio di una
soluzione preliminare di tali problematiche e contemporaneamente vincolante per il
soggetto, conduce inevitabilmente a quello che Habermas definisce “il ritorno al chiuso
mondo delle immagini e potenze mitiche”36. È evidente qui il richiamo alla Dialettica
dell’illuminismo e alla caratterizzazione del concetto di illuminismo come profondamente
intriso di componenti mitiche, che costituiscono essenzialmente il motore stesso del suo
processo mai concluso37.
Secondo Habermas, l’unica configurazione particolare di ragione che il positivismo
può ancora difendere come ammissibile consiste in una sorta di «professione di fede»,
spostando il fulcro della questione dalla scelta tra “fede e sapere” alla scelta di “quale
forma di fede assumere come propria”38. Tuttavia, prosegue l’argomentazione
habermasiana, se si considera possibile quest’ultima prospettiva aperta da Popper, si deve
conseguentemente supporre che argomenti ed esperienze non possano costituire una
giustificazione per un determinato argomento e che, al contrario, sia l’atteggiamento
razionalistico a far sì che questi stessi argomenti ed esperienze possano essere
effettivamente considerati. Si creano così tutti i presupposti affinché l’azione nella prassi,
35
Ibidem, (p. 168).
Ivi, p. 172 (p. 169).
37
“Come totalità linguisticamente sviluppata, che mette in ombra, con la sua pretesa di verità, la fede
mitica più antica, le religioni popolari, il mito solare, patriarcale, è già illuminismo, con cui l’illuminismo
filosofico può misurarsi sullo stesso piano. Ora gli è resa la pariglia. La mitologia stessa ha avviato il
processo senza fine dell’illuminismo, dove, con ineluttabile necessità, ogni concezione teoretica
determinata cade sotto l’accusa distruttiva di essere solo fede, finché anche i concetti di spirito, di verità,
e perfino di illuminismo, vengono relegati tra la magia animistica. Il principio della necessità fatale onde
periscono gli eroi del mito, e che si svolge come logica conseguenza del verdetto oracolare, non domina
soltanto – purificato fino alla coerenza della logica formale – in ogni sistema razionalistico della filosofia
occidentale, ma sulla successione stessa dei sistemi, che comincia con la gerarchia degli dèi e, in un
permanente crepuscolo degli idoli, tramanda, come contenuto identico, l’ira per la mancanza di onestà”,
in M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 19.
38
POPPER, La società aperta e i suoi nemici, tr. it. cit., vol. II, p. 246.
36
66
sia politica che morale, si affidi per la sua correttezza ad una forma di tecnica sociale, che
accolga al suo interno tutti i tratti peculiari della tecnica scientifica. A questo proposito è
interessante quanto sostenuto da Horst Baier nel testo Soziologie und Geschichte. Egli
afferma che Popper – e come si vedrà successivamente anche Hans Albert – sembra
rinunciare alla legittimazione della scienza, e con essa alla sicurezza gnoseologica della
conoscenza e dell’azione razionale, spingendola nella direzione della conformità a regole
prestabilite della logica formale e della metodologia ad essa connessa; in questo modo si
irrigidisce anche la pretesa del rigore logico correlato all’impiego di tali regole. Tuttavia,
argomenta Baier, una presa di posizione di tale natura porta allo scoperto il carattere
ideologico insito nella scienza così intesa, ripiegandosi solamente sulla scelta di valori a
favore della ragione e su meri atti di fede a favore della razionalità scientifica39.
La domanda che Habermas si pone, giunto a questo punto dell’analisi, concerne
l’esistenza di un rapporto di continuità tra “la capacità di controllare tecnicamente
processi oggettivati” e “il dominio pratico di processi storici”, ossia la possibilità di una
coincidenza tra una sorta di amministrazione razionalizzata del mondo e la risoluzione
dei problemi pratici che in esso si pongono. Alla questione ora formulata sono
strettamente connessi sia il dualismo problematico di fatti e decisioni, di leggi naturali e
norme, sia la possibilità reale della privazione del senso normativo dal contesto razionale
di un concreto orizzonte di vita. La posta in gioco, nell’ottica habermasiana, è alta:
è la conoscenza, e non solo quella che mira, in senso enfatico, al concetto di una cosa,
anziché limitarsi alla sua esistenza; è la conoscenza ridotta positivisticamente a scienza
sperimentale veramente libera da ogni vincolo normativo?40.
39
„Man kann als mit Albert und Popper auf die Legitimierung der Wissenschaft und damit auf die
gnoseologische und praxeologische Sicherung der rationalem Erkenntnis- und Handlungsakte verzichten,
man kann also Wissenschaft gemäß vereinbarten Regeln etwa der formalen Logik, der Methodologie oder
der praktischen Anwendung treiben und Stringenz und Striktheit nur in bezug auf die Handhabung dieser
Regeln forndern. Eine solche Position kann aber im ideologie-kritischen und darüber hinaus im
politischen und sozialen Kampffeld, nachdem sie den ideologisierenden Charakter der quaestio iuris für
die traditionelle Wissenschaft durchschaut hat, sich selbst nur auf eine Wertendscheidung für die
Vernunft, auf einen bloßen Glaubensakt für die wissenschaftliche Rationalität zurückziehen“, in H.
BAIER, Soziologie und Geschichte, in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», Wiesbaden 1966, L
II, 1, pp. 67-89, qui pp. 75-76.
40
Positivismusstreit, p. 172.
67
Habermas si sofferma ora sull’analisi del “problema della base” e in particolare sulle
proposte avanzate da Popper per la sua risoluzione41. Questo problema consiste nella
possibilità di un controllo empirico delle teorie all’interno della cornice epistemologica,
secondo l’assunto fondamentale che “le ipotesi logicamente esatte dimostrano la loro
validità empirica solo se sono messe a confronto con l’esperienza”42.
Ai fini dell’analisi, è opportuno focalizzare qui l’attenzione solamente su alcuni punti
centrali, per mettere in evidenza la continuità di talune argomentazioni habermasiane che,
dal contesto delle scienze sociali, riemergono all’interno di quello più propriamente
filosofico.
Le proposizioni teoretiche, argomenta Habermas, non sono soggette ad alcun tipo di
controllo derivato dall’esperienza – per quanto questa risulti essere oggettivata – ma
sottostanno, al contrario, al controllo praticato da altre proposizioni. Queste proposizioni
protocollari fungerebbero, pertanto, da piattaforma sulla quale fondare l’esattezza delle
ipotesi di partenza. Com’è noto, e come Habermas riporta puntualmente, nella Logica
della scoperta scientifica Popper introduce la “teoria generale della falsificazione” come
attestazione dell’impossibilità di verifica delle ipotesi nomologiche43. La conclusione cui
Popper giunge, attraverso l’impiego di tale teoria, lo porta ad affermare che le
proposizioni osservative passibili di falsificazione non possiedono una giustificazione
empirica rigorosa, e che ogni singolo caso necessita preventivamente di una decisione
41
Albert definisce il problema della base, rifacendosi a Logica della scoperta scientifica di Popper, come
“il problema del carattere delle asserzioni di base (asserzioni che descrivono fatti osservabili) e della
funzione che esse devono svolgere nel controllo delle teorie”, cfr. ALBERT, Der Mythos der totalen
Vernunft, p. 214, nota 41 (p. 209, nota 3).
Riprendendo Popper, Habermas descrive il problema delle proposizioni di base come “quelle asserzioni
esistenziali singolari che si prestano a confutare un’ipotesi nomologica espressa nella forma di asserzioni
esistenziali negative. Esse formulano, per lo più, il risultato di osservazioni sistematiche. Indicano la linea
di sutura lungo la quale le teorie incontrano la base empirica”, cfr. HABERMAS, Gegen einen
positivistisch halbierten Rtionalismus, p. 242 (p. 236).
42
HABERMAS, Analytische Wissenschaftstheorie und Dialektik, cit., p. 176 (p. 172).
43
POPPER, The Logic of Scientific Discovery, Harper and Row, New York 1959; (tr. it di M. Trinchero,
Logica della scoperta scientifica: il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, Torino 1998, pp. 66
sgg.).
Wiggerhaus mette in relazione la teoria della falsificazione all’idea predominante nel neopositivismo che
lo sviluppo della scienza si determini già all’interno dei suoi stessi confini, definendo pertanto la scienza
come una sorta di mondo disgiunto dal contesto storico e sociale, soggetto, a livello della struttura e
dell’incremento, solamente alla logica. Egli mette anche in luce il fatto che Popper “si era spinto oltre,
portando in primo piano il problema del progresso scientifico, ma ristretto al context of refutation: ossia
alla verifica teorico-conoscitiva e logica dei modelli teorici, e alla loro verifica sperimentale in base al
principio di falsificazione in vista del progressivo avvicinamento alla verità. Egli escludeva invece il
context of discovery, le influenze esterne di tipo psicologico e socioeconomico, ritenute irrilevanti ai fini
della logica della ricerca”, in WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 585.
68
circa l’accettazione di una proposizione di base “sufficientemente motivata
dall’esperienza”. Conseguentemente deve crearsi di necessità un accordo provvisorio tra
coloro che intendono falsificare determinate teorie, ed esso non può che fondarsi su una
decisione, che non è prescritta da argomenti logici né empirici.
L’argomentazione popperiana, nota Habermas, conduce il ragionamento in una
direzione che, paradossalmente, conferisce valore alle obiezioni di quest’ultimo. A tale
proposito, Wiggerhaus ha rilevato il peculiare modo in cui è condotta l’analisi
habermasiana, ossia il
concepire la teoria popperiana della scienza come il primo stadio di un’autocritica del
positivismo, nel radicalizzare questo primo stadio attraverso una prospettiva pragmatica
che inseriva il modello di conoscenza scientifico-naturale in un contesto ancora più
ampio di quello di Popper, e nel suggerire una prospettiva pragmatica anche per la
stessa idea popperiana della discussione critica razionale44.
In tal senso quindi, argomenta Wiggerhaus, Habermas può fornire una giustificazione
pragmatica alla logica della ricerca postulata da Popper, creando conseguentemente le
condizioni per la fondazione della ricerca di tipo dialettico e “per dare una copertura
culturale alla razionalità tecnica assolutizzata sia dall’empirismo logico sia dal
razionalismo critico di Popper”45.
Per Habermas, dunque, non è valida l’idea che tanto la validità empirica delle
proposizioni di base quanto la correttezza delle teorie dipendano dal “contesto
scientificamente puro”. Ciò che conta all’interno di tale cornice è la discussione che si
apre nella comunità scientifica, o meglio tra i singoli scienziati, conferendo importanza
decisiva all’accordo che è possibile raggiungere in merito alla questione. A tale proposito
Habermas afferma:
non si possono applicare leggi generali se non ci si è messi prima d’accordo sui fatti
che si possono sussumere sotto di esse; d’altro lato questi fatti non possono essere
accertati come casi rilevanti prima di applicare delle regole. Il circolo che
l’applicazione delle regole inevitabilmente produce è una prova dell’inserimento del
44
45
Ivi, p. 586.
Ibidem.
69
processo di ricerca in un contesto che per parte sua non può più essere spiegato in
modo analitico-empirico, ma solo ermeneuticamente46.
Habermas pone in rilievo l’idea che la “ricerca” sia essenzialmente un’associazione
composta di persone, fondata sull’azione e sulla partecipazione reciproca e che,
riprendendo un’espressione di Baier, non procede autonomamente (subjektfrei abläuft)47.
Il collante di tale istituzione è la comunicazione tra coloro che portano avanti la ricerca,
quale unico strumento in grado di conferire validità e solidità teoretica alla ricerca stessa.
La “precomprensione di determinate norme sociali” è conseguentemente un presupposto
basilare di qualsiasi analisi che conduca verso l’esattezza empirica delle ipotesi di
partenza, e costituisce, come è stato osservato, il cardine a cui Habermas intende fissare
saldamente la propria idea di sociologia dialettica48. Secondo l’argomentazione
habermasiana è pertanto imprescindibile la comprensione dell’intero svolgimento
dell’analisi al fine di definire con maggior fondatezza a che cosa si connette la “validità
empirica delle preposizioni di base”49. Bisognerebbe assumere come base di partenza
delle condizioni non problematizzate circa la loro validità e credibilità. Habermas rifiuta
veementemente tale assunto, dal momento che egli sostiene che
la validità empirica delle proposizioni di base – e quindi l’esattezza delle ipotesi
nomologiche e delle teorie delle scienze sperimentali in genere – è dunque soggetta al
criterio di una sorta di successo pratico che si è realizzato a livello sociale, nel contesto
preliminarmente intersoggettivo di gruppi di lavoro. È qui che si forma quella
precomprensione ermeneutica sottaciuta dall’epistemologia analitica che sola consente
l’applicazione di regole nell’assunzione di preposizioni di base50.
46
Positivismusstreit, p. 179-180 (p. 176).
“Habermas sucht in seinen Arbeiten, Albert und Popper immer wieder zu demonstrieren, wie sehr sie
selbst davon ausgehen, dass der Forschungsprozess niemals subjektfrei abläuft, sondern dass er über die
für ihn konstitutiven Wertbezüge der Forschungssubjekte allemal in jenem größeren Zusammenhang
steht, der Dezision und Faktum, subjektive Irrationalität und objektive Rationalität umschließt”, in
BAIER, Soziologie und Geschichte, cit., p. 77-78.
48
“Dieses „Vorverständnis bestimmter sozialer Normen“, das jede Sachfrage, insbesondere auch die im
Forschungsprozess zu klärenden und zu entscheidenden Sachaussagen durchzieht und bestimmt, ist der
Angelpunkt, ja der für Habermas vermeintlich feste Boden, auf dem er seine dialektische Soziologie
verankern möchte. […] das ist im Grunde nichts anders als der subjektiv verfasste Sinn eines sozialen
Kontextes, dessen objektiven Sinn die Subjekte so repräsentieren”. Ivi, p. 78
49
Positivismusstreit, p. 180 (p. 176).
50
Ivi, p. 181 (p. 178).
47
70
Questa precomprensione ermeneutica è ciò che, secondo l’analisi habermasiana,
regola e indirizza il processo lavorativo, inteso come azione finalizzata al controllo e alla
manipolazione della natura51. I mezzi tramite cui il lavoro si esplica – “consigli tecnici
per la scelta razionalizzata dei mezzi relativi ai fini dati” – conferiscono a priori il
complesso di informazioni necessarie che determinano il controllo tecnico; essi, pertanto,
non possono in nessun modo costituire una conseguenza successiva delle teorie
scientifiche, dal momento che gli stessi partecipanti al processo lavorativo sono chiamati
all’accordo sulle regole che determinano il successo o l’insuccesso di un procedimento
tecnico. Habermas argomenta infatti che la regola tecnica, sottoposta a precisi compiti,
può fallire o non fallire, ma la sua validità empirica è garantita esclusivamente da compiti
che hanno un carattere normativo dipendente dalla prospettiva sociale entro cui essa è
inserita: “il processo di ricerca legato a prescrizioni analitico-sperimentali non può
risalire oltre questo rapporto alla vita sociale; che è sempre ermeneuticamente
presupposto”52. Si tratta, come è stato a ragione puntualizzato, di un nuovo modello di
possibile rapporto tra individui, che reciprocamente si orientano in relazione alle cose e
alla loro anticipazione: un orientamento dialogico53.
È un dato indiscutibile, prosegue Habermas, che l’interesse pratico al controllo dei
processi oggettivi sia qualcosa di alquanto differente dagli altri interessi pratici
appartenenti alla vita sociale, dal momento che la stessa conservazione della vita è
sempre dipesa, nella storia dell’uomo, dal controllo della natura per mezzo del lavoro. Se
questo corrisponde al criterio su cui si fonda anche la scienza sperimentale, allora senza
difficoltà è possibile raggiungere un accordo intersoggettivo sui criteri che garantiscono
validità a tale approccio. Ma, come sottolinea Habermas, questo accordo intersoggettivo
51
Cfr. Wiggerhaus: “alla base del tipo di azione costituito dal lavoro c’era, secondo Habermas, l’interesse
a rendere possibile il controllo di processi oggettivi. Verso questo interesse quindi era anche orientato il
tipo di ricerca empirico-analitico. Agli occhi di Habermas, questo interesse tecnico rappresentava il
vincolo normativo del tipo di scienza che tanto il neopositivismo quanto il razionalismo critico
identificavano con la razionalità scientifica e definivano in linea di principio avalutativa”, in Id., La
scuola di Francoforte, tr. it. cit., pp. 586-587.
52
Positivismusstreit, p. 182 (p. 179).
53
“Es ist gedacht – abgesehen von der günstigen Ausgangsposition für die Auseinendersetzung mit den
Neupositivisten, denn so vermag er sie mit ihren eigenen Waffen zu schlagen – als das Modell eines
möglichen, teils wirklichen Verhaltens von Menschen, die sich an der Sache und an den subjektiven
Antizipationen dieser Sache wechselseitig, das heißt dialektisch oder noch besser: dialogisch orientieren.
Die Diskussionspartnerschaft der Wissenschaftler ist ihm eigentlich Vorbild für dasjenige Forum der
Öffentlichkeit, auf dem die mündigen Bürger ihre Interessen formulieren, verhandeln und ausgleichen, so
dass sie mit der gemeinsam dialogisch ausgehandelten Übereinkunft auf einer höheren Bewusstseinsstufe
stehen als vorher und sich dadurch von ihren früheren differenten und irrationalen Interessen reflektierend
emanzipiert haben”, in BAIER, Soziologie und Geschichte, cit., pp. 80-81.
71
non solo aumenta e diviene sempre meno problematico: esso diviene, in ultima istanza,
un interesse “ovvio e naturale”, un interesse cioè che non necessità più di alcuna
tematizzazione e problematizzazione. L’interesse viene sostanzialmente assimilato ed
inglobato dalla conoscenza stessa, che dovrebbe essere in realtà la sua diretta
conseguenza, il prodotto di un processo messo in moto dall’interesse che ne sta alla base.
Quanto detto porta l’autore ad alcune considerazioni decisive per le su analisi
successive sullo status della teoria pura, intesa come “illusione” fortemente radicata
all’interno delle scienze empiriche moderne:
Nella filosofia classica da Platone fino a Hegel l’atteggiamento teoretico è stato inteso
come una contemplazione basata sul bisogno di essere liberi dal bisogno. Continuando
questa tradizione, la teoria analitica della scienza conserva ancora lo stesso
atteggiamento: indipendentemente dai contesti di vita dai quali storicamente emerge, il
processo della ricerca deve essere emancipato, quanto alla validità delle asserzioni
scientifiche, da ogni rapporto con la vita, deve essere sottratto alla prassi non meno di
quanto avevano affermato greci per ogni vera teoria54.
Ecco, quindi, come si giustifica secondo Habermas l’esigenza dell’avalutatività nella
prospettiva positivistica: una giustificazione ereditata dal pensiero antico, nonostante la
sua pretesa estraneità alla filosofia classica. Rimane d’altro canto innegabile il legame
imprescindibile tra il lavoro sociale e lo sviluppo delle scienze moderne: una critica
rigorosamente condotta, sviluppata internamente a tale connessione, dovrebbe mettere in
luce esattamente questa connessione negata, che da sola circoscrive ciò che è meritevole
di validità empirica.
Ripercorrendo a ritroso la genesi della scienza sperimentale in senso stretto del XVII
secolo, la fisica in particolare, Habermas individua nelle condizioni storiche che l’hanno
determinata un legame strettissimo tra l’attitudine teoretica sopra descritta e la
disposizione tecnica: in tale prospettiva, la ricerca e la conoscenza hanno come scopo
primario quello di garantire gli interessi di chi è attivamente impegnato nell’attività
lavorativa. L’avvento della società borghese moderna ha eliminato la separazione fino ad
allora esistente tra “teoria” e “riproduzione della vita materiale”, conservata grazie al
monopolio della conoscenza a favore della sola classe agiata. La società borghese,
54
Positivismusstreit, p. 183 (pp. 179-180).
72
legittimando l’acquisto della proprietà attraverso il lavoro, crea le condizioni per le quali
“la scienza può ricevere impulsi dalla sfera empirica del lavoro manuale, la ricerca può
essere gradualmente integrata nel processo del lavoro sociale”55. Il monopolio della
razionalità scientifica sempre più crescente all’interno delle scienze empiriche e l’oblio
da parte di queste del contesto sociale, entro il quale queste erano pur sempre calate, si
mostrano come conseguenze della modernizzazione capitalistica56.
Habermas riconduce la questione dell’avalutatività di ciò che è reso oggettivo dalle
scienze empiriche al processo di reificazione che ha avuto luogo, nella moderna società
borghese, nelle relazioni tra gli uomini appartenenti a un determinato gruppo sociale e tra
gli uomini e le cose prodotte dal loro stesso lavoro. Ciò che resta, prosegue l’analisi
habermasiana, è il mero interesse, “il dominio esclusivo dell’interesse che, con processo
complementare a quello della valorizzazione, include il mondo della natura e della
società nel processo lavorativo, e lo trasforma in forze produttive”57. Come ulteriore
conseguenza si crea la condizione per la quale l’interesse conoscitivo di natura pratica,
che genera e dispone dei processi oggettivi, produce un così alto livello di
formalizzazione relativamente alla disposizione conoscitiva da scomparire nelle scienze
empiriche come interesse pratico stesso. Alla stessa stregua diviene impercettibile anche
la necessità dell’apparato di istruzioni e regole tecniche, trasfigurato in un insieme di
indicazioni che spoglia del valore tecnico di fruibilità il rapporto strumentale di causa ed
effetto, rivolto alla realizzazione di fini pratici in generale. L’unica espressione ammessa
all’interno di qualsiasi processo di ricerca, argomenta ancora Habermas, è l’indifferenza:
assumendo come valida l’idea che la ricerca si fondi esclusivamente su “connessioni
funzionali di grandezze covarianti” e su leggi naturali e che essa escluda qualsiasi altro
tipo di prestazione, allora non resta che assumere
un atteggiamento di disinteresse e di completa estraneità alla prassi vitale, teoretico,
appunto, così da poterle [le nostre prestazioni] «conoscere». La pretesa di esclusività
della conoscenza scientifica in senso stretto mediatizza tutti gli altri interessi che
55
Ibidem.
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 587.
57
Positivismusstreit, p. 185 (p. 181).
56
73
guidano la conoscenza a favore di uno solo, del quale essa non è neanche
consapevole58.
Le relazioni che si instaurano all’interno del contesto di vita sociale, sostiene
Habermas, si costituiscono su due presupposti imprescindibili e intimamente intrecciati
tra loro: il linguaggio quotidiano e le norme sociali. Su queste basi si fonda per noi la
possibilità di sperimentare qualcosa e successivamente di giudicarne il valore, tramite il
contenuto descrittivo del linguaggio e il contenuto normativo delle regole sociali. Per
Habermas, quindi, è proprio il postulato dell’avalutatività a dichiarare, per le scienze
empirico-analitiche, l’impossibilità di conoscere la loro dipendenza dalla vita pratica, in
cui pur esse si collocano oggettivamente; il valore è il risultato, dialetticamente raggiunto,
del fondersi assieme di linguaggio e norme. Se i valori sono soggetti ad una forma di
astrazione, divenendo “entità ideali” tramite un processo di oggettivizzazione o “forme di
reazione” perché soggettivati, non ne consegue una forzatura delle categorie del mondo,
quanto piuttosto un inganno; ma è tale espediente, prosegue l’argomentazione
habermasiana, a permettere ad esse di rovesciare la situazione e a mettere la teoria alla
mercé della prassi, poiché
sotto l’apparenza dell’autonomia, si fa beffe di un nesso di verità indissolubile.
Nessuna teoria che ne è consapevole potrà concepire il suo oggetto senza riflettere,
contemporaneamente, il punto di vista dal quale esso ha qualche valore, secondo la
propria pretesa immanente: «Ciò che fu sancito a posteriori come valore, non ha un
rapporto esterno con la cosa […], ma le è immanente»59.
L’avalutatività è, in ultima istanza, assolutamente sconnessa dalla teoria in senso
classico, poiché essa rappresenta “un’oggettività della validità delle asserzioni”
legittimata dall’interesse conoscitivo tecnicamente espresso. Habermas, riprendendo qui
il saggio di Gunnar Myrdal Ends and Means in Political Economy60, che ben individua
l’impossibilità di rimuovere la congiunzione normativa tra la ricerca e la prassi vitale,
sostiene che il verificarsi della traduzione all’interno delle scienze sociali di
58
Ivi, p. 186 (p. 182).
Ibidem.
60
G. MYRDAL, Ends and Means in Political Economy, in Value un Social Theory. A selection of Essays
on Methodology, (edited by P. Streeten), Harper, London 1958.
59
74
“raccomandazioni tecniche”, quali derivati di prognosi scientifiche, ha come esito quello
di creare tre sottocategorie: situazione di partenza data, mezzi alternativi e fini ipotetici.
La conseguenza diretta di tale trasposizione, secondo Habermas, deve presupporre la
possibilità di isolamento, nella prassi sociale, di
relazioni fine-mezzo, in cui sono garantite la neutralità assiologica dei mezzi e
l’indifferenza assiologica degli effetti secondari, dove dunque solo gli scopi sono
congiunti con un «valore», cosicché questi scopi non possono a loro volta essere
considerati come mezzi neutralizzati per altri scopi61.
Tuttavia, sottolinea Habermas, il contesto della prassi sociale non prevede
normalmente che tali requisiti siano sempre rispettati, dal momento che la realtà della vita
sociale presuppone una costante interpretazione dei nessi sociali; le questioni pratiche,
connesse al mondo di vita sociale, non sono risolvibili attraverso l’applicazione di regole
tecniche: esse necessitano sempre di un’interpretazione che sopprime l’astrazione e che le
riconduce entro i confini delle loro conseguenza pratiche. Egli equipara le circostanze che
si creano nell’agire pratico a momenti di una totalità che li ricomprende e, allo stesso
tempo, li determina. La totalità cui l’argomentazione habermasiana si riferisce è da
intendersi nei termini della dialettica hegeliana:
poiché il contesto sociale è, letteralmente, un complesso vitale, in cui la particella meno
appariscente è altrettanto vivente – e cioè ugualmente vulnerabile – del tutto, i mezzi
possiedono una finalità per determinati scopi così come negli stessi scopi è insita una
corrispondenza con determinati mezzi62.
Secondo Habermas l’analisi sviluppata da Myrdal avvalora l’idea che il presupposto
dell’avalutatività applicato alle scienze sociali supporti l’affermarsi dell’interesse tecnico
come guida della conoscenza e che questo, per ovviare all’impossibilità di un’adeguata
applicazione alla prassi sociale, debba essere congiunto con “un’interpretazione
programmatica delle singole prognosi”63. Eppure, riconoscendo validità a questo tipo di
scienze sociali, emergerebbe di fatto la superfluità dell’integrazione di interpretazioni
61
Positivismusstreit, p. 187 (p. 183).
Ivi, p. 188 (p. 184).
63
Ivi, p. 189 (p. 185).
62
75
addizionali nel processo di decodificazione pratica delle raccomandazioni tecniche. Ciò,
argomenta Habermas, non perché sia inesistente il divario tra “raccomandazioni
tecniche” e “soluzioni pratiche”, quanto piuttosto perché le teorie sociologiche con mire
prognostiche non riescono nemmeno a soddisfare appieno i criteri di avalutatività. Per
l’autore, quindi, l’unico strumento in grado di orientare la sociologia è la
«precomprensione», “determinante per la scelta dei principi teoretici e delle assunzioni
fondamentali per i modelli” e per limitati ambiti di questioni pratiche64.
Ciò che viene a mancare, afferma Habermas, con l’assoluta egemonia dell’interesse
tecnico come guida della conoscenza è la comprensione complessiva della situazione, nel
tentativo di conferire validità universale a teorie formalizzate. La conclusione cui egli
giunge spinge inevitabilmente nella direzione della teoria dialettica, in forza della
riflessione sugli interessi guida della conoscenza: questa
costringe al pensiero dialettico, se dialettica qui non significa altro che il tentativo di
concepire in ogni momento l’analisi come parte del processo analizzato e come sua
possibile autocoscienza critica – ciò che significa rinunciare a introdurre tra gli
strumenti analitici quel rapporto esterno e puramente casuale che invece può essere
certamente supposto nel rapporto del controllo tecnico dei processi oggettivi e
oggettivati65.
Svincolarsi dall’ingannevole giogo che il controllo scientifico esercita sulle scienze
sociali costituisce, per Habermas, il compito primario per una sociologia che non può
essere intesa alla stregua delle scienze naturali e che non può essere regolamentata con gli
stessi mezzi del controllo tecnico-scientifico. L’interesse tecnico costituisce quel vincolo
normativo che contraddistingue la scienza – sia nei termini del neopositivismo sia in
quelli del razionalismo critico –, identificandola con la razionalità e rendendola in primo
luogo avalutativa. Il tentativo habermasiano, quindi di risolvere la questione
dell’avalutatività della scienza consiste, come sostiene Wiggerhaus, nel considerare le
scienze empirico-analitiche “una parte della riproduzione sociale” e nell’intendere la
condizione della loro stessa possibilità in relazione alla “loro determinata funzione per la
64
65
Ibidem.
Ivi, p. 191 (p. 187).
76
riproduzione sociale”66. Grazie a questo nuovo intendimento Habermas può conferire
“una sorta di fondazione pragmatico-trascendentale del tipo di scienza positivistica, o più
esattamente di quelle scienze cui rispondeva ampiamente una teoria positivistica della
scienza”67. Il beneficio che Habermas può trarre da questa nuova visuale prospettica per il
raggiungimento del suo obiettivo – “la possibilità di un orientamento scientifico
nell’agire pratico, della rilevanza del conoscere ai fini di una prassi razionale, della
comprensione razionale dei fini e degli scopi, del controllo pratico dei processi storici”68
– è la sottrazione agli analitici del concetto di avalutatività. Si crea inoltre la possibilità
della fondazione di un tipo di scienza sociale alternativa, epurata dei limiti intrinseci delle
scienze empiriche e capace di una più ampia comprensione dell’intero contesto sociale:
“una scienza sociale di tipo dialettico «in un quadro di riferimento trascendentale»
alternativo”69.
§. 3. La risposta di Hans Albert e l’inasprirsi del dibattito.
Il saggio habermasiano Epistemologia analitica e dialettica ha certamente creato i
presupposti per una controversia che, certamente, si spinge ben oltre i risultati – come
abbiamo visto poco sorprendenti – del precedente dibattito tra Adorno e Popper, dando
vita ad un polemica con Hans Albert, sociologo tedesco appartenente alla corrente
analitica.
Il testo di Albert Il mito della ragione totale70 rappresenta infatti la risposta diretta
allo scritto habermasiano Epistemologia analitica e dialettica, e riprende da una
66
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 587.
Ibidem.
68
“Per molto tempo il carattere di questo quadro di riferimento non fu rigorosamente definito come lo era
stato quello della sfera del dominio tecnico dei processi oggettivi. Nella sua definizione Habermas si
servì, come orizzonte, della concezione di un processo di formazione della specie umana cui era possibile
agganciare la fondazione pragmatico-trascendentale o antropologico-conoscitiva delle scienze. Nella
replica a un saggio dell’allievo di Popper Hans Albert, tutto ciò che Habermas aveva imparato, per
esempio da Rothacker sullo «stile di vita», da Gehlen sulla «sfera dell’agire», da Gadamer sul «dialogo»
come fondamento dell’esistenza umana nella sua accezione comunicativa, da Husserl sul rapporto tra
mondo della vita e scienza, da Adorno e Horkheimer sulla teoria critica, da Schelsky, Ritter ecc. sul ruolo
della scienza nella civiltà della scienza, da Hannah Arendt sul rapporto tra teoria, tecnica e prassi, da
Freud sulla psicoanalisi come terapia attraverso l’autoriflessione; tutto questo veniva affastellato nel
caparbio tentativo di dare una definizione sistematica provvisoria dell’intero processo sociale con
riferimento all’attualità”. Ivi, p. 588.
69
Ibidem..
70
H. ALBERT, Der Mythos der totalen Vernunft. Dialektische Ansprüche im Lichte undialektischer
Kritik, in «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», XVI (1964), Westdeutscher Verlag,
67
77
prospettiva opposta alcuni dei punti centrali analizzati in questo. Il mito della ragione
totale si apre con una valutazione della diffusione del positivismo nel contesto
sociologico tedesco che differisce notevolmente da quella habermasiana. Secondo Albert
non corrisponde a verità, soprattutto nell’area tedesca, sostenere che il fenomeno
positivista costituisca la corrente più influente nelle scienze sociali. Al contrario, si deve
attentamente considerare la portata dell’influenza dialettico-hegeliana, in particolare nella
sua variante marxista, collegandosi in tal modo direttamente tanto ad Adorno quanto ad
Habermas.
Il saggio di Albert riprende i temi centrali dell’esposizione habermasiana, con il
preciso obiettivo di misurarne la validità, a partire dalla prospettiva di Habermas di
“superare insieme il positivismo della pura teoria e il decisionismo della pura risoluzione,
per «intendere» poi «la società come totalità storicamente divenuta, ai fini di una
maieutica critica della prassi politica»”, per il tramite di una “ragione dialettica orientata
verso la prassi”71.
Val la pena qui considerare brevemente il testo di Albert, enucleando i punti nei quali
il sociologo riprende e critica Habermas, seguendo la suddivisione già internamente
espressa dall’autore.
La prima questione che Albert affronta è quella connessa al concetto di totalità,
considerato come la “piattaforma” dialettica da cui si origina l’intera riflessione
habermasiana. Secondo Albert, Habermas non chiarisce sufficientemente il significato di
tale nozione, così fortemente enfatizzata ed impiegata, dichiarando solamente che il
termine totalità deve essere inteso nella sua accezione rigidamente dialettica, ossia non
come un “tutto” corrispondente alla somma delle parti, e aggiungendo che la totalità non
è nemmeno una classe definibile come l’insieme degli elementi in essa raccolti. Per
Albert, l’insufficienza delle precisazioni su questo aspetto centrale dell’intera analisi
habermasiana è un sintomo della sua volontà di non volere “analizzare logicamente il suo
concetto di totalità”72; egli sostiene inoltre che proprio l’impossibilità di una spiegazione
conduca Habermas a legittimare un ulteriore punto che, a suo avviso, non è soggetto a
Köln und Opladen, pp. 225-256. Il saggio è stato successivamente pubblicato in AA. VV., Der
Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, op. cit. La traduzione italiana è di A. Marietti Solmi, Il
mito della ragione totale. Pretese dialettiche alla luce di una critica adialettica, in AA. VV., Dialettica e
positivismo in sociologia, op. cit., pp. 189-227.
71
Ivi, p. 197 (p. 192).
72
Ivi, p. 199 (p. 194).
78
delucidazione: “la «totalità» in senso dialettico e il «sistema» in senso funzionalistico,
differenza che egli sembra ritenere fondamentale”73.
Albert mette in relazione questo aspetto problematico, perché non sufficientemente
chiarito, alla questione relativa al rapporto tra la teoria e il suo oggetto, che Habermas si
propone di spiegare tramite la differenziazione tra due tipologie di scienza sociale,
dialettica da un lato e empirica dall’altro. Secondo la prospettiva habermasiana, prosegue
l’argomentazione di Albert, nel contesto della teoria empirico-analitica tanto la nozione
di sistema quanto le asserzioni teoretiche che la sostengono non si collocano
internamente al quadro empirico oggetto di studio, ma rimangono al suo esterno. In tal
modo sembra, quindi, che le teorie non siano altro che schemi ordinatori, “liberamente
costruiti” all’interno di un impianto vincolante a livello sintattico, adattabile ad una serie
di oggetti, ma in maniera casuale. Questa forma di indifferenza della teoria nei confronti
del proprio oggetto è ciò che, invece, è fermamente respinto dalla teoria dialettica, che si
assicura l’adeguatezza dei propri schemi d’indagine agli oggetti analizzati in modo
preliminare. L’interesse in questo caso è la società: esso non è, quindi, inteso nei termini
di dominio sulla natura e conseguentemente non corrisponde a criteri di controllo tecnico.
Nel momento in cui l’interesse conoscitivo si spinge oltre l’oggetto, cui inizialmente
faceva riferimento, si creano per Habermas le condizioni per la “falsificazione
dell’oggetto”, quale diretta conseguenza “dell’indifferenza del sistema per il suo campo
d’applicazione”74. Per ovviare a tale pericolo, i dialettici ricorrono al concetto di totalità
per identificare l’insieme della vita sociale e all’adeguamento della teoria all’oggetto
d’indagine, permettendone la costruzione della struttura e l’affermazione della cosa
stessa, secondo “l’esplicitazione ermeneutica del senso” garantita dall’impostazione
dialettica.
Le considerazioni fin qui fatte, spingono Albert a sostenere che Habermas parta dal
seguente presupposto, ossia che
nella scienza sociale analitica un interesse conoscitivo unilateralmente tecnico conduca
alla falsificazione dell’oggetto. […] In tal modo egli si fa portavoce di
un’interpretazione strumentalistica delle scienze reali, e ignora il fatto che il teorico
73
74
Ibidem.
Ivi, p. 201 (p. 196).
79
della scienza a cui sono rivolte, nella sostanza, le sue obiezioni, ha già discusso
esplicitamente questa interpretazione, cercando di mostrare la sua problematicità75.
Albert ribadisce la natura di quelle che definisce “scienze reali teoriche”, che si
pongono come obiettivo quello di formulare leggi secondo l’andamento regolare di
determinate connessioni e di derivare ipotesi informative relativamente alla struttura
stessa della realtà; coerentemente, il carattere prognostico si spiega come verifica,
supportata da controlli empiricamente effettuati, delle connessioni precedentemente
postulate o, per usare la terminologia habermasiana, di quel “sapere precedente” che è
sempre passibile di una messa in discussione. Secondo tale impostazione, che riprende
evidentemente quanto già sostenuto da Popper, acquista un ruolo fondamentale l’idea
“che noi abbiamo la possibilità di imparare dai nostri errori, esponendo le teorie al rischio
di fallire alla prova dei fatti”76. L’esito positivo in termini tecnici che deriva dalla ricerca
organizzata secondo tali criteri dimostra solamente un avvicinamento parziale alle
connessioni reali postulate in un primo momento.
Ora, secondo Albert, Habermas reinterpreta dialetticamente l’andamento sopra
descritto per giustificare la faziosità dell’interesse conoscitivo alla base del procedimento
analitico e per identificare l’impegno gnoseologico che qui si mostra solo nei termini di
disposizione tecnica. Nell’ottica habermasiana o più ingenerale “neohegeliana” – così la
definisce Albert – la supremazia dell’interesse tecnico alla base dei processi conoscitivi
genera, come sua conseguenza più impressionante, l’indifferenza della teoria rispetto al
suo stesso oggetto d’analisi. Albert contesta qui la mancanza di un’adeguata
delucidazione da parte di Habermas del motivo che dovrebbe condurre rovinosamente a
tale conseguenza, dichiarando a proposito che
se l’interesse va al di là della pura tecnica, questa indifferenza si rovescia in una
falsificazione dell’oggetto. Com’è possibile che una trasformazione di interesse
produca tale effetto? Cambia forse il modo dell’espressione, la struttura della teoria? E
in quale maniera si dovrebbe pensare che ciò avvenga? Habermas non dà nessuna
indicazione in proposito77.
75
Ibidem, (p. 196-197).
Ivi, p. 202 (p. 197).
77
Ivi, p. 203 (p. 198).
76
80
Sembra non restare altra scelta al sociologo analitico, ironizza Albert, se non
l’adesione alla sociologia dialettica per non restare imprigionato tra le maglie di un
interesse unilaterale, dal momento che ogni tentativo di sottoporre a rigorose verifiche le
teorie, per accertare la validità delle categorie impiegate, sembra non essere bastevole.
Habermas pretende un controllo preliminare dell’adeguatezza delle categorie, facendo
affidamento su indicazioni che egli ritiene siano fornite dalla diversa natura dell’interesse
conoscitivo a cui fa riferimento; il linguaggio quotidiano e il sapere quotidiano
accumulato sembrano essere la chiave di volta per l’accesso ad una corretta formulazione
delle teorie. Secondo Albert, è qui evidente l’avvicinamento di Habermas non solo alle
correnti filosofiche dell’ermeneutica e della fenomenologia, ma anche alla corrente
linguistica che intende “dogmatizzare il sapere incorporato nel linguaggio quotidiano”78.
Albert interpreta il recupero habermasiano della sfera del sapere quotidiano che si
accompagna allo studio della realtà sociale come “congiunto con false pretese”, dal
momento che le scienze sociali non dovrebbero fare eccezione rispetto alle altre scienze
che si sono progressivamente emancipate dal sapere radicato nella vita quotidiana. In tal
senso le scienze naturali offrono un chiaro esempio di come sia avvenuta la
differenziazione dal “sapere empirico della vita quotidiana”, attraverso lo sviluppo di idee
e metodi problematizzanti che non ne hanno inficiato la validità, ma al contrario ne hanno
portato alla luce il vero volto, nonostante la forte contrapposizione con quanto fino ad
allora ritenuto valido. La questione che si pone per Albert è la seguente:
perché le cose dovrebbero essere diverse per le scienze sociali? Perché non dovrebbero
poter ricorrere anch’esse a idee che contraddicono al sapere quotidiano? Vuole
Habermas escludere questa possibilità? Vuole egli dichiarare sacrosanto il buon senso –
o, in un linguaggio un po’ più sostenuto, «la naturale ermeneutica del mondo della vita
sociale»? E se non è così, in che cosa consiste la peculiarità del suo metodo? […]
Vuole Habermas negare a priori il suo consenso a quelle teorie che non nascono da una
«riflessione dialettica» congiunta a questa «naturale ermeneutica»?79.
Da queste considerazioni sarebbe possibile derivare, secondo Albert, la conseguenza
che Habermas attribuisca un valore maggiore all’origine rispetto alla prestazione del
78
79
Ivi, nota21, p. 204 (nota 2, p. 199).
Ivi, p. 204 (pp.199-200).
81
metodo: la teoria dialettica mostrerebbe in tal modo un tratto decisivamente conservatore
piuttosto che critico, scardinando in ultima analisi ogni sua pretesa.
La risposta di Habermas a Albert è contenuta nel saggio Contro il razionalismo
dimezzato dei positivisti, dove egli riformula le tesi sostenute in Epistemologia analitica e
dialettica, con l’obiettivo principale di epurarle da elementi passibili di fraintendimenti,
alla luce delle critiche mossegli dalla controparte analitica80. Nell’introduzione, che apre
il testo, Habermas dichiara preliminarmente in che cosa consiste il suo bersaglio
polemico, sottolineando che la sua critica non ha di mira la ricerca perpetrata dalle
scienze sperimentali rigorose, né la prassi di una sociologia che assume sempre più le
sembianze di una scienza comportamentale; la sua opposizione si indirizza infatti
contro l’interpretazione positivistica di tali processi di ricerca. Poiché la falsa coscienza
di una giusta prassi retroagisce su di essa. Non nego che la teoria analitica della scienza
abbia promosso la prassi di ricerca, e contribuito alla chiarificazione di problemi
metodologici. Ma l’autointerpretazione positivistica ha un effetto restrittivo; arresta la
riflessione vincolante ai confini delle scienze empirico-analitiche (e formali)81.
Si tratta di una puntualizzazione importante. Essa, infatti, permette di comprendere
meglio in che modo si strutturi la posizione habermasiana rispetto alle pretese analitiche,
fin dalla discussione svolta internamente alle scienze sociali. Quella di Habermas non è
una posizione ciecamente reazionaria nei confronti della teoria analitica, alla quale egli
riconosce i meriti per lo sviluppo della prassi di ricerca; ciò che egli contesta, e che
emergerà forse ancora più nitidamente nei testi successivi e di carattere filosofico, è ciò
che egli definisce “autointerpretazione positivistica”. Questa ha come effetto più
sintomatico l’esponenziale restringimento dell’ambito della riflessione esclusivamente al
campo delle scienze sperimentali, definendo come legittimo e oggettivo solo l’interesse
conoscitivo di tipo tecnico.
80
HABERMAS, Gegen einen positivistisch halbierten Rationalismus. Erwiderung eines Pamphlets, in
«Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», XVI (1964), Westdeutscher Verlag, Köln und
Oppladen, pp. 636-659. Il saggio è stato successivamente pubblicato in AA. VV., Der Positivismusstreit
in der deutschen Soziologie, op. cit. La traduzione italiana è di A. Marietti Solmi, Contro il razionalismo
dimezzato dei positivisti. Risposta a un pamphlet, in AA. VV., Dialettica e positivismo in sociologia, op.
cit., pp. 229-259.
81
Ivi, p. 235 (p. 229).
82
In merito alla questione relativa al rilievo che esperienza e sapere quotidiano
rivestono all’interno dell’indagine sociologica e più in generale scientifica, Habermas
denuncia un primo fraintendimento portato all’attenzione da Albert. Si legge nel testo di
quest’ultimo che gli elementi provenienti dalle vicende ordinarie o dalle credenze
tradizionali dei soggetti non sono esclusi dal processo di ricerca, a patto che di necessità
possano essere convertiti in “ipotesi controllabili”; in tal modo però, osserva Habermas,
la cerchia di esperienze considerate valide si restringe considerevolmente, accogliendo al
suo interno solamente quelle “sensibili”, che possono cioè essere vincolate da “regole
sperimentali o analoghe”. I vantaggi che una suddetta selezione comporta sono
innegabili, poiché la scrematura, che così procedendo si verifica, ha l’indubbio vantaggio
di meglio organizzare le esperienze sensibili in tests replicabili. Tuttavia è possibile porsi
la domanda se, in realtà, una tale determinazione dei requisiti necessari per il controllo
non demarchi già a priori la validità delle asserzioni da verificare; conseguentemente è
legittimo chiedersi quale sia il senso “pregiudizialmente” conferito alla validità. Contro
una simile pretesa, Habermas ribadisce la necessità di un ulteriore elemento nel processo
di ricerca:
la base empirica delle scienze esatte non è indipendente da criteri che queste stesse
scienze applicano nell’esperienza. È evidente che il procedimento di controllo che
Albert ritiene sia l’unico legittimo è invece uno tra molti. Sentimenti morali, privazioni
e frustrazioni, crisi che hanno luogo nel corso della vita, cambiamenti di orientamento
che si verificano nel corso di una riflessione – mediano altre esperienze82.
Inoltre, la stessa “naturale ermeneutica del linguaggio quotidiano” rappresenta, come
sottolinea Wiggerhaus, “un mezzo che rende possibile l’autoriflessione, per cui le
espressioni del linguaggio corrente possono essere spiegate, se necessario, con i mezzi
del linguaggio corrente stesso”83
Si chiarisce quindi la cifra della differenza insita tra i due approcci metodologici:
secondo Habermas, infatti, Albert non è in grado di discutere criticamente i problemi
relativi al controllo da lui presentati poiché nella sua prospettiva il test rappresenta
82
Ivi, p. 238 (p. 232).
“Come soggetti parlanti, diceva Habermas, gli uomini si trovano «sempre all’interno di un processo di
comunicazione che deve condurre alla reciproca intesa e quindi alla “razionalità complessiva”», in
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 589.
83
83
l’unica forma di controllo eseguibile sulle teorie, attraverso l’esperienza in genere;
secondo Habermas, pertanto, ciò che rappresenta un problema irrisolto, per Albert invece
“è un presupposto indiscusso”84.
“L’osservazione controllata di un comportamento fisico, che è organizzata in un
campo isolato, in circostanze riproducibili, da soggetti che possono essere liberamente
sostituiti” definisce l’unico tipo di esperienza che, secondo i dialettici e Habermas in
particolare, è ammessa dalla sociologia analitica85. È del tutto assente qualsiasi tipo di
considerazione di quell’“esperienza prescientifica accumulata” che, sola, guida
effettivamente alla creazione di una teoria, in relazione all’idea di società come totalità.
L’esperienza ristretta o «canalizzata», alla quale allude l’argomentazione habermasiana,
corrisponde, secondo Albert, ad un’esigenza ben diversa, ossia quella di una verifica
della teoria tramite i fatti, per misurarne la reale validità. A tale scopo è necessario uno
spettro di situazioni discriminanti, capaci cioè di esercitare una revisione minuziosa sulla
teoria per accertarne la validità. Habermas e la teoria dialettica in generale non
potrebbero obiettare nulla, prosegue Albert, a quanto appena considerato, dal momento
che
secondo Habermas anche una teoria dialettica non può contrastare con un’esperienza
sia pure ristretta. Fino a questo punto la sua polemica contro il tipo ristretto di
esperienza mi pare ancora derivare in larga misura da equivoci e fraintendimenti86.
Procedendo nel testo, Albert affronta la questione, posta dai dialettici, della rinuncia a
qualunque forma di pensiero non sottoponibile al controllo tecnico della scienza analitica
moderna. Il sociologo sostiene che una simile rinuncia non è affatto imposta ai pensieri
formulati secondo la teoria dialettica, dal momento che anche questi possiedono le
medesime caratteristiche per una traduzione “in teorie che siano di principio
controllabili”87. Albert si riferisce qui alla citazione che Habermas fa di un passo di
Adorno, nel quale si sostiene l’impossibilità di esercitare un controllo circa la dipendenza
di ogni elemento appartenente al contesto sociale dalla totalità88. Tale affermazione,
84
Positivismusstreit, p. 238 (p.232).
Cfr. HABERMAS, Analytische Wissenschaftstheorie und Dialktik, cit.
86
ALBERT, Der Mythos der totalen Vernunft, cit., p. 206-207 (p. 202).
87
Ivi, p. 207 (p. 202).
88
Cfr. ADORNO, Sulla logica delle scienze sociali, cit.
85
84
prosegue Albert, produce uno stravolgimento della necessità di un’«ulteriore riflessione»
postulata nelle analisi di Popper. Ora, dalla prospettiva analitica, il riferimento adorniano
– e habermasiano – alla totalità, e alla dipendenza dei fenomeni da questa, non sembra
essere accreditato da argomentazioni forti abbastanza per giustificare il motivo per cui
“da un’idea del genere derivi una concezione metodologicamente privilegiata”89.
L’«esperienza prescientifica accumulata», quale unica generatrice delle conoscenze
dialettiche, come si è visto, è ampiamente criticata da Albert – e in generale dalla
corrente sociologica cui egli fa riferimento – non tanto perché non sia preso in
considerazione il fatto che il bagaglio di conoscenze accumulate possa effettivamente
essere una guida per la formazione delle teorie, quanto piuttosto perché in questo insieme
di esperienze precedenti sono contenuti anche errori provenienti dal passato; in questo
senso quindi Albert rivendica la necessità di controlli severi e minuziosi sulle teorie
generatesi in questo modo, per poterle definitivamente epurare delle componenti fallaci in
esse contenute. Ciò che Albert sembra continuamente rimarcare è l’assenza, nelle
considerazioni di Habermas, di giustificazioni sufficienti a sostegno di quanto sostenuto:
non vi è, per esempio, come si legge nel testo, una spiegazione del perché le “idee nuove”
non possono affermarsi positivamente su quelle precedenti; agli occhi di Albert la
metodologia sostenuta da Habermas appare
arbitrariamente restrittiva (e proprio, come si è detto, in senso conservatore), mentre la
concezione a cui egli rimprovera di pretendere che la formazione della teoria e del
concetto sia «ciecamente» sottoposta alle proprie regole astratte non pone alcuna
preclusione di carattere contenutistico, perché non si ritiene in diritto di presupporre un
sapere «preliminare» immodificabile.
Inoltre,
il più ampio concetto di esperienza a cui si richiama Habermas sembra avere, nella
migliore delle ipotesi, la funzione metodologica di rendere difficilmente correggibili
quei venerabili errori che appartengono alla cosiddetta esperienza accumulata90.
89
90
Positivismusstreit, p. 207, nota 26 (p. 202, nota 1).
Ivi, p. 208 (p. 203).
85
La critica, dunque, che Albert muove contro il discorso habermasiano circa l’assenza
di adeguate motivazioni che convalidino quanto sostenuto, portano il sociologo a ritenere
che Habermas, nel suo perentorio rigetto dei metodi di controllo, sia mosso dalla
convinzione di conoscere un metodo superiore, per quanto non precisato. L’eredità
hegeliana influisce negativamente, argomenta Albert, sulla sopravvalutazione che
Habermas e i “metodologi delle scienze dello spirito” hanno dei concetti rispetto ai
sistemi di asserzioni: questi ultimi, sottoposti ad opportune verifiche, possono dimostrare
non solo la loro validità, ma anche quella dei concetti in essi contenuti. Isolare i concetti
dal loro contesto teorico non giova affatto al processo di ricerca e tale operazione non è
supportata da alcun fondamento:
il surmenage a cui gli hegeliani sottopongono i concetti, e che appare soprattutto in
termini come «totalità», «dialettico» e «storia», non ha, a mio giudizio, altro risultato
che la loro «feticizzazione» (che è, se non sbaglio, l’espressione tecnica di cui si
servono per indicare questo fenomeno), che un gioco di prestigio verbale di fronte a cui
la maggior parte degli avversari abbassa troppo presto le armi91.
Rispetto a quello che definisce il problema della “funzione metodologica
dell’esperienza”, Habermas non formula direttamente una risposta alle obiezioni di
Albert, ma si riferisce alle tesi di Popper contro le “premesse empiristiche del
neopositivismo”92. Si tratta della presa di posizione popperiana in opposizione alla
pretesa di poter conoscere ciò che è solo nell’esperienza sensibile, vale a dire contro
l’idea che la validità ultima e l’evidenza di qualcosa siano date solo nell’esperienza
sensibile. Il debellamento di una simile esigenza è stata inaugurata già dalla critica di
Hegel alla certezza sensibile, e poi da Peirce, Husserl e Adorno, seppur da presupposti
per ognuno differenti. Popper, prosegue Habermas, ha ripreso la questione sostenendo
che ogni osservazione ha già in sé un’interpretazione, condizionata dalle esperienze e dal
sapere precedentemente acquisito: “i dati empirici sono interpretazioni nel quadro di
teorie precedenti; e quindi ne condividono il carattere ipotetico”93. Habermas rileva come
la conseguenza tratta da Popper da questo stato di cose sia piuttosto radicale, poiché
91
Ivi, p. 209 (p. 204).
HABERMAS, Gegen einen positivistisch halbierten Rationalismus, cit., p. 239 (p. 232).
93
Cfr. POPPER, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972.
92
86
riconduce il sapere tout court al livello delle opinioni impiegate per integrare
l’inadeguatezza dell’esperienza. Esiste solo una classificazione di queste opinioni,
organizzata secondo il loro grado di controllabilità, sebbene anche le opinioni sottoposte
a verifica siano solamente “asserzioni dimostrate”, “congetture che finora hanno retto a
tutti i tentativi di eliminarle”94. Secondo Habermas, la questione posta da Popper
sull’empirismo è relativa alla sostituzione del problema della conoscenza con quello della
sua validità, e alla ricerca del metodo più idoneo per identificare le opinioni
irrevocabilmente false, all’interno della molteplicità di opinioni comunque incerte.
Giustamente Popper, prosegue l’analisi habermasiana, toglie credibilità a qualsiasi forma
di “sapere originario”, ma nel fare questo si trova invischiato in un circolo che ripropone
nuovamente la questione dell’origine della conoscenza; egli intende sottoporre a verifica,
tramite il metodo di controllo, le diverse origini delle teorie – osservazione, pensiero e
tradizione –. Tuttavia, obietta Habermas, affinché ciò sia possibile, è necessario il ricorso
ad almeno una di queste origini del sapere: la tradizione. Questa pertanto si configura
come “la variabile indipendente da cui il pensiero e l’osservazione dipendono”, allo
stesso modo dei metodi di controllo. Habermas ritiene quindi che
Popper confida troppo ciecamente nell’autonomia dell’esperienza organizzata nel
procedimento di controllo; crede di potersi sbarazzare del problema dei criteri di questa
organizzazione perché nonostante il suo atteggiamento critico condivide, tuttavia, in
ultima istanza, un pregiudizio positivistico profondamente radicato. Egli suppone che i
fatti siano epistemologicamente indipendenti dalle teorie che devono cogliere e
descrivere questi fatti e le relazioni fra di essi95.
Nel passo appena citato è possibile leggere la motivazione che spinge Habermas a
definire il pensiero di Popper come positivistico, nonostante la presa di posizione del
filosofo stesso contro tale appellativo. Nella misura in cui, cioè, Popper rifiuta
l’empirismo, ma al contempo aderisce alla “teoria della verità come corrispondenza”, si
mette in evidenza quell’incoerenza che spinge Habermas ad intravedere “la pietra
angolare della problematica positivistica” nell’analisi popperiana. I fatti appaiono come
entità in sé, senza alcuna considerazione della loro dipendenza, perché preliminarmente
94
95
Positivismusstreit, p. 240 (p. 233).
Ivi, p. 241 (p. 234).
87
definiti, dalle condizioni di controllo. Si dovrebbe, argomenta Habermas, cercare la
connessione che lega tra loro le teorie delle scienze empiriche e i fatti, per poter
comprendere preliminarmente l’interpretazione dell’esperienza. Dovrebbero, quindi,
essere considerati «fatti» solo quegli elementi appartenenti alla classe di oggetti di
esperienza, posta in essere per la verifica delle teorie: in tal modo essi sarebbero un
qualcosa di prodotto, “e si vedrebbe che il concetto di fatto del positivismo è un feticcio
che si limita a fornire l’apparenza dell’immediatezza a ciò che è invece mediato”96.
In un passaggio successivo del saggio Contro il razionalismo dimezzato dei
positivisti, che si collega direttamente a quanto si è precedentemente visto, Habermas
riprende l’assunto positivistico secondo il quale l’azione controllata e caratterizzata da
successo nelle teorie delle scienze empiriche è garantita dall’interesse tramite il quale
queste intendono far conoscere la realtà. Ciò si rende possibile per il tramite di
informazioni opportunamente selezionate, riferite a “uniformità empiriche”, che
consentono il controllo e la certezza del successo delle azioni prestabilite; inoltre, queste
stesse informazioni “devono essere tradotte nell’attesa di comportamenti regolari in
circostanze date”97. Ora, secondo Habermas, l’aspettativa di un determinato esito –
positivo – del comportamento è fatta dipendere dall’universalità logica che proprio a tale
attesa viene attribuita. Lo squilibrio che si manifesta, prosegue l’analisi habermasiana, tra
le “asserzioni universali” e “il numero per principio finito di osservazioni e delle
corrispondenti asserzioni esistenziali singolari” può essere sanato solamente facendo
ricorso alla configurazione dell’agire controllato tramite il suo risultato, che è sempre e
necessariamente governato “dall’anticipazione di un comportamento regolare”98. Su
questo snodo del ragionamento Habermas rileva la natura tecnica dell’interesse che guida
le scienze empirico-analitiche, e la connette direttamente e saldamente ad un’ulteriore
constatazione; egli sostiene infatti a proposito che
nel momento in cui le conoscenze di uniformità empiriche entrano a costituire forze
produttive tecniche e diventano la base di una civiltà scientifica, l’evidenza
dell’esperienza quotidiana e di un permanente controllo mediante il risultato è
96
Ivi, p. 241-242 (p. 235).
Ivi, p. 245 (p. 238).
98
Ivi, p. 245 (pp. 238-239).
97
88
irresistibile; le obiezioni logiche non possono affermarsi contro il quotidianamente
rinnovato plebiscito dei sistemi tecnici funzionanti99.
Di conseguenza, nonostante le obiezioni mosse da Popper nei confronti della «teoria
della verificazione», la soluzione da lui indicata non sembra offrire cospicui vantaggi, a
patto di impiegare la premessa positivista che impone la correlazione tra proposizioni e
fatti. La proposta che Habermas avanza in merito alla questione è di natura ancora
differente: egli infatti, a fronte di una preliminare considerazione della reale natura del
concetto
di
tecnica
–
“come
controllo
mediante
il
successo,
socialmente
istituzionalizzato, di un sapere che a sua volta è fatto per essere tecnicamente utilizzato”
– prospetta un’ulteriore tipologia di verificazione che può sostenere la validità delle
esperienze prescientifiche accumulate; in tal modo
valgono allora come empiricamente vere tutte le ipotesi che possono guidare un agire
controllato dal suo risultato, senza essere state finora problematizzate da insuccessi che
si è sperimentalmente cercato di provocare100.
Alla critica mossa da Albert circa la mancanza, ancora una volta, di un’adeguata
riflessione in merito alla critica popperiana dello strumentalismo, Habermas risponde
affermando la non necessità di ulteriore spiegazione dal momento che egli non sostiene
affatto le tesi contro cui la critica è rivolta. Qui è innanzitutto argomentato – contro l’idea
che le tesi siano essenzialmente strumenti – che le regole dell’applicazione tecnica sono
soggette a controlli volti ad accertarne la validità pratica e che le informazioni
scientifiche sono supportate da esperimenti volti a verificarne la validità teorica.
Habermas non impiega tale forma di strumentalismo per giustificare la sua
interpretazione pragmatica delle scienze empirico-analitiche; egli non ritiene, infatti, che
le teorie siano strumenti, quanto piuttosto che le informazioni prodotte da queste siano
“tecnicamente utilizzabili”. Sebbene non sia possibile dedurre solamente a posteriori le
raccomandazioni tecniche “per una scelta razionalizzata dei mezzi idonei a scopi dati”, da
ciò non è possibile derivare, secondo Habermas, l’idea per cui le teorie costituiscono già
99
Ivi, p. 246 (pp. 239-240).
Ibidem, (p. 240).
100
89
degli strumenti tecnici. Tuttavia, prosegue l’analisi, chiarendo ulteriormente il punto di
vista del filosofo,
nelle scienze sperimentali l’utilizzabilità tecnica delle informazioni è decisa a priori con
l’adozione di un certo modo, con la struttura delle asserzioni (prognosi condizionate da
un comportamento osservabile) e col tipo delle condizioni di controllo (imitazione di
un controllo dei risultati dell’azione che è spontaneamente inserito nei sistemi di lavoro
sociale), così come è pregiudizialmente determinata anche la regione della possibile
esperienza a cui le ipotesi si riferiscono e a confronto con la quale esse possono
fallire101.
Prima di affrontare la questione successiva, che rappresenta il punto principale e, per
molte ragioni, più interessante della querelle tra Habermas e Albert, è utile soffermarsi
brevemente su quanto sostenuto da quest’ultimo sul rapporto che intercorre tra teoria e
storia. Si tratta di uno snodo problematico significativo, poiché dischiude la prospettiva
entro cui si colloca la successiva relazione tra teoria e prassi: la storia, come ha
correttamente rilevato Baier, rappresenta una “condizione” della prassi all’interno della
sociologia dialettica102; la relazione teoria-storia ha comunque l’indubbio merito di aver
posto sotto una nuova luce la questione storica entro l’ambito sociologico103.
Si è visto precedentemente come Habermas, nel testo Epistemologia analitica e
dialettica, individui nell’«interpretazione» lo strumento privilegiato per l’analisi del
corpo storico; si tratta dell’alternativa specificatamente dialettica alle prognosi
empiristiche fondate su leggi generali. Albert sostiene che Habermas ricorre qui ad un
tipo particolare di leggi, che ritiene abbiano una portata di validità al contempo più ampia
e più limitata rispetto a quelle solamente restrittive impiegate dalla sociologia analitica;
tutto ciò trova una giustificazione alla luce della finalità dialettica di rischiarare “la
101
Ivi, p. 247 (p. 241).
“Geschichte wird nicht um ihrer selbst willen zum Thema der dialektischen Soziologie, sondern als
eine Bedingung der Praxis, als eine hermeneutische Geschichtsphilosophie in praktischer Absicht
verstanden. Es handelt sich also bei Habermas nicht um eine Theorie der Geschichte, sondern es handelt
sich um eine Theorie, wie Praxis mittels Geschichte möglich ist. Ein wesentlicher Unterschied für
diejenigen, den Geschichte nicht als Mittel soziologisch angeleiteten Handelns, sondern als mögliches
Erkenntnisziel der Soziologie interessiert”, in BAIER, Soziologie und Geschichte, cit., p. 86.
103
“Das Zurückdrehen der Diskussion seitens Habermas auf jenen Punkt, an dem die Positivisten die
strikte Regelhaftigkeit zum entscheidenden Kriterium szientifischer Rationalität eingesetzt haben – auf
Kosten, ja mit dem Verbot von Begründung und legitimierender Genesis wissenschaftlicher Erkenntnisund Handlungsakte – hat zur Folge, dass das Problem der „Geschichte“ neuerlich auftritt“. Ivi, p. 78.
102
90
totalità concreta di una società in fase di sviluppo storico”104. La “limitatezza” di siffatte
leggi è dovuta al fatto che esse ineriscono ad un ambito concreto d’attuazione, connesso
all’unicità e irreversibilità del complesso storico-evolutivo, che pertanto si sottrae
all’applicazione del metodo d’indagine analitico. L’“ampiezza” è invece giustificata,
prosegue Albert, tramite l’onnipresente riferimento alla totalità, dalla quale dipendono
inevitabilmente tutti i singoli fenomeni. Lo svolgimento ermeneutico garantisce la
possibilità all’analisi dialettica di dimostrare il valore oggettivo dell’insieme storico di
vita. Per il sociologo analitico Habermas propone, quindi, un’idea imponente per portare
all’evidenza la totalità dell’andamento storico e il suo senso oggettivo. Albert tuttavia
critica il progetto habermasiano, dal momento che
le imponenti pretese di questa concezione sono perfettamente riconoscibili, ma manca,
finora, il minimo spunto nel senso di un’analisi almeno relativamente spassionata e
oggettiva del procedimento abbozzato e delle sue componenti105.
In altri termini, la domanda che Albert si pone è relativa, da un lato, alla forma che la
struttura logica delle leggi, proposte da Habermas, deve avere per poter soddisfare un
compito arduo come quello del senso oggettivo del processo storico, e, d’altro lato,
all’effettiva possibilità di controllo della medesima incombenza. Si tratta di questioni che,
secondo Albert, non hanno un grande rilievo per i dialettici, ma che accomunano il loro
atteggiamento ad una forma di fede incondizionata: “chi si trova su posizioni estranee
alla loro ha l’impressione che si abusi della sua buona fede. Vede le pretese che sono
avanzate con un gesto di sovrana noncuranza per la limitatezza di altre concezioni, ma
vorrebbe sapere in che misura esse sono fondate”106.
Relativamente a quest’ultimo punto, è molto significativa l’interpretazione formulata
da Baier nel già citato Soziologie und Geschichte. Egli pone l’accento sulla centralità che
la precomprensione riveste nelle analisi habermasiane, identificandola come il medio
attraverso il quale Habermas intende cogliere la realtà sociale e storica. Baier enfatizza il
doppio carattere della realtà, poiché, a suo avviso, la comprensione dell’agire e del
reciproco comunicare dei soggetti avviene nel contesto di un orizzonte di vita sociale che
104
ALBERT, Der Mythos der totalen Vernunft, cit., p. 210 (p. 205).
Ibidem.
106
Ivi, p. 211 (p. 206).
105
91
è storicamente strutturato. La Lebenswelt soggettiva degli individui, determinata
socialmente e storicamente, diviene in tal senso una componente tangibile (greifbare
Komplement) di un mondo della vita oggettivo, dotato di una struttura storica, ossia di
una “legalità storica” (historische Gesetzlichkeit). Una sociologia orientata storicamente,
argomenta Baier, dovrebbe essere definita in modo tale da permettere la precomprensione
dei soggetti agenti all’interno dell’insieme delle azioni oggettive delle storia e per il
tramite di quelle soggettività comprese nella realtà107.
Albert interpreta dunque il superamento habermasiano dello iato tra teoria e storia
mediante quella che egli definisce “connessione dialettica di analisi storica e sistematica”,
secondo
un
programma fortemente orientato
in
senso
pratico.
Quest’ultima
considerazione conduce direttamente a quella che, a buon diritto, può essere considerata
una delle questioni centrali del dibattito – e che come vedremo costituisce una delle parti
più significative delle successive analisi habermasiane –: il rapporto tra teoria e prassi.
Seguendo il saggio di Albert si incontra una prima affermazione che vale sin d’ora la
pena di sottolineare: egli sostiene che la relazione tra teoria e prassi ricopre un ruolo
centrale nel pensiero di Habermas “poiché ciò a cui egli mira non è evidentemente altro
che una filosofia della storia orientata in senso pratico che presenti i caratteri e le
garanzie della scienza”108. In questa fase della speculazione habermasiana vi sono ancora
numerosi punti di contatto con le riflessioni dei maestri francofortesi, ed è pertanto
rinvenibile l’idea di una filosofia della storia nei termini in cui è concepita da
Horkheimer. Prospettiva, tuttavia, che sarà più tardi abbandonata.
Ne Il mito della ragione totale il sociologo tedesco afferma che lo scopo delle
riflessioni di Habermas è quello di fornire
107
“Wir sage ausdrücklich: soziale und geschichtliche Wirklichkeit, weil es auf der Hand liegt, dass das
Verständnis der agierenden und diskutierenden Bürger von ihrer je eigenen Lebenssituation nicht nur
sozial, sondern auch geschichtlich strukturiert ist. […] Die subjektiv verfasste soziale und geschichtliche
Lebenswelt der Individuen wird auf diese Weise das für ihn greifbare Komplement einer objektiven
Lebenswelt mit historischer Struktur, ja mit historischer Gesetzlichkeit. Eine historisch orientierte
Soziologie müsste so konstruiert werden, dass sie durch das Vorverständnis der agierenden Subjekte
hindurch den objektiven Aktionszusammenhang der Geschichte aufzudecken, durch die Subjektivitäten
hindurch Wirklichkeit zu begreifen vermag”, in BAIER, Soziologie und Geschichte, cit., pp. 81-82.
108
Positivismusstreit, p. 211 (p. 206).
92
una giustificazione oggettiva dell’agire pratico in nome del senso della storia, una
giustificazione che una sociologia che ha il carattere di una scienza reale non può
naturalmente fornire109.
Tale presa di posizione è giustificata dal progetto habermasiano di risolvere il limite
più ingombrante della scienza sociale analitica, ossia l’interesse circoscritto
esclusivamente a problemi di natura tecnica, per il tramite di un’impostazione normativa
supportata da “un’analisi storica globale”, capace di rendere conto di interessi pratici
svincolati dal “puro arbitrio” e ratificati dialetticamente dal contesto oggettivo i cui sono
calati.
Secondo Albert, quindi, Habermas necessariamente deve ammettere una sola
interpretazione per conferire legittimità alle intenzioni pratiche sulla scorta di una totalità
storica dal carattere fortemente obiettivo. Anche Popper non nega la presenza della
componente di interpretazioni storiche nella sua analisi, sebbene rinneghi le visioni di
filosofia della storia che pretendono di rivelare il senso oggettivo della storia110. Egli
ritiene, al contrario, che “noi dobbiamo deciderci a dare alla storia stessa il senso che
crediamo di poter far nostro”, il quale conseguentemente risulterà essere la piattaforma
interpretativa del processo storico, esigendo “una selezione condizionata dei nostri
interessi” 111. Il rifiuto habermasiano della proposta di Popper è, secondo Albert, coerente
con la necessità del filosofo tedesco di esigere una sola spiegazione storica per stabilire il
vero significato dello svolgimento storico, escludendo così in modo perentorio la
possibilità della coesistenza di una molteplicità interpretazioni, derivanti da punti di
osservazione diversi. La critica che Albert muove ad Habermas è, quindi, nuovamente
quella della mancanza di argomenti sufficientemente forti per dare ragione delle sue tesi;
è del tutto assente, ad esempio, una spiegazione del motivo che metterebbe al riparo la
sua critica dall’accusa di arbitrarietà:
considerando il fatto che egli [Habermas] non fornisce alcuna soluzione di quel
problema della legittimazione che egli stesso ha posto, ci sono tutti i motivi per credere
che egli non abbia risolto la questione dell’arbitrarietà in modo molto più brillante, con
la sola differenza che essa si presenta con la maschera di un interpretazione oggettiva.
109
Ivi, p. 212 (p. 207).
Cfr. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, tr. it. cit.
111
Positivismusstreit, p. 213 (p. 207).
110
93
[…] La totalità si rivela in certo modo come un «feticcio» che serva a far sì che
decisioni «arbitrarie» assumano l’apparenza di conoscenze obiettive112.
Strettamente connessa al tema del rapporto tra teoria e prassi, si presenta ora la
questione dell’avalutatività che, come si è precedentemente osservato, costituisce uno dei
nuclei di divergenza maggiore tra Habermas e la sociologia analitica, in particolare quella
popperiana. Riprendendo la definizione formulata da Habermas nel testo Epistemologia
analitica e dialettica, il postulato dell’avalutatività è fondato su
una tesi che può essere formulata (secondo l’espressione di Popper) come dualismo di
fatti e decisioni. Questa tesi può essere chiarita distinguendo fra due diversi tipi di
legge. Da un lato ci sono le regolarità empiriche nella sfera dei fenomeni naturali e
storici, e cioè le leggi naturali; dall’altro le regole del comportamento umano, e cioè le
norme sociali113.
È nella relazione dicotomica tra leggi naturali e norme, argomenta Albert, che
Habermas individua il nucleo problematico dell’intera questione. Il filosofo propone due
argomenti per poter risolvere positivamente il problema, domandandosi in primo luogo se
sia possibile eliminare il senso normativo da una discussione razionale del contesto di
vita pratico – dal quale esso stesso si origina –, e in secondo luogo se una forma di
conoscenza, resa positivisticamente scienza, possa essere epurata da ogni obbligo
normativo. Albert ritiene che il problema posto da Habermas in questi termini sia
nient’altro che il frutto di un importante fraintendimento, derivante dall’assenza di una
reale connessione tra quanto sostenuto dal filosofo tedesco e la sua interpretazione del
dualismo.
Relativamente alla seconda delle questioni poste da Habermas, Albert si riallaccia alla
descrizione popperiana del «problema della base», definito dal sociologo come “il
problema del carattere delle asserzioni di base (asserzioni che descrivono fatti
osservabili) e della funzione che esse devono svolgere nel controllo delle teorie”114.
Popper sostiene, a riguardo, che le proposizioni di base sono rettificabili di principio,
112
Ibidem, (p. 208).
Ivi, p. 170 (p. 167).
114
Ivi, p. 214, nota 41 (p. 209, nota 3).
Cfr. anche POPPER, Logica della ricerca sociale, cap. V, tr. it. cit.
113
94
sono cioè passibili di revisioni dal momento che racchiudono al loro interno “un
elemento teoreticamente determinato di interpretazione”115. Lo strumento considerato da
Popper per poter ovviare a tale difficoltà è costituito dalla teoria stessa o, meglio, dal suo
apparato concettuale, che permette di derivare altre asserzioni base. In questo passaggio
Habermas rileva un importante circolo vizioso, rinvenibile nella necessità di una
preliminare “constatazione di fatto” per poter applicare le leggi, constatazione che può
avvenire solo a patto di uno svolgimento nel quale tali leggi siano già impiegate. Il
fraintendimento di cui Albert parla è ravvisato in questo punto:
l’applicazione di leggi – in questo caso: di asserzioni teoriche – richiede l’applicazione
di un apparato concettuale per la formulazione delle condizioni di applicazione che
sono in questione, e a cui si può collegare l’applicazione delle leggi stesse116.
Non sussiste pertanto, secondo Albert, alcun circolo vizioso internamente al
procedimento popperiano, come invece sostiene Habermas; inoltre, prosegue il sociologo,
non si comprende il motivo per cui una spiegazione ermeneutica – definita da Albert deus
ex machina – dovrebbe in qualche modo porre rimedio in tale situazione.
La risposta di Habermas a Albert, nel caso in questione, si ritrova nel testo Contro il
razionalismo dimezzato dei positivisti, nel quale il filosofo utilizza, come punto di
partenza per la sua difesa, proprio le affermazioni di Popper. Innanzitutto, Habermas
riprende il tema delle asserzioni di base, mettendo in rilievo il fatto che queste possono
essere accettate o rifiutate secondo una decisione, poiché non sussiste una forma di
congruenza totale tra esse e l’esperienza e, inoltre, non sarebbe possibile verificare
nessuna delle espressioni universali in esse contenute nemmeno tramite un elevatissimo
numero di osservazioni. Diviene quindi necessario prendere posizione e decidere quale
delle proposizioni di base accettare, concordemente a regole stabilite: esse “hanno solo
un fondamento istituzionale, non logico. Ci inducono a orientare le decisioni di questo
tipo secondo un fine precedentemente concepito e inespresso, ma non definiscono questo
fine”117. Si tratta, secondo Habermas, del modo in cui comunemente ci muoviamo nella
comunicazione ordinaria e nella comprensione dei testi; in altri termini, ci si trova inseriti
115
Positivismusstreit, p. 214 (p. 209).
Ivi, p. 215 (p. 210).
117
HABERMAS, Gegen einen positivistischen halbierten Rationalismus, cit., p. 242 (p. 236).
116
95
in una sorta di circolo, senza tuttavia voler rinunciare ad una spiegazione. Ecco quindi,
prosegue l’argomentazione habermasiana, che è la stessa applicazione di regole formali
alla realtà a trascinarci all’interno di un circolo chiuso, come si inferisce dalla stessa
analisi elaborata da Popper118. Nella Logica della scoperta scientifica Popper propone un
confronto tra il processo della ricerca e il processo giudiziario per giustificare la
condizione del circolo. Relativamente al caso giudiziario, qui basta ricordare come la
decisione raggiunta dai giudici, sulla base di un accordo comune, è sempre complicata
dalla interdipendenza sussistente tra il sistema di leggi e la situazione di fatto; tuttavia,
prosegue Habermas, “la ricerca della situazione di fatto è invece già sussunta a categorie
proprie del sistema delle leggi”119. La stessa situazione si verifica anche nel caso delle
proposizioni di base: come lo stesso Popper afferma, “la loro accettazione è parte
dell’applicazione che rende possibile ogni ulteriore applicazione del sistema teoretico”120.
È su questo snodo che si esplicita la proposta habermasiana per la risoluzione
dell’empasse generata dal circolo, attraverso il ricorso alla spiegazione ermeneutica, così
aspramente criticata da Albert. Habermas sostiene che la motivazione per la quale
qualcosa diviene oggetto di esperienza sia da ricercarsi nell’accettazione teoretica,
determinata a priori, di una prestabilita struttura direttamente connessa a vincoli di
controllo di un certo tipo. Ma oggetti di questa natura, come i fatti che vengono
sperimentalmente verificati,
si costituiscono solo nel preliminare contesto dell’interpretazione dell’esperienza
possibile. Questo contesto si crea in un gioco scambievole di parlare argomentativo e
agire sperimentale. Il reciproco accordo è organizzato in vista dello scopo di
organizzare previsioni. Un’implicita comprensione preliminare delle regole del gioco
guida la discussione dei ricercatori, quando decidono se accettare o meno le
proposizioni di base. Poiché il circolo in cui essi si muovono inevitabilmente quando
applicano determinate teorie ai dati dell’osservazione li spinge in una dimensione in cui
la discussione razionale può solo più avvenire in forma ermeneutica121.
118
A tale proposito Habermas dichiara: “Di questo circolo mi ha informato lo stesso Popper; non l’ho
inventato io, come sembra credere Albert. Né è difficile ritrovarlo nella formulazione dello stesso Albert
(p. 209)”. Ibidem.
119
Ibidem.
120
POPPER, Logica della scoperta scientifica, tr. it. cit., p. 107.
121
Positivismusstreit, pp. 243-244 (p. 237).
Cfr. anche quanto sostenuto da Baier a proposito del modo in cui, secondo Habermas, la precomprensione
ermeneutica può effettivamente avere luogo nell’analisi sociologica: “Habermas bedient sich zu diesem
96
Questo passaggio, di sintomatica chiarezza, esplicita compiutamente il motivo che
spinge Habermas a formulare la sua proposta per la soluzione del circolo vizioso
generatosi dal problema della base. Con uno sguardo che anticipa quello che sarà il fulcro
centrale della sua intera speculazione teoretica, l’analisi qui sviluppata da Habermas
conduce infatti direttamente entro i confini della dimensione dell’intesa linguistica,
mostrando come il paradigma dell’agire comunicativo costituisca, già in questo contesto,
una chiave di lettura necessaria per la comprensione del suo pensiero più maturo.
L’intendimento preliminare delle regole che soggiacciono al procedimento di controllo
per decidere la validità empirica delle ipotesi nomologiche, ribadisce quindi Habermas, è
fondamentale. È pertanto necessaria una penetrazione complessiva del processo di
ricerca, e non già solo del suo fine specifico, per conoscere l’effettiva validità empirica
delle asserzioni di base.
L’analisi elaborata da Habermas considera le norme e i criteri come “stati di fatto
sociali”, vale a dire, come dati di un processo di ricerca condotto sulla base della
divisione del lavoro e quindi inserito all’interno del lavoro sociale122. Sebbene lo scenario
aperto da tale impostazione dell’analisi si riveli di grande interesse, Albert non manca di
sottolineare il fatto che il compito primario dell’indagine sociologica non consiste nel
“assumere dati di fatto sociali”, bensì nell’“illuminare criticamente e ricostruire
razionalmente le regole e i criteri che sono in questione, in vista di possibili obiettivi,
quale, ad esempio, lo scopo di approssimarsi alla verità”123. Sembra quasi che si verifichi
un’inversione di ruoli piuttosto significativa: il «dialettico», dice Albert, diventa
«adialettico», diviene cioè il «vero positivista», che richiamandosi ai dati di fatto sociali
Zweck dreier Mittel: Erstens führt er die Hermeneutik in die Soziologie ein, nämlich diejenige
geisteswissenschaftliche und theologische Methode, der es um Explikation von Sinn geht […]. Zweitens
gebraucht er das dialektische Begriffsinstrument der Totalität, das ihm ermöglicht, vom intentional
gefassten subjektiven Sinn aus auf objektive Sinnhaftigkeit zu schließen. Totalität ist für ihn diejenige
subjektiv-objektive Sinneinheit, auf die der subjektive Sinn verweisen muss, sonst wäre er nicht Sinn.
Garantie der Totalität gibt ihm die Dialektik, die den subjektiven Sinn nicht bei seiner eigenen Negation,
dass er nämlich als bloß subjektiver kein Sinn ist, belässt und die ihn somit heraustreibt zum objektiven
Komplement. Drittens verwendet er die Hermeneutik wie die Totalität des subjektiv-objektiven
Geschichtsganzen dich nur als Fiktion, und zwar als notwendige Fiktion möglichen Handelns”, in
BAIER, Soziologie und Geschichte, cit., p. 82.
122
Albert sottolinea quasi con sorpresa il fatto che qui Habermas sveste i panni del filosofo dialettico,
calandosi in quelli del sociologo. Cfr. ALBERT, Der Mythos der totalen Vernunft, cit., p. 216 (p. 211).
123
Ibidem.
97
mette da parte ogni interesse per le questioni legate alla logica della ricerca124. Questo
tuttavia non sembra costituire, agli occhi di Albert, una soluzione al metodo proposto da
Popper, quanto piuttosto una manovra per “«silurare» i suoi problemi facendo ricorso a
ciò che altrove si è abituati a sconfessare come «mera fatticità»”125.
In merito all’aspetto propriamente sociologico della questione, così come è affrontato
da Habermas, Albert non manca di mostrare il proprio scetticismo sulla possibilità di una
sua adeguata formulazione da parte del filosofo tedesco. Egli considera a proposito il
fatto che, nella valutazione degli effettivi rapporti esistenti tra il processo di ricerca e la
vita sociale, sussistono
istituzioni che stabilizzano un interesse autonomo alla conoscenza delle connessioni
oggettive, cosicché in questi ambienti esiste la possibilità di emanciparsi in larga
misura
dalla
pressione
immediata
della
vita
quotidiana.
[…]
L’inferenza
dall’applicazione tecnica alla determinazione tecnica si dimostra proprio da questo
punto di vista un «corto circuito»126.
Nel discorso habermasiano il tema della regolamentazione normativa connette tra loro
il problema della base con quello dell’avalutatività, ed è indicato da Albert come il
nucleo di partenza dell’intera questione. Rifacendosi al testo Epistemologia analitica e
dialettica, il sociologo afferma che l’avalutatività costituisce per Habermas la
dimostrazione che la conoscenza del nesso di vita pratica è preclusa ai processi empiricoanalitici, nonostante essi siano collocati nel contesto della vita sociale. Tuttavia, prosegue
l’argomentazione, le ragioni addotte da Habermas in merito all’essenza problematica del
postulato dell’avalutatività non sembrano dare ragione del senso specifico che il filosofo
intende attribuirvi; non è chiaro, cioè, qual è il senso specifico dell’espressione
«avalutatività della scienza», tra la molteplicità di significati attribuibili. Lo stesso
Adorno, al quale Habermas palesemente fa riferimento, si serve di espressioni alquanto
semplicistiche e riduttive, ad esempio quando sostiene che il problema del valore è mal
posto: non vi è, argomenta Albert, alcun riferimento significativo, e al contempo
124
Ritengo che è in questo passaggio che si chiarisce il significato del titolo del saggio di Albert, nel
quale egli riprende più volte il tema prettamente dialettico di totalità come forma di mito, e allo stesso
tempo intende dimostrare come le pretese dialettiche siano sostenute da argomentazioni condotte
adialetticamente.
125
Positivismusstreit, p. 216 (p. 211).
126
Ivi, pp. 216-217 (p. 211).
98
sufficientemente esplicativo, alla natura di tale problema. Lo stesso riferimento alle
antinomie dalle quali i positivisti dovrebbero guardarsi per porre rimedio alla questione
manca di una benché minima chiarificazione. Riprendendo nuovamente Habermas,
Albert indica nelle parole di quest’ultimo, quando affronta il tema dell’avalutatività, la
presenza di una terminologia che costituisce il residuo di un “illuminismo piatto”, ma non
ritrova tracce di analisi tese alla risoluzione concreta del problema.
Sembra che i dialettici, prosegue Albert, non intendano in nessun modo sottoporre ad
una attenta analisi la questione dell’avalutatività, scomponendola nei suoi problemi
particolari e costitutivi, poiché temono di perdere il loro riferimento fondamentale: la
totalità. Tuttavia, sostiene il sociologo, per poter pensare di giungere ad una soluzione,
diviene fondamentale allontanarsi dal “tutto”: la conseguenza della fissità con cui la
sociologia dialettica rimane saldamente ancorata a questa idea è
il richiamo permanente alla connessione di tutti i particolari nella totalità, che
costringerebbe a pensare dialetticamente, ma da cui non risulta la soluzione di un solo
problema reale. Mentre sono invece ignorate ricerche che mostrano come anche e
proprio senza pensiero dialettico si possano raggiungere buoni risultati127.
In merito all’accusa rivolta da Albert a proposito di una forma di positivismo celata
all’interno del suo pensiero, Habermas risponde riprendendo il tema del rapporto tra
asserzioni metodologiche ed empiriche. L’accusa, si legge nel saggio Contro il
razionalismo dimezzato dei positivisti, è da imputare ad una presunta non separazione, in
taluni contesti, di argomenti empirici e metodologici, vale a dire ad una combinazione
inappropriata tra “logica della ricerca” e “sociologia del sapere”. La distinzione tra
proposizioni e fatti, ossia tra i problemi della genesi e quelli della validità, è un dato
acquisito: Albert sbaglia, sostiene Habermas, a focalizzare l’attenzione su questo aspetto,
poiché esso non costituisce il nodo problematico dell’argomentazione. L’aspetto
problematico indagato da Habermas, data per assodata questa forma di dualismo, consiste
infatti nella condizione per cui “proprio nella metodologia delle scienze sperimentali e
nella dimensione della critica scientifica si pongono rapporti non deduttivi fra asserzioni
127
Ivi, p. 220 (p. 214).
99
formali ed empiriche”128. Nel momento, cioè, in cui la verità di una teoria deve emergere,
si mostra l’aspetto empiristico della logica della scienza.
Una significativa rilevanza è assunta, nell’analisi del filosofo tedesco, dal ruolo della
critica, che non mantiene nulla in comune con le forme assiomatiche e non è
conseguentemente riconducibile alle scienze formali. Per Habermas la critica, anche nel
senso in cui questa è intesa da Popper, è innanzitutto “la discussione senza riserve di
assunzioni ed ipotesi”, condotta con tutti i metodi di confutazione fruibili e con il
puntuale confronto tra ipotesi di partenza e risultati raggiunti129. Ciò che Habermas
enfatizza nella sua argomentazione sul tema della critica è un punto decisivo: la critica
non è uno strumento di verifica, bensì la stessa verifica come discussione. Inoltre, la
decisione critica in merito alla validità di una teoria avviene in un contesto che non
comprende la teoria, dal momento che nel procedimento critico sono coinvolti numerosi
atteggiamenti, compresi quelli empirici che sono senz’altro condizionati da argomenti.
Come in precedenza, anche questa risposta di Habermas alle obiezioni mosse da
Albert si svolge rifacendosi direttamente a Popper, cercando di derivare direttamente
dalle argomentazioni di quest’ultimo elementi utili ad avvalorare le proprie tesi. Il perno
attorno a cui ruota il discorso habermasiano è costituito dalle discussioni metateoriche, in
particolare, dalla possibilità che in questa dimensione sussista la possibilità di considerare
connessioni che non siano né solo logiche né solo empiriche. Prendendo in esame sia le
modalità con cui Popper conduce le sue critiche immanenti a determinate teorie,
attraverso deduzioni logiche sistematiche, sia il modo in cui egli propone soluzioni,
sostenendole per mezzo di argomenti, Habermas sostiene che l’obiettivo sottostante a tale
procedimento consiste nel “rendere plausibili nuovi criteri di giudizio e accettabili nuovi
punti di vista normativi”130. Ciò che si stabilisce, dunque, è una “forma ermeneutica di
argomentazione”, totalmente slegata dai rigidi vincoli dei sistemi deduttivi, che
costituisce la traccia su cui modulare le discussioni critiche. Un momento necessario di
tale procedimento è la decisione, la scelta cioè di criteri che forniscano una valida
dimostrazione di quanto affermato tramite argomenti. Ecco, dunque, in che cosa consiste
per Habermas la peculiarità dell’argomentazione critica: essa
128
HABERMAS, Gegen einen positivistisch halbierten Positivismus, cit., p. 249 (p. 243).
Ibidem.
130
Ivi, p. 250 (p. 244).
129
100
si distingue da quella deduttiva per ciò, che trascende la dimensione della connessione
logica di proposizioni e include un momento che trascende il linguaggio: gli
atteggiamenti. Un rapporto di implicazione fra atteggiamenti e asserzioni è impossibile;
gli atteggiamenti non possono essere dedotti dalle asserzioni, né, viceversa, le
asserzioni dagli atteggiamenti. Ciononostante l’approvazione di un certo procedimento
e l’accettazione di una regola possono essere appoggiate o indebolite mediante
argomenti, e comunque razionalmente ponderate e giudicate. È questo il compito della
critica, sia per quanto riguarda le decisioni pratiche che quelle metateoretiche131.
Data la natura affatto diversa degli argomenti, fondati su un rapporto di motivazione
razionale, dalle proposizioni rigidamente logiche, che determinano l’applicazione di
criteri, è possibile che le discussioni di tipo metateoretico non escludano argomentazioni
di natura empirica. Sebbene Popper non rifiuti la possibilità di una razionalizzazione
degli atteggiamenti, egli la ritiene tuttavia non scientifica se posta a confronto con la
dimostrazione deduttiva; il sapere descrittivo è, nell’analisi popperiana, la forma di
conoscenza maggiormente certa, perché avallata dalla “connessione deduttiva delle
teorie” e dalla “necessità dei fatti”. Su questo punto, però, Habermas mette in rilievo
un’importante osservazione: egli considera, infatti, che “anche l’accordo delle asserzioni
e dei fatti di questo determinato tipo presuppone criteri che hanno bisogno di
giustificazione”132. Popper non reputa che ciò sia necessario, dal momento che,
coerentemente alla condotta razionalistica, l’atto di decisione circa l’accettazione o meno
di una teoria avviene sulla base di esperienze e argomenti. È tuttavia possibile, si
interroga Habermas, che anche l’atteggiamento razionalistico stesso sia fondato su
argomenti ed esperienze? Secondo Habermas ciò non può avvenire; è vero che questo
non è giustificabile come se si trattasse di una prova deduttiva, ma è tuttavia verosimile
pensare una forma di legittimazione nei termini di “un’argomentazione a sua difesa”.
Habermas osserva come tale tipologia di argomentazione sia ampiamente impiegata
da Popper, al punto tale da apparire una sorta di “giustificazione critica della critica”. È
evidente che una forma di giustificazione deficitaria di argomenti deduttivi può apparire
inadeguata o non sufficientemente completa nella rigida prospettiva logica; eppure,
argomenta Habermas, “una critica scientifica che non abbia carattere puramente
131
132
Ivi, p. 251 (pp. 244-245).
Ibidem, (p. 245).
101
immanente, ed esamini la validità delle decisioni metodologiche, non ne conosce
altre”133.
Nel testo La società aperta e i suoi nemici Popper sostiene che l’atteggiamento critico
altro non sia che una “fede nella ragione”, che entro i confini del razionalismo si esplicita
nei termini della scelta tra due espressioni di fede, e non già nella scelta tra fede e sapere.
Questo nuovo scenario ora prospettato apre, secondo Habermas, un aspetto problematico
tutt’altro che marginale: si tratta di capire quale fede si giusta e quale falsa. Popper ritiene
che sia sufficiente rinunciare alla giustificazione critica per ovviare ai problemi che si
generano dalla commistione di relazioni logiche ed empiriche. L’atteggiamento
popperiano di rinuncia alla giustificazione è condiviso da Albert, il quale, come mostra
Habermas, ritiene che sia sufficiente la rinuncia al razionalismo alla sua propria
fondazione per ovviare ai problemi fin qui generatesi.
Ciò che contraddistingue una giustificazione critica, argomenta Habermas, consiste
nella capacità di fissare delle connessioni non deduttive tra i criteri selezionati e le
verifiche empiriche, rafforzando o indebolendo in tal modo gli atteggiamenti, anche per il
tramite di argomenti derivati dalla medesima dimensione degli stessi atteggiamenti. I
criteri applicati tramite l’argomentazione rappresentano degli strumenti di critica
riflessiva proprio nella misura in cui vengono applicati. L’argomentazione, prosegue
l’analisi habermasiana, si differenzia dalla deduzione perché
mette sempre in discussione i principi secondo cui procede. In questo senso non è
possibile fissare, a priori, limiti e condizioni che definirebbero l’ambito di validità di
ogni possibile critica. Ciò che può valere come critica può essere sempre solo stabilito
sulla base di criteri che sono trovati, spiegati ed, eventualmente, nuovamente rivisti
solo nel processo della stessa critica134.
Ecco, quindi, in che cosa consiste per Habermas la «razionalità comprensiva» in
opposizione al «razionalismo dimezzato dei positivisti»: essa non può fornire alcun tipo
di fondazione ultima, ma può dischiudere la prospettiva della forma di autogiustificazione
riflessiva; essa dovrebbe essere, come sostenuto da Wiggerhaus, una forma di
133
134
Ivi, p. 256 (p. 246).
Ivi, p. 254 (p. 247).
102
“razionalismo integrale”, legittimato dal progetto di una teoria critica e capace di
includere al suo interno “una specifica razionalizzazione del quadro socioculturale”135.
È possibile, argomenta Habermas, intendere la critica – impossibile da definire per il
tramite di criteri della razionalità spiegabili solo internamente ad essa – come la
soppressione graduale del dissenso, attraverso una discussione totalmente sottratta a
qualsiasi forma di dominio e come identificazione con una forma di consenso generale e
volontario, cioè non coatto, di tutti i partecipanti al dibattito. Una considerazione affatto
significativa è inerente alla natura dei criteri, attraverso i quali si intende raggiungere
l’accordo, poiché essi dipendono innanzitutto dal significato attribuito all’espressione
“processo inteso a raggiungere il consenso”136. L’assunto fondamentale da tenere in
considerazione è che non si pretende, nell’atto di discernimento tra un consenso vero e
falso, che sussista una sola forma di verità, valida sempre e in ogni circostanza. Contro
l’obiezione di Albert circa la presenza di una forma di discussione razionale all’interno
dei discorsi metodologici, Habermas afferma invece che questa è, per lui, sostanzialmente
un fatto,
perché ci troviamo sempre già all’interno di un processo di comunicazione che deve
condurre alla reciproca intesa. […] solo nella discussione è possibile raggiungere un
accordo su criteri di cui ci serviamo per distinguere i fatti da ciò che è pura
immaginazione137.
Tramite l’argomento dell’intesa linguistica, e dell’accordo da questa derivante,
Habermas può quindi scagionarsi di fronte all’accusa di non aver opportunamente
mantenuto separata la sfere delle asserzioni formali da quella delle asserzioni empiriche:
l’incriminata unione di asserzioni formali ed empiriche cerca di venire a capo di una
connessione in cui non ha più senso separare i problemi metodologici dai problemi
della comunicazione138.
135
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 593.
Positivismusstreit, p. 254 (p. 248).
137
Ibidem.
138
Ibidem
136
103
Per Habermas, quindi, la divaricazione figurata dai positivisti tra il metodo criticoscientifico e scelte di valore pratico-sociali non sussiste; al contrario, come è stato
osservato da Petrucciani, “la razionalità dell’argomentazione critica, della quale la
scienza non può fare a meno, non si lascia isolare in un ambito specifico, ma implica
anche delle scelte sociali, e cioè una società che si lasci permeare e plasmare dalla forza
non coattiva del dialogo tra uomini liberi”139.
La proposta habermasiana non sembra, pertanto, consistere nella proposizione di un
nuovo metodo all’interno della ricerca sociale, alternativo a quelli sperimentali; si tratta
piuttosto del tentativo di integrare e cambiare quei nodi irrisolti nelle teorie sociali già
esistenti140. Tuttavia, come si vedrà in seguito, la forma di “epistemologia critica”, che si
delinea nella prolusione francofortese Erkenntnis und Interesse, si pone diversamente nei
confronti dell’epistemologia positivistica: essa cerca “per così dire di assoggettarla alla
propria amministrazione”141.
139
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 24.
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 594.
141
Ivi, p. 589.
140
104
CAPITOLO TERZO
Per una fondazione teoretico-conoscitiva della «Kritische Theorie der
Gesellschaft»: il rapporto conoscenza-interesse.
La parola teoria ha origini religiose: theoros si chiamava il rappresentante che le città
greche inviavano ai giochi pubblici. Nella theoria, cioè contemplando, egli si
realizzava nel corso dell’evento sacrale. Nel linguaggio filosofico il termine theoria
viene trasferito alla contemplazione del kosmos. Come conoscenza contemplativa del
kosmos la teoria […] riserva per il logos un essente depurato dall’instabile e incerto,
abbandonando alla doxa il regno del caduco. […] La teoria penetra nella prassi della
vita attraverso l’adeguamento dell’anima al movimento ordinato del kosmos: la teoria
imprime la propria forma alla vita, si riflette nel contegno di chi si sottomette alla sua
disciplina, nell’ethos1.
Come si è visto nel capitolo precedente, il tema della teoria costituisce una delle
questioni salienti delle riflessioni habermasiane degli anni Sessanta. Si è osservato,
infatti, che uno dei punti centrali della presa di posizione di Habermas contro il pensiero
neopositivista e, in particolare, contro la sociologia analitica, verte proprio sulla questione
del primato della teoria sulla prassi, sullo iato profondo, cioè, venutosi a creare tra la
sfera della teoria e quella della prassi della vita sociale. Ed è proprio a partire dal
resoconto sullo stato attuale della teoria che Habermas dà inizio alla sua analisi nella
prolusione francofortese Erkenntnis und Interesse, testo nel quale il tema centrale del
rapporto tra teoria e prassi – “nella forma specifica, propria delle società industrialmente
sviluppate, nel rapporto tra scienza, tecnica e universo di vita sociale”2 – viene sviluppato
assieme alla coppia categoriale conoscenza-interesse, con l’obiettivo di “identificare
all’interno dei diversi tipi di scienze e all’interno degli approcci teorici concorrenti nelle
1
HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, in «Merkur», (213) 1965, pp. 1139-1153; ora in Technik und
Wissenschaft als Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. di C. Donolo, Conoscenza e Interesse,
in Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 3-18). Da qui Erkenntnis und
Interesse.
Si tratta della Antrittsvorlesung tenuta da Habermas il 28 giugno 1965 in occasione del suo insediamento
a Francoforte, come successore alla cattedra di Horkheimer.
2
C. DONOLO, Prefazione, in HABERMAS, Teoria e prassi nella società tecnologica, tr. it. cit., p. V.
105
diverse scienze, specifici interessi guida della conoscenza”3. Sono questi interessi, infatti,
che, secondo Habermas, rivelano il ruolo specifico della prassi all’interno della teoria,
mostrando il modo in cui le due categorie si relazionano e il tipo di razionalità in esse
contenuta. Essi, inoltre, come è stato significativamente rilevato da Axel Honneth,
rappresentano “i modelli prescientifici d’orientamento che devono rappresentare le
prospettive a partire dalle quali per l’essere umano la realtà si costituisce come un oggetto
d’esperienza”4.
Nei saggi scritti all’inizio degli anni Sessanta – in particolare, in Epistemologia
analitica e dialettica e Contro il razionalismo dimezzato dei positivisti – Habermas
elabora per la prima volta quelle che sono le tesi centrali sia del rapporto che intercorre
tra teoria e prassi, sia della relazione imprescindibile tra le scienze empirico-analitiche e
l’interesse conoscitivo di tipo tecnico che le guida. Emerge, inoltre, quello che costituisce
l’apporto più innovativo di Habermas al dibattito creatosi tra epistemologi analitici e
dialettici: la sfera comunicativa, esplicitata per la prima volta nella forma di
“precomprensione ermeneutica”. Il sapere che si genera dalle scienze empiriche ha
validità “all’interno dell’orizzonte circoscritto dall’interesse al controllo tecnico su
processi oggettivati”5; questo tipo di interesse appartiene strutturalmente al genere
umano, dal momento che esso rende possibile la riproduzione stessa della vita dell’uomo
attraverso il lavoro. Per Habermas, quindi, come riportato da Petrucciani, “è questo
interesse «transculturale» al controllo dei processi naturali a spiegare come sia possibile
raggiungere l’accordo circa la «validità intersoggettiva di affermazioni nelle scienze
empiriche»”6.
Il titolo della prolusione francofortese, Conoscenza e interesse, riprende un tema della
tradizione filosofica che, come ricorda Wiggerhaus, era già stato affrontato da altri
pensatori in area tedesca, tra i quali Horkheimer7; Habermas, tuttavia, ha il merito di aver
3
Ivi, p. XI.
A. HONNETH, Kritik der Macht. Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1986 (tr. it. di M. T. Sciacca, Critica del potere. La teoria della società in Adorno,
Foucault e Habermas, Dedalo, Bari 2002, p. 283).
5
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 45.
6
Ibidem.
7
“Erkenntnis und Interesse hieß der Titel – einen Topos aufgreifend, der ihm u. a. von Rothecker, Max
Scheler, Hans Freyer und eben Horkheimer her vertraut hat. Nach fast einem Menschenalter, so
Habermas, sich selbstbewusst in die Tradition der kritischen Theorie Frankfurter Provenienz stellend,
nehme er das Thema der Scheidung zwischen Traditionelle und kritischer Theorie wieder auf, dm
Horkheimer eine seiner bedeutendsten Untersuchungen – den 1937 in der Zeitschrift für Sozialforschung
4
106
affrontato la questione nella prospettiva di una teoria critica calata all’interno dell’attività
scientifica stessa, nell’ambito, cioè, di quella contrapposizione teoretico-scientifica
emersa intorno alla metà degli anni Sessanta. Ciò che aveva motivato Habermas nella sua
presa di posizione all’interno del Positivismusstreit, riemerge anche nel suo secondo
periodo francofortese: la ricerca di una fondazione teoretico-conoscitiva della teoria
critica della società8. C’è, pertanto, la consapevolezza da parte di Habermas di
raccogliere l’eredità della Scuola di Francoforte, ossia di riprendere, ad una generazione
di distanza, “quel tema del divorzio tra la teoria in senso tradizionale e la teoria in senso
critico”, affrontato da Horkheimer in uno dei suoi scritti più significativi. Tuttavia, nelle
riflessioni habermasiane si riscontra anche la consapevolezza di stare percorrendo una
nuova strada, quella di una “«epistemologia critica» che mostrava la forte presa della
epistemologia positivistica sulle diverse categorie scientifiche, e cercava non solo di
bloccarla con una concatenazione di tesi, ma per così dire di assoggettarla alla propria
amministrazione”9. Si tratta, in altre parole, dell’elaborazione di una teoria critica della
società che si propone come obiettivo principale quello di “rendersi epistemologicamente
consapevole del contesto pratico di emergenza delle rispettive teorie”10.
§. 1. A partire da Horkheimer. Lo iato tra teoria tradizionale e teoria critica.
L’idea classica di teoria, sia dal punto di vista religioso che filosofico, appare a
Habermas come sostanzialmente definita da un’essenza mistica, ovvero come
erschienenen Aufsatz «Traditionelle und kritische Theorie» - gewidmet habe”, in WIGGERHAUS,
Jürgen Habermas, Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg 2004, p.72.
8
“Kritische Theorie, so sah es Habermas, musste sich unter solchen Bedingungen erst einmal innerhalb
des Wissenschaftsbetriebs behaupten. Das bedeutete Mitte der sechziger Jahre: auf dem Feld aktueller
wissenschaftstheoretischer Auseinendersetzungen. Was Habermas bei seiner Beteiligung am
Positivismusstreit motiviert hatte, setzte er in seiner zweiten Frankfurter Zeit fort: den Versuch einer
erkenntnistheoretischen Begründung kritischer Gesellschaftstheorie”, ivi, p. 73.
9
WIGGERHAUS, La Scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 589.
A questo proposito è interessante quanto affermato da Donolo: “il progetto teorico di Habermas si situa
nella tradizione di pensiero che da Hegel e Marx giunge ad Horkheimer, Adorno e Marcuse. Tuttavia, il
contributo di Habermas fa fare finalmente un passo decisivo allo sviluppo di una teoria critica (in quanto
contrapposta a quella «tradizionale»): mentre Adorno e Marcusa, per esempio, esauriscono il compito di
una teoria critica nella critica ideologica di determinate tradizioni filosofiche o culturali o di particolari
fenomeni della società capitalistica avanzata, Habermas si propone – e questa è l’innovazione decisiva –
di condurre la critica e la discussione allo stesso livello raggiunto dalle scienze sociali borghesi e dalla
loro filosofia della scienza. Con una critica immanente sistematica egli mostra le aporie e le
contraddizioni delle teorie oggi affermate, e – a partire da questa critica, e quindi con una consapevolezza
epistemologica maggiore – propone categorie e schemi interpretativi alternativi”, in DONOLO,
Prefazione, in HABERMAS, Teoria e prassi nella società tecnologica, tr. it. cit., pp. VI-VII.
10
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 277.
107
un’attitudine alla contemplazione del kosmos. Il filosofo, osservando questo ordine
immortale11, si conforma ad esso nel tentativo di riprodurlo in sé. In tale atteggiamento si
mostra il modo in cui, nella visione classica, la teoria penetra nella prassi: l’anima si
accorda al movimento armonico del kosmos, la vita si modella secondo la forma della
teoria, l’uomo subordina la sua vita all’ottemperanza delle norme generate dall’ethos.
Questo tipo di teoria corrisponde a quella che Horkheimer, in uno dei suoi saggi più
significativi degli anni Trenta, Traditionelle und kritische Theorie, definisce
“tradizionale” e contrappone alla teoria in senso “critico”. Habermas dichiara di
richiamarsi direttamente all’analisi horkheimeriana sulla “separazione tra teoria nel senso
classico e teoria nel senso di critica”12, sebbene nella Antrittvorlesung non vi siano altri
riferimenti e rimandi alle pagine del francofortese. È tuttavia opportuno soffermarsi sul
testo di Horkheimer, poiché, come è stato correttamente osservato, tra gli altri, da
Petrucciani, “la proposta epistemologica che si delinea nel grande saggio del 1937
costituisce […] l’antecedente di quella che, con maggiori precisazioni sistematiche,
Habermas avanzerà nel suo fortunato libro del 1968 su Conoscenza e interesse”13.
11
“Volendo infatti il dio che tutte le cose fossero buone, e nessuna, per quanto possibile, cattiva,
prendendo così quanto vi era di visibile e non stava in quiete, ma si muoveva sregolatamente e
disordinatamente, dallo stato di disordine lo riportò all’ordine, avendo considerato che l’ordine fosse
assolutamente migliore del disordine. Non era lecito e non è possibile all’essere ottimo fare altro se non
ciò che è più bello: ragionando dunque trovò che dalle cose che sono naturalmente visibili non si sarebbe
potuto trarre un tutto che non avesse intelligenza e che fosse più bello di un tutto provvisto di intelligenza,
e che inoltre era impossibile che qualcosa avesse intelligenza ma fosse separato dall’anima. In virtù di
questo ragionamento, ordinando insieme l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo realizzò l’universo,
in modo che l’opera da lui realizzata fosse la più bella e la migliore per natura. Così dunque, secondo un
ragionamento verosimile dobbiamo dire che questo mondo è un essere vivente dotato di anima, di
intelligenza e in verità generato grazie alla provvidenza del cielo”, PLATONE, Timeo, 30a.
12
Erkenntnis und Interesse, p. 147 (p. 4).
13
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, in M. HORKHEIMER, Filosofia e teoria
critica, tr. it. cit., p. XIV.
Cfr. anche M. Theunissen: “Den gegenwärtigen Stand der kritischen Gesellschaftstheorie zeigt die als
„Prolegomenon“ zu einer solchen Theorie gedachte Untersuchung über „Erkenntnis und Interesse“ von
Jürgen Habermas an. Die Untersuchung ist aus der Frankfurter Antrittsvorlesung ihres Verfassers
hervorgegangen. Das erklärte Ziel dieser Vorlesung war es, an Max Horkheimers Aufsatz über
„Traditionelle und kritische Theorie“ anzuknüpfen, der diese Theorie vor mehr als einem Menschenalter,
im Jahre 1937, auf den Begriff gebracht hatte. Die folgende Reflexionen wollen die kritische Theorie der
Gesellschaft im ganzen erfassen, indem sie sich im wesentlichen darauf beschränken, ihren relativen
Anfang mit ihrem vorläufigen Ende zu verknüpfen, also die früher Essays Horkheimers mit den bislang
vorliegenden Arbeiten von Habermas”, in M. THEUNISSEN, Kritische Theorie der Gesellschaft. Zwei
Studien, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1981, pp. 1-2.
Cfr. K. J. Huch: “Habermas’ Schriften sind für sie in besonderer Weise repräsentativ. Sie wissen sich
einerseits in der Tradition der genuinen Kritischen Theorie Horkheimers (zu der dieser heute nur noch mit
Vorbehalten steht), zum andern aber auch in der Tradition der antiken theoria, welche die Emanzipation
des Individuums von Strebungen intendiert, die es noch ins dämonische Zeitalter verstricken. […] Die
kritische Philosophie, die den ideologischen Charakter dieses Objektivismus durchschaut, macht, was die
alte Metaphysik latent bestimmte, bewusst: den Zusammenhang von Erkenntnis und Interesse; sie ist,
108
L’obiettivo di Traditionelle und kritische Theorie è quello di definire lo statuto della
teoria critica della società, a partire dalla situazione in cui versa il marxismo all’indomani
della sconfitta del movimento operaio in Germania e dal celere e crescente consolidarsi
del nazionalsocialismo. I temi che compaiono nel saggio, in particolare l’esplicitazione
della rilevanza teoretica attribuita agli interessi conoscitivi posti alla base delle diverse
forme di scienza, non sono del tutto nuovi nelle riflessioni del filosofo francofortese; essi
erano già apparsi, sebbene in una forma embrionale e non ancora ben definita, in altri
scritti sempre risalenti agli anni Trenta, in particolare in Materialismus und Moral14.
Come ha rilevato Petrucciani, questa fase del pensiero di Horkheimer rientra ancora
all’interno di quello che Habermas ha definito «materialismo interdisciplinare»15, e “il
progetto horkheimeriano potrebbe essere caratterizzato come una sorta di trasformazione
della filosofia in scienza sociale interdisciplinare che […] si avvale di contribuiti di
sociologi, economisti, giuristi, psicologi, studiosi dell’arte e della cultura”16. È importante
osservare come Horkheimer in questo saggio, da una prospettiva che precede quella della
teoria critica – ma che in larga misura la anticipa solamente da un punto di vista teorico –
sostenga che la scienza non può essere valutata come una sfera separata dalla vita sociale,
come un settore, cioè, svincolato dagli interessi a questa connessi:
nel rispetto incondizionato della verità il materialismo vede una condizione necessaria,
seppur non sufficiente, della scienza reale. Esso sa che gli interessi che hanno origine
nella situazione sociale e personale, indipendentemente dal fatto che lo scienziato li
conosca o meno, influiscono sulla ricerca. Non solo nella scelta degli oggetti, ma anche
nella direzione dell’attenzione e dell’astrazione agiscono, in piccolo e in grande, dei
fattori storici17.
indem sie ihr entsagt, der Tradition insofern treuer als die Neoontologie, welche sie ungebrochen
fortzuführen meint”, in K. J. HUCH, Interesse an Emanzipation, in F. DALLMAYR (hrsg.), Materialen
zu Habermas‘ Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974, pp. 22-40.
14
HORKHEIMER, Materialismus und Moral, in Kritische Theorie, Fischer, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it.
A. Schmidt, a cura di G. Backhaus, Materialismo e morale, in Teoria critica, vol. I, Einaudi, Torino
1974).
15
“Tuttavia, solo Horkheimer collega con questo materialismo interdisciplinare un’autocomprensione,
trasformata in senso altamente originale, della filosofia. Suo intento era continuare la filosofia con altri
strumenti, vale a dire con gli strumenti delle scienze sociali”, in HABERMAS, Texte und Kontexte,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991; (tr. it. di E. Rocca, Testi filosofici e contesti storici, Laterza, Roma-Bari
1993, p. 96).
16
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. VIII.
17
HORKHEIMER, Materialismo e morale, tr. it. cit., pp. 107-108.
109
In opposizione a quanto sostenuto da Max Weber circa l’oggettività del sapere delle
scienze sociali, Horkheimer afferma l’esistenza, lungo l’intero processo scientifico, di
valori e interessi, che non possono essere separati tra loro; egli sostiene, inoltre, l’idea
che tanto i valori quanto gli interessi non derivino solamente dalle scelte soggettive dei
partecipanti al processo scientifico, bensì che si costituiscano “dai rapporti sociali
«oggettivi» che su queste scelte influiscono”18. Per Weber, infatti, gli uomini sono “esseri
civilizzati, provvisti della capacità e della volontà di prendere coscientemente posizione
rispetto al mondo e di dargli un senso”, di modo che diventa un dato indiscutibile il fatto
che “le idee di valore”, che si creano nel rapporto con la realtà, sono soggettive19.
Horkheimer constata come le considerazioni weberiane siano diventate ormai un dato
acquisito tanto in filosofia, quanto in quelle che egli definisce “scienze idealistiche”, per
le quali
ogni giudizio di valore è quindi ritenuto illecito, e negli ultimi decenni alle scienze
dello spirito e della cultura è richiesto sempre più di non recepire e sviluppare il
materiale in connessione con grandi obiettivi sociali, ma, al contrario, di constatare e di
classificare dati di fatto «teoricamente neutri»20.
L’esigenza della neutralità, così vigorosamente postulata dalla scienza moderna, è ciò
che la teoria sociale, così com’è intesa da Horkheimer, deve rigettare. Una filosofia
critica non può accettare come valido questo assunto di indifferenza e neutralità, poiché
essa, al contrario, deve prendere parte attivamente nell’inevitabile contrasto che si crea
tra interessi e valori; essa deve schierarsi nei conflitti che dividono la società. In tal
modo, come osservato da Petrucciani, la teoria, cosciente del nesso che la lega agli
interessi, si pone su un livello riflessivo superiore rispetto a quelle scienze che si illudono
di poter omettere tale connessione. L’attribuire importanza alla teoria contro la mera
catalogazione di fatti è ciò che contraddistingue, in modo significativo, il materialismo
18
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. X.
M. WEBER, Die «Objektivität» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in
Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922, pp. 180 e 183; (tr. it, L’“oggettività“
conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura
di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958).
20
HORKHEIMER, Materialismo e morale, tr. it. cit., p. 106.
19
110
dal positivismo contemporaneo, sebbene la diversità non si espliciti “nella ricerca
concreta che spesso perviene ai medesimi risultati”21.
Per Horkheimer la teoria è una “concatenazione di conoscenze”, l’insieme, cioè, del
sapere accumulato attraverso una prassi, mirante al raggiungimento di determinati
obiettivi. Per il tramite della totalità – che come si è visto costituisce uno dei presupposti
fondamentali della teoria critica – la realtà si rivela come un tutto unitario che si modifica
secondo quell’andamento temporale al quale gli uomini, agenti e conoscenti, sono
soggetti. La pretesa di avalutatività è quindi errata, dal momento che, secondo
Horkheimer, nei dati oggettivi sono da sempre in atto momenti soggettivi. Riprendendo la
centralità concettuale della totalità, il saggio horkheimeriano si conclude ponendo
un’ulteriore questione circa la possibilità di definire quali siano “le aspirazioni più giuste
o più vere”, ossia quelle effettivamente capaci di esprimere l’idea di universalità22. Come
argomenta il francofortese, infatti,
[…] la descrizione deve essere veritiera. La struttura conoscitiva globale a partire dalla
quale ogni descrizione assume il suo significato e alla quale essa deve a sua volta
servire, la teoria, rientra anch’essa tra le aspirazioni degli uomini che la creano. Queste
possono risultare da capricci privati, dagli interessi di potenze volte al passato oppure
dai bisogni dell’umanità in divenire23.
L’interrogativo lasciato insoluto nel testo Materialismus und Moral è stato
successivamente ripreso da Horkheimer, nel tentativo, talvolta assai complesso, di
formulare una risposta adeguata e al contempo indicativa dello status della teoria critica.
La formulazione più significativa della soluzione al problema della giustificazione
razionale dei fini e valori appartenenti alla teoria critica è rinvenibile in Traditionelle und
kritische Theorie, dove è compiutamente esplicitato il tema degli interessi che guidano la
conoscenza.
Il saggio horkheimeriano del 1937 si apre con un’affermazione che rivela fin dal
principio la grande forza critica che pervade il testo, poiché l’autore assume come punto
21
Ivi, p. 98.
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. X-XI.
23
HORKHEIMER, Materialismo e morale, tr. it. cit., p. 109.
22
111
di partenza per la sua analisi l’opinione corrente delle scienze circa l’essenza della teoria,
muovendosi così proprio da una prospettiva interna alle scienze sperimentali stesse:
il problema di cos’è la teoria, all’attuale livello della scienza non sembra presentare
grandi difficoltà. Nella ricerca corrente per teoria si intende un insieme di proposizioni
relative a un ambito della realtà, collegate le une alle altre in modo tale che da alcune di
esse si possono dedurre le rimanenti24.
Conseguentemente, osserva Horkheimer, la validità di una teoria così determinata si
commisura al grado di accordo che si genera tra proposizioni derivate ed eventi effettivi;
in mancanza di accordo si procede alla riformulazione di entrambe. Il fine precipuo di
una teoria così definita consiste nel “sistema universale della scienza. Esso non si limita
più a un ambito particolare, ma comprende invece tutti gli oggetti possibili”25. Si tratta,
quindi, di una teoria onnicomprensiva, dal momento che elimina ogni precedente
suddivisione tra le diverse scienze e applica lo stesso apparato di regole tanto alla sfera
degli oggetti inanimati quanto a quella degli esseri viventi; essa articola gli apparati
concettuali al fine di regolare i dati dell’esperienza e di operare produttivamente sui
processi empirici. La teoria tradizionale è, pertanto, una “costruzione conoscitiva” che
deve soddisfare un interesse “condiviso da tutti gli uomini, quello di controllare e
dominare i processi naturali in vista di uno scopo”26.
Allo stato attuale, rileva Horkheimer, la teoria tradizionale come forma di conoscenza
scientifica non è confinata entro l’ambito delle discipline empiriche: essa esercita il suo
irresistibile fascino anche sulle scienze sociali, al punto che “le scienze dell’uomo e della
società si sforzano di emulare il modello delle scienze naturali che hanno tanto
successo”27. Ciò che definisce l’essenza della teoria è, secondo l’opinione diffusa nella
comunità scientifica, il suo stesso compito: il manipolare la natura e, allo stesso tempo e
con gli stessi criteri, la realtà sociale ed economica, secondo un’elaborazione dei dati
della realtà già presupposta all’interno di un certo ordine di ipotesi. Il progresso tecnicoscientifico procede assieme a quello economico, al punto che si viene a creare una sorta
24
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., p. 3.
Ivi, p. 4.
26
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. XV.
27
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., p. 5.
25
112
di fusione tra questi, tale da non permettere più la loro separazione. Tuttavia, osserva
Horkheimer,
nella misura in cui però il concetto di teoria viene autonomizzato come se fosse
motivabile, poniamo, in base all’essenza interiore della conoscenza, o altrimenti, ma
sempre in modo astorico, esso si trasforma in una categoria reificata, ideologica28.
È a questa forma di reificazione della teoria, al suo essere «ideologia», che si
contrappone, nell’analisi horkheimeriana, il pensiero «critico»: esso si colloca proprio al
livello dell’esercizio scientifico, palesando il suo essere “inscindibile da una
«autoriflessione» sull’attività scientifica stessa, sulla sua genesi e sulla sua destinazione
sociale così come sui metodi e sugli obiettivi di ricerca a ciò corrispondenti”29. In tal
senso, come ha rilevato Gerardo Cunico, è proprio l’autocoscienza storica a definire la
teoria critica della società, anche nel senso di critica dell’economia politica, come il
luogo dove “non solo si conserva, a differenza dalle teorie di tipo positivistico, un
essenziale momento filosofico, ma diventa addirittura l’«erede» più legittima della
filosofia in quanto tale”30.
In un passaggio significativo del testo Traditionelle und kritische Theorie,
Horkheimer afferma che la “rappresentazione tradizionale” delle teoria corrisponde
“all’attività dello studioso come viene svolta nella società accanto a tutte le altre attività,
senza che diventi trasparente la connessione tra le singole attività”31. Ciò significa che, in
questa raffigurazione della teoria, è del tutto assente ogni riferimento alla funzione
effettiva della scienza nella realtà sociale, manca, cioè, ogni indicazione che rinvii al
significato della scienza per l’uomo; si rende manifesto il suo senso solo in relazione al
suo ristretto ambito di appartenenza, in determinate condizioni storiche. Ora, secondo
Horkheimer, un’attenta analisi della realtà non può prescindere dal considerare che la vita
sociale si origina dalla “totalità del lavoro dei diversi rami di produzione”: non è pertanto
possibile che questi “rami” siano considerati autonomamente e indipendentemente l’uno
dall’altro. Infatti,
28
Ivi, p. 9.
G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, Marietti, Genova 1988, p.
47.
30
Ivi, pp. 47-48.
31
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., p. 12.
29
113
l’apparenza di un’autonomia di processi di lavoro il cui svolgimento discenderebbe
dall’essenza interna del loro oggetto, corrisponde alla libertà illusoria dei soggetti
economici nella società borghese. Essi credono di agire secondo decisioni individuali,
mentre perfino nei loro calcoli più complicati sono esponenti dell’intricato meccanismo
sociale32.
Uno degli aspetti più rilevanti della teoria critica è, dunque, quello di considerare la
realtà sociale una “totalità”, che, come opportunamente rilevato da Cunico, “supera
costantemente la parcellizzazione isolante degli ambiti d’indagine per riferirsi
costantemente alla «totalità» del processo sociale che intende indagare e da cui
dipende”33. Il rapportarsi della teoria alla complessità della realtà comporta, di necessità,
lo sviluppo di una connessione con degli interessi che non siano collocati in uno “spazio
neutro”, bensì situati all’interno della società e disposti “in modo conflittuale gli uni con
gli altri”34. Infatti, nell’analisi di Horkheimer, la società è caratterizzata principalmente
dalla contraddittorietà, dalla complessità derivata dai conflitti che in essa inevitabilmente
si creano. La forza della teoria critica si manifesta nel riuscire a guardare la totalità
sociale attraverso la lente di una “contraddizione cosciente” che determina tutti i concetti
del pensiero critico. Non sussiste alcuna teoria della società, argomenta il filosofo,
nemmeno tra quelle elaborate dai sociologi “generalizzanti”, che non comporti degli
interessi politici, sulla validità dei quali non sia necessaria una continua riflessione, per
mezzo di un esame che non può essere neutrale, bensì mediato attraverso l’agire e il
pensare storicamente situati.
Nella società capitalistica di mercato, argomenta Horkheimer, i soggetti intendono
tanto il sistema di conduzione economica tanto la cultura su di esso fondata come prodotti
del lavoro dell’uomo, secondo un’organizzazione data dall’attività umana stessa. Essi
tendono ad identificarsi con essa, comprendendola nella forma di “volontà e ragione” e
accettandola come il proprio mondo. Allo stesso tempo, però, gli uomini tendono a
considerare la società alla stregua di un meccanismo o di un processo naturale, perché
non vi è traccia, nelle forme culturali derivate dalla lotta e dall’oppressione, di una
32
Ibidem.
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 48.
34
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. XV.
33
114
“volontà
unitaria
ed
autocosciente”35.
Ora,
prosegue
l’argomentazione,
né
l’identificazione, né tanto meno la mera accettazione di tale condizione sono pensabili
nella prospettiva critica. Solo un’autointerpretazione dialettica dell’uomo può permettere
alla ragione di divenire trasparente a se stessa, attraverso un comportamento o, meglio, un
interesse, teso all’emancipazione. La contraddizione che qui si evidenza – tra “azioni
umane, che si pongono dei fini e che cercano di perseguirli razionalmente” e il fatto che
gli uomini siano “soggetti al dominio di un meccanismo economico ampiamente sottratto
al loro controllo” – è ciò che, come rileva Petrucciani, “riproduce rapporti di potere e
subordinazione, di privilegio e di deprivazione”36. Ed è proprio questa quadro globale ad
imprime al pensiero critico la spinta nella direzione dell’emancipazione:
il pensiero critico oggi è motivato dal tentativo di andare realmente oltre la tensione, di
superare l’antitesi tra consapevolezza del fine, spontaneità, razionalità insite
nell’individuo da una parte e le relazioni del processo di lavoro fondamentali per la
società dall’altra. Il pensiero critico implica un concetto dell’uomo che contrasta con se
stesso finché questa identità non è realizzata. Se l’agire determinato dalla ragione fa
parte dell’uomo, la pratica sociale data, che forma l’esistenza fin nei particolari, è
disumana, e questa disumanità reagisce su tutto ciò che si compie nella società37.
Due sono, quindi, gli obiettivi che il pensiero critico si propone di tradurre in realtà:
da un lato, esso mira a superare – nel senso della Aufhebung hegeliana – la tensione
insita fra la coscienza del fine, propria di ogni individuo, e le dipendenze del processo
lavorativo che si generano nella società; dall’altro, esso deve necessariamente condurre
alla delineazione di una nuova immagine di uomo, che esasperi il contrasto con se stesso,
fino alla sua completa concretizzazione. Alla base di ciò che la teoria criticamente intesa
si propone di realizzare vi è un interesse ben determinato, il quale, lungi
dall’omologazione con gli altri interessi presenti nella società, si esplicita come “un
interesse della ragione stessa”38.
La centralità del concetto di ragione, e dell’interesse a questa connesso, si chiarisce
verso la conclusione dell’analisi di Horkheimer. Sono due i valori fondamentali che la
35
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., p. 22.
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. XVI.
37
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., pp. 24-25.
38
PETRUCCIANI, Max Horkheimer e l’idea di teoria critica, cit., p. XVI.
36
115
ragione accoglie al suo interno: l’universalità, nel senso della sua validità per tutti, e
l’autonomia, nel senso di una liberazione dal dominio imposto e di una possibile
autodeterminazione. Come sostenuto dal francofortese, infatti, non è ancora avvenuta la
trasformazione della società nella direzione auspicata; di più, il semplice aspirare al
cambiamento non è sufficiente:
l’aspirazione a una situazione senza sfruttamento e oppressione, in cui esista
effettivamente un soggetto onnicomprensivo, ossia l’umanità autocosciente, e in cui si
possa parlare di una formazione unitaria di teorie, di un pensiero che trascende gli
individui, non è ancora la sua realizzazione39.
La possibilità di una reale concretizzazione di questo intento, ossia del suo “successo
storico”, argomenta Horkheimer, può compiersi solamente in forza dell’interesse per la
trasformazione, ossia di un interesse che è sempre generato dall’iniquità dominante, ma
che si lascia condurre dalla teoria, reagendo su di essa.
La vera teoria, come si configura nelle pagine horkheimeriane, è quella critica. Essa
riformula negativamente il concetto idealistico di ragione, attraverso il filtro del
materialismo: la ragione, così ridefinita, ha il compito di sopprimere quell’ingiustizia
sociale, alla quale è tuttavia connessa. Per il filosofo, il destino dell’umanità dipende
dalla realizzazione del pensiero critico e dalla sua capacità di emergere nel contrasto con
la teoria tradizionale dominante. Una scienza che si ostina a separare il pensiero
dall’azione ha abbandonato quello che dovrebbe essere il suo interesse primario,
l’umanità; essa si configura sempre più come un qualcosa di astratto, irrimediabilmente
sganciato dalla realtà sociale. Solo la piena realizzazione del pensiero critico, conclude
Horkheimer, può contrastare l’autodeterminazione della scienza, poiché
il conformismo del pensiero, il persistere nella convinzione che esso sia una
professione stabile, un ambito chiuso all’interno della totalità sociale, comporta la
rinuncia a quella che è la vera essenza del pensiero40.
39
40
HORKHEIMER, Teoria tradizionale e teoria critica, tr. it. cit., pp. 54-55.
Ivi, p. 56.
116
§. 2. Con Husserl e contro Husserl ovvero la fondazione epistemologica della teoria
critica della società.
L’excursus sui testi di Horkheimer – e in particolare in merito alla differenziazione
tra teoria tradizionale e teoria critica e sull’individuazione dell’interesse come principio
guida della conoscenza – permette di comprendere meglio il passo successivo del testo
Conoscenza e interesse. Habermas, infatti, dopo avere fatto un breve accenno al maestro
francofortese, prende in esame il testo di Edmund Husserl Die Krisis der europäischen
Wissenschaften
und
die
transzendentale
Phänomenologie,
apparso
quasi
contemporaneamente a Traditionelle und kritische Theorie41. Ciò che caratterizza il testo
husserliano è, per Habermas, il concetto di teoria che lo guida, ossia l’idea di una teoria
contrapposta a quella horkheimeriana e, pertanto, tradizionale. Per Habermas il testo
husserliano in esame rappresenta senz’altro il tentativo del superamento del modello
scientistico dominante nelle scienze; tuttavia, come rilevato da Honneth, l’intento di
Habermas è quello di mostrare che “la proposta terapeutica di una teoria contemplativa
pura […] fa semplicemente risorgere proprio quella finzione di una conoscenza priva di
interessi che, da sempre, è stata propria del concetto tradizionale di teoria”42.
Non si tratta per Husserl di analizzare la crisi nelle scienze, ossia da una prospettiva
interna ad esse, quanto piuttosto di indagare la loro crisi come scienze; in accordo con
l’andamento filosofico generale, l’indagine husserliana si fa guidare da
un’idea di conoscenza, che conserva la connessione platonica fra teoria pura e vita
pratica. Non il contenuto informativo delle teorie, ma la formazione di un
atteggiamento riflessivo e illuminato tra i teorici stessi produce alla fine una cultura
scientifica43.
Il confronto con la Krisis di Husserl, presente nel testo habermasiano, può essere
definito, come mostra J. Claude Evans, tanto nel senso di un “apprezzamento”
(Würdigung) quanto nel senso di una critica: Habermas condivide la presa di posizione
contro l’interpretazione oggettivistica della scienza, e tuttavia, nell’ipotesi che la
41
E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie,
in Gesammelte Werke, vol. VI, Den Haag 1954; (tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1968).
42
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 279.
43
Erkenntnis und Interesse, p. 148 (p. 4).
117
fenomenologia trascendentale si offra in sacrificio per una variante di questo stesso
oggettivismo, egli cerca di andare oltre Husserl, per fondare una nuova teoria della
scienza e della società, basata su un soggetto umano, da intendersi come fondamento
trascendentale44. È necessario, quindi, soffermarsi più in dettaglio sull’analisi della critica
habermasiana a Husserl, prima di passare all’esame specifico degli interessi guida della
conoscenza.
Secondo Habermas, Husserl sferra il suo attacco all’oggettivismo delle scienze sulla
base della ripresa del concetto platonico di teoria pura e della connessione che questa
intrattiene con la vita pratica: in tal modo è possibile comprendere perché, nella
prospettiva husserliana, la crisi costituisce un pericolo interno alle scienze, e non una
minaccia proveniente dall’esterno. Seguendo il testo habermasiano e la linea
interpretativa tracciata dallo studio di Evans, è possibile riassumere in tre punti la
proposta fenomenologica di Husserl, così come è recepita da Habermas.
In primo luogo, la fenomenologia mostra che la comprensione oggettivistica della
scienza si pone come un «universo oggettivato di dati» al posto del vissuto prescientifico,
mentre, in realtà, la conoscenza scientifica dovrebbe fondarsi trascendentalmente proprio
su questo mondo prescientifico; essa presuppone una propria iniziativa, capace di
sostenere il manifestarsi di una soggettività che conferisce il senso e la fondazione del
mondo e della scienza.
In secondo luogo, puntualizza Evans, Husserl intende mostrare come questa
soggettività della scienza oggettivata sia sostanzialmente mascherata, poiché, con le
parole di Habermas,
le scienze non si sono svincolate radicalmente dalle situazioni d’interesse dell’universo
primario di vita. Per prima la fenomenologia rompe con l’atteggiamento ingenuo e ne
44
“[…] steht eine Auseinendersetzung mit Edmund Husserls »Krisis«, eine Würdigung und eine Kritik
zugleich. Habermas folgt Husserl in dessen Angriff gegen eine objektivistische Interpretation der
Wissenschaften; in der Annahme aber, dass transzendentale Phänomenologie Opfer einer Variante eben
dieses Objektivismus wird, versucht er über Husserl hinauszugehen und eine neue Wissenschafts- und
Gesellschaftstheorie zu erstellen, die auf dem menschlichen Subjekt als transzendentalem Fundament
basiert. Durch seine Theorie, die gleichermaßen transzendental und konkret-historisch zu sein vorgibt, hat
Habermas eine Herausforderung an die transzendentale Phänomenologie erlassen, die nicht ignoriert
werden kann”, in J. C. EVANS, Husserl und Habermas, in DALLMAYR, Materialen zu Habermas’
Erkenntnis und Interesse, cit., pp. 268-294, qui p. 268.
118
assume uno rigorosamente contemplativo, svincolando definitivamente la conoscenza
dall’interesse45.
Infine, Husserl considera l’autoriflessione trascendentale come la teoria nel senso
tradizionale, nella misura in cui l’epochè libera la filosofia dalla connessione con gli
interessi della vita pratica. Tuttavia, come argomenta Habermas, nonostante la teoria
sotto questo riguardo non sia pratica, ciò non comporta una sua esclusione dalla vita
pratica, poiché
la conseguente astinenza della teoria, come vuole il suo concetto tradizionale, produce
una formazione che orienta l’azione. L’atteggiamento teoretico, assimilato che sia, può
essere a sua volta mediato con quello pratico46.
L’atteggiamento “non pratico” della teoria, come correttamente osserva Evans, non lo
è ancora nel senso in cui esso si esplicita col positivismo, ossia come privazione di valori;
si tratta, piuttosto, del tentativo di collegare l’attitudine teoretica classica alla creazione di
un genere umano, capace di un’assoluta autoresponsabilità e di autoconsapevolezza
(Selbstverantwortung), sulla base di una completa comprensione teoretica. Per Husserl,
infatti, questo nuovo tipo di prassi ha come obiettivo quello di “elevare l’umanità tramite
la ragione scientifica universale secondo norme di verità di ogni forma”, per rinnovarla
nei fondamenti e garantirle un’autoresponsabilità assoluta sulla scorta di “cognizioni
teoretiche assolute”.
Eppure, argomenta Habermas, nonostante l’impegno terapeutico che la descrizione
fenomenologica si accolla per risolvere la situazione contingente delle scienze europee –
in evidente stato degenerativo –, essa non sembra essere lo strumento adeguato a
risolvere l’onere che essa stessa si è prefissata; la fenomenologia può al più cogliere le
norme
in base alle quali la coscienza lavora necessariamente da un punto di vista
trascendentale; detto kantianamente, essa descrive leggi della ragion pura, ma non
45
46
Erkenntnis und Interesse, p. 151 (p. 6).
Ibidem, (p. 7).
119
norme di una legislazione universale ad opera della ragione pratica, alle quali potrebbe
orientarsi una volontà libera47.
L’errore in cui Husserl cade, secondo l’analisi habermasiana, è quello di considerare
la fenomenologia come una sorta di teoria pura dotata di efficacia pratica; Husserl non
intravede la relazione insita tra il positivismo e quella forma di ontologia che egli
riconduce al concetto tradizionale di teoria48. Secondo Habermas, la critica mossa da
Husserl contro l’immagine oggettivistica delle scienze è corretta, dal momento che porta
alla luce l’inganno di “un in sé di fatti strutturati secondo leggi”, che nasconde il nesso
esistente tra conoscenza e interessi legati alla vita pratica; eppure, prosegue
l’argomentazione, il fatto che sia la fenomenologia a svelare tutto questo non giustifica
affatto la pretesa di considerarla dispensata dal legame che essa intrattiene con gli
interessi. Neppure la pretesa della fenomenologia di reclamare per sé il titolo di teoria
pura, negato alle scienze, è legittima: infatti, come sottolineato da Honneth, il richiamo
husserliano all’ideale contemplativo della conoscenza comporta inevitabilmente la
rinuncia alla sfera degli interessi, cui originariamente anch’esso apparteneva49. Sembra,
tuttavia, essere proprio questo passaggio – “lo svincolare la conoscenza dall’interesse” –
il momento che, per Husserl, definisce “l’aspettativa di un’efficacia pratica”. La teoria
della tradizione classica, argomenta Habermas, era in grado di penetrare all’interno della
vita pratica solamente in forza di quella connessione ideale che riteneva di poter porre tra
il mondo e l’ordine cosmico: “la teoria era capace di orientare anche l’agire solo come
cosmologia”50. Non è possibile attendersi dei processi formativi da una teoria che è stata
47
Ivi, p. 152 (p. 7).
“Husserls zukunftsweisender Versuch schlägt in dem Sinne fehl, dass er die Verbindung zwischen
Positivismus und jener Ontologie, der Husserl »unbewusst den traditionelle Begriff von Theorie
entlehnt«, nicht durchschaut. In seiner Attacke auf den Objektivismus nimmt er selber die theoretische
Haltung ein, die mit demselben verbunden ist”, in EVANS, Husserl und Habermas, cit., p. 269.
49
“Habermas è convinto del fatto che Husserl, richiamandosi all’ideale contemplativo della conoscenza,
trascuri a torto il contesto degli interessi in cui esso era originariamente inserito. La filosofia greca poteva
pretendere forza di orientamento all’azione da una teoria semplicemente intuitiva, soltanto nella misura in
cui essa poteva, al contempo, ammettere un ordine cosmologico che, per così dire, forniva anche il
modello ideale dei rapporti sociali degli esseri umani; solo fintanto che il cosmo, dal punto di vista
ontologico, poteva garantire nel tempo tale modello di società, una teoria che in atteggiamento
apparentemente privo di interesse osservava l’ordine cosmologico del mondo poteva fornire consigli
pratici nonché direttive per l’azione. Husserl, che trascura questo nesso costitutivo, si inganna,
perciò,quando riversa le stesse aspettative pratiche in una fenomenologia filtrata da ipotesi cosmologiche,
così come la filosofia greca, con le sue premesse ontologiche, le poteva riservare, a ragione, in una teoria
contemplativa”, in HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., pp. 279-280.
50
Erkenntnis und Interesse, p. 153 (p. 8).
48
120
purificata del suo senso trascendentale, come invece suppone di poter fare la
fenomenologia; la teoria può essere effettivamente considerata un atto formativo solo
nella misura in cui “deriva una forza pseudonormativa dal mascheramento del proprio
vero interesse. Mentre critica l’autocomprensione oggettivistica delle scienze, Husserl
cade vittima di un altro oggettivismo, insito da sempre nel concetto tradizionale di
teoria”51. Husserl ricade, cioè, come osservato da Evans, in una variante
dell’oggettivismo che ha sempre costituito un pericolo per la teoria classica stessa: la
teoria pura è un’“apparenza ontologica”, alla quale sono soggette in ugual misura la
teoria classica, il positivismo moderno e la fenomenologia husserliana52.
È a partire da queste riflessioni sulla Krisis che Habermas può ora definire il proprio
progetto di critica all’oggettivismo delle scienze e, al contempo, porre le fondamenta per
il programma di una rinnovata teoria critica della società: mentre Husserl fonda
l’oggettività e l’autorità su una soggettività trascendentale – nella “pura fenomenologia”
–, l’analisi habermasiana postula l’esistenza di “interessi guida della conoscenza”
all’interno del genere umano. Come rileva Evans, la rappresentazione di questi interessi
non è compito di una pura autoriflessione improntata sul modello della teoria, bensì di
una filosofia critica della scienza collegata ad un interesse conoscitivo emancipatorio,
all’interno del quale Habermas ritrova la radice della teoria tradizionale. In tal senso
Habermas può servirsi di una continuità con la tradizione di per sé, ma non una continuità
con l’autocomprensione della tradizione53.
Il significato di quest’ultima affermazione si esplicita facendo nuovamente
riferimento all’antichità classica. Habermas afferma, infatti, che il pensiero filosofico ha
contribuito a ricondurre le forze divine e sovraumane, lasciate libere nel pensiero antico –
greco in particolare –, entro i limiti dell’anima, facendole appunto diventare “forze
dell’anima”. Tuttavia, se si considerano da questa prospettiva “impulsi e affetti che
irretiscono gli uomini nelle condizioni d’interesse di una prassi instabile e casuale”, ne
51
Ibidem.
“Indem er eine interessenfreie Stellung einnimmt, schließt Husserl unwissentlich die Möglichkeit
praktischer Wirksamkeit aus und verfällt derart einer Variante des Objektivismus, die immer eine der
Gefahren klassischer Theorie war. Reine Theorie ist ein »ontologischer Schein«, dem gleichermaßen
klassische Theorie, moderner Positivismus und Husserlsche Phaenomenologie unterliegen”, in EVANS,
Husserl und Habermas, cit., p. 270.
53
“Die Darstellung dieser Interessen ist nicht Aufgabe reiner Selbstreflexion am Modell der Theoria,
sondern die einer kritische Philosophie der Wissenschaften, geleitet von einem emanzipatorischen
Erkenntnisinteresse, in dem Habermas die verborgene Wurzel traditioneller Theorie erkennt. Auf diese
Weise kann Habermas zwar eine Kontinuität mit der Tradition für sich in Anspruch nehmen, nicht aber
eine Kontinuität mit dem Selbstverständnis der Tradition”, ibidem.
52
121
consegue che la teoria classica, epurata da queste conseguenze, altro non è che una
“contemplazione disinteressata”, e cioè “emancipazione”:
svincolare la conoscenza dall’interesse non doveva tanto depurare la teoria dagli
offuscamenti della soggettività, quanto al contrario sottoporre il soggetto a una
purificazione estatica dalle passioni. Il fatto che ora la catarsi non venga più raggiunta
per mezzo del culto misterico, ma venga fissata nella volontà degli stessi individui
tramite la teoria, indica il nuovo livello di emancipazione. […] La coscienza
emancipata dalle potenze primigenie trova ora un nuovo punto fermo nell’unità di un
kosmos in sé fermo e nell’identità dell’essere immutabile54.
Ciò significa che la “demitologizzazione dell’immagine del mondo”, come la
definisce Honneth, comporta l’indipendenza dell’identità degli uomini dalle forze
originarie, richiedendo, dunque, come conseguenza necessaria, “la finzione di un cosmo
in sé stabile ed esemplare nelle cui leggi immutabili i soggetti, ad un livello evoluto,
potessero trovare nuovamente un supporto normativo”55. Se, quindi, la teoria assume i
connotati di un’azione che scruta l’ordine immutabile del cosmo con un’attitudine
totalmente svincolata dagli interessi, allora è possibile comprendere perché la teoria
diviene garante della stabilità sociale della coscienza emancipata dei soggetti. Per
adempiere a questo compito è necessario, pertanto, il continuo ripudio del proprio
interesse emancipante “alla finzione oggettivistica di un cosmo indipendentemente
dato”56.
Habermas rileva come i due aspetti più rilevanti della tradizione classica –
l’atteggiamento teoretico da un lato e l’assunto ontologico di un universo strutturato in se
stesso dall’altro – sono implicati nel rapporto negato tra conoscenza e interesse. Questa
considerazione permette a Habermas di ricollegarsi alle critiche husserliane
all’oggettivismo delle scienze, con alcune considerazioni che, tuttavia, si rivolgono
contro Husserl. L’argomentazione habermasiana, infatti, mette in luce come la
connessione non ammessa tra conoscenza e interesse sia diffusamente considerata
dipendente dal fatto che le scienze non si sono liberate completamente del concetto
classico di teoria; questo fa altresì in modo che permangano ancora tracce di quello stesso
54
Erkenntnis und Interesse, pp. 153-154 (p. 8).
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 280.
56
Ivi, p. 281.
55
122
oggettivismo, a causa “dell’apparenza ontologica di una teoria pura, che le scienze
hanno pur sempre in comune ingannevolmente con la tradizione filosofica dopo averne
eliminato gli elementi formativi”57.
Si va delineando qui, proprio a partire dalle considerazioni fatte sulla fenomenologia
husserliana, una nuova definizione di oggettivismo; esso è generalmente inteso – anche
da Husserl – come “un atteggiamento che rapporta ingenuamente enunciati teorici e dati
di fatto”. Questa disposizione considera le relazioni tra grandezze empiriche come un «in
sé» e le traduce in proposizioni teoriche, eliminando contemporaneamente “il quadro
trascendentale entro cui soltanto si forma il senso di tali proposizioni”58. Secondo
Habermas, nel momento in cui tali proposizioni vengono penetrate e comprese, grazie ad
un sistema di riferimento che le accompagna e le precede, si manifesta chiaramente
quell’interesse che guida la conoscenza, annullando al contempo ciò che risulta essere
solamente una parvenza oggettivistica. Esistono, pertanto, alcune connessioni specifiche
che legano tra loro “regole logico-metodiche” e interessi guida della conoscenza, che, per
Habermas, esplicitano il compito precipuo di una teoria critica che intende svincolarsi
definitivamente dai dettami del positivismo.
§. 3. La suddivisione delle scienze e la definizione degli interessi posti alla loro guida.
Habermas procede, in primo luogo, alla diversificazione delle scienze in tre gruppi,
corrispondenti alle scienze empirico-analitiche, alle scienze storico-ermeneutiche e alle
scienze sociali59. Riprendendo l’idea di una teoria connessa alla contemplazione del
kosmos, la prima classe di scienze sviluppa i propri sistemi “con un’autocomprensione
che stabilisce senza difficoltà una continuità con le origini del pensiero filosofico”60,
57
Erkenntnis und Interesse, p. 154 (p. 9).
Ivi, p. 155 (p. 9).
59
Relativamente alla suddivisione delle scienze in tre classi elaborata da Habermas, Wiggerhaus rileva
come sia possibile rinvenire nel testo di Hans Freyer del 1930 Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft un
significativo precedente del lavoro habermasiano. Freyer, nel suo tentativo di fondazione filosofica del
sistema della sociologia, aveva distinto le forme del sapere in “tre atteggiamenti conoscitivi,
corrispondenti ad altrettanti ambiti oggettivi diversamente strutturati ed altrettanti modi pratici di
rapportarvisi”. Esiste, infatti, una primaria «volontà tecnica» che è inscindibile dall’atteggiamento
conoscitivo delle scienze della natura; esiste, poi, un atteggiamento conoscitivo di comprensione e di
ricezione che appartiene alle “formazioni dello spirito dotate di senso”; infine vi è “un’autoconoscenza
intenzionalmente diretta a una strutturazione della realtà” che corrisponde alla storia, alla quale anche
l’uomo appartiene. Cfr. WIGGERHAUS, La Scuola di Francoforte, tr. it. cit., pp. 590-591.
60
Erkenntnis und Interesse, p. 148 (p. 5).
58
123
mantenendo quindi tanto un atteggiamento teoretico, epurato dalla connessione con la
vita pratica, quanto l’attitudine a considerare e a descrivere teoreticamente l’ordine
dell’universo, strutturato secondo leggi. Le scienze storico-ermeneutiche, invece, si
relazionano alla “sfera delle cose caduche e del mero opinare”, e pertanto non sono
riconducibili alla tradizione classica, poiché non intrattengono alcuna connessione con la
cosmologia. Tuttavia, osserva Habermas, anche queste, come le precedenti, sviluppano al
loro interno una forma di “coscienza scientista”: nella misura in cui “i contenuti di senso
tramandati” sembrano poter essere catalogati in una sorta di corrispondenza ad un
“cosmo di fatti”, le scienze storico-ermeneutiche ripropongono la stessa coscienza
metodologica delle scienze empirico-analitiche, dal momento che intendono descrivere la
realtà mantenendo un atteggiamento teoretico. Ecco, quindi, perché, secondo Habermas,
“lo storicismo è diventato il positivismo delle scienze dello spirito”61.
Nella classificazione del filosofo compare un’ulteriore classe si scienze, quella delle
scienze sociali: anche queste non si sottraggono all’affermazione interna del positivismo,
dal momento che, da un lato, seguono le esigenze metodologiche delle scienze empiriche
dl comportamento, e, dall’altro – ricalcando l’impostazione delle scienze analiticonormative – si indirizzano verso modelli che implicano massime d’azione. Con vigore
Habermas ribadisce la condizione contemporanea delle scienze sociali:
sotto il nome di libertà da giudizi di valore è stato ancora una volta confermato, in
questo campo di ricerca vicino alla prassi, il codice che la scienza moderna deve agli
inizi del pensiero teoretico nella filosofia greca: psicologicamente, l’impegno
incondizionato nei confronti della teoria e, epistemologicamente, la separazione della
conoscenza dall’interesse. A livello logico vi corrisponde la distinzione tra asserzioni
descrittive e normative; essa rende grammaticalmente vincolante la separazione dei
contenuti meramente emotivi da quelli cognitivi62.
Come si è potuto già osservare relativamente al contesto del Positivismusstreit,
nell’analisi habermasiana il concetto di avalutatività non coglie realmente il significato
classico di teoria, perché la separazione che esso presuppone dei valori dai fatti
corrisponde alla contrapposizione di un “astratto dover essere” al “puro essere”. Le
61
62
Ivi, p. 149 (p. 5).
Ibidem.
124
scienze positive, nella loro pretesa di conservare il concetto di teoria appartenente alla
filosofia greca, ne distruggono in verità la pretesa stessa; infatti, argomenta Habermas, se
è vero che le scienze positivisticamente orientate conservano il senso metodico
dell’atteggiamento teoretico classico e l’assunto ontologico, secondo il quale la struttura
del mondo è indipendente da chi la conosce, è altrettanto vero che esse rinunciano
definitivamente alla connessione, conservata da Platone fino a Husserl, di “theoria e
kosmos, di mimesis e bios theoretikos. Ciò che un tempo doveva costituire l’efficacia
pratica della teoria viene ora vietato metodologicamente. La concezione della teoria come
un processo di formazione è diventata inautentica”63.
Alla tripartizione delle scienze, poco più avanti, Habermas congiunge una
corrispondente suddivisione degli interessi specifici posti alla loro guida, relativamente
all’ambito d’azione loro pertinente. Riassumendo quanto già compiutamente argomentato
nei saggi in polemica con Popper e Albert, egli riprende le caratteristiche precipue delle
scienze empirico-analitiche; queste sono sostanzialmente definite come quel sistema di
riferimento che sancisce il senso e la verifica conseguente delle proposizioni correlate
all’esperienza, come connessioni ipotetico-deduttive capaci di derivare leggi ipotetiche
con un contenuto empiricamente definito e come strutture dotate di capacità prognostiche
sulla base di condizioni iniziali date. Il sapere empirico si identifica sostanzialmente, per
Habermas, con un sapere prognostico, in grado di acquisire senso e perciò validità tecnica
solo in forza di regole, tramite le quali applicare le teorie alla realtà. A livello delle
condizioni di verifica delle scienze sperimentali, Habermas sottolinea come le
proposizioni protocollari, di cui le scienze empiriche si servono, mostrino il grado di
successo o di insuccesso delle operazioni che si conducono, e non siano quindi
“riproduzioni di fatti in sé”. Esse possono descrivere dei fatti o le loro relazioni, ma ciò
non deve senz’altro ostacolare la visuale su una situazione ben diversa: nelle scienze
sperimentali, prosegue l’argomentazione habermasiana, i fatti possono effettivamente
costituirsi come tali solo a condizione di una precedente organizzazione dell’esperienza
acquisita, entro i limiti dell’agire strumentale. Dalle considerazioni sull’essenza delle
scienze empirico-analitiche fin qui fatte, Habermas giunge, quindi, a definire quale sia
l’interesse guida di questo tipo di conoscenza:
63
Ivi, p. (150) p. 6.
125
le teorie delle scienze sperimentali dischiudono la realtà guidate dall’interesse alla
possibile assicurazione ed estensione, grazie a informazioni, dell’agire controllato in
base alle sue conseguenze. Si tratta dell’interesse conoscitivo alla disposizione tecnica
su processi oggettivati64.
Le scienze storico-ermeneutiche ottengono il senso di validità delle loro proposizioni
da un ambito differente, rispetto a quello delle scienze empiriche. Queste, argomenta
Habermas, sono esenti da qualsiasi legame con i sistemi inerenti al controllo e alla
disposizione tecnica; l’accesso ai fatti che costituiscono il loro campo di indagine avviene
tramite la comprensione del senso e non, quindi, per mezzo dell’osservazione: “alla
verifica sistematica di leggi ipotizzate nelle scienze empirico-analitiche corrisponde qui
l’esegesi dei testi”65. Lo storicismo, secondo l’analisi habermasiana, ha operato una
connessione tra la forma oggettivistica della teoria pura e la comprensione del senso, che
dovrebbe contenere l’evidenza dei fatti. Tuttavia, i fatti necessitano di criteri per la loro
constatazione e si manifestano solo rapportandosi ad essi. In tal senso, si riscontra un
fraintendimento, poiché Habermas rileva che come nel caso dell’autocomprensione
positivistica – per la quale il rapporto tra operazioni di misura e di controllo non è
considerato in sé –, allo stesso modo nel sapere storico-ermeneutico si “sopprime anche
quella comprensione preliminare dell’interprete che inerisce alla situazione di partenza,
dalla quale il sapere ermeneutico è sempre mediato”66. L’interprete deve di necessità
divenire preliminarmente cosciente del proprio mondo, se intende accedere a quello del
senso tramandato; così agendo, egli può istituire un doppio piano di comunicazione,
capace di relazionare i due mondi con i quali si confronta: “coglie il contenuto oggettivo
di ciò che è tramandato applicando la tradizione a sé e alla sua situazione”67. L’unione,
grazie alle regole del metodo, tra esegesi e applicazione, dà origine, secondo il filosofo
tedesco, ad un’ulteriore interpretazione delle scienze ermeneutiche: una ricerca di questo
tipo si lascia condurre, nella sua analisi della realtà, da un interesse che si impegna a
mantenere l’estensione dell’intersoggettività di una possibile intesa, capace di dirigere
l’azione. Pertanto, secondo Habermas,
64
Ivi, p. 157 (p. 10).
Ibidem, (p. 11).
66
Ivi, pp. 157-158 (p. 11).
67
Ivi, p. 158 (p. 11).
65
126
per sua struttura, la comprensione del senso si orienta a un possibile consenso di
soggetti agenti nel quadro di un’autocomprensione tramandata. Lo chiamiamo, a
differenza di quello tecnico, l’interesse pratico della conoscenza68.
La terza tipologia di scienze, nella triade proposta da Habermas, è quella delle scienze
sociali o “scienze sistematiche dell’agire sociale”, che comprendono al loro interno
economia, sociologia e politica; esse hanno il compito di generare un sapere di tipo
nomologico, allo stesso modo delle scienze emprico-analitiche. Nella prospettiva, però, di
una scienza sociale criticamente intesa, tale condizione non è sufficiente: in aggiunta a
ciò, l’atteggiamento critico deve esercitare una forma di controllo sulle proposizioni
teoriche, per verificare se danno luogo a eventuali “regolarità invarianti dell’agire sociale
in generale” o se, al contrario, producono “rapporti di dipendenza ideologicamente
irrigiditi”, potenzialmente modificabili. La possibilità che il processo ora descritto
avvenga è data dalla premessa che la critica, in questo contesto, è “critica
dell’ideologia”: essa si fonda sul presupposto che “l’informazione sulle connessioni
normative mettano in moto un processo di riflessione nella coscienza dell’interessato
stesso”69. È la riflessione che, secondo Habermas, permette la modificazione delle
condizioni di partenza, che costituiscono, al contrario, un livello di coscienza irriflessa.
Da queste considerazioni Habermas può ora definire con maggior chiarezza l’essenza
delle scienze sociali:
il quadro metodologico, che definisce il senso della validità di questa categoria di
proposizioni critiche, ha come criterio il concetto di autoriflessione. Essa scioglie il
soggetto dalla dipendenza da poteri ipostatizzati ed è determinata da un interesse
emancipativo alla conoscenza. Le scienze criticamente orientate l’hanno in comune con
la filosofia70.
Nella prospettiva habermasiana l’interesse all’emancipazione è, quindi, ciò che
accomuna le scienze sociali criticamente intese e la filosofia; tuttavia, prosegue
l’argomentazione, fintanto che quest’ultima rimane soggiogata dall’ontologia, non
riuscendo a svincolarsi dal retaggio di un atteggiamento che persevera nel mascherare il
68
Ibidem.
Ibidem (p. 12).
70
Ivi, p. 159 (p. 12).
69
127
legame tra conoscenza e interesse, allora essa non può nemmeno sottrarsi a quella forma
di oggettivismo, che sfigura la relazione insita tra la sua conoscenza e l’interesse alla sua
emancipazione. Come afferma Habermas, riprendendo Adorno,
soltanto quando si rivolge anche contro l’apparenza di teoria pura in se stessa la critica
fatta all’oggettivismo delle scienze, essa può ricavare dalla dipendenza, ormai
ammessa, la forza che invano pretende per sé come filosofia apparentemente priva di
presupposti71.
Rispetto al programma di comprensione ermeneutica esposto nei saggi di polemica
col positivismo, si nota qui un mutamento significativo nell’analisi habermasiana: non è
più la “precomprensione ermeneutica del senso” a creare le condizioni di libertà per le
scienze sociali, a fondare, cioè, quello spazio d’azione per cui lo studio della società
possa definitivamente slegarsi dai legami forzati che intrattiene con la forma mentis del
metodo positivista. È possibile affermare, come sostiene Wellmer, che la teoria critica –
nel modo in cui si configura nella prolusione Conoscenza e interesse – pretende in realtà
un’estensione (Erweiterung) della sfera della riflessione ermeneutica, un ampliamento
dell’ambito d’azione di questa, in modo tale che l’iniziale interesse alla comprensione del
senso divenga soprattutto e principalmente interesse all’emancipazione72.
Anche se il concetto di “interesse guida della conoscenza” racchiude al suo interno i
momenti della «conoscenza» e dell’«interesse», il loro rapporto non si è ancora chiarito
71
T. W. ADORNO, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie, Stuttgart, 1956; (tr. it. di A. Burger Cori, Sulla
metacritica della gnoseologia, Sugar, Milano 1965).
72
“Das bedeutet zunächst einmal, dass die kritische Theorie eine Erweiterung der Hermeneutischen
Reflexion für sich in Anspruch nimmt. Die Anstrengung des »Verstehens« gewinnt eine gegenüber der
traditionelle Hermeneutik bis zu Gadamer neue Dimension, wenn nicht nur die Verzerrung des
geschichtlichen Kommunikationszusammenhanges der Menschen von Fall zu Fall als Faktum in
Rechnung gestellt wird, sondern wenn di Frage nach dem Sinn und der zwanghaften Logik solchen
Verzerrungen ins Zentrum gerükt wird. […] Im Zusammenhang mit einer kritischen Theorie der
gegenwärtigen Gesellschaft liefert diese Rekonstruktion der Geschichte den Schlüssel für ein Verstehen
als Kritik der Überlieferung, sofern wir uns in ihr gerade nicht als in einem »Gespräch« wiederfinden.
Das Interesse an einem solchen Verstehen ist nicht einfach das Interesse an Verständigung überhaupt,
sondern das fundamentalere Interesse an Emanzipation von Gewaltverhältnissen, die als Versagung und
Entfremdung erfahren werden und als historisch überflüssig kritisiert werden können. Ein solches
Verstehen der Überlieferung ist daher selbst ein Stück Emanzipation von der Überlieferung gegen der
Überlieferung, insofern diese ein Zwangszusammenhang ist, und zugleich Vorbedingung einer
praktischen Emanzipation. Es ist als Kritik nur möglich in der Form von Wissenschaft; denn nur diese
kann die ideologischen Gehalte der kulturellen Überlieferung gleichsam von außerhalb des
Traditionszusammenhanges aufsprengen”, in WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und
Positivismus, cit., pp. 51-53.
128
nella descrizione habermasiana dei tipi di scienze e dei corrispettivi interessi guida.
Secondo Habermas, noi siamo in grado di esperire nella quotidianità il fatto che le azioni
siano sempre sostenute da idee, che devono fornire loro delle giustificazioni, sebbene
spesso non si tratti di motivi convalidanti reali. In tal senso, quindi, il procedimento
razionale che va comunemente sotto il nome di giustificazione, non è altro che una forma
di ideologia nel contesto dell’agire collettivo: “il contenuto manifesto di proposizioni è
falsato da un legame irriflesso a interessi di una coscienza solo apparentemente
autonoma”73. Il processo messo in atto dalle scienze per l’eliminazione di questi interessi
è comprensibile nella misura in cui si comprende che il loro scopo consiste nel controllo
ferreo sulla “soggettività dell’opinare”. Tuttavia, afferma Habermas, è rinvenibile qui un
importante fraintendimento, che si genera proprio all’interno dell’attività di controllo
messo in atto dalle scienze; infatti,
mentre la scienza deve in primo luogo procacciarsi l’oggettività delle sue asserzioni
contro la pressione e la tentazione di interessi particolari, s’inganna però sugli interessi
fondamentali, cui essa non deve solo l’impulso, ma le condizioni stesse di una possibile
oggettività74.
Sembra quindi, come correttamente rileva Evans, che la questione qui sollevata
consista nell’interpretare la conoscenza finale come una forma di antropologia;
Habermas, tuttavia, non è interessato all’antropologia per sé, quanto piuttosto alla
condizione di una possibile oggettività per se stessa, poiché gli interessi guida della
conoscenza fungono più da condizioni trascendentali degli interessi, che da mere
limitazioni reali del nostro sapere75.
La realtà, argomenta Habermas, può essere compresa in profondità solo attraverso
un’analisi condotta da punti d’osservazione ben specifici, ossia attraverso l’orientamento
73
Erkenntnis und Interesse, p. 160 (p. 12).
Ibidem (p. 13).
75
“Hier erhebt sich unmittelbar die Versuchung, diesen Vorgang als ein Anthropologisieren endlicher
Erkenntnis zu interpretieren – was einen radikalen philosophischen Skeptizismus hinsichtlich eines
möglichen Erkenntnisanspruchs beinhalten würde. Habermas ist jedoch nicht an Anthropologie per se
interessiert, sondern daran, »die Bedingungen möglicher Objektivität « selber herauszuarbeiten.
Erkenntnisinteressen fungieren eher als transzendentale Bedingungen von Erkenntnis, denn als bloß
faktische Begrenzungen unseres Wissens. Annerkennung der Notwendigkeit solcher Interessen
rechtfertigt den Sinn der Objektivität und den Anspruch auf Wahrheit dieser Ekenntnis”, in EVANS,
Husserl und Habermas, cit., p. 271.
74
129
alla disposizione tecnica, la comprensione nella vita pratica e l’emancipazione da rapporti
di forza, che quasi naturalmente si instaurano nella vita sociale. La consapevolezza che in
questo modo si esplicita, ossia la “la consapevolezza di questi limiti trascendentali di una
possibile concezione del mondo”, rende possibile l’autonomizzarsi di una parte di natura
dalla natura stessa. La condizione trascendentale sopra accennata trova una sua
chiarificazione nella prima delle tesi che Habermas propone, con il preciso obiettivo di
illustrare in che cosa consiste il rapporto che lega la conoscenza all’interesse. A tale
proposito, egli afferma:
riproduzioni o descrizioni non sono mai indipendenti da criteri. E la loro scelta si basa
su atteggiamenti che esigono il soppesamento critico per mezzo di argomenti, dato che
non possono essere né dedotti logicamente né dimostrati empiricamente. Decisioni
metodiche di principio come distinzioni fondamentali qual è quella tra essere
categoriale e non categoriale, tra proposizioni analitiche e sintetiche, tra contenuto
descrittivo ed emotivo, hanno la peculiarità di non essere né arbitrarie né cogenti. Esse
si dimostrano adeguate o no. Infatti si commisurano rispetto alla necessità metalogica
di interessi che non possiamo stabilire o riprodurre, e dobbiamo invece soddisfare.
Perciò la mia prima tesi dice: Le prestazioni del soggetto trascendentale sono fondate
nella storia naturale del genere umano76.
La ricerca fondativa habermasiana appare ora orientata in una direzione ben precisa,
supportata dall’idea che solo un’analisi approfondita e sviluppata da una prospettiva
interna all’alveo in cui si collocano gli interessi, sia in grado di mostrare, come afferma
Cunico, “l’imprescindibilità di un orientamento pragmatico per qualsiasi tipo di
esperienza e di conoscenza scientifica”, che solo può convalidare la consapevolezza
emancipatoria della teoria critica. Inoltre, il progetto habermasiano si esplicita proprio
nella forma di un’autorifessione condotta dalle scienze stesse sui propri interessi guida,
vale a dire come “ricostruzione di presupposti pragmatici della conoscenza che, pur
funzionando come principi a priori, sono sorti in condizioni empiriche e sono constatabili
nello stesso processo storico di costituzione delle scienze”77.
76
Erkenntnis und Interesse, pp. 160-161 (p. 13).
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 67.
È interessante vedere come la stessa consapevolezza che si mostra in queste pagine era già apparsa in un
saggio di Habermas del 1958 Der befremdliche Mythos: Reduktion oder Evoluion?. A tale proposito
77
130
La prima tesi proposta da Habermas sembra suggerire, come egli stesso sottolinea,
l’idea che la ragione umana costituisca una sorta di “organo di adattamento”, sviluppato
per motivi di autodifesa, allo stesso modo degli artigli e dei denti degli animali. Esiste,
tuttavia, una differenza sostanziale tra gli esseri umani e gli animali, rinvenibile proprio
al livello degli interessi; questi si originano nella storia naturale – vale a dire
dall’evoluzione nella storia – ma, al contempo, derivano anche dalla rottura culturale che
si crea con la natura, poiché, come afferma Habermas, gli uomini “hanno recepito oltre al
momento dell’affermazione dell’impulso naturale quello della liberazione da coazioni
naturali”78. L’interesse all’autoconservazione mantiene solo una parvenza di naturalità,
dal momento che in realtà esso scaturisce all’interno di un sistema sociale, che sopperisce
alle carenze difensive congenite dell’uomo e gli garantisce, contemporaneamente,
“l’esistenza storica contro una natura minacciante dall’esterno”79. La socializzazione e i
processi conoscitivi ad essa connessi non si limitano semplicemente ad essere gli
strumenti di riproduzione della vita, bensì definiscono anche la vita stessa. Come sostiene
Habermas, infatti,
la sopravvivenza apparentemente nuda è già sempre una grandezza storica; infatti il suo
criterio è ciò che una società intende per vita buona. Perciò la mia seconda tesi suona:
La conoscenza è strumento dell’autoconservazione però trascende la mera
autoconservazione80.
l’autore scrive: “I tipi di esperienza e il loro grado di scientificità non si distinguono per il fatto di essere
guidati o sganciati dall’interesse, ma esclusivamente per la misura in cui l’interesse possa essere
formalizzato. L’interesse al potere di disporre dei processi reali è indubbiamente formalizzabile in grado
elevato (…) per questo può diventare tanto ovvio da “scomparire”. [...] Questo interesse (…) viene
tuttavia problematizzato non appena i sistemi teorico-empirici di questo tipo vengono applicati
nell’ambito delle scienze sociali. […] Se però le esperienze legate alla situazione rientrano
necessariamente anch’esse nell’impostazione delle conoscenze rigorosamente scientifiche, se gli interessi
che guidano la conoscenza possono essere puramente formalizzati, ma non sospesi, questi interessi
debbono essere posti sotto controllo, debbono essere legittimati razionalmente come interessi oggettivi, a
meno che non si voglia interrompere arbitrariamente il processo di razionalizzazione. La riflessione di tali
interessi impone però una considerazione tanto storica quanto dialettica”, in HABERMAS, Arbeit –
Erkenntnis – Fortschritt. Aufsätze 1954-1970, de Munter, Amsterdam 1970, p. 160 sgg. (raccolta di saggi
non autorizzata dall’autore).
78
Erkenntnis und Interesse, p. 161 (p. 14).
79
Ibidem.
80
Ivi, p. 162 (p. 14).
In riferimento all’espressione aristotelica “vita buona”, impiegata da Habermas, risulta essere
significativo quanto sostenuto da Theunissen nel suo confronto tra Habermas e Horkheimer: “[Kritische
Theorie] hat sich seit je gegen das instrumentelle Denken abgegrenzt, das bloß Mittel für die Erreichung
von vorgegebenen Zielen herausfindet. Sie nämlich will das Ziel selber bestimmen, und zwar das im
aristotelischen Sinne vollkommene, das nicht wiederum zum Mittel werden kann. Mit Aristoteles
131
Si è visto come Habermas postuli l’esistenza di tre categorie di sapere possibile,
ognuna dipendente da specifiche visuali prospettiche; si tratta di “informazioni” che
ampliano il raggio d’azione della disposizione tecnica, di “interpretazioni” che orientano
l’agire all’interno delle tradizioni, e di “analisi” che svincolano la coscienza dalla
subordinazione a poteri ipostatizzati. I punti di vista sopra descritti si desumono dal nesso
con gli “interessi di un genere che è vincolato in partenza a determinati mezzi della
socializzazione: lavoro, linguaggio e dominio”81: attraverso questi “mezzi della
socializzazione”, prosegue l’argomentazione habermasiana, si garantisce l’esistenza del
genere umano. Il sistema del lavoro sociale, il linguaggio quotidiano – che consente agli
uomini di vivere assieme, facendo da mediazione all’interno della tradizione – e
l’“identità dell’io” – che fortifica la coscienza del singolo in relazione alle norme del
gruppo sociale cui appartiene – sono i mezzi sui quali si fondano l’organizzazione e lo
sviluppo sociali. Conseguentemente, gli interessi conoscitivi sono congiunti a quelle
funzioni dell’io che gli permettono di apprendere dalle situazioni esterne alla propria vita,
di formarsi nel contesto comunicativo dell’ambiente sociale e di creare la propria identità
nelle situazioni di conflitto tra istinti e coercizioni sociali. Tutto ciò, argomenta
Habermas, va a confluire nelle forze produttive della società, nella tradizione culturale e
in quei consensi che possono essere soggetti tanto ad approvazione quanto a critica. Dalla
situazione appena descritta Habermas evince la sua terza tesi: “gli interessi che guidano
la conoscenza si formano nel mezzo del lavoro, del linguaggio e del dominio”82.
Lavoro, linguaggio e dominio, rileva Evans, generano gli orientamenti e gli interessi
antropologici fondamentali, che regolano lo sviluppo delle possibili conoscenze,
descrivendo, in realtà, il legame che salda tra loro la «conquista trascendentale»
(transzendentaler
Errungenschaft)
e
la
«storia
naturale
del
genere
umano»
(Naturgeschichte der Menschengattung). Secondo tale interpretazione, si chiarisce il
significato che Habermas conferisce al concetto di «trascendentale», il quale assume una
kennzeichnet sie es als das „gute Leben“. Die Definition des „gute Lebens“ als des obersten Ziels soll die
geschichtliche Gegenwart auf ihrem Weg in die Zukunft leiten. Das instrumentelle Denken, das bloß auf
Mittel sinnt, macht sich selbst zum Mittel für die „Reproduktion“, für die Erhaltung und Steigerung des
Ganzen, in das es sich integriert. Hingegen versucht die kritische Theorie das gute Leben einer
Gesellschaft je aufs neue dadurch zu bestimmen, dass sie auf die Form der Gesellschaft selber, auf das
Gesellschaftssystem reflektiert”, in THEUNISSEN, Kritische Theorie der Gesellschaft, cit., p.11.
81
Erkenntnis und Interesse, p. 162 (p. 14).
82
Ivi, p. 163 (p. 15).
132
nuova connotazione, tanto nei confronti della tradizione idealistica tedesca, quanto nei
confronti della fenomenologia husserliana: come presupposto trascendentale, gli interessi
guida della conoscenza stabiliscono “le regole metodologiche per l’organizzazione dei
processi di ricerca”83.
Tra i media che permettono agli interessi guida della conoscenza di rendersi
manifesti, il linguaggio è quello che acquisisce maggior rilevanza nell’analisi
habermasiana. Infatti, “ciò che ci distingue dalla natura è l’unico dato di fatto che
possiamo conoscere per sua natura: il linguaggio”84. L’interesse all’emancipazione, che è
possibile conoscere a priori e che quindi non è una mera apparenza, è compreso nella
struttura stessa del linguaggio:
l’emancipazione è posta per noi già con la sua struttura. Con la prima proposizione
viene espressa inequivocabilmente l’intenzione di un consenso universale e non
imposto. L’idea di emancipazione è l’unica di cui siamo capaci, nel senso della
tradizione filosofica85.
Riprendendo l’accezione del concetto di ragione contemplata nella tradizione
dell’Idealismo tedesco – per il quale esso contiene al suo interno tanto la volontà e la
coscienza, quanto il volere stesso della ragione – Habermas rinviene nell’autoriflessione
della conoscenza quel potenziale emancipativo che solo può realizzare la riflessione in
quanto tale. Egli può così sostenere la sua quarta tesi: “conoscenza e interesse coincidono
nella forza della riflessione”86.
Affinché il potenziale comunicativo, che si esplicita in forza del linguaggio, possa
trovare un’adeguata espressione, è necessario che il contesto in cui si dispiega sia quello
83
“Diese Medien rufen die grundlegenden anthropologischen Orientierungen und Interessen hervor, die
die Entwicklung möglicher Erkenntnis regulieren. Deutlich zeigt die Verbindung von »transzendentaler
Errungenschaft« mit der »Naturgeschichte der Menschengattung«, dass das Wort »transzendental«
gegenüber der Tradition des deutschen Idealismus wie auch der Husserlschen Phänomenologie neu
interpretiert wird […]. Als transzendentale Grundlage bestimmen Erkenntnisinteressen die
»methodologischen Regeln für die Organisation von Forschungsprozessen«. Obwohl sie aus
fundamentalen Lebenszusammenhängen hervorgehen, haben diese Strukturen transzendentale Funktion.
Habermas spricht von ihnen daher als »quasi-transzendental«. Sie präformieren »auf dem Wege über die
Logik der Forschung den Sinn der Geltung möglicher Aussagen dahingehend […], dass sie, soweit sie
Erkenntnisse darstellen, nur in diesen Lebenszusammenhänge eine Funktion haben – eben technisch
verwertet oder praktisch wirksam sind«”, in EVANS, Husserl und Habermas, cit., p. 272.
84
Erkenntnis und Interesse, p. 163 (p. 15).
85
Ibidem.
86
Ivi, p. 164 (p. 15).
133
di una società emancipata, ossia di una società matura; la maturità dei suoi membri,
prosegue l’argomentazione habermasiana, rende possibile un dialogo che si sottrae al
dominio “di tutti con tutti”, nonostante sia proprio da questo dialogo che si genera sia il
modello dell’identità dell’Io nella reciprocità, sia la possibilità stessa di un accordo reale.
L’«anticipazione della vita riuscita», così la definisce Habermas, fonda la verità delle
proposizioni, al contrario di quanto sostiene tradizionalmente la filosofia, secondo la
quale l’emancipazione derivante dal linguaggio è un che di reale e, quindi, non solo un
qualcosa di derivato: tale atteggiamento comporta la trasformazione della teoria in
ideologia. Per Habermas, nel momento in cui la filosofia prende coscienza della
coercizione violenta – e della connessa deformazione che trasfigura continuamente il
dialogo – e si rende promotrice del cambiamento, eliminando le tracce del dominio nel
corso dello svolgersi dialettico della storia, allora si rende possibile
il progresso del genere umano verso l’emancipazione. Come quinta tesi vorrei allora
proporre questa affermazione: L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una
dialettica, che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle tracce storiche del
dialogo represso87.
Ciò che permane della filosofia all’interno delle scienze, ribadisce Habermas, è
l’aspetto di teoria pura, che ne salvaguarda l’autocomprensione, conferendo al contempo
il senso, ma non già la prassi di ricerca. L’oggettivismo, che si genera dall’omissione
della riflessione sul rapporto tra conoscenza e interesse, assicura il successo
metodologico alle scienze, ma non elimina i limiti interni che lo caratterizzano: secondo
l’interpretazione habermasiana, infatti,
appena l’apparenza oggettivistica viene rovesciato in senso ideologico-affermativo, la
necessità del metodologicamente inconsapevole trapassa nella dubbia virtù di una
dichiarazione di fede scientista. L’oggettivismo non impedisce affatto alle scienze di
penetrare nella prassi della vita […]. Tuttavia non dispiegano un’efficacia pratica eo
ipso nel senso di una crescente razionalità dell’agire. Piuttosto, un’autocomprensione
87
Ibidem (p. 16).
134
positivistica delle scienze nomologiche dà impulso a sostituire con la tecnica un agire
razionalmente illuminato88.
La prolusione francofortese Conoscenza e interesse mostra con chiarezza l’intento
habermasiano di condurre un’indagine epistemologica sulle scienze ed internamente ad
esse, non solo per poter far emergere lo status scientifico di un nuovo tipo di teoria critica
della società, ma anche per indicare con chiarezza il contesto entro cui inserire la
fondazione della teoria sociale. Come sottolinea Honneth, infatti, l’obiettivo di Habermas
è quello di “fondare l’epistemologia stessa come una forma di teoria sociale, concependo
le diverse forme di conoscenza come componenti universali della riproduzione della
società”89.
Verso la conclusione del saggio si ritrova un’affermazione piuttosto indicativa del
mutato atteggiamento habermasiano nei confronti della filosofia della storia, che, come si
è visto, sembrava precedentemente condivisa con Horkheimer. Infatti il filosofo ritiene
che la negazione acritica dell’interesse all’emancipazione, sostenitrice del senso
tradizionale della teoria, immetta inevitabilmente il processo di sviluppo del genere
umano all’interno del contesto di una filosofia della storia che, coercitivamente e
dogmaticamente, impone direttive per l’azione. Secondo Habermas,
una filosofia accecante della storia è però solo l’altra faccia del decisionismo
accecato: la partiticità imposta burocraticamente va fin troppo d’accordo con una
neutralità rispetto ai valori intesa erroneamente in senso contemplativo90.
Solo una critica in grado di eliminare l’apparenza oggettivistica può, al contempo,
schierarsi contro la “coscienza limitata, scientistica, della scienza” e permettere il
manifestarsi della connessione, volutamente celata, di conoscenza e interesse. Anche una
filosofia, conclude quindi Habermas, che si costituisce e ottiene contemporaneamente la
propria verifica su ciò che resta dell’ontologia,
88
Ivi, pp. 165-166 (pp. 16-17).
“[…] da ciò deriva l’idea di un’analisi della società, fondata come critica del positivismo, che motiva la
sua impostazione originaria. Questa si fonda sull’analisi epistemologica dei rapporti tra modelli d’azione
fissati antropologicamente, interessi che guidano all’azione e modalità sociali di razionalità”, in
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 283.
90
Erkenntnis und Interesse, p. 167 (p. 17).
89
135
resta una specialità accanto alle scienze e al di fuori della coscienza pubblica, finché
sopravvive nell’autocomprensione positivistica delle scienze, come l’eredità della
tradizione, da cui si è svincolata criticamente91.
Excursus. Gehlen e la teoria delle istituzioni: la critica di Habermas.
Come si è osservato, in questa prima fase del pensiero di Habermas il concetto di
interesse costituisce il nucleo principale delle riflessioni del filosofo, in particolare nella
sua contrapposizione al positivismo. Si è, inoltre, già considerato lo stretto legame che
unisce la sistemazione habermasiana della questione degli interessi guida della
conoscenza con la produzione di Horkheimer risalente agli anni Trenta. È, tuttavia,
significativo mostrare l’esistenza di un riferimento per la definizione concettuale degli
«interessi» che non si limita alle riflessioni horkheimeriane. Secondo Habermas,
l’interesse rappresenta innanzitutto il modello d’orientamento prescientifico, che permette
il costituirsi della realtà come oggetto d’esperienza per l’essere umano; in tal modo, come
rilevato da Honneth, la categoria di interesse svolge “la stessa funzione epistemologica
che, nel testo di Horkheimer, aveva assunto la categoria del «Verhaltensbezug», utilizzato
in modo non sistematico”92. Tuttavia, prosegue l’analisi di Honneth, la connessione tra
queste categorie non è da imputare, nel caso di Habermas, alla riproposizione e
applicazione dell’epistemologia marxiana, quanto piuttosto “ad una ricezione precoce
dell’antropologia filosofica, ad un relativo impadronimento [una relativa appropriazione]
del pragmatismo americano e dell’ermeneutica filosofica”93. In effetti, è doveroso qui
ricordare che Habermas aveva svolto i suoi studi universitari a Bonn, dopo Gottinga e
Zurigo, sotto la guida di Erich Rothacker, teorico delle scienze dello spirito di scuola
diltheyana, filosofo e antropologo, e Oskar Becker, allievo di Husserl della stessa
generazione di Heidegger94. Se si considera questo background, fortemente orientato in
91
Ivi, p. 168 (p. 18).
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., pp. 283-284.
93
Ivi, p. 284.
94
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 553.
Si veda anche quanto affermato da Habermas nell’intervista del 1977, rilasciata a G. Freudental: “Gewiss,
neben Gehlen las man jetzt wieder Plessner, wenn man sich mit philosophischer Anthropologie, neben
Oskar Becker wieder Eugen Fink und Ludwig Landgrebe, wenn man sich mit Phänomenologie
beschäftige; auch Löwiths in der Emigration entstandene Bücher wurden benutz; aber von Marx war
ebensowenig die Rede wie von analytischer Philosophie, von Freud, von Soziologie und
Gesellschaftstheorie”, in Kleine politische Schriften I-IV, p. 469.
92
136
senso antropologico e ontologico, non sembra del tutto fuori luogo ritenere che lo stimolo
per l’elaborazione del concetto “interesse guida della conoscenza” provenga anche dallo
studio dell’antropologia di Gehlen. Un significativo dato a sostegno di questa tesi lo si
può del resto ricavare dalla voce Antropologia, redatta da Habermas sul finire degli anni
Cinquanta per il Lexicon Fischer, nella quale il riferimento al pensiero antropologico
gehleniano è dominante.
Innanzitutto, vi è il riferimento all’uomo come “essere carente”, indeterminato per
natura, la sussistenza del quale dipende dalla possibilità di dominare e “creare
praticamente un proprio ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale” nel quale vivere
e prosperare”95. Habermas, riferendosi a Gehlen, e in particolare al testo Der Mensch96,
afferma:
per natura non specializzato, l’uomo dipende da movimenti controllati che devono
potersi variare in qualsiasi circostanza secondo diverse considerazioni; l’orientarsi nel
mondo e la direzione dell’agire sono una cosa sola: l’uomo si costruisce il suo mondo
e l’essere-nel-mondo97.
Con ciò Habermas riconosce a Gehlen l’aver ricondotto il costituirsi dell’uomo e del
proprio ambito d’esperienza alla sfera di un agire che ne produce e ne afferma la natura
come «handelndes Wesen». L’espressione «essere-nel-mondo», qui impiegata da
Habermas, mette in luce come, nella fase più giovanile del suo pensiero, il filosofo sia
95
“Nella sua opera principale L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo Gehlen si propone di
tratteggiare una nuova immagine dell’uomo, ricercata attraverso un confronto costante con le scienze
umane e, in special modo, con le discipline bio-morfologiche, psicologiche e sociali. […] l’uomo è un
“essere carente”, cioè non dotato di organi e funzioni “specializzati” tali da conformarlo subito e
adeguatamente a un determinato ambiente naturale. La sua possibilità di adattamento e sopravvivenza è,
invece, è legata al fatto che, unico tra gli esseri naturali, è in grado di creare un proprio ambiente socioculturale, un “mondo artificiale” nel quale vivere e prosperare. L’elaborazione di una “sfera culturale” in
senso lato è una caratteristica peculiare dell’uomo, è la condizione necessaria e sufficiente della sua
sopravvivenza”, in M. T. PANSERA, Prospettive etiche dell’antropologia gehleniana, in Id. (a cura di),
Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano 2005, p. 165.
96
A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Frankfurt a. M.-Bonn 1940 (tr.
it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e la sua posizione nel mondo, Feltrinelli, Milano1983).
97
HABERMAS, Anthropologie, in Das Fischer Lexicon Philosophie, hrsg. von A. Diemer und I. Frenzel,
1958; (tr. it. Antropologia, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, “Filosofia”, vol. 14, a cura di G. Preti,
Milano 1966, p. 28).
Ne L’uomo si legge: “L’uomo è l’essere che agisce. In un senso che dovremo precisare meglio, egli non è
“definito”, è cioè ancora compito a se medesimo; è, come si può anche dire, l’essere che prende
posizione. Gli atti del suo prendere posizione verso l’esterno chiamiamo azioni, e, proprio perché egli è
anche compito a se medesimo, prende posizione verso se stesso e “fa di se stesso qualcosa””, in
GEHLEN, L’uomo, tr. it. cit., p. 58.
137
ancora in un certo qual modo inserito all’interno di una cornice di pensiero che si rifà
all’“analitica
heideggeriana
dell’esistenza”,
facendo
corrispondere
all’analisi
antropologica “la dimostrazione fenomenologicamente condotta del fatto che l’uomo
progetta il mondo in cui si trova, attraverso le modalità del suo «essere-nel-mondo»”98.
Le posizioni di Heidegger e Gehlen sembrano quindi convergere, sebbene da prospettive
differenti – ontologia esistenziale per il primo e antropologia per il secondo – in un
assunto comune, ossia la definizione dell’orientamento umano nel mondo come
conseguenza della “singolare costrizione ad un impegno pratico-corporeo che segna
l’uomo a livello esistenziale e biologico”99. Nella voce Antropologia, Habermas rileva
come l’orientarsi dell’uomo nel mondo sia garantito da quella che può essere definita
“circolarità d’azione”, vale a dire una connessione di attività attraverso le quali l’essere
umano coordina tatto, vista e linguaggio nella costruzione senso-motoria del mondo. Tra
queste attività, il linguaggio costituisce il senso privilegiato, dal momento che esso
“rende possibile liberarsi dalle pressioni dell’hic et nunc, dall’immediatezza delle
suggestioni del senso e delle reazioni istantanee”100; per mezzo delle parole e dei
significati che queste esplicitano l’uomo può, dunque, prevedere e al contempo gestire “il
campo di sorpresa”, riuscendo a passare dal piano della contingenza a quello inerente
cose e fatti non immediatamente avvertibili. Tale considerazione si collega ad un
elemento peculiare dell’antropologia di Gehlen esposta ne L’uomo, consistente nella
determinazione dell’essere umano come sostanzialmente soggetto – si potrebbe dire
soggiogato – alla componente istintuale, dotato di un eccesso pulsionale e «aperto al
mondo»101. Ora, il linguaggio sembra qui differenziare l’uomo dall’animale, in quanto
permette il controllo e la gestione degli impulsi, così ampiamente diffusi nell’uomo.
Come scrive Habermas,
98
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 284.
Ivi, pp. 284-285.
100
HABERMAS, Antropologia, tr. it. cit., pp. 28-29.
101
“Ciò posto, soffermiamoci sopra uno degli aspetti più importanti del principio che abbiamo
menzionato: l’“apertura al mondo”, il trovarsi esposti […] a un flusso enorme, e di quasi nessuna
rispondenza organica, di impressioni percettive, il quale, se dapprima costituisce un onere, rappresenta
anche la condizione per poter condurre esistenza umana, qualora, si badi bene, tale apertura al mondo sia
direttamente, attivamente padroneggiata. La ricchezza e la molteplicità del mondo accessibile all’uomo e
che a lui affluisce celano anche, in questo o quel punto, l’opportunità di esperienze inattese e affatto
imprevedibili, che è possibile trasformare in aiuto nella lotta per la vita, in un passo avanti nella
conservazione della vita. Ovvero, in diverse parole: l’apertura dell’uomo al mondo è tanto illimitata e
inselezionata nella sua molteplicità, appunto perché l’uomo, nel caos delle circostanze, tra tutte le
condizioni deve rinvenire anche quelle da cui possa trarre un ausilio, uno strumento, un’esperienza
utilizzabili, se in generale deve poter esistere”, in GEHLEN, L’uomo, tr. it. cit., pp. 65-66.
99
138
l’energia degli impulsi si dispiega nella costruzione dell’esperienza stessa e può
riprodursi dopo l’azione; è proprio un’eccedenza costituzionale degli impulsi che pone
l’uomo nella necessità di elaborali. Pertanto Gehlen pensa che nella natura dell’uomo
si debba vedere un “frutto dell’educazione”102.
Habermas nota, in un passo del testo immediatamente successivo, come questa
proposta di Gehlen di poter desumere la natura dell’uomo solamente dal possibile
dominio pratico esercitato sulla natura, non sia esente da impervietà. Riprendendo il
pensiero di Theodor Litt e l’idea che nel rapporto dialettico le forme più elevate dello
spirito sono funzionali alla vita solo nel momento in cui infrangono il circolo della mera
riproduzione di vita, Habermas rileva una prima difficoltà: la riduzione antropologica di
Gehlen riporta ogni momento dello spirito a qualcosa che possa essere posto al servizio
della vita, contraddicendo in ciò la natura del circolo dialettico. Ciò significa, secondo
l’interpretazione habermasiana, che nella prospettiva di Gehlen le manifestazioni
superiori dello spirito altro non rappresentano se non le direzioni necessarie lungo le quali
si svolgono le prestazioni biologico-antropologiche. Tuttavia, il solo criterio biologico
non è sufficiente per spiegare nella sua completezza l’intero comportamento sociale,
poiché
una cieca riproduzione della vita per la vita è indifferente alle barbarie e all’umanità
civile, è indifferente alla qualificazione di un’esistenza che dalla natura sia stata
esposta, per così dire, sulla soglia del rischio fra verità e non-verità103.
La tendenza qui presupposta da Habermas, circa l’intenzione di Gehlen di voler
ridurre la capacità d’azione – distintiva dell’essere umano rispetto agli animali – alla sola
possibilità di un impossessamento pratico della vita per il tramite del lavoro, determina
necessariamente il fatto che le espressioni umane dell’azione distruggono la circolarità
della riproduzione della vita. Honneth intravede in questo punto un’obiezione che ricopre
un ruolo centrale nella successiva elaborazione della teoria habermasiana, dal momento
che “ad essa si lega immediatamente la questione di quali altre forme di espressioni vitali
102
103
Ivi, p. 29.
Ibidem.
139
e di capacità d’azione debbano confarsi specificatamente all’uomo al di là della capacità
di azione strumentale”104.
L’argomentazione habermasiana prosegue
rilevando
che,
accanto
all’agire
strumentale – inteso come il tramite per rendere “disponibile la vita” – Gehlen pone un
secondo tipo di azione, corrispondente alla «mimesi» o «comportamento figurante». Il
comportamento mimetico svolge la funzione di ridurre la componente istintuale
dell’uomo, permettendo l’instaurarsi di un nuovo rapporto tra l’essere umano e gli
“«stimoli evocatori» a cui gli animali reagiscono istintivamente”105. La conseguenza più
significativa della nuova relazione si manifesta nel fatto che, negli uomini, questi stimoli
non suscitano più “schemi di comportamento congeniti”, bensì solamente una “scossa
emotiva non indirizzata”, ossia quella che Gehlen definisce “pressione di reazione
istintiva residua”; tale forma di risposta si trasforma in imitazione, la quale rende
possibile il passaggio da un obbligo indeterminato a fare qualcosa alla rappresentazione
dell’espressione, ossia all’attribuire appellativi – come si verifica ad esempio nei riti
figurativi, nelle rappresentazioni pittoriche e nel dare un nome alle cose –106.
Da quanto appena osservato, Habermas evince un’importante conseguenza, in
relazione al configurarsi della conoscenza. Se da un lato, come si è visto, il conoscere è
per sua natura mediato dal lavoro e dall’interazione che si compie nell’agire sociale,
nell’analisi gehleniana si mostra anche la sua componente teoretica, che si dispiega al
contempo
praticamente
completamente
dalla
nella
mimesi:
conoscenza
“la
conoscenza
fisiognomica”107.
tecnognomica
Riprendendo
la
dipende
Dialettica
dell’illuminismo e il riferimento in essa contenuto all’agire mimetico108, Habermas
intravede nella mimesi “l’unità precoce di teoria e prassi”: essa si scinde nelle sue
104
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 296.
HABERMAS, Antropologia, tr. it. cit., p. 29.
106
A tale proposito è interessante quanto rilevato da Honneth: “Habermas, rinviando ai tardi scritti di
Gehlen, sottolinea il significato dell’agire mimetico-rappresentativo per il modo di vivere degli uomini,
ma la tesi non conduce, in alcun caso, all’affermazione di un secondo potenziale d’azione dell’uomo,
equiparato all’agire del lavoro. Habermas […] è troppo influenzato da una filosofia della storia stilizzata
sul marxismo heideggeriano, per potersi allontanare dall’idea di una produzione della storia
esclusivamente ad opera del lavoro umano, idea già determinante per Horkheimer e Adorno”, in
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 296.
107
HABERMAS, Antropologia, tr. it. cit., p. 30.
108
“Come segno il linguaggio deve limitarsi ad essere calcolo; per conoscere la natura, deve abdicare alla
pretesa di somigliarle. Come immagine, deve limitarsi ad essere copia: per essere interamente natura,
abdicare alla pretesa di conoscerla”, in HORKHEIMER-ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. cit.,
p. 25.
105
140
componenti, ma rende pur sempre visibile “la duplice radice della figurazione
fisiognomica e dell’ordinamento tecnognomico”109.
Se, pertanto, come argomenta Habermas, alla scissione sopra descritta corrisponde la
separazione tra «gestire espressivo» e agire – e ognuno di questi non è riconducibile
all’altro – ne consegue una forma di antropologia che privilegia la dimensione
dell’azione, privando della sua importanza la gestione espressiva o, peggio, eliminandola
completamente. Al contrario, Habermas sottolinea l’importanza del gestire espressivo,
anche rifacendosi ad altri antropologi, quali Helmut Plessner:
nel gestire espressivo, che con l’uso umano di indumenti si restringe sostanzialmente
all’espressività facciale […], l’uomo è vicino all’animale. L’unica differenza consiste
nel fatto che l’uomo sa parlare e inserire ogni suo gesto al posto del linguaggio. […] Il
gestire ha un significato, col gesto l’uomo porta a significazione qualcosa110.
Ma sono sufficienti le attività espressive per porre sotto la giusta luce ciò che
differenzia l’essere umano dagli animali? È sufficiente la capacità di interagire solo
attraverso espressioni corporee perché si creino le condizioni per un universo di vita
sociale all’interno del quale l’uomo possa necessariamente inserirsi? I gesti espressivi che
caratterizzano inconfondibilmente l’uomo – come ad esempio il riso o il pianto (Plessner)
– dovrebbero mettere l’uomo nelle condizioni di accordare
il corpo materiale che egli ha, e l’organismo vivente in cui abita: o egli fa svolgere al
corpo una funzione strumentale, nell’azione e nel gesto, oppure lo mette in libertà
come corpo di risonanza, nel gestire espressivo; il linguaggio sta in mezzo a queste
due possibilità111.
Riprendendo il pensiero del suo maestro Erich Rothacker, Habermas condivide
l’assunto secondo il quale non è possibile – in quanto troppo astratto – parlare di
un’apertura verso il mondo da parte degli uomini, per mostrare ciò che pone la differenza
nei confronti degli animali. Gli uomini non vivono “il” mondo astrattamente concepito,
come non parlano “il” linguaggio: essi sono sempre inseriti nei mondi delle loro società
109
HABERMAS, Antropologia, tr. it. cit., p. 31.
Ibidem.
111
Ibidem.
110
141
concrete, allo stesso modo degli animali. Tanto interessi e abitudini legate alle tradizioni,
quanto la corrispondente immagine del mondo, sono collocati all’interno di un sistema di
lavoro sociale o di specifici istituti politici, e tale condizione si mostra secondo le
caratteristiche peculiari
di un ambiente che è sì di gran lunga più ricco degli ambienti di tutte insieme le specie
animali, ma cionondimeno in qualche modo è pur sempre “chiuso”, per l’appunto non
“oggettivo”, non aperto ad una quantità a piacere di fatti o per principio a tutti i fatti
possibili. […] Quale che sia la realtà effettuale, essa in ogni caso offre illimitatamente
più possibilità di divenire contenuto di percezioni e di constatazioni, di quanto non
avvenga di fatto. […] la realtà effettuale è di gran lunga più ricca di qualsiasi
determinata ‘immagine del mondo’ ad essa riferita112.
Ciò che Habermas intende qui evidenziare è il dato ineludibile, per l’uomo, di essere
sempre vivente e agente in un concreto contesto di vita sociale, e mai in un generico
mondo. Gli uomini sono coinvolti in un singolare rapporto tra il proprio ambiente e
l’apertura verso il mondo, ma essi non possono realizzare la propria esistenza in una sola
di queste dimensioni: il mondo di vita è sì circoscritto da determinati interessi e
prospettive, ma è sempre “stilizzato artificialmente” e mai solo naturale. Da questa
constatazione emerge un aspetto assai rilevante per la prospettiva con cui Habermas
intende l’analisi antropologica, in particolare riferendosi a Gehlen: il rapporto dialettico
che mette in relazione l’immanenza e la trascendenza delle connessioni sociali di vita è di
natura storica, poiché “l’uomo è un essere storico e soltanto nella storia diviene ciò che
“è”: un dato di fatto inquietante per un’antropologia che abbia a che fare con la “natura”
dell’uomo, con ciò che è in comune in ogni tempo a tutti gli uomini”113.
La natura storica dell’uomo, così vigorosamente ribadita da Habermas, cozza
inevitabilmente contro la possibilità – di fatto realizzata da Gehlen nella sua antropologia
– di redigere un elenco di strutture invariabili o «costanti antropologiche», di “portare alla
luce – come rilevato da Wolf Lepenies – “le radici biologiche dell’etica e della
112
113
Ivi, p. 34.
Ivi, p. 35.
142
morale”114; eppure, prosegue l’argomentazione, l’antropologia continua ad incedere
ontologicamente, nella ricerca di ciò che permane immutato, di ciò che è costante nel
genere umano e nel modo d’agire ad esso pertinente, correndo il rischio di degenerare in
un “discorso acritico” che confluisce in una “dogmatica con conseguenze politiche”.
È a questo punto, ossia sulla necessità dell’esistenza di strutture invariabili, che si
inserisce uno dei punti dell’antropologia di Gehlen più aspramente criticati da Habermas,
vale a dire il concetto di «istituzione». Nel saggio del 1956 Arnold Gehlen. La crisi delle
istituzioni115, Habermas riprende la definizione gehleniana di uomo come un essere
vincolato dall’istinto, caratterizzato da un eccesso pulsionale e aperto al mondo, e
qualifica l’antropologia che ne sta alla base come mirante “a una meccanica della
sopravvivenza nel quadro di una situazione «biologicamente disperata»”116. L’uomo è
spinto ad agire per porre un rimedio alle sua congenite mancanze, salvandosi però “solo
per un istante”: egli non può fare affidamento su se stesso per sopperire al bisogno di
garanzie permanenti e necessita, quindi, di una «seconda natura» che si consolidi al
livello dell’apprendimento comportamentale, ossia stabilendo “le norme dell’agire
umano”117. Secondo Habermas, a ciò pone rimedio
l’istituzionalizzazione dell’agire, sollevandoci dal pensiero di dover continuamente
rinnovare e improvvisare motivazioni e orientamenti. Così anche l’istituzione diventa
deducibile nel quadro del modello di Gehlen. Anche se, in realtà, «deducibile»
significa soltanto ch’essa è necessaria alla sopravvivenza di un essere che è per sua
natura debole o addirittura incapace di vivere118.
Ne L’uomo – e, con un’elaborazione più precisa, in Urmensch und Spätkultur119 –
Gehlen afferma che “un sistema direttivo è sempre il sistema di un’istituzione e che
114
W. LEPENIES – H. NOLTE, Kritik der Anthropologie. Marx und Freud, Gehlen und Habermas über
Aggression, Carl Hanser Verlag, München 1971; (tr. it. di L. Sosio, Critica dell’antropologia. Marx e
Freud, Gehlen e Habermas sull’aggressività, Feltrinelli, Milano 1978, p. 89).
115
HABERMAS, Arnold Gehlen. Der Zerfall der Institutionen, in Id. Philosophisch-politische Profile,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981; (tr. it. di L. Ceppa, Arnold Gehlen. La crisi delle istituzioni, in Profili
politico-filosofici, Guerini e Associati, Milano 2000).
116
Ivi, p. 101 (p. 73).
117
LEPENIES, Critica dell’antropologia, tr. it. cit., p. 85. Lepenies afferma inoltre che “in questa fase
Gehlen può fare a meno di un’etica particolareggiata: essa è già contenuta completamente nel concetto
dell’uomo come “essere disciplinato””.
118
HABERMAS, Der Zerfall der Institutionen, pp. 101-102 (p. 74).
119
GEHLEN, Urmensch und Spätkultur, Klostermann Seminar, Frankfurt a. M. 2004.
143
dunque, in altre parole, un sistema direttivo […] può essere scientificamente e
oggettivamente compreso solo in rapporto alle istituzioni sociali nelle quali s’incarnò e
visse”120. Nella teoria delle istituzioni, come indica Karl-Siegbert Rehberg, Gehlen
focalizza l’attenzione sull’agire e sui risultati socio-culturali prodotti dall’uso degli
strumenti nell’azione; da ciò egli evince che la modalità con cui l’uomo si rapporta
concretamente alle cose perviene ad una propria dinamica e una propria validità,
comportando degli obblighi. La validità, che qui si impone, stabilisce un ordine e, al
contempo, fonda l’oggettività delle istituzioni. Ed è proprio nella teoria delle istituzioni
che è possibile intravedere “la transizione alla problematica sociologica, alla possibilità di
stabilire un collegamento anche con l’antropologia sociale e culturale”121.
Habermas equipara “l’irriflesso atteggiamento” del metodo impiegato da Gehlen a
quello caratteristico delle scienze sperimentali, l’«intenctio recta», poiché l’antropologia
gehleniana gli appare pervasa dal pathos della ricerca empirica. L’obiettivo di Gehelen è
quello di “elaborare le categorie comportamentali prescindendo dalla possibilità di
riempirne il contenuto «dall’interno»”122, senza tuttavia chiarire il significato di
«contenuto». Secondo l’analisi habermasiana, le categorie comportamentali esigono
sempre una comprensione a partire dal loro contenuto interno e sono sempre pensate sullo
sfondo della nostra società industriale moderna:
l’uomo come essere che agisce [handelnde] è concezione che necessariamente
rimanda a quella tradizione che – non soltanto a partire da Hegel e Marx – ha
sempre definito l’uomo (come pensiero oppure come lavoro) nei termini di un
essere che produce se stesso. E d’altro canto: se l’uomo fosse radicalmente
120
GEHLEN, L’uomo, tr. it. cit., p. 429.
Si veda anche quanto riportato a pagina 451: “Le istituzioni, dunque, fissano opportunità oggettive e
espansive, le cristallizzano, una volta che il comportamento ideativo le abbia enucleate; per questo la loro
idée directrice, la norma che le governa è sempre quell’idea sulla quale la coscienza ideativa si era
orientata dapprima. […] Riteniamo che la primaria, complessa connessione da noi esposta tra il
comportamento ideativo, l’obbligazione ascetica, l’inattesa opportunità ontologica che venne in tal modo
rivelandosi e la sua istituzionalizzazione sotto l’egida di un’unica idea direttiva costituisca l’autentico
nerbo della religione, al quale abbiamo avuto modo, almeno approssimativamente, di pervenire sul piano
filosofico. Questo nesso, la coscienza diretta, con le sue rappresentazioni, non riesce a pensarlo se non
nell’immagine di un essere superiore […] che ha fondato tali istituzioni”.
121
K.-S. REHBERG, Introduzione, in GEHLEN, L’uomo, tr. it. cit., p. 20. L’autore afferma inoltre che:
“una delle funzioni delle teorie gehleniane nel dopoguerra è stata di aver dimostrato in sede sociologica
tali collegamenti tra campi diversi, anche grazie all’elaborazione di tradizioni del pensiero e degli esiti
della ricerca nell’ambito anglo-americano”.
122
HABERMAS, Der Zerfall der Institutionen, p. 102 (p. 74).
144
tagliato fuori da ogni facoltà di comprensione, se egli non fosse in grado, in
linea di principio, di tradurre i testi di ciò che è «altro» da lui, dove andrebbe a
finire la sua tanto celebrata «apertura al mondo»? Ma non è toccata da queste
riserve la deduzione intelligente, fantasiosa e precisa dell’istituzione123.
Habermas afferma che le istituzioni, per loro stessa natura, derivino proprio dal
lavoro e dall’economia, siano essi di tipo primitivo e quindi finalizzati alla sola
sopravvivenza oppure di tipo più complesso, come per l’appunto quelli pertinenti alla
moderna società industriale; ogni tipo di lavoro è caratterizzato da “sistemi di abitudini
stabilizzanti e specializzanti”, ossia da strumenti. Il passaggio in forza del quale
l’istituzione diventa strumento – “sistema di strumenti e pratiche consigliate” – si verifica
non appena il suo scopo iniziale – il soddisfacimento di bisogni primari – viene
indirizzato oltre, sospeso o addirittura sostituito da altri scopi intermedi. È in questo
momento – prosegue l’argomentazione habermasiana – ossia nella netta separazione tra
«ragione originaria» e «scopo attuale», che l’istituzione diventa propriamente istituzione,
assumendo tutti i caratteri dell’abitudine e determinando l’emancipazione del
comportamento dagli obiettivi originari; la possibilità di “porre un freno ai bisogni
primari”, fino alla loro cessazione, conduce, come rilevato da Wiggerhaus, “alla forma
più alta di istituzione: quella di entità concretamente esistenti eppur trascendenti, punti di
cristallizzazione di una «trascendenza nell’aldiqua» a partire dai quali si è operato”124.
Secondo Habermas, quindi,
quando gli strumenti cessano di essere guidati dai loro fini, e si rovesciano in una
legalità autofinalizzata e automatizzata, allora l’uomo apprende ad agire sulla base
della stessa istituzione. I momenti pulsionali si spostano sull’oggetto e occupano
l’istituzione con contenuti normativi125.
Secondo l’interpretazione habermasiana, lo spostamento sopra descritto genera una
conseguenza ambivalente, poiché, da un lato, nel momento in cui l’agire si muove dal suo
scopo originario, si trasforma in un’abitudine, che è già contrassegnata da un valore
123
Ibidem (pp. 74-75).
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 604.
125
Ivi, p. 75.
124
145
intrinseco e che ora può ottenere ulteriori motivazioni; dall’altro, il comportamento perde
valore di razionalità e di libertà, rivolgendosi a obblighi “pregiudizialmente non
indagati”. Emerge qui, nella forma delle «autonomizzazioni delle azioni», un aspetto
decisamente vicino al presupposto marxiano di alienazione delle forze umane, impiegato
per descrivere il prodotto di un potere oggettivo sovrastante. Tuttavia, non è contemplata
da Gehlen la questione relativa all’esistenza di altre forme di vita possibili sulla scorta
della peculiare mancanza umana di dotazioni naturali e – questione assai centrale per
Habermas in questi anni – la possibilità di ricavare dall’ambito della storia forme di vita
realmente alternative. Gehlen ricorre alla teoria delle istituzioni poiché l’uomo che egli
considera è sostanzialmente “destinato al caos, da cui solamente una serie di istinti
sostituivi avrebbe potuto salvarlo”: le istituzioni rappresentano dei «quasi-istinti», dotati
di “un’assiomaticità indiscussa”, capace di riprodurre la stessa forza degli istinti
primordiali126.
Habermas contrasta l’idea, emersa dalle riflessioni sistematiche di Gehlen, che
l’uomo rappresenti nient’altro che “una bestia sfrenata”, necessitante di conseguenza
dell’apparato delle istituzioni, come istinti sostitutivi, per poter vivere nel mondo. A
quella che è considerata una forma di “antropologia pessimistica”, l’analisi habermasiana
contrappone l’idea generale della filosofia della storia, rinunciando definitivamente a
qualsiasi forma di antropologia invariante – come quella di Gehlen per l’appunto –.
Coerentemente alla linea di pensiero seguita negli anni Cinquanta, Habermas ritiene che
sia solo il terreno della filosofia della storia, da un lato, a mostrare il vero volto delle
istituzioni, a svestirle del loro potere oggettivo e a permettere una rivolta contro di esse ,
e dall’altro – mostrando la forza della pars costruens della sua critica – a “combinare
reciprocamente l’efficienza nel governo delle necessità quotidiane con una crescita della
partecipazione attiva e solidaristica nel rapporto sociale”127: la storia ha già mostrato la
pericolosità delle società fortemente istituzionalizzate, la nocività di «esistenze eroiche»
poste a fianco e supportate da gruppi agenti in modo quasi-istintivo. Alla proposta
paradossale di Gehlen di retrocedere intenzionalmente “all’ethos delle istituzioni grandi e
non trasparenti”128, Habermas contrappone l’idea che
126
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 605.
Ibidem.
128
HABERMAS, Arnold Gehlen. Nachgeahmte Substantialität , in Id. Philosophisch-politische Profile,
cit., p. 119; (tr. it. Arnold Gehlen. Sostanzialità contraffatta, in Profili politico-filosofici, cit., p. 91).
127
146
umanità significa non lasciare che si laceri questa rete paradossale [unwahrscheinlich].
Umanità è il coraggio di che ancora ci resta dopo aver visto come ai danni
dell’universale fragilità si possa resistere soltanto con il rischioso e fragile strumento
della comunicazione. «Nemo contra Deum nisi Deus ipse»129.
129
Ibidem.
147
CAPITOLO QUARTO
Erkenntnis und Interesse. Lo sviluppo sistematico della connessione di
conoscenza e interesse.
La prolusione francofortese del 1965, come afferma lo stesso Habermas, costituisce
la prima elaborazione dei punti di vista sistematici dell’analisi gnoseologica sugli
interessi, che a qualche anno di distanza l’autore rielabora in maniera più completa
nell’omonimo testo Erkenntnis und Interesse1. Questo volume, che come ricorda Cunico
è forse uno dei più celebri nella produzione habermasiana, riprende e prosegue il progetto
ambizioso del 1965, “non più soltanto di una critica immanente allo scientismo […],
bensì […] addirittura di una fondazione riflessivo-trascendentale della «teoria critica
della società» come forma «radicale» di «critica della conoscenza»”2. L’intento
programmatico di Habermas emerge fin dalle prime righe della Premessa al testo, dove
egli presenta il compito che si propone di realizzare:
tenterò in una prospettiva storica una ricostruzione della preistoria del positivismo
moderno, con il proposito sistematico di un’analisi della connessione di conoscenza e
interesse. Chi segue il processo di dissoluzione della teoria della conoscenza con il
quale essa ha ceduto il posto alla teoria della scienza, risale gradi abbandonati della
riflessione. […] Rinnegare la riflessione: ecco il positivismo3.
Il testo di Habermas ricostruisce storicamente, a partire dall’età moderna, tanto la
genesi della definizione “teoria della conoscenza”, quanto il suo graduale deterioramento,
vale a dire l’estromissione radicale della filosofia dal confronto con la scienza, messa in
atto dallo stesso procedimento filosofico. Come rilevato da Wiggerhaus, Conoscenza e
interesse espone “il percorso storico-problematico che conduce a un’epistemologia
critica, la quale, a differenza della epistemologia scientista, si preoccupava di elaborare
1
HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968; (tr. it. di Gian Enrico
Rusconi, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari 1970. Terza edizione con l’aggiunta del Poscritto 1973,
trad. di Emilio Agazzi, 1983). Da qui EI.
2
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 70.
3
EI, p. 9 (p. 3).
149
una teoria complessiva delle forme di conoscenza estremamente differenziate delle
società industriali presenti nell’intera gamma delle scienze”4.
A partire dal XIX secolo, la teoria della conoscenza sembra coincidere perfettamente
con la definizione stessa di filosofia, nella forma di un’aderenza reciproca tale da fondere
insieme i due aspetti. Dimostrazione di ciò sono, per Habermas, tanto il razionalismo
quanto l’empirismo, entrambi indirizzati alla “delimitazione metafisica dell’ambito
oggettuale e alla giustificazione logico-psicologica di una scienza naturale connotata da
linguaggio formalizzato e sperimentazione”5. Non si verifica ancora, in tale contesto, la
coincidenza tra la scienza – nel senso della fisica sperimentale ad esempio – e la
conoscenza in generale, dal momento che, come afferma Habermas a proposito, lo statuto
della filosofia mantiene ancora solo uno “spazio legittimo alla scienza” e le teorie della
conoscenza conservano ancora un’ampia estensione – non limitata, cioè, alla conoscenza
scientifica sperimentale e senza l’equazione che la associava alla teoria della scienza –.
Anche con la filosofia di Kant – “con la cui problematica logico-trascendentale la teoria
della conoscenza giunge per la prima volta alla coscienza di se stessa ed entra nella sua
dimensione specifica” – la conoscenza teoretica detiene una condizione di maggior
rilevanza rispetto alla scienza: la critica gnoseologica si rivolge solo al sistema delle
facoltà conoscitive, comprese nella ragion pratica e nel giudizio riflettente. È con la
critica hegeliana alla questione logico-trascendentale derivata da Kant, con la
“metacritica” che sottopone ad una ferrea autoriflessione la conoscenza stessa, che si
verifica il mutamento della relazione tra filosofia e scienza, e quindi il loro definitivo
distacco. Habermas, infatti, intende sostenere la tesi che
dopo Kant la scienza non è più stata seriamente concepita da un punto di vista
filosofico. Da un punto di vista di teoria della conoscenza, e cioè come una categoria
di possibile conoscenza, la scienza è infatti concepibile solo sintanto che non è
identificata enfaticamente con il sapere assoluto di una grande filosofia, o ciecamente
equiparata all’autocomprensione scientistica dell’esercizio di ricerca di fatto6.
4
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 652.
EI, p. 11 (p. 7).
6
Ivi, p. 12 (p. 8).
5
150
Ciò che viene a mancare in tale frangente è la dimensione che permette la
realizzazione di un modello gnoseologico di scienza, in grado di legittimare e di rendere
comprensibile quest’ultima all’interno dell’ambito della conoscenza possibile. In tal
modo si creano le condizioni per un confronto tra un “sapere assoluto” e la “conoscenza
scientifica”, nel quale quest’ultima inevitabilmente appare come un qualcosa di limitato:
“unico compito rimane la dissoluzione critica dei limiti del sapere positivo”.
Tuttavia, se non sussiste alcun concetto della conoscenza che vada oltre la scienza
empirica vigente, allora di necessità si verifica la coincidenza di critica della conoscenza
e teoria della scienza, entrambe, cioè, si costituiscono in tutto unitario, limitato alla
“regolazione pseudonormativa” dell’organizzazione della ricerca. Secondo Habermas,
quindi, si verifica gradualmente un’inversione radicale del rapporto che inizialmente
poneva in relazione tra loro la filosofia e la scienza, un sovvertimento che conduce
all’estromissione della filosofia dal ruolo in precedenza svolto. A partire da tale
considerazione, lo stadio successivo, nella ricostruzione habermasiana, è quello che
caratterizza la situazione attuale, dal momento che la teoria della conoscenza, ormai
deprivata del proprio primato, viene sostituita dalla metodologia ormai abbandonata dalla
speculazione filosofica. Habermas evince in tal modo un dato estremamente rilevante ai
fini della determinazione del concetto di «scientismo; egli, infatti, scrive:
la teoria della scienza, infatti, che dalla metà del diciannovesimo secolo riceve
l’eredità della teoria della conoscenza, è una metodologia esercitata nella
autocomprensione scientistica delle scienze. ‘Scientismo’ significa la fede della
scienza in se stessa, ovvero la convinzione che non possiamo più intendere la scienza
come una forma possibile di conoscenza, ma dobbiamo identificare la conoscenza con
la scienza. Il positivismo […] si serve degli elementi sia della tradizione empiristica
che razionalistica per consolidare a posteriori la fede della scienza nella propria
esclusiva validità, anziché per riflettervi e per spiegare sulla base di questa fede la
struttura delle scienze. Il positivismo moderno ha assolto questo compito con notevole
sottigliezza e indiscutibile successo7.
In questo passaggio fondamentale di Erkenntnis und Interesse si esplicita
chiaramente il significato attribuito da Habermas al termine scientismo, e si rende più
7
Ivi, p. 13 (pp. 8-9).
151
manifesto tanto il motivo della presa di posizione contro il positivismo, quanto la
centralità della tematizzazione del rapporto di conoscenza e interesse, emerso proprio
entro i confini del Positivismusstreit. «Scientismo» è, in primo luogo, la fede della
scienza nella propria validità, la fiducia in un accesso privilegiato alla verità, dal quale la
filosofia sembra essere irrimediabilmente esclusa. Come si è visto in occasione
dell’analisi inerente alla discussione con Popper e Albert, lo scientismo costituisce,
secondo Habermas, un metodo d’indagine appartenente all’ambito empirico, che, per il
tramite di elementi derivati dall’empirismo e dal razionalismo, pretende l’estensione del
suo impiego ad una sfera molto più ampia di conoscenze, travalicando i limiti dell’ambito
empirico-analitico. Per Habermas, quindi, si rende evidente il fatto che una situazione
così definita conduca inevitabilmente ad un riferimento indispensabile alla “teoria
analitica della scienza” ogniqualvolta si renda necessaria una discussione sulla possibilità
stessa della conoscenza.
A partire da tali considerazioni, Habermas indica quella che per lui rappresenta
l’unica via percorribile per ricreare le condizioni di possibilità d’accesso alla conoscenza,
censurate in maniera irriflessa dal positivismo: non una regressione alle condizioni
originarie, bensì “una analisi della connessione genetica della dottrina positivistica”,
capace di creare un collegamento con le condizioni contingenti; in tal senso,
una futura ricerca sistematica delle basi di interesse della conoscenza scientifica non
può astrattamente restaurare una teoria della conoscenza, ma solo ricondurre in una
dimensione che è stata aperta in un primo tempo dalla radicale autocritica di Hegel
alla gnoseologia, ma poi di nuovo sbarrata8.
Ed è, appunto, a partire dal filosofo di Stoccarda che Habermas dà inizio alla sua
ricostruzione storica del processo di dissoluzione della teoria della conoscenza e della
soppressione del rapporto tra conoscenza e interesse.
8
Ivi, pp. 13-14 (p. 9).
152
§.1. Da Hegel a Marx e ritorno. Tentativi di soluzione e nuove oscurità.
Lo strumento teoretico che ha permesso a Hegel di elaborare la propria critica
all’impianto gnoseologico della filosofia kantiana è costituito, secondo l’analisi
habermasiana, dall’«autoriflessione fenomenologica della conoscenza», ossia da
un’autoriflessione intesa come critica radicale esercitata sulla conoscenza. La
ricognizione habermasiana sulle riflessioni di Hegel si scontra fin da principio con un
nodo spinoso da risolvere, consistente nella chiarificazione preliminare della possibilità
reale della facoltà conoscitiva di essere sondata criticamente prima del conoscere stesso,
dal momento che questa stessa critica pretende per sé di essere conoscenza9.
Habermas sostiene che ogni teoria della conoscenza deve necessariamente
confrontarsi con tale dato di fatto, il quale non può essere eluso facendo ricorso all’idea
che i dati a disposizione sono provvisoriamente non problematici, poiché essi sono in
realtà potenzialmente problematizzabili. Un siffatto «procedimento aproblematico» – così
si esprime l’autore – accomuna questa posizione – postulata da Reinhold –
all’atteggiamento odierno dei positivisti, i quali sostengono l’impossibilità di una
problematizzazione contemporanea di tutte le affermazioni: i presupposti che
determinano il sistema di riferimento di un’analisi devono essere assunti come
aproblematici, se si pretende di portare a conclusione il procedimento intrapreso. Ciò
determina, quindi, l’esclusione di qualsiasi dubbio radicale, poiché è sempre ammessa
una forma di convenzionalismo che esclude ogni forma di fondazione dei propri principi.
Ora, secondo Habermas, la teoria della conoscenza, coerentemente alle proprie
esigenze filosofiche, ha come obiettivo il raggiungimento del tutto, ossia la
“giustificazione critica delle condizioni di possibilità della conoscenza in generale”10 e,
pertanto, non può fare a meno della radicalità del dubbio. Per tale motivo, prosegue
l’analisi habermasiana, Hegel può, da un lato, condividere l’enfasi attribuita da Reinhold
al circolo connesso alla teoria della conoscenza, dall’altro però, egli deve al contempo
rinnegare il medesimo procedimento che è posto per risolvere l’empasse. Habermas
indica la trattazione hegeliana come «risolutiva», in quanto diretta contro “l’intenzione
9
“Il postulato è dunque questo: bisogna conoscere la facoltà conoscitiva prima di conoscere; sarebbe
come voler nuotare prima di entrare in acqua. L’indagine intorno alla facoltà conoscitiva è essa stessa
conoscente, non può arrivare a ciò cui vuole arrivare perché lo è essa stessa […]”, in G. W. F. HEGEL,
Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, vol. III, ed. H. Glockner; (tr. it. di E. Codignola e G.
Sanna, Lezioni di storia della filosofia, vol. III, La Nuova Italia, Firenze 1964, p. 289).
10
EI, p. 15 (p. 10).
153
della filosofia dell’originario”: il circolo che irretisce la teoria gnoseologica porta alla
luce il fatto che essa non può nulla nei confronti della “spontaneità di un originario, ma in
quanto riflessione rimane assegnata da un verso cui si orienta nel momento stesso in cui
ne risulta”11. Dalla centralità assunta dal concetto di riflessione, secondo Habermas, è
possibile evincere un dato significativo, ossia il primario incontro – in ordine di tempo –
empirico della critica con forme di coscienza, senza che intervenga una scelta
convenzionale a determinarlo. Conseguentemente, la certezza sensibile – “il termine per
indicare la coscienza naturale di un mondo quotidiano in cui già ci troviamo con
inevitabile contingenza” – si mostra nella sua obiettività, perché la riflessione altro non è
che un qualcosa proveniente dall’esperienza, “di cui penetra la dogmatica”12. Secondo
Habermas, quindi,
il circolo imputato da Hegel alla teoria della conoscenza come cattiva contraddizione,
viene giustificato nell’esperienza fenomenologica come forma della riflessione stessa.
[…] solo un saputo in precedenza può essere ricordato come risultato ed essere
penetrato nella sua genesi. Questo movimento è l’esperienza della riflessione e il suo
fine è la conoscenza che il criticismo affermava immediatamente13.
Da ciò deriva, secondo Habermas, una critica della conoscenza che non è in grado di
ripristinare i presupposti iniziali della filosofia dell’originario; tuttavia, tale incapacità
non richiede l’abbandono della critica stessa: per ovviare a questa difficoltà sarebbe
sufficiente, secondo l’argomentazione habermasiana, la soppressione della falsa
coscienza per mezzo di una metacritica rivolta contro se stessa. Hegel, però, procede
diversamente, ritenendo che la propria esposizione costituisca un affondo tanto contro la
falsa coscienza, quanto contro la stessa teoria della conoscenza14. L’identificazione,
presentata da Hegel, della paura di sbagliare con l’errore medesimo determina il
mutamento della critica immanente alla teoria della conoscenza come una forma di
11
Ivi, p. 16 (p. 11).
Ibidem.
13
Ibidem.
14
“Se da un lato il timore di incorrere in errore provoca la sfiducia nella scienza, che si mette all’opera e
senza esitazioni di questo genere conosce realmente, non si vede dall’altro come mai non debba viceversa
crearsi ed essere sollecitata una sfiducia in questa sfiducia, che questa paura di sbagliare sia già l’errore
stesso. Infatti essa presuppone qualcosa, anzi parecchio come verità, e appoggia i propri timori e le
proprie conseguenze su ciò che deve essere innanzitutto provato se sia la verità”, in HEGEL,
Phänomenologie des Geistes, ed. Hoffmeister; (tr. it. di E. de Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll.,
La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I, pp. 66 sgg.).
12
154
negazione astratta; in tal modo il filosofo di Stoccarda reputa di poter oltrepassare la
critica gnoseologica per mezzo di un procedimento che penetra la teoria della
conoscenza, mascherando i presupposti irriflessi in essa contenuti e mettendo in evidenza
la mediazione realizzata dalla riflessione per mezzo di un «precedente», che provoca la
distruzione
del
“rinnovamento
della
filosofia
dell’originario
sulla
base
del
trascendentalismo”15. Per Habermas, quindi,
la Fenomenologia dello spirito rimane in certo modo a metà. È vero che
dall’esperienza fenomenologica deve risultare il punto di vista del sapere assoluto in
modo immanente cogente, ma in quanto assoluto questo sapere non ha propriamente
bisogno della giustificazione mediante l’autoriflessione fenomenologica – e a rigore
non ne è neppure capace16.
Nell’analisi di Habermas si esplicita in questo frangente il limite della critica
hegeliana a Kant, ossia l’ambiguità di una fenomenologia che priva la critica di quel
vigore necessario per il successo della riflessione, internamente alla teoria della
conoscenza. È possibile già in questo contesto intravedere l’emergere di un dato
significativo nello studio habermasiano su conoscenza e interesse, vale a dire il delinearsi
di un terzo interesse della conoscenza – oltre a quelli connessi alle scienze empiricoanalitiche e storico-ermeneutiche –: l’interesse emancipativo della conoscenza, che, come
si è precedentemente visto in merito alla prolusione francofortese, è ciò che permette
l’effettiva fondazione di una rinnovata teoria critica della società. Come puntualizza a
proposito Honneth, la possibilità di poter intraprendere questa terza via è data a
Habermas proprio dall’autoriflessione, che rappresenta “oltre al nesso di funzioni finora
presentato, anche un valore fondamentale per il processo di riproduzione del genere
umano nel suo complesso”17.
Habermas individua tre momenti nodali nella critica hegeliana alla teoria della
conoscenza elaborata da Kant, identificandoli proprio con i presupposti fondamentali sui
15
EI, p. 18 (p. 12).
Ibidem (p. 13).
17
“[…] solo quando l’intersoggettivo «movimento di riflessione» può affermarsi come una forma di
conoscenza da cui l’uomo, nel suo sviluppo, dipende a livello costitutivo tanto quanto dipende dalla
conoscenza oggettivante della natura e dalla comprensione ermeneutica, allora esso può essere ricondotto
a ragione ad un ulteriore interesse della conoscenza e, così, essere posto allo stesso livello antropologicotrascendentale come gli altri modi della conoscenza”, in HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 309.
16
155
quali poggia il criticismo kantiano. La prima premessa della teoria della conoscenza è,
secondo Habermas, un “concetto normativo di scienza: una determinata categoria di
sapere, che trova già costituita, ha per essa il valore di conoscenza prototipica”18. Nella
Critica della ragion pura Kant fa significativamente ricorso alla matematica e alla fisica
per avvalorare la tesi secondo la quale entrambe le discipline sono contraddistinte da un
progresso conoscitivo che procede costantemente. Di contro la metafisica rivendica a
torto la definizione di scienza, sebbene essa, dal momento che è caratterizzata da un
sostanziale “brancolare nel buio”, sia manchevole di quelle certezze conoscitive che
invece differenziano le scienze empiriche, poiché “il suo procedimento è senza risultati,
se commisurato al carattere pragmatico del progresso della conoscenza”. Per Habermas, il
compito che Kant si propone di realizzare per il tramite della critica della ragion pura è
quello di introdurre
il vincolo normativo di una determinata categoria di sapere. Dietro il presupposto che
le asserzioni della matematica e della fisica contemporanea valgono come conoscenza
sicura, la critica della conoscenza può impossessarsi di principi che si sono convalidati
in quei processi di ricerca, e partendo da essi risalire all’organizzazione della nostra
facoltà conoscitiva19.
Riallacciandosi alla situazione contemporanea dello statuto delle scienze empiriche,
Habermas asserisce che anche la moderna metodologia scientifica si basa su un potere
«pseudonormativo», che considera come valido prototipo di scienza solamente una
specifica categoria di sapere; la metodologia generalizza poi l’andamento di questo
modello di scienza, in modo tale da permettere sia la ricostruzione di questa forma di
sapere, sia la creazione di una definizione di scienza. La posizione di Hegel, nei confronti
del primo presupposto kantiano, è antitetica, poiché per il filosofo di Stoccarda una forma
di sapere che pretende per sé la definizione di scienza deve essere innanzitutto una forma
di sapere fenomenico, ossia un sapere che non è supportato da una sola e certa garanzia,
bensì solo da una conferma tra le molte possibili20. In tal modo l’esperienza
18
EI, p. 23 (p. 16).
Ibidem (p. 17).
20
“Lo scetticismo che si volge all’orizzonte intero della coscienza fenomenica rende lo spirito capace di
verificare ciò che è la verità, creando una sfiducia nei confronti delle cosiddette rappresentazioni,
pensieri, opinioni naturali, che è indifferente chiamare proprie o altrui; di esse è ancora carica e
19
156
fenomenologica della vita quotidiana diventa la direttrice della critica alla conoscenza,
permettendole, dunque, di non sfociare in una posizione dogmatica relativa al senso
comune. La critica deve rivolgersi parimenti anche contro se stessa per poter,
coerentemente al procedere dialettico della fenomenologia, vedere “come ad ogni grado i
parametri del precedente grado si dissolvono e ne nascono di nuovi”21.
Il secondo presupposto del criticismo kantiano preso in esame da Hegel è quello che
assume come premessa un concetto normativo dell’Io, vale a dire l’ammissione di un
soggetto determinato e immutabile della conoscenza. Nella prospettiva kantiana,
argomenta Habermas, è necessario che l’unità trascendentale della coscienza venga
compresa nel procedere stesso dell’analisi della “prestazione dell’appercezione
originaria”, sebbene l’identità dell’Io necessiti di una determinazione iniziale dipendente
dall’“esperienza trascendentale dell’autoriflessione”. In antitesi a tale determinazione,
Hegel considera la coscienza dell’esperienza fenomenologica come un’osservatrice,
pienamente consapevole del fatto di essere un’entità collocata internamente all’esperienza
stessa della riflessione. Coerentemente alla progressione del processo della riflessione, in
un primo momento deve essere considerata la genesi, che conduce dalla coscienza
naturale al punto di vista accettato dall’osservatore in modo provvisorio; solo
successivamente, e solamente a questo punto, si verifica la coincidenza tra la critica della
conoscenza e l’autocoscienza, ora consapevole del proprio processo di formazione ed
epurata dalla contingenza. Come afferma Habermas, per Hegel “il soggetto
dell’accertamento gnoseocritico non è disponibile a richiesta della coscienza che vuole
direttamente prendere verifica; esso è dato solo con il risultato del suo
autoaccertamento”22. In ultima analisi, nella prospettiva hegeliana è solo l’esperienza
fenomenologica ad assumere su di sé le istanze della critica della conoscenza, attraverso
il medium della coscienza che riflessivamente può comprendere come il passaggio
dall’“oggetto essente in-sé” al sapere riflessivo dell’“essere-per-sé di questo in-sé” renda
possibile l’esperienza della coscienza “con sé nel suo oggetto”23.
impregnata la coscienza che direttamente si accinge all’esame, ma per questo è di fatto incapace di ciò
che vuole intraprendere”, in HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., pp. 70-71.
21
EI, p. 25 (p. 18).
22
Ivi, p. 26 (p. 19).
23
“La nascita del nuovo oggetto che si offre alla coscienza senza sapere come le avviene, è ciò che per
noi va avanti per così dire dietro alle sue spalle. Nel suo movimento si crea un momento dell’essere-in sé
o dell’essere per noi che si presenta per la coscienza che è concepita nell’esperienza stessa; ma il
contenuto di ciò che nasce per noi è per essa coscienza; e noi concepiamo solo la formalità di ciò o il suo
157
Il terzo ed ultimo presupposto kantiano della teoria della conoscenza, preso in esame
da Hegel, è quello relativo alla separazione tra ragione teoretica e ragione pratica, che
Habermas definisce come “astratta critica della ragione”. La scissione tra i due tipi di
ragione corrisponde alla distinzione tra l’Io come «unità dell’autocoscienza» e l’Io come
«libera volontà», appartenenti rispettivamente all’ambito della ragion pura e a quello
della ragion pratica. Tuttavia, prosegue Habermas, questa separazione mostra per intero
la sua problematicità una volta che la stessa coscienza critica si riveli come il risultato
“della riflessione della genesi della coscienza”; la coscienza è, quindi,
un elemento, per quanto conclusivo, di un processo di formazione in cui ad ogni grado
la nuova visione si conferma in un nuovo atteggiamento: la riflessione cioè spezza
[…] insieme con un falso in-sé delle cose, nello stesso tempo la dogmatica di una
forma abituale della vita. Nella falsa coscienza sapere e volere sono ancora non
separati24.
Attraverso ciò che rimane della distruzione operata sulla falsa coscienza è ora
possibile, secondo Hegel, ricostituire la gradualità dell’esperienza della riflessione: il
momento negativo è il terreno fertile sul quale porre le basi di un rinnovamento. Ecco
quindi che la «negazione determinata» della fenomenologia scherma questo processo
dalle interferenze di un “vuoto scetticismo”, che, riprendendo la Fenomenologia, “vede
solo sempre il puro nulla e astrae dal fatto che questo nulla determina il nulla di ciò da
cui esso risulta”25. La negazione determinata è una figura che ha come fine quello di
afferrare l’andamento dello sviluppo della riflessione, per il quale si determina la fusione
di ragione teoretica e pratica; il momento affermativo, che così si genera, ottiene validità
tenendo in considerazione che tanto le norme dell’agire, quanto le categorie della
percezione del mondo, si congiungono tra loro proprio all’interno della coscienza.
Secondo Habermas, infatti, “una forma di vita diventata astrazione non può essere negata
senza lasciare tracce, rovesciata senza lasciare conseguenze pratiche”26; il superamento
fenomenologico si esplicita in questo, nel mantenere la situazione superata all’interno di
puro nascere; per esso questo nato è solo come oggetto, per noi è nello stesso tempo come movimento e
divenire”, in HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., p. 74.
24
EI, p. 27 (p. 20).
25
HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., p. 71.
26
EI, p. 28 (p. 21).
158
quella nuova che ora si presenta, poiché la visione rinnovata della coscienza risulta
proprio nell’esperienza della “separazione rivoluzionaria” della vecchia coscienza. La
relazione tra ciò che viene superato e ciò che si manifesta come rinnovato garantisce
continuità a quella che Habermas definisce “connessione vitale etica”, rendendo possibile
l’identità immutabile dello spirito, nel continuo procedere delle “identificazioni
abbandonate”. Infatti,
tale identità dello spirito, che viene a coscienza come dialettica, contiene in sé la
separazione tra ragione teoretica e pratica, presupposta con sicurezza dalla teoria della
conoscenza; essa non può essere definita in riferimento a tale separazione27.
A partire dalla critica mossa da Hegel ai presupposti della gnoseocritica kantiana,
Habermas definisce l’impostazione hegeliana come sostanzialmente radicale, poiché essa
mina alla base le fondamenta della coscienza trascendentale, provocando la distruzione di
quanto fino a quel momento costituiva il confine aprioristico tra “determinazioni
trascendentali ed empiriche, fra valore e genesi”. Solo un aspetto dell’intera esperienza
fenomenologica, argomenta Habermas, può essere compreso nella definizione di processo
formativo: l’esperienza della riflessione. In effetti, i gradi della riflessione – sui quali la
coscienza può elevarsi fino a giungere a se stessa – sono ricostruibili grazie all’iterazione
sistematica delle circostanze fondamentali per lo sviluppo del genere umano. Le via
percorsa da Hegel nella Fenomenologia dello spirito si snoda lungo tre percorsi per poter
giungere a tale ricostruzione: attraverso il processo di socializzazione del singolo, tramite
la storia universale del genere umano e, infine, attraverso la storia del genere, riflettentesi
nelle forme dello spirito assoluto – religione, arte e scienza –. Appare chiaramente,
quindi, che, nell’analisi hegeliana, la coscienza critica si costituisce come il risultato
finale dell’osservazione fenomenologica, “nel momento in cui a questa diviene
trasparente la genesi del proprio punto di vista con l’appropriazione del processo di
formazione del genere”28.
Habermas rileva, tuttavia, una mancanza nell’analisi fenomenologica proposta da
Hegel, proprio verso la conclusione della Fenomenologia; il filosofo di Stoccarda
sostiene, infatti, che la coscienza critica è il sapere assoluto, senza fornire un’adeguata
27
28
Ivi, p. 29 (p. 21).
Ivi, pp. 29-30 (p. 22).
159
spiegazione di tale affermazione. Secondo l’analisi habermasiana ciò è da imputare al
fatto che la condizione formale di un passaggio fenomenologico attraverso la storia del
genere umano non costituisce una prova sufficiente a giustificare la convergenza tra la
coscienza critica e il sapere assoluto. Per Habermas, infatti,
il sapere assoluto sarebbe in effetti pensabile, secondo l’impostazione dell’indagine
fenomenologica, solo come risultato di una ripetizione sistematica del processo di
formazione del genere umano e della natura insieme29.
È improbabile, asserisce Habermas, che Hegel sia caduto in fallo così ingenuamente;
piuttosto è da ritenere che egli abbia considerato realmente possibile che il percorso
fenomenologico conducesse proprio a quel punto di convergenza tra coscienza critica e
sapere assoluto. La prospettiva di Habermas, attraverso la quale egli ha condotto fin qui
la sua ricostruzione, si colloca sul livello di una critica immanente: in questo modo,
prosegue l’argomentazione, è possibile chiarire il nodo interpretativo venutosi a creare.
L’impostazione radicale della critica alla conoscenza presuppone il costituirsi di una
coscienza fenomenica che fa crollare l’apparenza di un dubbio assoluto, ma al contempo
non offre alcuna garanzia di accesso a una forma di sapere assoluto. A differenza
dell’esperienza empirica, quella fenomenologica non rimane relegata all’interno di
schemi fissati trascendentalmente, dal momento che in questa intervengono quelle
esperienze fondamentali all’interno delle quali si fissano i mutamenti che avvengono
nella concezione del mondo e dell’agire. Secondo Habermas, ciò che va attentamente
considerato è il fatto che, nell’esperienza della riflessione, il soggetto si percepisce come
un che di staccato dall’intero processo, ossia come un’entità alle spalle della quale si
verifica il rapporto trascendentale tra soggetto e oggetto; tuttavia, da ciò non è possibile
evincere che la storia trascendentale della coscienza sia esentata da possibili attacchi. È
da considerare attentamente, prosegue l’analisi habermasiana, la possibilità che sia il
soggetto stesso a creare quelle condizioni che realizzano, di volta in volta, la creazione di
un nuovo quadro trascendentale, all’interno del quale si rende effettiva l’apparizione di
nuovi oggetti; è questo il caso del progresso delle forze produttive analizzato da Marx,
che, sebbene non dia luogo ad alcuna unità di soggetto e oggetto, permette altresì di porre
29
Ivi, p. 30 (p. 22).
160
“la coscienza critica, in cui alla fine si riassume il ricordo fenomenologico, nello stadio
del sapere assoluto”30.
La conclusione dell’introduzione della Fenomenologia dello spirito è il luogo nel
quale, secondo Habermas, emerge il nucleo contraddittorio dell’argomentazione
hegeliana, mascherata solo da un punto di vista architettonico31. Habermas, infatti,
sostiene che la convergenza della prospettiva del sapere assoluto con quella della scienza
in quanto tale – che si genera proprio in forza dell’apparato fenomenologico – elimini lo
status di scienza che il sapere fenomenico esige per sé; si genera, pertanto, l’antinomia di
un conoscere che precede la conoscenza stessa e si ricostituisce sostanzialmente il nucleo
iniziale dal quale Hegel era partito per criticare i presupposti kantiani. È necessario,
secondo l’analisi habermasiana, considerare a questo punto il ruolo della Fenomenologia
dello spirito nella costruzione del sistema hegeliano: essa rappresentava, secondo le
intenzioni dell’autore, la prima parte del sistema della scienza; Hegel poteva, pertanto,
pretendere
retrospettivamente
“una
necessità
del
procedere
dell’esperienza
fenomenologica soltanto dal punto di vista del sapere assoluto”32. Tuttavia, rileva
Habermas, se la stessa progressione fenomenologica della coscienza si fonda sul rapporto
logico “delle essenze in sé e per sé essenti”, ne consegue l’annullamento della peculiare
relazione che rende la fenomenologia l’introduzione alla filosofia; la fenomenologia è
determinata da un rapporto di dipendenza, che si mostra proprio nella necessità di un
inizio, a partire dalla certezza sensibile. L’analisi habermasiana enfatizza il fatto che
la fenomenologia non rappresenta il processo di sviluppo dello spirito, bensì
l’appropriazione di tale processo attraverso la coscienza che deve anch’essa liberarsi,
attraverso l’esperienza della riflessione, dalla concretezza esteriore fino al sapere puro.
Perciò essa non può essere già scienza e deve tuttavia poter pretendere validità
scientifica33.
30
Ivi, p. 31 (p. 23).
“Spingendosi [la coscienza] alla sua vera esistenza [nel corso dell’esperienza fenomenologica], essa
raggiungerà un punto in cui depone la sua apparenza di essere carica di qualcosa di estraneo, che è
soltanto per lei ed è come un altro; oppure dove l’apparenza diventa uguale all’essenza, dove quindi la
sua rappresentazione coincide proprio con questo punto della vera e propria scienza dello spirito; e dove
infine, nel momento in cui coglie questa sua essenza, essa indicherà la natura dello stesso sapere
assoluto”, in HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., p. 78.
32
EI, p. 23 (p.24).
33
Ivi, p. 33 (pp. 24-25).
31
161
L’accertamento fenomenologico del concetto di scienza è necessario solamente fino
al raggiungimento della certezza di un possibile sapere assoluto e, tuttavia, il medesimo
accertamento appare inessenziale nel momento stesso in cui perviene al sapere assoluto.
Inoltre, secondo Habermas – ed è questo il punto centrale della critica che egli muove a
Hegel –, la fenomenologia
confuta come tale la problematica della critica della conoscenza, attraverso la quale
essa tuttavia unicamente si legittima. Tutt’al più potremmo ancora considerare la
fenomenologia come una scala che dobbiamo buttare via dopo esserci arrampicati su
di essa fino al punto di vista della logica34.
Il dato stesso che Hegel non abbia poi inserito la Fenomenologia all’interno del suo
sistema scientifico avvalora il fatto che egli l’abbia successivamente trasformata in una
sorta di «pre-concetto» alla logica. Stando così le cose, prosegue l’argomentazione
habermasiana, la coscienza fenomenologica dovrebbe esplicare la sua funzione di
“autointerpretazione della scienza che coglie la necessità di una coscienza chiusa
nell’apparenza” solo dalla prospettiva della scienza speculativa, e quindi non
scientificamente, bensì didatticamente.
A ragione Hegel ha elaborato la sua critica al concetto empirico di scienza formulato
da Kant, mostrando come una critica della conoscenza debba emergere in primo luogo
dalla critica dell’esperienza della riflessione. Tuttavia, argomenta Habermas, egli giunge
al concetto di scienza grazie a presupposti derivati dalla filosofia dell’identità, che
inevitabilmente relativizzano la critica della conoscenza in quanto tale. In tal modo,
prosegue l’analisi habermasiana,
il risultato paradossale di una ambigua radicalizzazione della critica della conoscenza
non è il rischiaramento della posizione della filosofia nei confronti della scienza;
quando la filosofia si afferma come la vera scienza, il rapporto tra filosofia e scienza
scompare addirittura dalla discussione. Con Hegel ha inizio il fatale equivoco che
l’esigenza sollevata dalla riflessione razionale contro il pensare astratto dell’intelletto
equivale all’usurpazione del diritto di scienze autonome da parte di una filosofia che si
presenta, come sempre, come scienza universale. Già l’evidenza del progresso
34
Ivi, p. 33-34 (p. 25).
162
scientifico indipendente dalla filosofia doveva smascherare come mera fantasia una
tale comunque equivoca pretesa. Su ciò si costruisce il positivismo35.
Il ricorso alla filosofia dell’identità è ciò che, in ultima analisi, determina l’esito
aporetico delle riflessioni hegeliane e il conseguente fallimento della critica alla teoria
della conoscenza; la ripresa delle istanze hegeliane contro Kant, epurate degli elementi
derivati dalla filosofia dell’identità, è ciò che, secondo Habermas, permette a Marx di
compiere un passo avanti rispetto al filosofo di Stoccarda.
Habermas parla di «metacritica» riferendosi al superamento, da parte di Marx,
dell’aporia contenuta nella Fenomenologia dello spirito, ossia il distacco del filosofo di
Treviri dagli elementi di filosofia dell’identità contenuti nel sistema hegeliano, seguendo
“la strategia di staccare la rappresentazione della coscienza fenomenica dal suo quadro di
filosofia dell’identità per portare alla luce quegli elementi nascosti di una critica che va
spesso già oltre il «punto di vista hegeliano»”36. Il punto nel quale si verifica tale
distanziamento è individuato nella concezione marxiana della natura come l’assoluto
primo nei confronti dello spirito, nella negazione, cioè, dell’idea che la natura sia altro
dallo spirito. Per Marx, infatti, la natura è innanzitutto un processo naturale che astrae da
sé tanto l’uomo, nella sua essenza naturale, quanto la natura che lo circonda, risultando
così presupposta allo spirito stesso.
Nella prima delle Tesi su Feuerbach, Marx descrive l’uomo come un ente oggettivo,
attribuendo a tale definizione un senso gnoseologico, e non antropologico37; in tal modo,
afferma Habermas, egli concepisce in senso materialistico quel «lato attivo» sviluppato
dall’idealismo. Marx ritiene che l’attività oggettiva consiste nella costituzione di oggetti –
appartenenti alla natura – che condividono il momento dell’ essere «per sé», ma che allo
stesso tempo trasferiscono in se stessi il “momento dell’oggettività prodotta” per mezzo
35
Ivi, p. 35 (p. 26).
Ivi, p. 36 (p. 27).
37
“Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto
(gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell' obietto (object,
ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell' intuizione; ma non come attività umana sensibile, come
prassi, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in
contrasto col materialismo, dall'idealismo, che naturalmente ignora l'attività reale, sensibile come tale.
Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l'attività
umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come
schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la prassi è concepita e fissata da lui
soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non comprende l'importanza
dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica”, in MARX, Tesi su Feuerbach, tr. it. di A. Del
Noce in Karl Marx: scritti giovanili, Japadre, L’Aquila 1975, p.
36
163
dell’attività umana. L’attività oggettiva, come sottolinea Habermas, acquista due
significati nell’analisi marxiana, poiché essa
viene concepita […] da un lato come prestazione trascendentale; ad essa corrisponde
la costruzione di un mondo la cui realtà si presenta sotto condizioni della oggettività di
possibili oggetti. Dall’altro lato Marx considera quella prestazione trascendentale
fondata in processi lavorativi reali. Soggetto della costituzione del mondo non è una
coscienza trascendentale in generale, bensì il concreto genere umano che in condizioni
naturali riproduce la propria vita38.
La trasformazione in “lavoro sociale” dell’idea di ricambio materiale è comprensibile
tenendo presente il passo del Capitale, nel quale Marx definisce il lavoro come “la
condizione esistenziale dell’uomo, indipendente da ogni forma di società”, vale a dire
come l’immutabile necessità naturale di “mediare il ricambio materiale fra uomo e natura,
ossia la vita umana”39.
La natura, così come è intesa da Marx, a livello antropologico si suddivide in una
natura soggettiva, propria dell’uomo, e in una natura oggettiva, relativa al suo ambiente,
e la mediazione tra queste avviene tramite il lavoro sociale e il processo di riproduzione
ad esso connesso40. Strettamente congiunta a questa bipartizione e alla mediazione del
lavoro sociale tra natura oggettiva e soggettiva, si chiarisce l’idea marxiana secondo la
quale il lavoro è anche una categoria gnoseologica e non solo antropologicamente
fondante; il lavoro sociale, come sottolinea Petrucciani, rappresenta quel “fattore che,
costituendo il mondo oggettivo degli uomini, è al tempo stesso condizione trascendentale
di possibilità della conoscenza oggettiva della natura”41.
Habermas sottolinea il fatto che per Marx il lavoro è più che un semplice processo
naturale, dal momento che esso regola il ricambio materiale e costituisce il mondo stesso.
38
EI, p. 38 (p. 29).
MARX, Das Kapital, Berlin 1960, vol. I; (tr. it. di D. Cantimori, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma
1967, vol. I, p. 75).
40
“Il lavoro è innanzitutto un processo fra uomo e natura, un processo in cui l’uomo media, regola e
controlla, attraverso la propria azione, il proprio ricambio materiale con la natura. Egli si contrappone alla
stessa materia naturale come una potenza naturale. Mette in movimento le forze naturali proprie della sua
corporalità, braccia e gambe, testa e mano, per appropriarsi della materia naturale in una forma
utilizzabile per la propria vita”, in MARX, Il Capitale, tr. it. cit., 211.
41
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 49.
39
164
Il lavoro sociale è, in altri termini, una categoria di mediazione, vale a dire una categoria
che collega la natura oggettiva a quella soggettiva e che segna
il meccanismo dello sviluppo storico del genere umano. Con il processo del lavoro si
modifica non solo la natura lavorata, ma attraverso i prodotti del lavoro, anche la
natura bisognosa dei soggetti stessi che la lavorano42.
Conseguentemente, argomenta Habermas, la storia, nella prospettiva marxiana, si
configura sostanzialmente come storia naturale del genere umano e, quindi, è la stessa
idea di “essenza dell’uomo”, inserita nella storia del genere, a svelare la falsità di
un’antropologia che pretende di apparire come una sorta di filosofia trascendentale. Si
esplicita, pertanto, il significato che Marx attribuisce all’«indagine materialistica della
storia»: essa è, in primo luogo, un’analisi che ha come obiettivo quello di far emergere
quelle categorie della società che definiscono tanto il “processo reale della vita”, quanto
le “condizioni trascendentali della costituzione dei mondi della vita”. La prima forte
opposizione di Marx alla Fenomenologia dello spirito emerge in questo punto, vale a dire
nell’idea che l’autoriflessione della coscienza si scontra inevitabilmente contro le
strutture del lavoro sociale, determinando la messa in luce di quel nesso di sintesi che
lega l’ “ente naturale oggettivamente attivo «uomo»” con la natura che lo circonda
oggettivamente.
Marx, afferma Habermas, non ha portato al concetto quest’idea di sintesi, non
almeno in modo compiutamente esaustivo; tuttavia, prosegue l’argomentazione, è
necessario estrapolare l’idea del lavoro sociale come sintesi se si vuole comprendere il
fatto che nelle analisi marxiane “si trovano praticamente tutti gli elementi di una critica
della conoscenza radicalizzata attraverso la critica di Hegel a Kant”, sebbene poi manchi
un’organizzazione sufficiente per l’elaborazione di una teoria della conoscenza in senso
materialistico.
Ciò che distingue la sintesi, così come è concepita da Marx, rispetto al concetto
proprio della filosofia idealistica, è il fatto che questa non dà origine ad alcuna
connessione logica, bensì risulta essenzialmente come il prodotto parimenti empirico e
trascendentale di un soggetto generatosi storicamente. Una sintesi che si realizza per il
42
EI, p. 41 (p. 31).
165
tramite del lavoro, e non del pensiero, necessita del sistema del lavoro sociale come
terreno necessario al suo sviluppo, e non già di una connessione simbolica. Con il
passaggio alla critica dell’economia politica, e non più alla logica formale propria
dell’idealismo, afferma Habermas, Marx può intendere la sintesi come una produzione
materiale, avendo come modello i processi di produzione naturale e non più, quindi,
quelli dello spirito.
Nel lavoro sociale – o come afferma Habermas “nell’industria” – si verifica una
forma di unità tra soggetto sociale e natura che non elimina l’autonomia di quest’ultima,
né tantomeno “il residuo di irriducibile estraneità inerente alla sua fatticità”43; da ciò
consegue un dato molto significativo per l’analisi habermasiana in merito al pensiero di
Marx, dal momento che l’autonomia ineliminabile della natura fa sì che la pretesa umana
di dominarla possa avvenire solo a patto di un assoggettamento ad essa:
questa esperienza elementare entra nel discorso delle ‘leggi’ della natura alle quali
dobbiamo ‘ubbidire’. La esteriorità della natura si rivela nella contingenza delle sue
costanti ultime: per quanto estendiamo in profondità il nostro potere tecnico di
disporre su di essa, persiste nella natura un nucleo sostanziale per noi inaccessibile44.
La ricostruzione della genesi, internamente al pensiero di Marx, della rilevanza
assunta dal sistema del lavoro sociale nel processo di costituzione del genere umano e
della relazione tra uomo e natura, assume un’importanza centrale per alcune precisazioni
che costituiscono il filo conduttore dell’analisi di Habermas. Egli, infatti, sostiene che la
lettura della Fenomenologia elaborata da Marx fornisce gli strumenti interpretativi per
comprendere la traduzione in termini strumentalistici dei concetti della filosofia della
riflessione. Scrive il filosofo di Treviri nei Manoscritti del 1844:
l’importante nella Fenomenologia hegeliana […] è dunque che Hegel intende
l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un
deoggettivarsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione;
43
44
Ivi, p. 46 (p. 35).
Ibidem.
166
che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo,
l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro45.
Come sottolineato da Petrucciani, emerge da questo passo un’ulteriore connotazione
del lavoro sociale come “fattore che costituisce il genere umano come tale” e che spiega
anche le forme assunte dall’organizzazione sociale e le loro dinamiche interne46. Già nel
saggio Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels Jenenser ‘Philosophie des
Geistes’47 Habermas, riferendosi alla Filosofia dello spirito jenese di Hegel, aveva
illustrato questa particolare interpretazione del lavoro, elaborata da Marx sui testi
hegeliani. Verso la conclusione di questo testo, Habermas sottolinea il tentativo di Marx
di ricostruire il processo della formazione del genere umano a partire dalle leggi di
riproduzione della vita sociale, enfatizzando l’idea che nella contraddizione che si genera
tra “l’accumulazione delle capacità di controllare i processi naturali” e il “quadro
istituzionale delle interazioni regolate secondo natura” si situi il motore che spinge verso
il mutamento del sistema sociale48. In Conoscenza e interesse Habermas asserisce che il
lavoro deve servire a Marx come “filo conduttore dell’acquisizione demitizzante della
Fenomenologia”49, intravedendo proprio su questa specifica determinazione del lavoro il
limite stesso dell’analisi marxiana. Infatti, è questo il punto sottoposto alla critica
habermasiana, ossia, come rilevato da Petucciani, la tesi secondo la quale “le strutture
45
MARX, Manoscritti economico-filosofici, tr. it. di G. Della Volpe, in Opere scelte giovanili, Editori
Riuniti, Roma 1971, p. 298.
46
“In Marx però il lavoro sociale non è solo condizione di possibilità della conoscenza oggettiva della
natura; esso è anche, sul piano della teoria della storia, il fattore che costituisce il genere umano come tale
e che spiega in ultima istanza le forme che l’organizzazione sociale degli uomini assume e la dinamica cui
queste sono soggette”, in PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 49.
47
HABERMAS, Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels ‚Jenenser Philosophie des Geistes‘, in
Technik und Wissenschaft als ‚Ideologie‘, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968, pp. 9-47; (tr. it. di M. G.
Meriggi, Lavoro e interazione. Osservazioni sulla “Filosofia dello spirito jenese” di Hegel, Feltrinelli,
Milano 1975). Per un’analisi sistematica dell’interpretazione habermasiana del pensiero del giovane
Hegel, si rimanda al testo di A. CRÉAU, Kommunikative Vernunft als »entmystifiziertes Schicksal«.
Denkmotive des frühen Hegel in der Theorie von Jürgen Habermas, Anton Hain, Frankfurt a. M. 1991.
48
“[…] Marx ha cercato di ricostruire il processo storico della formazione (welthistorischen
Bildungsprozess) della specie umana partendo dalle leggi della riproduzione della vita sociale. Il motore
della trasformazione del sistema del lavoro sociale lo individua nella contraddizione fra l’accumulazione
delle capacità di controllare i processi naturali e il quadro istituzionale delle interazioni regolate secondo
natura. […] L’attività produttiva, che regola il ricambio tra la specie umana e la natura ambiente, come
nella Filosofia dello spirito l’uso di strumenti media il soggetto che lavora con gli oggetti naturali –
questo comportamento strumentale diventa il paradigma per la produzione di tutte le categorie; tutto si
annulla nel movimento autonomo della produzione”. Ivi p. 45 (p. 46).
49
EI, p. 60 (p. 46).
167
dinamiche del lavoro sociale siano il momento determinante nel processo della
autoproduzione storica del genere umano”50. Secondo Habermas,
ironicamente è proprio il punto di vista con il quale Marx giustamente critica Hegel,
che impedisce a Marx stesso di concettualizzare in modo adeguato l’intenzione delle
proprie ricerche. […] egli si inganna sulla riflessione stessa riconducendola a lavoro:
Marx identifica «il superamento come movimento oggettivo, riprendendo in sé
l’alienazione» con una appropriazione delle forze essenziali alienate nella lavorazione
di un materiale51.
Habermas individua l’errore di Marx nell’aver ricondotto sul piano dell’agire
strumentale il processo della riflessione, vale a dire nell’aver attribuito l’intera dinamica
storico-evolutiva dell’uomo esclusivamente alla produzione materiale, quale unica
componente determinante. Secondo l’analisi habermasiana, infatti, Marx interpreta a torto
la riflessione secondo lo schema della produzione e, conseguentemente, non è in grado di
sottrarsi ad una conseguenza affatto significativa, quella di “non distinguere fra lo status
logico delle scienze della natura e quello della critica”52. Le riflessioni marxiane
sembrano determinare la scienza dell’uomo nei termini della critica, e, tuttavia, non
eliminano risolutivamente il costante riferimento e, in un certo senso adeguamento, alle
scienze naturali; una forma di giustificazione della teoria della società secondo i criteri
della critica della conoscenza non è ritenuta necessaria, al punto tale che lo stesso Marx
afferma: “La scienza della natura comprenderà un giorno sotto di sé la scienza dell’uomo,
come la scienza dell’uomo comprenderà sotto di sé la scienza della natura: vi sarà una
sola scienza”53. In questo passo Habermas intravede una determinazione della scienza
dell’uomo già connotata in senso positivistico, sostenendo che
questa esigenza di una scienza naturale dell’uomo, già colorata in senso positivistico, è
sorprendente: infatti le scienza della natura sottostanno alle condizioni trascendentali
50
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 49.
EI, p. 60 (p. 46).
52
Ivi, p. 61 (p. 47).
53
MARX, Manoscritti economico-filosofici, tr. it. cit., p. 266.
51
168
del sistema del lavoro sociale, sul cui mutamento strutturale l’economia, in quanto
scienza dell’uomo, deve purtuttavia da parte sua riflettere54.
Se la tesi di Marx, secondo la quale l’intera storia del genere umano si costituirebbe
in forza della sola sintesi del lavoro sociale, fosse vera, allora, argomenta Habermas,
sarebbe possibile giustificare la “scientificizzazione” della produzione come un
movimento
che determina l’identità stessa
del
soggetto
conoscente e
che,
conseguentemente, renderebbe l’uomo capace di controllare il processo di sviluppo
vitale. Secondo Wellmer, se ci accetta questa tesi come una sorta di ipotesi di lavoro
(Arbeitshypothese), allora quei residui metafisici presenti all’interno della teoria marxiana
dovrebbero essere considerati come residui positivistici55. Inoltre, si dovrebbe considerare
la scienza della natura internamente alla scienza dell’uomo, rendendo possibile, come
rileva Petrucciani, una spiegazione dei “mutamenti delle strutture sociali attraverso i
mutamenti del processo di produzione”56.
Habermas sottolinea come, tuttavia, Marx non dia seguito a tale argomentazione, dal
momento che essa si limita esclusivamente al fondamento filosofico su cui si basa la
critica a Hegel, mentre per quel che concerne la teoria della società Marx è consapevole
che “la trasformazione della scienza in macchinario non ha in nessun modo eo ipso come
conseguenza la liberazione di un soggetto totale autocosciente, che domina il processo di
produzione”57; il pensatore di Treviri è cosciente del fatto che non è solo l’«agire
strumentale» nei confronti della natura a determinare l’autocostituzione del genere
umano, bensì che in tale processo è coinvolto anche un altro tipo di agire, che interviene
54
EI, p. 63 (p. 49).
“Marx‘ Einsicht in den dialektischen Zusammenhang von Produktivkräften und
Produktionsverhältnissen – Formen der Arbeit, bzw. Stufen der technischen Verfügungsgewalt
andererseits – konnte darum so leicht mechanistisch missdeutet werden, weil bei ihm diese Dialektik
nicht wirklich entfaltet wird: die Marxsche Theorie wird von einer Systematik beherrscht, bei der am
Ende doch Interaktion auf Arbeit reduziert wird, indem produktive Arbeit »zum Paradigma für
Hervorbringungen aller Kategorien« wird. Habermas hat diese These und die Implikationen, die sich
daraus für eine Kritik des Marxschen Wissenschaftsbegriffs ergeben, neuerdings ausführlich begründet.
Wenn wir diese These einmal als Arbeitshypothese zulassen, dann lässt sich mit ihrer Hilfe zeigen, dass
der metaphysische Rest in der Marxschen Theorie zugleich eine positivistischer Rest ist; damit wäre die
Kritik der kritischen an der analytischen Theorie am Ende zur Selbstkritik geworden”, in WELLMER,
Kritische Gesellschaftstheorie und Positivismus, cit., pp. 66-67.
56
“E così per esempio si potrebbe affermare (come Marx sembra fare nei Grundisse) che la
trasformazione della scienza in prima potenza produttiva e l’automazione delle produzione determinano il
crollo della produzione basata sul valore di scambio e il passaggio al libero sviluppo delle individualità”,
in PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 50.
57
EI, p. 69 (p. 53).
55
169
nei rapporti di potere e che stabilisce la possibilità dell’interazione: l’«agire
comunicativo»58. Si esprime qui, come è stato correttamente evidenziato, una “tesi
dicotomica” che Habermas contrappone al quadro categoriale marxiano e che esige, per
una ricostruzione teoreticamente valida del genere umano, “l’utilizzo di un quadro
categoriale differenziato, che riconosce come momenti costitutivi il lavoro e
l’interazione”59, zweckrationales Handeln e kommunikatives Handeln.
Il percorso fin qui seguito, attraverso la critica hegeliana a Kant e quella marxiana a
Hegel, ha condotto Habermas ad un punto nevralgico della sua analisi, all’emergere, cioè,
dell’agire comunicativo quale strumento necessario per una comprensione adeguata del
processo storico-evolutivo dell’uomo. Entrambe le posizioni esaminate – quella di Hegel
e quella di Marx – hanno mostrato quella che Habermas definisce “un’incertezza radicata
nell’impostazione teoretica stessa”60. Il ricorso al lavoro sociale assume il valore, sul
piano categoriale, del processo di produzione stesso, che si esplicita nell’agire
58
In merito all’utilizzo che Habermas fa dei concetti di «agire strumentale» e «agire comunicativo» è
necessario considerare il già citato saggio Arbeit und Interaktion, che contiene una preliminare
descrizione di entrambi, definiti più sinteticamente «lavoro» e «interazione» e considerati, in riferimento
alla filosofia dello spirito jenese, come tappe fondamentali del processo di costituzione dello spirito. La
definizione più completa di questi due modi di agire si trova nel saggio Technik und Wissenschaft als
‘Ideologie’, nel quale Habermas, riformulando la definizione weberiana di «razionalizzazione», afferma:
“Con «lavoro», o agire razionale rispetto allo scopo, intendo o agire strumentale o scelta razionale o una
combinazione di entrambi. L’agire strumentale è organizzato secondo regole tecniche, che si basano su
un sapere empirico. Esse implicano in ogni caso prognosi condizionali su eventi osservabili, fisici o
sociali; tali prognosi possono rivelarsi esatte o non vere. Il comportamento di scelta razionale si basa su
strategie, queste a loro volta su un sapere analitico. Esse implicano deduzioni da regole di preferenza
(sistemi di valori) e massime generali; queste proposizioni possono essere dedotte in modo corretto o
falso. L’agire razionale rispetto allo scopo realizza fini definiti in condizioni date […] organizza mezzi,
che sono adeguati o no secondo i criteri di un efficace controllo della realtà […]. D’altra parte, con agire
comunicativo intendo un’azione mediata simbolicamente. Essa è organizzata in base a norme vigenti in
modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di comportamento e che devono essere comprese
e riconosciute da almeno due soggetti agenti. Le norme sociali sono rese effettive tramite sanzioni; il loro
senso si oggettiva in una comunicazione nel linguaggio quotidiano. […] la validità di norme sociali è
basata solo sull’intersoggettività dell’intendersi in base a intenzioni ed è garantita dal riconoscimento
generale di obbligazioni”, in HABERMAS, Technik und Wissenschaft als ‘Ideologie’, in Technik und
Wissenschaft als ‘Ideologie’, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, pp. 62-63; (tr. it. Tecnica e scienza come
«ideologia», in Teoria e prassi nella società tecnologica, cit., pp 155-194, qui p. 165).
In merito alla distinzione, non particolarmente chiara, tra «agire strumentale» e «scelta razionale», T.
McCarthy afferma: “Habermas considera importante la distinzione poiché gli consente di separare il
contributo del progresso tecnico alla razionalizzazione dell’agire dalla razionalizzazione conseguita
dall’affinamento delle procedure decisionali stesse. Ma è fuorviante presentare la distinzione, come in
questo caso, come un agire tra due tipi di azione. La decisione razionale e l’applicazione di strumenti
tecnicamente adeguati sembrano piuttosto essere due momenti dell’agire razionale rispetto allo scopo. Nel
perseguimento razionale di specifici e determinati fini, l’agente deve prendere da entrambi l’informazione
disponibile, […] le regole di preferenza e le massime di decisione che ha adottato”, in T. McCARTHY,
The Critical Theory of Jürgen Habermas, MIT Press, Cambridge 1978, p. 24.
59
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 50.
60
E. I., p. 71 (p. 55).
170
strumentale, dimensione che comprende la storia naturale del genere umano; a livello
delle indagini materiali, invece, Marx riconosce l’importanza di una prassi sociale,
costituentesi in forza della connessione tra lavoro e interazione, dal momento che i
processi storici sono mediati tanto dall’attività produttiva del soggetto, quanto dalle sue
relazioni con altri soggetti. Wellmer individua in questi due aspetti della ricostruzione
storica del genere umano proposta da Marx alcune implicazioni di tipo teoreticoconoscitivo, che determinano un’ambiguità interpretativa della teoria critica della società,
poiché questa appare come “scienza” nell’accezione delle scienze naturali, posizione
verso la quale Marx sembra infatti tendere61.
Habermas enfatizza la necessità dell’interazione accanto al lavoro, sostenendo che
il medium in cui sono regolate normativamente queste relazioni dei soggetti e dei
gruppi, è la tradizione culturale; essa forma il contesto linguistico di comunicazione
con il quale i soggetti interpretano la natura e se stessi nel loro ambiente62.
Il ricorso ad una visione monistica che faccia riferimento solo alla dimensione
dell’agire strumentale, rinunciando totalmente a quella delle relazioni tra soggetti
all’interno di un comune contesto sociale, si mostra nella sua insufficienza: agire
strumentale e agire comunicativo, nella loro reciproca irriducibilità, offrono lo spazio per
un quadro categoriale più ampio e complesso, capace di comprendere in profondità il
mutamento storico. La nuova dimensione del linguaggio, come rilevato da Petrucciani,
risulta essere “tanto essenziale per la comprensione dei processi sociali in quanto dotata
di una logica propria, che fa sì che essa […] non sia riconducibile alle dinamiche della
produzione materiale”63. La costruzione del genere umano, secondo Habermas, necessita
pertanto di uno svolgimento lungo due dimensioni, dal momento che il processo storicoevolutivo dell’uomo e la sua fondazione, per mezzo della critica della conoscenza,
esigono l’estensione del loro sistema di riferimento alla prassi sociale, che deve
61
“Die erkenntnistheoretischen Implikationen der Marxschen Geschichtskonstruktion führen zu jenem
Missverständnis der ideologiekritischen Gesellschaftstheorie als einer »Wissenschaft« im Sinne der
Naturwissenschaften, zu dem Marx in der Tat neigte”, in WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und
Positivismus, cit., p. 70.
62
Ibidem.
63
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 51.
171
comprendere al suo interno sia il lavoro che l’interazione64. Solo considerando questa
nuova prospettiva, prosegue l’argomentazione habermasiana, è possibile concepire il
processo di emancipazione dell’uomo: emancipazione dalla forza della natura esterna
tramite il lavoro ed emancipazione dal giogo della natura interna tramite l’interazione
sociale. Habermas afferma, infatti, che
una società deve l’emancipazione dalla potenza naturale esterna ai processi di lavoro,
ossia alla produzione di sapere tecnicamente valorizzabile […]; l’emancipazione dalla
costrizione della natura interna riesce in misura della sostituzione di istituzioni basate
sulla violenza con un’organizzazione dell’interazione sociale, che è unicamente legata
ad una comunicazione libera dal dominio65.
Il dato più significativo che emerge dall’analisi habermasiana nelle pagine dedicate a
Marx, in Conoscenza e interesse, consiste dunque nella nuova consapevolezza del ruolo
della critica nei confronti delle teoria della società. Habermas, infatti, ritiene che, proprio
a partire dalle contraddizioni interne alle analisi marxiane, emergano alcuni importanti
chiarimenti sulla possibilità di una critica radicalizzata della conoscenza, nella forma di
una “ricostruzione del genere umano”, e di una teoria della società come “autoriflessione
della coscienza conoscente”. In tal modo si esplicita qual è la posizione della filosofia
rispetto alle scienze sperimentali: essa, afferma Habermas,
si è conservata nella scienza come critica. […] L’eredità della filosofia trapassa
piuttosto nell’atteggiamento di critica ideologica che determina il metodo dell’analisi
64
Dietrich Böhler pone l’accento su questo aspetto, cogliendo nell’analisi habermasiana delle posizioni di
Hegel e Marx il porsi stesso della domanda sugli interessi guida della conoscenza. “Die Frage nach
Erkenntnisinteressen setz eine Historisierung der traditionellen Version der Transzendentalphilosophie
voraus, wie sie von Hegel und Marx ermöglicht wurde: von Hegels idealistisch verkürztem Konzept der
Selbstkonstituierung der Menschengattung durch Interaktion als kommunikativer Erfahrung und
reflexiver Aneignung dieser – und von Marx‘ einseitigem, dogmatisch materialistischem Konzept der
Produktion und Reproduktion der Menschengattung durch Arbeit als materiell-technischem Eingriff in
Natur und Aneignung von Natur. Weil sie an »Arbeit und Interaktion« als den »fundamentalen
Bedingungen der möglichen Reproduktion und Selbstkonstituierung der Menschgattung« hängen, sind
die beiden, von Apel und Habermas ins Auge gefassten, komplementären Erkenntnisinteressen
›transzendental‹, das heißt nicht hintergehbar. Sie sind weder psychologisch auf besondere Motive, noch
ideologiekritisch auf soziale Bedürfnisse oder Herrschaftskonstellationen reduzierbar, also nicht
empirisch zu erklären und auf eine besondere historische Situation zurückzuführen, sondern sie gelten für
alle Situationen geschichtlich-gesellschaftlichen Lebens”, in D. BÖHLER, Zur Geltung des
emanzipatorischen Interesses, in DALLMAYR (hrsg.), Materialen zu J. Habermas‘ Erkenntnis und
Interesse, cit., pp. 349-368, qui p.350.
65
EI, pp. 71-72 (pp. 55-56).
172
scientifica stessa. Ma al di fuori della critica, alla filosofia non rimane alcun diritto.
[…] Lo scientismo materialistico conferma ancora una volta ciò che l’idealismo
assoluto aveva già attuato: la soppressione della teoria della conoscenza a favore di
una scienza universale, sciolta dai suoi vincoli, una scienza certo in questo caso non
del sapere assoluto ma del materialismo scientifico66.
§. 2. Dall’interesse tecnico all’interesse pratico. Il misconoscimento della riflessione.
Marx non riesce ad andare oltre una visione monistica della società, non riesce a
slegare il processo di costituzione del genere umano dal solo lavoro sociale, abbozzando
esclusivamente in maniera marginale il riferimento – per una corretta prassi sociale nel
senso habermasiano – all’importanza dell’interazione linguistica tra soggetti agenti
all’interno del medesimo contesto sociale. Questa constatazione – che come si vedrà in
seguito comporta anche altre conseguenze – spinge Habermas ad una profonda riflessione
su uno scenario categoriale più ampio, comprendente al suo interno le diverse modalità di
agire, i diversi interessi ad esse connesse e “le diverse modalità di sapere
intersoggettivamente valido”67.
Il positivismo segna la fine della teoria della conoscenza. Al suo posto subentra una
teoria delle scienze. Il problema logico-trascendentale delle condizioni della
conoscenza possibile mirava anche alla spiegazione del senso della conoscenza in
generale. Il positivismo elimina questo problema: è divenuto privo di senso con la
realtà di fatto delle scienze moderne. La conoscenza è definita implicitamente nella
prestazione delle scienze68.
Così si apre la sezione di Conoscenza e interesse intitolata Positivismo,
pragmatismo, storicismo, nella quale Habermas offre – secondo le sue intenzioni di
ricostruzione storico-evolutiva del processo di dissoluzione della teoria della conoscenza
– un’analisi sistematica delle tre correnti di pensiero principali che, secondo la sua
indagine, costituiscono i riferimenti fondamentali sia per il processo di dissoluzione della
66
Ivi, p. 86 (pp. 66-67).
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 53.
68
EI, p. 88 (p. 69).
67
173
teoria della conoscenza, nel caso del positivismo, sia per i tentativi di ripristino
dell’equilibrio tra conoscenza e interesse, nel caso del pragmatismo e dell’ermeneutica. Si
è già discusso sulla critica habermasiana al positivismo – o meglio al neopositivismo di
matrice popperiana – relativamente alla discussione interna al contesto delle scienze
sociali; qui Habermas fa invece riferimento al primo positivismo e, pertanto, risulta
opportuno soffermarsi sugli elementi più rilevanti messi in luce dall’autore.
Nella sua fase primordiale, il positivismo mantiene ancora delle connotazioni
decisamente filosofiche: esso continua ad esprimere, di fatto, il proprio status di filosofia
rispetto alle scienze empiriche, dal momento che, come sostiene Habermas,
“l’autocomprensione scientista delle scienze, che esso libera, non coincide con esse”69.
Ciononostante, esso dà origine a una difesa – connotata in senso fortemente negativo –
della ricerca contro l’autoriflessione gnoseologica, enfatizzando in modo sempre più
evidente il dogmatismo della fede della scienza in se stessa70. La rilevanza che assumono
metodologia e prestazioni corrisponde ad una dato affatto significativo nella prospettiva
habermasiana, vale a dire alla perdita del ruolo decisivo e fondamentale coperto fino a
quel momento dal soggetto: il sistema di riferimento non è più costituito dal soggetto,
bensì dal metodo che dirige il procedimento scientifico. Come afferma Habermas, infatti,
la teoria della scienza si sbarazza del problema del soggetto conoscente; essa si orienta
direttamente alle scienze che sono date come sistemi di proposizioni e modi di
procedere; possiamo anche dire: come un complesso di regole secondo le quali le
teorie vengono costruite e verificate71.
Con l’affermarsi del positivismo, da Auguste Comte e Ernst Mach in poi, e con la
sostituzione ormai irrevocabile della teoria della conoscenza con la teoria della scienza,
l’intera
tradizione
filosofica
viene
definitivamente
estromessa
e
soppiantata
dall’autocomprensione delle scienze. Non è più sufficiente, denuncia Habermas,
l’autosuperamento della critica della conoscenza – che in un certo senso aveva
69
Ibidem.
“Il positivismo nasce e tramonta con il principio scientista che il senso della conoscenza è definito da
ciò che le scienze producono, e può quindi essere sufficientemente esplicato attraverso l’analisi
metodologica dei procedimenti scientifici. La teoria della conoscenza, che trascende il quadro della
metodologia come tale, cade ora sotto a quello stesso verdetto di presunzione e di insensatezza che essa
aveva un tempo inflitto alla metafisica”. Ivi, p. 89 (pp. 69-70).
71
Ibidem.
70
174
accomunato i tentativi di Hegel e Marx – per ripristinare il “problema logicotrascendentale sul senso della conoscenza”; al contrario, ciò che la situazione contingente
richiede per distruggere l’apparenza oggettivistica del positivismo è, secondo il
programma habermasiano, una critica effettuata in modo immanente e supportata da una
metodologia che procede internamente ai propri problemi ed è, al contempo, obbligata
alla riflessione su se stessa. Tentativi in questo senso, ossia nella direzione
dell’autoriflessione delle scienze, sono costituiti dalle analisi di Ch.S. Peirce e di Wihlelm
Dilthey, rispettivamente nel pragmatismo e nello storicismo, sebbene entrambi, come
rileva Habermas, non siano riusciti a svincolarsi completamente dalle maglie del
positivismo.
Prima di considerare tali approcci, è bene soffermarsi sui presupposti principali del
positivismo, così come sono presentati soprattutto in relazione a Comte. Il primo
postulato indicato da Habermas è quello dell’assunzione di un dato proveniente
dall’empirismo, vale a dire la tesi secondo la quale “ogni conoscenza deve riferirsi alla
certezza sensibile dell’osservazione sistematica che accerta l’intersoggettività. Riguardo
alla realtà soltanto la percezione può pretendere l’evidenza”72. In base a questo
presupposto, solo l’osservazione costituisce il fondamento possibile di una conoscenza
attendibile; una scienza che assume come campo d’indagine la realtà è sempre una
scienza dell’esperienza.
Il secondo aspetto riguarda un ulteriore requisito della certezza, che si colloca
accanto a quello precedentemente descritto: la certezza metodica. Questa, contrapposta
alla certezza metafisica, garantisce la sicurezza della ricerca scientifica in base all’unità
del metodo, e non, quindi, in base all’unità e alla struttura dell’essente. La ricerca
scientifica si rivolge verso una molteplicità di dati che costituiscono la realtà e che non
possono essere ricondotti ad una totalità da cogliere nella sua interezza; per ovviare a tale
difficoltà, la struttura della conoscenza deve fondarsi non più sull’idea di un mondo
ordinato secondo un sistema, bensì “deve essere fondata soggettivamente in un procedere
sistematico del ricercatore. […] La scienza afferma la priorità del metodo sulla cosa,
poiché ci possiamo informare sulla cosa in modo sicuro soltanto con l’aiuto di modi di
procedere scientifici”73.
72
73
Ivi, p. 96 (p. 75).
Ivi, p. 97 (p. 75).
175
Il terzo presupposto concerne l’esattezza della conoscenza e si differenzia
notevolmente dai due postulati precedenti. A questo livello si rende necessaria la
costruzione di “teorie formalmente vincolanti”, le sole in grado di fornire una garanzia al
nostro sapere, grazie alla possibilità della deduzione di ipotesi di legge. Come sottolinea
Habermas, infatti, per il positivismo solo “la connessione analitica di proposizioni
universali e il collegamento logico di asserzioni d’osservazione con tali teorie assicurano
l’esattezza della nostra conoscenza”74.
Il quarto postulato del positivismo è relativo all’utilità della conoscenza e coniuga
elementi provenienti da tradizioni contrapposte circa la teoria della conoscenza: da un
lato l’empirismo e l’idea che le conoscenze scientifiche devono essere tecnicamente
impiegate, dall’altro il razionalismo e la tesi che i presupposti ad esso connessi
consentono un potenziamento della disposizione sulla natura e sulla società.
Dai presupposti fin qui elencati circa i criteri che realizzano la scientificità delle
asserzioni, ne deriva un quinto in merito all’incompiutezza e alla relatività costitutive
della nostra conoscenza. Per Comte, come riferisce Habermas, la conoscenza delle leggi –
supportata da esperienza, controllo, metodo e prognosi tecnicamente utilizzabili – è un
sapere relativo, ossia un sapere che non può risalire all’originario, come invece pretende
di fare la conoscenza metafisica.
Quanto finora messo in luce del positivismo comtiano descrive sostanzialmente solo
la contrapposizione tra scienza e metafisica: con un atteggiamento che Habermas
definisce «acritico», il positivismo dichiara le proposizioni metafisiche “prive di senso”,
accantonandole, tuttavia, in modo irriflesso. Secondo l’analisi habermasiana lo stesso
positivismo può rendersi intelligibile solo attraverso i concetti metafisici:
l’autocomprensione scientista delle scienze, che domina come teoria della scienza,
sostituisce il concetto filosofico di conoscenza. La conoscenza diventa identica alla
conoscenza scientifica. La scienza viene innanzitutto delimitata rispetto ad altri
prodotti cognitivi dal suo ambito d’oggetto. L’ambito d’oggetto della scienza si
74
Ivi, p. 98 (p. 77).
A tale proposito Comte afferma: “che lo spirito positivo, senza disconoscere una necessaria prevalenza
della realtà constatata in ogni forma, tende sempre ad ampliare il più possibile l’ambito della inferenza
razionale a spese di quello dell’esperimento […] Il progresso scientifico consiste principalmente nel
ridurre gradualmente il numero delle leggi separate e indipendenti attraverso la continua estensione delle
loro connessioni”; in A. COMTE, Soziologie, Jena 1923, vol. III; (tr. it. di E. Zagarese, M. Maioli, P.
Fiorentini Migliucci, Corso di filosofia positiva, UTET, Torino 1967, vol. I, p. 616).
176
definisce a sua volta soltanto mediante regole metodologiche della ricerca. Queste
regole […] possono servire alla definizione di scienza soltanto se sono già state scelte
entro una implicita precomprensione della scienza. Questa precomprensione è emersa
criticamente da una autodelimitazione della scienza di contro alla metafisica. Per la
demarcazione implicita tra scienza e metafisica, dopo la rimozione della teoria della
conoscenza, non è però disponibile alcun altro sistema di riferimento che quello
metafisico messo fuori circolazione. […] Essa rappresenta l’ideologia di fondo che ha
reso possibile la sostituzione della teoria della conoscenza con la teoria della scienza75.
La ricostruzione habermasiana dei passaggi che hanno determinato la sostituzione
della teoria della conoscenza con la teoria della scienza – che costituisce senz’altro uno
dei dati più significativi per questa analisi – se da un lato chiarisce come di fatto si sia
giunti al predominio dogmatico e indiscusso delle scienze empirico-analitiche, d’altro
lato non sembra precisare sufficientemente quella forma di oggettivismo che ne
costituisce il fondamento. Secondo Habermas, per una comprensione di tale aspetto è
necessario rifarsi alla Dottrina degli elementi di Mach, che costituisce il tentativo
positivistico di definire l’ambito di interesse delle scienze come “la sfera alla quale
soltanto può essere assegnata la realtà”76; attraverso questa dottrina si esplicita il tentativo
di conferire una spiegazione del mondo come insieme di fatti e, al contempo, di
determinare i fatti come l’essenza della realtà. La teoria di Mach asserisce che vi sono
due momenti costitutivi dei fatti: la forza di persuasione delle percezioni in un Io e
l’«invadenza» di cose o corpi indipendenti da questo Io. Ciò che più interessa a
Habermas, in merito a tale determinazione, è la genesi dell’idea secondo la quale nel
concetto positivistico di fatto deve permanere la forma dell’evidenza sensibile degli
elementi, mentre può essere liberamente soppressa la rilevanza del soggetto che
percepisce questi fatti. La realtà esiste in sé, come totalità degli elementi e dei loro
collegamenti, mentre per noi questa sussiste come una massa di corpi in corrispondenza
del nostro Io; secondo Habermas, infatti,
la scienza, che trascende le finalità pratiche, dissolve le schematizzazioni di utilità per
la vita e coglie la loro mera validità soggettiva. Dalla massa degli elementi e delle
75
76
EI, pp. 103-104 (p. 81).
Ivi, p. 104 (p. 82).
177
relazioni di elementi non si lasciano mai delimitare in modo definitivo ‘corpi’ e ‘Io’;
la concezione scientifica del mondo conosce solo fatti e relazioni fra fatti, sotto i quali
deve essere sussunta la stessa coscienza conoscente77.
La dottrina degli elementi di Mach, prosegue l’argomentazione habermasiana, può
conferire validità e al contempo giustificare il fondamento dell’ontologia del fattuale –
vale a dire la fondazione oggettivistica della scienza – perché il materialismo lineare in
essa presupposto elimina del tutto “il problema gnoseologico delle condizioni soggettive
della oggettività della conoscenza possibile”. Enfaticamente Habermas può quindi
rimarcare ciò che, secondo la sua ricostruzione, costituisce il nucleo del positivismo:
“l’unica riflessione ammessa serve all’autoabolizione della riflessione sul soggetto
conoscente”78. Se da un lato la dottrina degli elementi dell’epistemologo viennese
permette un generoso ampliamento della realtà interpretabile, d’altro lato essa rende
«minimale» la determinazione della conoscenza; essa spiega la totalità dei fatti come
sfera conoscitiva sottoposta all’analisi delle scienze e, tuttavia, è impossibilitata a fornire
una giustificazione a quelle riflessioni che oltrepassano l’ambito della scienza, quindi
anche se stessa. Il significato medesimo della determinazione della fattualità dei fatti è
indicato da Habermas come il mezzo per giustificare l’estromissione delle asserzioni che
non possiedono alcuno status scientifico; l’eliminazione della riflessione può avvenire
solo se viene riconosciuto alla scienza un ambito oggettuale legittimo, ma con ciò,
afferma Habermas, essa stessa tuttavia non può essere scienza, contrariamente a quanto
dovrebbe esigere per sé. Permane, pertanto, irrisolta la questione di come il positivismo
possa realmente formulare asserzioni sull’ambito d’oggetto della scienza prima della
scienza stessa, dato che le informazioni che si possono ottenere riguardo a questo ambito
avvengono per il tramite della scienza stessa. La risposta a tale quesito Habermas la
deduce a partire dalla fondazione scientistica della scienza, dal momento che
solo attraverso una ontologia del fattuale la dottrina degli elementi conduce a una
fondazione scientistica della scienza, che esclude come priva di senso ogni forma di
77
78
Ivi, p. 108 (p. 85).
Ivi, p. 109 (p. 86).
178
ontologia. Questo circolo viene nascosto con un oggetto che si esprime in un irriflesso
divieto dell’autoriflessione della conoscenza79.
Secondo Habermas, la fede scientistica rafforza il presupposto oggettivistico secondo
il quale la realtà può essere colta in modo descrittivo solamente attraverso le informazioni
scientifiche; una volta consolidato l’oggettivismo, prosegue l’analisi habermasiana, “i
sistemi di riferimento generali di scienze esemplari” costituiscono il sostrato entro il
quale possono essere ricondotti, in modo empirico, tanto il soggetto conoscente quanto i
suoi prodotti cognitivi. La dogmatizzazione dell’interpretazione prescientifica della
conoscenza – che, nella prospettiva habermasiana, costituisce uno degli esiti più
significativi del positivismo – rende sempre più angusto l’accesso alla realtà, poiché
questa altro non è che il sistema di riferimento della scienza medesima. Concludendo la
sua ricostruzione del pensiero di Comte e Mach, Habermas non manca di indicare il
limite insito nella determinazione stessa del positivismo, da lui individuato
nell’oggettivismo; non appena si infrange il divieto imposto di penetrare l’apriori del
sistema di riferimento della scienza e viene messo in discussione il monopolio esercitato
sulla conoscenza, il limite oggettivistico della teoria della scienza cade, “non appena
rinunciamo a svianti ontologizzazioni, possiamo comprendere un dato sistema scientifico
di riferimento come risultato di una interazione del soggetto conoscente con la realtà”80.
Il passo successivo delle riflessioni contenute in Conoscenza e interesse concerne
l’analisi di quelli che, secondo Habermas, costituiscono i tentativi più significativi di
ricostituzione dell’equilibrio tra le scienze e l’interesse posto alla loro guida, vale a dire la
rifondazione della validità della conoscenza prodotta limitatamente all’orizzonte definito
da un determinato interesse: il pragmatismo di Peirce e lo storicismo di Dilthey.
Nonostante entrambi i tentativi siano mossi da presupposti ritenuti validi e – quanto meno
in fase iniziale – condivisi da Habermas, essi non riescono tuttavia a far affiorare ciò che
per il filosofo rappresenta la condizione essenziale per l’emergere di un potenziale
emancipativo in grado di produrre conoscenza critica.
La parte più interessante della sezione dedicata all’analisi del pragmatismo è quella
che va sotto il titolo L’autoriflessione delle scienze della natura: la critica pragmatica
del senso, nella quale Habermas riprende l’approccio di Peirce. Si è visto
79
80
Ivi, p. 113 (p. 89).
Ivi, p. 115 (p. 90).
179
precedentemente come per Marx le condizioni dell’agire strumentale si siano originate in
modo contingente nell’evoluzione del genere umano, mantenendo, al contempo, un
legame tracendentale tra la nostra conoscenza della natura circostante e l’interesse alla
disposizione tecnica su di essa; nell’analisi habermasiana, come correttamente rilevato da
Petrucciani, è il pragmatismo di Peirce a sviluppare tale visione in modo sistematico,
traendone importanti conclusioni81. Habermas sostiene, infatti, che operare una
proiezione dello schema di azione umana sulla natura significa che la sfera dell’agire
strumentale è il quadro trascendentale che definisce le condizioni dell’oggettività di
possibili asserzioni sul reale. Sul piano dei processi della ricerca quella sfera d’azione
ha assunto la forma dell’esperimento: le condizioni trascendentali della esperienza
possibile sono identiche alle condizioni dello sperimentare possibile82.
Seguendo lo sviluppo delle analisi di Peirce, Habermas afferma che, all’interno del
quadro trascendentale, la sfera funzionale dell’agire sperimentale ha un valore di
«posizione»: essa rende possibile l’oggettivazione della realtà, poiché una reazione
osservabile – a partire da una condizione di partenza che costituisce un punto di vista
trascendentale – dà luogo di necessità a “un avvenimento singolo che rappresenta per sé
un effetto generale”83. Tuttavia, rileva Habermas, le condizioni trascendentali della
possibile conoscenza sono poste da una sfera dell’agire, e non da una conoscenza in
generale; da ciò consegue il fatto che le esperienze, aventi luogo nelle condizioni
trascendentali dell’agire strumentale, rappresentano le linee guida sulle quali si può fare
esperienza attraverso la realtà e l’intervento su di essa per il tramite di operazioni:
conseguentemente, “faccio esperienza in modo necessariamente trascendentale soltanto
nella condizione effettiva di successi e insuccessi del possibile agire strumentale”84. Se
quindi, prosegue l’argomentazione habermasiana, il pragmatismo deve essere inteso in
questo senso rigoroso, allora è il riconoscimento del potere di disposizione tecnica ad un
soggetto – agente all’interno di un quadro definito dall’agire strumentale – a conferire
validità alle asserzioni empiriche.
81
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 47.
EI, p. 161-162 (p. 128).
83
Ivi, p. 164 (p. 130).
84
Ivi, p. 166 (p. 132).
82
180
Habermas contesta a Peirce il non aver colto, all’interno del concetto di realtà, la
distinzione tra “ciò che è di fatto indipendentemente dai processi cumulativi di
apprendimento e da un mondo umano costituito attraverso la disponibilità tecnica” e ciò
che viene colto all’interno di quella stessa realtà, nel momento in cui essa diviene il
nostro mondo. Da queste considerazioni, Habermas deriva il limite del concetto di realtà,
così come è inteso dal pragmatismo di Peirce, ossia la mancanza di una effettiva
impostazione di tipo trascendentale della logica della ricerca; al contrario, si legge
nell’analisi habermasiana, questa struttura sembra cadere nuovamente all’interno
dell’ontologizzazione, come conseguenza della determinazione del problema secondo la
logica del linguaggio anziché secondo i criteri della logica della ricerca. Peirce,
mantenendo il nesso trascendentale tra il conoscere e l’agire strumentale, può determinare
la validità delle asserzioni empiriche provate, poiché, in tale prospettiva, è la conoscenza
a stabilizzare l’agire razionale rispetto allo scopo, appurato nel suo esito finale e definito
in un contesto oggettivato dalla prospettiva della possibile disposizione tecnica.
Secondo Habermas, è possibile asserire che la concezione del quadro metodologico
della ricerca, associata da Peirce alla sfera dell’agire strumentale, avvenga nella forma di
“sostituto ontogenetico di meccanismi di guida animali andati perduti o indeboliti”85.
Tuttavia, obietta Habermas, se davvero la conoscenza non fosse altro che il sostituto della
guida istintiva del comportamento, allora la realizzazione dell’interesse – che conferisce
il senso alla realizzazione dell’agire controllato nel risultato – non è né empirico, né tanto
meno un interesse. Infatti, argomenta Habermas,
se il processo della ricerca fosse immediatamente
un processo vitale, allora la
realizzazione dell’interesse che guida la conoscenza dovrebbe produrre tanto
l’appagamento diretto del bisogno quanto un movimento dell’istinto – ma l’interesse
realizzato non porta al piacere (happiness), ma al risultato positivo (success). Il
successo si commisura alle soluzioni di problemi che hanno un valore di posizione
vitale e insieme cognitivo. […] In questo senso […] parliamo di un interesse che
guida la conoscenza per la possibile disposizione tecnica, interesse che determina
l’orientamento dell’oggettivazione della realtà, necessaria nel quadro trascendentale
del processo di ricerca86.
85
86
Ivi, p. 172 (p. 136).
Ivi, pp. 172-173 (p. 137).
181
Ciò che, secondo l’interpretazione habermasiana, Peirce non è in grado di fare è il
pensare il soggetto, che si fa portatore di tale interesse, come colui che salda assieme il
carattere empirico di «genere umano» con il carattere intelligibile di una «comunità»,
determinante il mondo secondo punti di vista trascendentali; in tal modo sarebbe
possibile intendere il soggetto come parte di un processo di formazione. Causa di questa
impossibilità è l’applicazione del criterio pragmatistico del senso sia al concetto di spirito
che a quello di materia, procedimento che manifesta, quindi, tracce di positivismo celate
all’interno del procedimento di Peirce: egli deve conseguentemente “riportare indietro
alla stessa connessione costitutiva […] lo stesso postulato pragmatistico”87. Il motivo
della ricaduta nel positivismo e dell’utilizzo in senso assolutistico del criterio
pragmatistico del senso – al punto tale da annullare i fondamenti stessi di quest’ultimo –
Habermas lo rinviene in una erronea interpretazione del ruolo della comunità dei
ricercatori e della comunicazione che si svolge al suo interno. Il rapporto comunicativo
che si instaura nella comunità scientifica dovrebbe essere considerato da Peirce come un
soggetto trascendentale che si crea in condizioni empiriche, poiché solo attraverso una
tale valutazione sarebbe effettivamente possibile intendere l’autoriflessione come capace
di oltrepassare i propri confini. Come è stato osservato in merito alla discussione con
Albert sulle scienze sociali, anche in questa occasione Habermas enfatizza il fatto che il
terreno del’intersoggettività, sul quale si basa e si sviluppa la possibilità del consenso tra i
ricercatori in merito a questioni metateoretiche, non è il piano dell’agire razionale rispetto
allo scopo. L’agire strumentale dei soggetti aventi parte al processo di ricerca è un dato
indiscutibile, ma non è possibile trascurare il dato che le regole tecniche devono essere
formulate come “asserzioni su relazioni di avvenimenti”88. Ora, però, se questa
87
Ivi, p. 173 (p. 138).
È interessante quanto afferma Karl-Otto Apel a proposito della comunicazione all’interno della
comunità scientifica, nella dimensione intersoggettiva del dialogo tra ricercatori: “Mir scheint die
Voraussetzung einer Verständigung über Ziele und Werte nicht so hoffnungslos irrational, wie vielfach
von den Vertretern des Szientismus angenommen wird. Es ist hier wiederum zweckmäßig, sich auf die
kritische Verständigungsgemeinschaft zu besinnen, die auch die Vertreter wertfreier Wissenschaft unter
sich immer schon bilden müssen, um Sätze dieser Wissenschaft in Geltung zu setzen. Hier nämlich, in der
intersubjektiven Dimension kritischer Verständigung, müssen auch diejenigen, die nur zu beschreiben
und zu erklären wünschen, gerade um der wertfreien Wissenschaft willen Wertmaßstäbe einer
Minimalethik beachten: dazu gehört z. B. die wechselseitige Respektierung der Wissenschaftler als
autonomer Subjekte freier Meinungsäußerung, deren kritische Argumente ernst zu nehmen, aber auch
daraufhin zu prüfen sind, ob sie selbst die Argumente der Kollegen respektieren”, in K.-O. APEL,
Wissenschaft als Emanzipation?, in DALLMAYR, Materialen zu Habermas‘ Erkenntnis und Interesse,
cit., pp. 319-348, qui p. 338.
88
182
rappresentazione simbolica viene considerata solo dal punto di vista trascendentale della
possibile disposizione tecnica, allora, secondo Habermas, si verifica la trasformazione
delle espressioni in «processi d’inferenza»; le inferenze, tuttavia, non permettono la
possibilità dell’instaurarsi di un dialogo tra i soggetti coinvolti, bensì consentono solo di
trarre argomenti. Su questo nodo cruciale Habermas può nuovamente ribadire
l’importanza dell’interazione, posta al fianco dell’agire strumentale:
fin tanto che l’impiego di simboli è costitutivo per la sfera funzionale dell’agire
strumentale, si tratta di uso monologico del linguaggio. La comunicazione dei
ricercatori esige però un uso del linguaggio che non è relegato nei limiti della
disposizione tecnica su processi naturali oggettivati. Esso si sviluppa da interazioni
mediate simbolicamente fra soggetti socializzati che si conoscono e riconoscono
reciprocamente come individui non interscambiabili. Questo agire comunicativo è un
sistema di riferimento che non si lascia ricondurre al quadro dell’agire strumentale89.
Emerge qui un aspetto dell’analisi habermasiana estremamente significativo, vale a
dire la determinazione della comunicazione non come “sussunzione dei singoli sotto un
astratto universale”, ossia come una sorta di monologo pubblico al quale il singolo è
assoggettato, bensì come un dialogo che si instaura in forza di un riconoscimento
reciproco di soggetti che si accertano di se stessi all’interno della comune categoria
dell’esser-Io, mantenendosi nella loro non-identità90. Questo perché “il concetto dell’Io
individuale implica una relazione dialettica del generale e del particolare che non può
essere pensata nella sfera funzionale dell’agire strumentale”91.
89
EI, p. 176 (p. 140).
“Es erweitert das allgemeine Reflexions-Argument des ›transzendentalen‹ Subjekts als
erkenntniskonstitutiver Selbstsetzung gegenüber der Welt durch das allgemeine Reflexions-Argument des
›transzendentalen‹ Sprachspiels als erkenntniskonstitutiver Einbeziehung des Subjekts ist virtuell formalemanzipatorisch, insofern sie die absolute Wertfreiheitsthese der streng theoretischen Objekterkenntnis
und die absolute Entscheidungsthese der praktischen Sinngewinnung, die jede Wertsetzung dem bloß
›jemeinigen‹ Engagement des isolierten Individuums zuschreibt, widerlegt durch Aufweis des
allgemeingültigen, weil a priori voraus-gesetzten, ›Werts‹ der Kommunikation überhaupt. […] Das
Gelingen der Erkenntnis setzt die Reflexion auf ihren kommunikativen Charakter voraus, aus der die
wissenschaftliche Verpflichtung der Bewährung in der Kommunikation und die wissenschaftspolitische
Verpflichtung zur Sicherstellung der wissenschaftlichen Kommunikation folgt. Zwar schließen diese
Verpflichtungen eine (Minimal-) Ethik für das Verhalten der Theoretiker untereinender und ihr
Engagement zur praktischen Sicherstellung des Erkenntnisfortschritts ein, nicht aber eine darüber
hinausreichende Ethik zur konkreten Orientierung des gesellschaftlichen und privat-existentiellen Lebens
und ebensowenig ein konkret perteiergreifendes Engagement zur Gewährleistung eines Fortschritts der
praktischen Humanität”, in BÖHLER, Zur Geltung des emanzipatorischen Interessen, cit., pp. 357-358.
91
EI, pp. 177-178 (p. 141).
90
183
È proprio la riflessione sulla comunità dei ricercatori, sull’esigenza di una
«spiegazione dialogica» e di un’«interazione simbolicamente mediata», a dischiudere la
“dimensione della razionalità comprensiva che, pur incapace di una fondazione
definitiva, si dispiega però sempre in un circolo di autogiustificazione riflessiva”92. La
riflessione dei ricercatori sulla propria attività scientifica mostra come questa non
consista semplicemente nella formulazione di teorie – necessarie alla spiegazione dei fatti
– ma anche nell’accordo circa la validità dei criteri che convalidano queste teorie;
“quando discutono tra loro – osserva Petrucciani – gli scienziati non formulano infatti
teorie esplicative sul comportamento dei loro colleghi, ma cercano di intendersi con essi
in vista di uno scopo”93.
Si è visto nella prolusione francofortese Conoscenza e interesse come Habermas,
nella classificazione dei vari tipi di scienza e dei rispettivi interessi posti alla loro guida,
postuli un interesse di tipo pratico alla base delle scienze storico-ermeneutiche; queste, a
differenza delle scienze empirico-analitiche, sono orientate verso “un possibile consenso
di soggetti agenti nel quadro di un’autocomprensione tramandata” e al loro interno “le
prestazioni di compresione-intesa che sono richieste ad ogni utente del linguaggio
ordinario vengono metodicamente raffinate in vista della comprensione del senso di testi
o di azioni tramandate, o comunque di espressioni significative che richiedano una
decifrazione”94. Nel testo del 1968 Habermas affronta il tema delle scienze storicoermeneutiche facendo riferimento a Dilthey95, sebbene si possa affermare, come è stato
messo in luce dalla critica, che l’analisi habermasiana si possa estendere anche a
92
HABERMAS, Technischer Fortschritt und soziale Lebenswelt, in Technik und Wissenschaft als
›Ideologie‹, cit.; (tr. it. Progresso tecnico e universo di vita sociale, in Teoria e prassi nella società
tecnologica, cit., p. 150.
93
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit. p. 48.
94
Ivi, p. 54.
95
Habermas fa riferimento agli studi maturi di Dilthey, in particolare a quelli compresi nel volume VII
dei Gesammelte Schriften: Die Grundlegung der Geisteswissenschaften e Der Aufbau der geschichtlichen
Welt in den Geisteswissenschaften. L’autore prende inoltre in considerazione alcuni studi e saggi raccolti
nel volume V dei Gesammelte Schriften, Die Ideen über eine beschriebende und zergliedernde
Psychologie, e nel volume I, Die Einleitung in die Geisteswissenschaften. Solo alcuni dei testi presi in
esame da Habermas sono presenti nel volume tradotto da P. Rossi Critica della ragione storica, Einaudi,
Torino 1954: Studi per la fondazione delle scienze dello spirito, Nuovi studi sulla costruzione del mondo
storico delle scienze dello spirito e L’essenza della filosofia.
184
Gadamer, in particolare se si considera parallelamente lo scritto Zur Logik der
Sozialwissenschaften96.
Le scienze empirico-analitiche fanno ricorso all’uso di proposizioni teoretiche che
richiedono una comprensione del senso monologico e si esprimono in un linguaggio
formalizzato o, come lo definisce Habermas, «puro», perché privato di qualsiasi residuo
non riconducibile all’insieme delle relazioni simboliche97; le teorie sperimentali, infatti,
devono separare rigorosamente le proposizioni dai fatti, poiché “la validità empirica delle
loro deduzioni ipotetiche viene controllata a posteriori in proposizioni sperimentali che
esprimono il risultato di osservazioni sistematiche indipendenti dalla teoria”98. In una
posizione del tutto antitetica si situa il comprendere ermeneutico, che supera e, al
contempo, elimina i limiti della comprensione monologica. La comprensione ermeneutica
si relaziona con “l’acquisizione di contenuti di significato tramandati”, nella quale il
senso che deve essere spiegato rappresenta un “dato di fatto”, vale a dire un qualcosa che
è empiricamente dato. Mancando un apparato di regole linguistiche in grado di ricostruire
tutte le asserzioni possibili, come nel caso delle asserzioni scientifiche, la
riorganizzazione delle connessioni di senso tramandate necessita di un particolare tipo di
comprensione che colga le relazioni simboliche come connessioni fattuali: secondo
96
HABERMAS, Zur Logik der Sozialwissenschaften, Mohr, Tübingen 1967 (numero speciale della
«Philosophische Rundschau», febbraio 1967); tr. it. di G. Bonazzi, Intr. di A. Santucci, Logica delle
scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1970. Da qui LS.
Si veda a tale proposito quanto affermato da K.-O. Apel: “Den hermeneutischen Geisteswissenschaften,
d. h. der möglichen Erschließung von Sinn und der Überprüfung von Sinnhypothesen in kommunikativer
Erfahrung, liegt das leitende Erkenntnisinteresse »an der Erhaltung und Erweiterung der Intersubjektivität
möglicher handlungsorientierender Verständigung« zugrunde. Da das Verstehen von Sinn – wie
insbesondere H.-G. Gadamer am Problem der »Traditionsvermittlung« gezeigt hat – nur in dem Maße
möglich ist, als der Interpret im Erschließen einer fremden Situationswelt zugleich den Welthorizont
seines eigenen Daseins entwirft, da also alles hermeneutische Verstehen letztlich in den Kontext der
Verständigung von heute lebenden Menschen über Möglichkeiten und Normen des Handelns
hineingehört, definiert Habermas das den hermeneutischen Wissenschaften zugrunde liegende
Erkenntnisinteresse auch kurz als das »praktische Erkenntnisinteresse«”, in APEL, Wissenschaft als
Emanzipation?, cit., p. 326.
97
Si veda cosa dice Habermas a proposito del “linguaggio puro” nel capitolo successivo: “Secondo le
condizioni dell’agire strumentale si costituisce un linguaggio puro come complesso di tali nessi simbolici,
che possono essere prodotti mediante l’operare secondo regole. Il ‘linguaggio puro’ è dovuto ad una
astrazione del materiale naturale dei linguaggi correnti, come la ‘natura’ oggettivata è dovuta ad una
astrazione dal materiale naturale dell’esperienza del linguaggio corrente. […] Come l’agire strumentale
stesso, così anche l’uso linguistico in esso integrato è monologico. Esso assicura alle proposizioni
teoretiche – l’una rispetto all’altra – un nesso sistematico cogente secondo regole di deduzione”, in EI, p.
236-237 (p. 189).
98
Ivi, p. 204 (p. 163).
185
Habermas, infatti, “l’ermeneutica è al tempo stesso una forma dell’esperienza e
dell’analisi grammaticale”99.
Le scienze ermeneutiche si fondano sull’uso del linguaggio corrente, ossia sul
linguaggio quotidiano, che rende effettivamente possibile la connessione concreta con la
vita e con le esperienze ad essa connesse. Il comprendere di tipo ermeneutico,
consentendo l’esplicitazione dell’individuale per mezzo di categorie generali all’interno
del dialogo, conferisce all’esperienza comunicativa ordinaria la possibilità di intendere se
stessi e gli altri. Come afferma Habermas, infatti,
l’ermeneutica si lascia costituire a modo di procedere esplicito solo quando le riesce di
chiarire la struttura del linguaggio corrente in una modalità tale che le sia consentito
proprio ciò che la sintassi di un linguaggio puro vieta: rendere comunicabile sia pur
indirettamente l’inesprimibile individuale100.
Per cogliere il motivo che spinge Habermas a identificare l’interesse posto alla guida
delle scienze ermeneutiche, è necessario prendere in considerazione quello che è definito
«circolo ermeneutico», emergente nel momento in cui si manifesta la peculiare natura
dell’oggetto proprio di tali scienze. Questa è caratterizzata da un “doppio status”, poiché,
come mostra l’analisi habermasiana, i contenuti di significato tramandati, indagati dal
comprendere ermeneutico, essendo oggettivati in parole e azioni, risultano essere al
contempo simboli e fatti. Attraverso una siffatta rappresentazione dell’oggetto
dell’ermeneutica, si chiarisce perché il comprendere debba necessariamente contenere al
suo interno – come momenti parimenti costituivi – tanto l’analisi linguistica, quanto
l’esperienza. Nel caso dell’esegesi testuale, vi è una reciproca relazione tra la
comprensione delle “parti” del testo attraverso un “tutto” , in precedenza confusamente
pre-compreso, e la correzione del medesimo preconcetto per mezzo delle parti sussunte in
esso. La pre-comprensione, argomenta Habermas, potrebbe svolgere il ruolo di schema
esegetico che riordina i singoli dati per renderli comprensibili; tuttavia, gli elementi non
si rapportano a tale modello come i fatti con le teorie, poiché “l’explicandum e
l’explicans appartengono entrambi allo stesso sistema linguistico”101. Nella comprensione
99
Ivi, p. 205 (p. 164).
Ivi, p. 206 (p. 165).
101
Ivi, p. 217 (p. 173).
100
186
ermeneutica non vi è alcuna relazione di gradi, bensì solo un rapporto tra la parte e il
tutto: il linguaggio da interpretare deve essere imparato dall’interprete, basandosi
esclusivamente sulla riflessività del linguaggio quotidiano. Per Habermas, questa è la
conseguenza diretta del fatto che
la grammatica del linguaggio corrente non stabilisce soltanto relazioni interne al
linguaggio, ma la connessione comunicativa di proposizioni, azioni e Erlebnisse, cioè
regola una prassi vitale socialmente esercitata. Questa concatenazione di linguaggio e
prassi fa capire perché il movimento ermeneutico in essa fondato non può essere
chiamato circolare nel senso logico102.
Appare qui una prima decisiva proprietà delle scienze ermeneutiche, ossia la
peculiare interdipendenza di linguaggio e prassi sociale: secondo Habermas, è questa
relazione a costituire l’apertura, per l’analisi del linguaggio, verso il contenuto empirico
dell’esperienza vitale vissuta. Solo tramite questo legame tra analisi del linguaggio
ordinario e prassi vitale è possibile spiegare il duplice carattere dell’ermeneutica, ossia il
“procedere che rende accessibile in connessioni grammaticali il contenuto empirico di
rapporti di vitali individuali”103.
L’analisi habermasiana pone in rilievo un ulteriore aspetto essenziale, relativamente
alla valenza pratica delle scienze ermeneutiche e che, come sottolineato da Petrucciani,
costituisce “ciò su cui si fonda quella che è una condizione essenziale della
«sopravvivenza elementare» non meno di quanto lo sia la riproduzione della vita
attraverso l’agire strumentale”104: l’intersoggettività del comprendersi. Tanto le scienze
ermeneutiche quanto quelle empirico-analitiche sono guidate da interessi conoscitivi
profondamente consolidati all’interno di connessioni vitali, relative rispettivamente
all’agire comunicativo e a quello strumentale. Mentre, però, le scienze empiriche mirano
alla comprensione della realtà dalla prospettiva trascendentale del possibile controllo
tecnico, quelle ermeneutiche – grazie alle interazioni mediate dal linguaggio ordinario –
tendono al consolidamento e alla stabilizzazione dell’intersoggettività del comprendersi
nella comunicazione quotidiana e nell’agire secondo norme comuni e condivise. La cifra
102
Ibidem.
Ivi, p. 218 (p. 174).
104
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 55.
103
187
della forza del comprendersi ermeneutico si esprime nella capacità di far emergere un
consenso immune da vincoli coercitivi e nell’intersoggettività stessa, dalla quale dipende
l’essenza dell’agire comunicativo. Se questa forma di intersoggettività non è più in grado
di mantenere i flussi comunicativi, irrigidendosi o annullandosi, allora viene a mancare
tanto una condizione di sopravvivenza quanto “la possibilità dell’unione senza
costrizione e del riconoscimento senza violenza” – che secondo l’interpretazione
habermasiana definisce l’aspetto complementare alla possibilità di successo della
disposizione tecnica –. È quindi a partire da queste considerazione che Habermas può
definire «pratico» l’interesse guida delle scienze ermeneutiche:
esso si distingue dall’interesse tecnico della conoscenza per il fatto che non è diretto a
cogliere una realtà oggettivata, ma a conservare l’intersoggettività di un comprendersi
nel cui orizzonte soltanto la realtà può apparire come qualcosa105.
Habermas, tuttavia, rivela un limite importante nell’analisi diltheyana delle scienze
dello spirito, vale a dire la contrapposizione tra rapporto di vita pratico e oggettività
scientifica. Secondo Habermas, infatti, Dilthey vorrebbe immettere il comprendere
ermeneutico all’interno di una sfera trascendentale e limitarlo, quindi, alla descrizione
pura e alla contemplazione106. In questo passaggio, nel voler sottrarre, cioè, la conoscenza
al legame che essa intrattiene con gli interessi, Habermas rinviene una forma di
positivismo nascosto che conduce alla medesima incoerenza rilevata a proposito di
Peirce. Non è infatti possibile, nella prospettiva habermasiana, spezzare l’autoriflessione
delle scienze dello spirito proprio in corrispondenza del mostrarsi dell’interesse pratico
come fondamento stesso della possibilità della conoscenza ermeneutica.
105
EI, p. 222 (p. 177).
“Così il sorgere della vita e la perdurante connessione con essa costituisce il primo tratto fondamentale
nella struttura delle scienze dello spirito; esse poggiano quindi sull’Erleben, il comprendere e l’esperienza
della vita. Questo apporto immediato in cui stanno tra loro la vita e le scienze dello spirito conduce in tali
discipline a un’antitesi tra le tendenze della vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli
economisti, i teorici dello Stato, gli studiosi di religione stanno entro la vita, vogliono influire su di essa.
Essi sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti di massa, tendenze, e tale giudizio è
condizionato dalla loro individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal tempo in cui vivono. Proprio
quando credono di procedere senza presupposti, essi sono determinati da questa loro ottica; ogni analisi
intrapresa sui concetti di una generazione passata mostra che in questi sono contenuti elementi che
derivano dai presupposti dell’epoca. Però nel medesimo tempo in ogni scienza come tale è contenuta
l’esigenza della validità universale. Se debbono esserci scienze dello spirito nel significato rigoroso del
termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sempre più cosciente e più critica”, in DILTHEY,
Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico delle scienze dello spirito, in Critica della ragione
storica, tr. it. cit., pp. 222-223.
106
188
Si è già potuto osservare come, per Habermas, “il superamento di una teoria
monistica della storia basata sul primato della produzione” – come nel caso dell’analisi
marxiana – determini necessariamente la presa di coscienza che il genere umano
necessita tanto della riproduzione materiale della propria vita attraverso l’agire
strumentale, quanto della riproduzione sociale generata dalla dimensione dell’interazione
simbolica, ossia “il riconoscimento di valori e norme comuni (in rapporto con una
tradizione anche criticamente filtrata) sui quali si orienta l’agire inteso nel senso della
praxis”
107
. È, infatti, solo il sapere guidato da un interesse pratico a poter realmente
orientare un’azione, in grado di garantire le condizioni per la riproduzione simbolica, e il
raggiungimento di un accordo – mediante la condivisione di norme, valori e culture –,
capace di condurre ad un’autocomprensione, che orienti l’azione stessa.
A partire da queste ultime considerazioni è possibile osservare la particolare
relazione che si instaura tra l’analisi habermasiana e l’ermeneutica di Gadamer, e il
conseguente emergere della distanza tra i due pensatori108. È importante segnalare il
distacco che si genera tra i due filosofi anche per comprendere il passaggio al terzo tipo
di interesse analizzato da Habermas, quello emancipativo posto alla guida della scienze
critiche. In Logica delle scienze sociali Habermas riconosce a Gadamer l’indiscusso
merito di aver riconosciuto e dimostrato che la comprensione ermeneutica è congiunta “in
maniera necessariamente trascendentale con l’articolazione di un’autocomprensione
orientante l’agire”109, ossia l’aver individuato nel comprendere ermeneutico una guida in
grado di orientare l’azione, per il tramite del suo nesso con la prassi di vita.
La rilevanza pratica, attribuita da Gadamer all’ermeneutica, si esplicita anche
nell’intenzione di completare l’interpretazione nell’applicazione stessa, estendendo con
ciò il rapporto tra comprensione e trasposizione pratico-vitale come modello per
l’intendere ermeneutico in generale, e non più riservato solo all’esegesi testuale.
Habermas afferma che la possibilità di tale trasposizione è giustificata da Gadamer
tramite il ricorso alla definizione aristotelica del sapere pratico110; in tal modo, egli può
fare emergere tre momenti che equiparano il sapere etico-politico aristotelico e quello
107
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit. p. 55.
“Die Scheinbar zwanglose Konvergenz von kritischer Theorie und Hermeneutik, die die bisherigen
Überlegung nahelegen, verdeckt ein Problem, dessen Gewicht in der Kontroverse zwischen Gadamer und
Habermas zutage getreten ist”, in WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und Positivismus, cit., p.
42.
109
LS, p. 245.
110
Habermas rimanda qui a Eth. Nich., VI, 3-10.
108
189
ermeneutico. In primo luogo, “il sapere pratico ha una forma riflessiva: esso è anche un
«saper-si» (Sich-Wissen): gli errori nel contesto pratico li sperimentiamo su noi stessi. In
secondo luogo, “il sapere pratico è interiorizzato. Esso ha la forza di fissare gli impulsi e
di formare passioni”: le regole pratiche che normalmente vengono apprese, diventano
parti strutturali della personalità dell’individuo. Si comprende così perché il sapere
pratico necessiti di una struttura di pregiudizi per essere acquisito, dal momento che esso
si collega al processo di socializzazione del soggetto e lo estende. Infine, “il sapere
pratico è globale. […] I fini che orientano l’azione sono, come le vie sulle quali possono
essere realizzati, momenti della medesima forza vitale (bios)”. Solo in questo modo il
sapere pratico può guidare l’interazione attraverso l’agire comunicativo111. Grazie
all’enucleazione di questi tre stadi che contraddistinguono il sapere pratico, Gadamer
ritiene di poter omologare le scienze ermeneutiche e la filosofia pratica, rispetto alla
posizione che esse rivestono nei confronti della tradizione112.
Sembra, quindi, prosegue l’argomentazione habermasiana, che la struttura stessa
della comprensione ermeneutica permetta di chiarire, per il tramite della tradizione, ogni
forma di autocomprensione – che indirizza l’azione – di gruppi sociali. Tale forma
interpretativa permetterebbe il raggiungimento di quel consenso che è il presupposto
fondamentale
dell’agire
comunicativo.
Muovendosi
parallelamente
e
contemporaneamente sul piano verticale della tradizione e su quello orizzontale della
mediazione tra culture e compagini sociali, la comprensione ermeneutica mette al riparo
dai rischi derivanti dalla rottura dei meccanismi di comunicazione, che renderebbe
impossibile l’intersoggettività dell’intesa e, quindi, “la possibilità dell’unione non
coercitiva e del riconoscimento rispettoso”113.
Habermas rileva come, nel rapporto dialettico tra particolare e universale, la
condizione dell’intersoggettività si manifesti secondo una disposizione «intermittente»,
poiché
111
LS, pp. 246-247.
“L’interprete che ha a che fare con una tradizione si sforza di applicarla. Ma anche qui questo non
significa che il testo tramandato sia per lui dato e compreso come un universale e successivamente usato
per particolari applicazioni. Piuttosto l’interprete non vuole altro che comprendere questo universale – il
testo – cioè comprendere quel che dice la tradizione, che cosa costituisce il senso e il significato del testo.
Ma per comprendere ciò, egli non può prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica in
cui si trova. Ammesso che voglia comprendere il testo, deve metterlo in relazione a tale situazione”, in
H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1965; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo,
Fabbri, Milano 1972, p. 307.
113
LS, p. 248.
112
190
il fatto che in generale esista qualcosa come una tradizione include un momento di non
obbligatorietà: il tramandato deve anche poter essere riveduto, altrimenti il nonidentico verrebbe distrutto dalla ininterrotta identità del gruppo. Le identità degli Io
possono formarsi e mantenersi nella comunicazione linguistica, relativamente a una
identità di gruppo, solo se questa a sua volta può costituirsi, di fronte a quell’altro
collettivo che è il passato del gruppo, come un identico a lui e al tempo stesso anche
come un diverso da lui. Per questo l’universalità globale delle regole pratiche esige
un’applicazione concretizzante che, nella situazione data, la determini in un universale
concreto, intersoggettivamente in vigore114.
Tuttavia, prosegue l’analisi habermasiana, le regole pratiche, a differenza di quelle
tecniche, si rapportano a contenuti di senso trasmessi, che possono essere dichiarati
«compresi» solo nel momento in cui producono un consenso circa il loro significato: è
questa l’eventualità in cui si può parlare, secondo Habermas, di regole con validità
intersoggettiva all’interno di un determinato gruppo sociale. Questa determinazione delle
regole pratiche e del consenso da loro raggiunto provoca una significativa difficoltà,
poiché sono assenti le condizioni teoretiche presupposte, ossia “la definizione
normalizzata dei predicati fondamentali” e “le regole invarianti di applicazione”. Secondo
Habermas, infatti, ciò che è necessario aver compreso precedentemente – l’universale
globale – determina il particolare, in esso presupposto, solo nel momento in cui questo si
rende concreto a partire dal particolare stesso. Solamente in base a questo criterio, in una
determinata situazione, esso può finalmente giungere ad un riconoscimento
intersoggettivo:
ogni
nuova situazione che si
viene a creare
necessita di
un’intersoggettività che, di volta in volta, si rinnova attraverso una comprensione
ripetuta.
L’intersoggettività si configura, pertanto, come una mediazione riflessiva del passato
col presente; e l’acquisizione dei contenuti di senso tramandati avviene secondo il vaglio
di appropriati schemi, adatti alla concezione del mondo. La scelta deve sempre avvenire
in base alla reale possibilità di uno schema di mantenersi inalterato tanto nella situazione
data, quanto in quella interpretata. Ora, secondo la prospettiva habermasiana, l’esperienza
comunicativa avviene entro i confini di una grammatica che interviene nel fissare il
114
Ivi, p. 248.
191
collegamento con questi modelli interpretativi, mentre l’intersoggettività intermittente
pretende di fissare in un compito costante la concordanza reiterata su uno schema
comune. Habermas sostiene che la possibilità di “un’estraneazione controllata” può
rendere effettivo il passaggio della comprensione dal livello di “esercizio prescientifico”
a quello di “procedimento riflesso”, facendo in modo che i procedimenti ermeneutici
diventino parte integrante delle scienze sociali; d’altra parte, tali processi diventano
rilevanti anche per la scelta della cornice categoriale, in modo tale da evitare un
atteggiamento ingenuo di fronte al contenuto storico delle categorie più generali. Eppure,
rileva Habermas,
Gadamer favorisce, senza volerlo, la svalutazione positivistica dell’ermeneutica. Egli
concorda coi suoi avversari nell’opinione che l’esperienza ermeneutica «superi
l’ambito di controllo di una metodica scientifica»115.
Ciò che Habermas intende qui evidenziare è l’errore commesso da Gadamer, il quale,
pur partendo da una critica legittima ad un’autocomprensione oggettivistica errata, muove
tuttavia verso la sospensione dell’estraneazione metodica dell’oggetto, vale a dire verso
la distinzione tra “comprendere autoriflettente” ed esperienza comunicativa quotidiana.
Per Habermas, infatti, è necessario riconoscere all’ermeneutica il suo status di impresa
scientifica, che, tuttavia, “ha uno statuto epistemologico ben diverso da quello delle
scienze naturali, perché è orientata da un diverso interesse conoscitivo”116.
Secondo Habermas, Gadamer converte l’analisi della struttura del pregiudizio della
comprensione nella riabilitazione del giudizio in quanto tale. I pregiudizi corrispondono,
nella prospettiva gadameriana di ripresa di alcuni presupposti illuministici, alla
condizione stessa di una possibile conoscenza, che si eleva a riflessione nel momento in
cui rende evidente l’ambito normativo in cui si muove. Così operando, prosegue
l’argomentazione habermasiana, “l’ermeneutica fa emergere alla coscienza ciò che negli
atti del comprendere è già da sempre storicamente prestrutturato da tradizioni
115
Ivi, p. 251.
Habermas si rifà qui ad un passo dell’introduzione di Verità e metodo: “Il momento storico effettuale in
ogni comprensione di tradizioni è efficace e resta anche là dove ha preso piede la metodologia delle
moderne scienze storiche e si pone come «oggetto» quanto storicamente è avvenuto ed è stato
tramandato.; come un oggetto che si tratta di constatare come un reperto sperimentale; come se la
tradizione fosse estranea e, dal punto di vista umano, incomprensibile come l’oggetto della fisica”, in
GADAMER, Verità e metodo, tr. it. cit., p. XIX.
116
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 56.
192
obbliganti”117. Habermas contesta a Gadamer il voler ricondurre la struttura del
pregiudizio, che ora è resa trasparente, entro la categoria del pregiudizio, cosa che non
può più avvenire, poiché l’aver reso trasparente la struttura non permette più la funzione
di pregiudizio. A tale proposito Habermas asserisce che
il pregiudizio di Gadamer, a favore della legittimità dei pregiudizi sanciti da una
tradizione, contesta alla forza di riflessione che pure vi si palesa la capacità di
respingere la pretesa delle tradizioni. […] Certo, la conoscenza si radica in una
tradizione fattuale; resta legata a condizioni contingenti. Ma la riflessione non opera
senza lasciare tracce nella fatticità delle norme tramandate. Essa è condannata ad agire
in un secondo momento, ma nello sguardo retrospettivo sviluppa una forza
retroattiva118.
Qui emerge il limite più importante che Habermas scorge nelle scienze
ermeneutiche, nonostante il loro essere guidate e sostenute dall’interesse di tipo pratico: il
misconoscimento della forza della riflessione – e la conseguente ipostatizzazione
dell’ermeneutica119 – costringe a risalire alle norme interiorizzate e a seguirle
irriflessivamente, solo dopo aver preso coscienza di una forma coercitiva imposta
dall’esterno e che si manifesta proprio in tale condizione. Infatti, prosegue l’analisi
habermasiana,
dal momento che la riflessione ricorda la maniera autoritaria con cui le grammatiche
dei giochi linguistici sono state dogmaticamente insegnate come regole di
interpretazione del mondo e regole dell’agire, essa può togliere all’autorità ciò che in
117
LS, p. 255.
Ivi, p. 256.
119
“Das heißt nun nicht, dass die hermeneutische Vorbehalte wieder rückgängig gemacht werden sollen.
Es heißt lediglich, dass der Standpunkt der Endlichkeit gegen die Hermeneutik bezogen wird, indem die
endlichen Bedingungen jenes Überlieferungszusammenhanges, den die Hermeneutik hypostasiert, in die
Reflexion einbezogen werden. Es heißt, dass die Möglichkeit eines aufhebenden Sich-selbstTranszendierens des Überlieferungszusammenhanges im Bewusstsein und in der Praxis einsehbar
gemacht wird, ohne dass alle jene Hypostasierungen wieder eingeschleust werden, die die auf Hegel und
Marx sich berufende Tradition belastet haben. Die hermeneutische Kritik hat gezeigt, dass die kritische
Theorie gegenüber der Hermeneutik nicht den Status einer Metatheorie beanspruchen kann; ohne dass ich
nun zu behaupten wage, dass die kritische Theorie das Umgekehrte auch der Hermeneutik bereits
nachgewiesen hätte, so scheint mir doch eine solche Umkehrung der Kritik notwendig und im Recht: sie
wäre die Destruktion der Hermeneutik als Ontologie”, in WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und
Positivismus, cit., p. 53.
118
193
questa era mero dispotismo e risolverla nella coazione meno violenta che esercitano
conoscenza e decisione razionale120.
L’ermeneutica, nella prospettiva habermasiana, non deve, quindi, “assicurare a
priori un indiscusso riconoscimento all’autorità della tradizione” – che al contrario si
dovrebbe solo applicare – : essa non deve precludersi la possibilità di trasformarsi in
critica121.
§. 3. Dal modello psicoanalitico alla «scienza critica». Autoriflessione e unione di
conoscenza e interesse.
I tentativi di Peirce e Dilthey, come si è visto, non si sono mostrati sufficientemente
adeguati ad arrestare il processo, generatosi col «vecchio positivismo», di riduzione della
teoria della conoscenza a teoria della scienza; essi hanno solo parzialmente interrotto il
flusso del “vittorioso corso del positivismo”. Inoltre, afferma Habermas, essi hanno
paradossalmente creato le condizioni per lo sviluppo del positivismo moderno: l’aver
fatto emergere la rilevanza degli interessi posti alla guida della conoscenza ha stabilito i
presupposti per un significativo fraintendimento di tipo “psicologistico”, comportando il
tracollo nella “critica allo psicologismo, sulla cui base si è innalzato il positivismo
moderno nella forma di un empirismo logico e che determina sino ad oggi
l’autocomprensione scientistica delle scienze”122.
Peirce e Dilthey hanno rispettivamente condotto l’autoriflessione sulle scienze della
natura e su quelle dello spirito, fino all’enucleazione degli interessi posti alla loro guida.
Nel caso delle scienze empirico-analitiche, il sapere prodotto si configura come
“tecnicamente valorizzabile”, mentre, nel caso delle scienze storico-ermeneutiche, si
tratta di un sapere “praticamente efficace”. I due ambiti conoscitivi portano a coscienza il
fatto di essere entrambi connotati da quella che Habermas definisce “costellazione di
linguaggio, sapere e esperienza”123, sebbene questa si espliciti in maniera assai differente
nei rispettivi campi d’interesse. Infatti,
120
LS, p. 256.
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 56.
122
EI, p. 234 (p. 187).
123
Ivi, p. 236 (p. 188).
121
194
nella sfera funzionale dell’agire strumentale la realtà si costituisce come il complesso
di ciò che può essere sperimentato sotto il punto di vista della possibile disposizione
tecnica: alla realtà oggettivata in condizioni trascendentali corrisponde una esperienza
ristretta. […] Le proposizioni teoretiche appartengono ad un linguaggio, sia esso
formalizzato o quanto meno formalizzabile. […] Nel contesto dell’agire comunicativo
linguaggio ed esperienza non sottostanno alle condizioni trascendentali dell’agire
stesso. […] Le regole grammaticali determinano il terreno di un’intersoggettività
rifratta tra individui socializzanti124.
Ciò che Habermas mette in risalto in entrambi i casi è l’aver riportato tanto le scienze
nomologiche quanto quelle ermeneutiche all’interno della cornice relativa alla
“connessione vitale” e agli interessi, quale conseguenza necessaria della sostituzione di
un “soggetto trascendentale” con “un genere che si costituisce solo in un processo di
formazione”. A partire da questa considerazione, Habermas può ribadire la natura degli
interessi che, lungi dal rievocare una riproposizione naturalistica delle condizioni logicotrascendentali, rappresentano ciò che media la storia naturale del genere umano con la
logica del suo processo di formazione. La mediazione si manifesta nel momento i cui gli
interessi fungono da orientamenti che, in determinate condizioni, conducono alla
possibile riproduzione e autocostituzione del genere umano: il lavoro e l’interazione.
Peirce e Dilthey hanno compiuto un passo decisivo – sebbene non risolutivo – per
l’interruzione della rovinosa ricaduta della teoria della conoscenza nella sfera della teoria
della scienza, dal momento che entrambi hanno riflettuto “sulla genesi della scienza
all’interno di una connessione vitale oggettiva e portato così la metodologia nella
disposizione della teoria della conoscenza”125; ciononostante, come puntualizza
Habermas, entrambi i pensatori hanno messo in atto tale processo del tutto
inconsapevolmente, non riconoscendo la forza emancipativa della riflessione: la sola che
avrebbe permesso al soggetto di divenire trasparente a se stesso nella propria genesi. Nel
contesto argomentativo, Habermas può così definire ciò che per lui rappresenta il terzo
tipo di interesse conoscitivo:
124
125
Ivi, pp. 236-237 (pp. 188-189).
Ivi, p. 243 (p. 194).
195
nell’autoriflessione una conoscenza per amore della conoscenza viene a coincidere
con l’interesse alla emancipazione; infatti il compimento della riflessione si sa come
movimento della emancipazione. La ragione sta nello stesso tempo sotto l’interesse
della ragione. Possiamo dire che segue un interesse emancipativo della conoscenza
che mira al compimento della riflessione come tale126.
Considerati singolarmente e separatamente, l’interesse tecnico e l’interesse pratico
non possono realmente dirsi interessi conoscitivi; essi necessitano della connessione con
l’interesse emancipativo della riflessione razionale, poiché sono in primo luogo interessi
connaturati nella ragione. Tuttavia, argomenta Habermas, si tratta sempre di una
relazione che procede anche nel verso opposto, dal momento che neppure l’interesse
emancipativo può sottrarsi alla connessione con gli altri interessi conoscitivi:
in quanto l’interesse della ragione alla emancipazione, investito del processo di
formazione del genere e penetrante il movimento della riflessione, è volto
all’adempimento di quelle condizioni di interazione simbolicamente mediata
dell’interesse pratico e tecnico della conoscenza. […] l’interesse emancipativo è da
parte sua dipendente dagli interessi ad un possibile orientamento intersoggettivo
dell’agire e ad una possibile disposizione tecnica127.
Lo strettissimo legame di dipendenza che qui si mostra, tra gli interessi e i processi
vitali, dà origine ad una conseguenza affatto significativa per l’analisi habermasiana:
l’oggettività della conoscenza, come si è già osservato, è data dalle condizioni dell’agire
strumentale e comunicativo, poiché questi assicurano il valore tanto delle asserzioni
nomologiche quanto di quelle ermeneutiche; se, quindi, gli sviluppi conoscitivi si
insinuano all’interno delle connessioni della vita, allora quest’ultima è un’unione di
interessi. Habermas sottolinea, dunque, una doppia valenza della definizione degli
interessi guida della conoscenza, poiché essi, per un verso, mostrano come gli atti
conoscitivi si generino e funzionino in forza dei processi vitali, per l’altro, invece,
chiariscono il motivo per cui la vita, riprodotta socialmente, sia essenzialmente
determinata dalla peculiare connessione di conoscenza e interesse.
126
127
Ivi, p. 244 (p. 194).
Ivi, p. 259 (p. 207).
196
La reciproca dipendenza tra processi conoscitivi, interesse e connessioni vitali genera
una fondamentale concatenazione, che coincide con l’attività stessa della riflessione, vale
a dire con le azioni emancipatrici. Secondo Habermas,
una atto dell’autoriflessione che «cambia la vita» è un movimento dell’emancipazione.
Come qui l’interesse della ragione non può danneggiare la forza conoscitiva della
ragione, poiché conoscere ed agire […] sono fusi in un solo atto, così l’interesse non
rimane esterno alla ragione, dove i due momenti dell’agire e del conoscere sono già
distinti: sul piano dell’agire strumentale e comunicativo128.
Solo per il tramite dell’autoriflessione è possibile l’accertamento degli interessi guida
della conoscenza, dal momento che “la ragione si coglie come interessata nel
compimento dell’autoriflessione” sviluppata metodologicamente. Questo è, in ultima
analisi, l’ostacolo contro il quale tanto Peirce – riflettendo sulle scienze empiricoanalitiche – quanto Dilthey – nella sua analisi sulle scienze storico-ermeneutiche – si
sono imbattuti, poiché non è stata valutata la possibilità di ripristinare le esperienze più
profonde della storia del genere umano per il tramite di una metodologia nella forma di
teoria della conoscenza, la sola in grado di condurre verso un grado più elevato di
autoriflessione129.
Habermas sembra scorgere la possibilità del recupero della dimensione
autoriflessiva, ripristinata metodologicamente, in una disciplina nata e sviluppatasi sul
terreno stesso del positivismo: la psicoanalisi130. Questa comporta “l’interpretazione per
processi di formazione devianti e disturbanti, che possono essere ricondotti alla normalità
128
Ivi, p. 261 (p. 208).
“Was ist demgegenüber der Sinn eines »Verstehens durch Erklären«? Dieser Sinn ergibt sich aus der
Reflexion auf die mögliche Bedeutung jener eben erwähnten quasi-kausalen Strukturen gesellschaftlicher
Zusammenhänge. Diese können nämlich objektive Sinnzusammenhänge repräsentieren, die gerade
darum, weil sie sich hinter dem Rücken der handelnden Subjekte durchsetzen, diese einem
undurchschauten Zwang unterwerfen, der nur als durchschauter reflexiv und praktisch gebrochen werden
kann”, in WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und Positivismus, cit., p. 40.
130
A tale proposito è molto interessante la nota biografica riportata da Wiggerhaus, il quale afferma: “Le
manifestazioni promosse da Horkheimer e da Mitscherlin per il centenario della nascita di Freud,
nell’estate del 1956, furono per Habermas illuminanti soprattutto su un punto: sul fatto cioè che Freud, da
cui egli non aveva ricavato quasi nulla quando aveva studiato psicologia all’università, non era soltanto
l’importante teorico e fondatore della psicoanalisi che trionfava i tutto il mondo, ma poteva anche esser
utilizzato, come Marx, per analizzare i rapporti attuali. Il nucleo essenziale della forza propulsiva della
teoria critica – la prospettiva utopica della critica radicale ai rapporti esistenti – suscitava in lui un
malcelato stupore, una simpatia che lo lasciava quasi sgomento”, in WIGGERHAUS, La scuola di
Francoforte, tr. it. cit., p. 558.
129
197
attraverso un’autoriflessione terapeuticamente diretta”131, secondo un’idea che la
concepisce come una scienza sperimentale rigorosa. Come è stato osservato da Wellmer,
i motivi inconsci analizzati da Freud, attivi alle spalle dei soggetti agenti, possiedono il
valore posizionale pratico di «causa», poiché l’interpretazione psicoanalitica può
costituire il punto di partenza per la ricostruzione oggettivo-intenzionale del nesso sociale
e storico-vitale, la conoscenza del quale è stata occultata da originarie e repressive
costrizioni132.
Nella sezione di Conoscenza e interesse che va sotto il titolo di Autoriflessione come
scienza: Freud e la critica psicanalitica del senso, Habermas segnala fin da principio il
motivo che lo porta a identificare la scienza freudiana con l’espediente in grado di
ripristinare l’autoriflessione rinnegata:
la psicoanalisi è per noi importante come il solo tangibile esempio di una scienza che
metodicamente fa appello all’autoriflessione. Con la nascita della psicoanalisi si
spalanca la possibilità di un accesso metodologico, a partire dalla logica della ricerca
stessa, a quella dimensione sepolta dal positivismo133.
Coerentemente al proposito di legittimare l’intento critico della teoria della società,
Habermas, come ha rilevato Cunico, deve palesare il fatto che questo si radichi “in un
interesse conoscitivo (emancipatorio) che sta già alla base di una direzione esistente della
ricerca scientifica”, facendo ricorso ad un teoria definita “da un’intenzione criticoriflessiva e da un’impostazione metodica analoga”: la psicoanalisi134. Sebbene Habermas
rilevi come la realizzazione effettiva di tale intento non sia di fatto avvenuta a causa di
un’autofraintendimento scientistico di questa disciplina – originatasi a partire dallo stesso
Freud – è tuttavia molto significativo osservare il collegamento che il filosofo mette in
atto con l’ermeneutica, poiché la psicoanalisi altro non è se non una forma particolare di
comprensione. Il dato che differenzia il procedimento psicanalitico dall’ermeneutica è
131
EI, p. 234 (p. 187).
“Habermas das am Beispiel der Psychoanalyse klarzumachen versucht. Die von Freud analysierten
unbewussten Motive, die hinter den Rücken der handelnden Subjekte wirksam sind, haben den
praktischen Stellenwert von Ursachen. […] Wenn Habermas recht hat, ist im Falle der Psychoanalyse die
Feststellung kausal interpretierbarer Verhaltensdispositionen der Ansatzpunkt für die Rekonstruktion
eines objektiv-intentionalen sozialen und lebensgeschichtlichen Zusammenhanges, dessen Erkenntnis den
Bann nuturwüchsig wirkender, repressiv erzeugter Zwänge brechen kann”, in WELLMER, Kritische
Gesellschaftstheorie und Positivismus, cit., pp. 40-41.
133
EI, pp. 262-263 (p. 209).
134
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 75.
132
198
ravvisato nello specifico oggetto d’analisi: non l’esegesi testuale, bensì un testo che si
sviluppa in una dimensione affatto diversa, la biografia individuale come luogo che è
“nello stesso tempo un conosciuto dal di dentro e un non conosciuto”135. Infatti,
l’interpretazione psicoanalitica si rivolge verso ciò che non è coscientemente inteso, vale
a dire verso ciò che si mostra in omissioni e deformazioni, cercando di portare in
superficie le connessioni simboliche danneggiate da interventi interni al soggetto stesso –
e non, come nel caso dell’ermeneutica, da impedimenti esterni –. Se, pertanto, la
biografia dell’individuo può essere considerata come un testo particolare da interpretare,
allora l’interpretazione psicoanalitica deve coniugare l’analisi linguistica con l’indagine
psicologica dei nessi causali, poiché
l’incompleta o distorta manifestazione del senso non risulta in tal caso da un difetto di
trasmissione; si tratta anzi di una connessione biografica che è diventata inaccessibile
per il soggetto. All’interno dell’orizzonte della storia della vita resa presente, il ricordo
viene meno al punto che il disturbo di funzionamento del ricordo come tale chiama in
azione l’ermeneutica, ed esige di essere compreso in una connessione obiettiva del
senso136.
L’esplicitazione concettuale della connessione appena descritta tra ermeneutica e
psicanalisi
si
esprime
nella
definizione
di
«ermeneutica
del
profondo»
(Thiefenhermeneutik), lemma che ben definisce l’opera di comprensione sul materiale
non manifesto del soggetto: la psicoanalisi, a partire dai sintomi nevrotici dei pazienti, si
propone di far riconoscere – tanto all’analista, quanto al paziente stesso – “la loro origine
in qualche conflitto interno che i pazienti non sono più in grado di riconoscere e che anzi
tendono involontariamente ad occultarsi sistematicamente”137. Lo scopo della
Thiefenhermeneutik è, infatti, quello di rispondere ad un interesse emancipativo, che mira
ad innescare un’autoriflessione dei soggetti, mediante la quale essi prendono coscienza
delle loro esigenze profonde represse e del processo di dominazione o di disciplinamento
del discorso cui sono stati sottomessi, al punto da averlo interiorizzato e da non riuscire a
vederlo.
135
EI, p. 264 (p. 210).
Ivi, p. 266 (p. 212).
137
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 75.
136
199
Riprendendo L’interpretazione dei sogni138, Habermas assume la dimensione onirica
come modello non patologico del testo oggetto dell’analisi psicoanalitica, dal momento
che il sogno è inteso da Freud come il «modello normale» di alterazioni morbose e la sua
interpretazione consente l’emersione – e il conseguente rischiaramento – delle
connessioni di senso alterate patologicamente. Lo psicanalista, di fronte al sogno, si
relaziona come l’interprete di fronte al testo, sebbene egli debba compiere uno sforzo
maggiore che gli permetta di oltrepassare la tecnica ermeneutica per
cogliere non solo il senso di un testo eventualmente deformato, ma il senso della
deformazione stessa del testo, la trasformazione di un pensiero latente del sogno in
quello manifesto; deve allora ricostruire ciò che Freud ha chiamato il «lavoro del
sogno»139.
Relativamente alla struttura del sogno, è qui importante rilevare il suo strato più
profondo, vale a dire quello che oppone maggiore resistenza nei confronti
dell’interpretazione, a causa dei contenuti simbolici in esso racchiusi; sono questi,
secondo Freud, a dare forma al senso latente per mezzo di metafore o coperture
sistematiche, che assumono il ruolo di veri e propri atti censori. «Omissione»
(Auslassung) - rimozione in senso stretto, rivolta contro il proprio sé – e «dislocamento»
(Verschiebung) - travestimento che proietta il sé verso l’esterno – figurano come strategie
difensive che l’analisi del sogno deve smascherare. La scoperta freudiana di questi
meccanismi di difesa, soprattutto in riferimento alle “mutilazioni e distorsioni del testo
del sogno”, è considerata da Habermas come uno degli aspetti più interessanti. La difesa
che qui si mette in atto rappresenta una specifica forma di censura (Zensur), poiché essa
“reprime materiali linguistici e significati in essi articolati. […] ai modi di procedere della
proibizione del testo e della rielaborazione del testo corrispondono i meccanismi psichici
dell’omissione (rimozione) e del dislocamento”140.
Ciò che da queste determinazioni del sogno risulta essere significativo per l’analisi di
Habermas consiste nella trasposizione degli aspetti “normali”, manifestantesi nell’attività
138
S. FREUD, Die Traumdeutung, in Gesammelte Werke, vol. II/III, a cura di A. Freud, E. Bibrig, W.
Hoffer, E. Kris e O. Isakower, London 1940 (Frankfurt a. M. 1963, quarta ristampa); (tr. it. di E.
Facchinelli, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino 1966).
139
EI, pp. 270-271 (p. 216).
140
Ivi, p. 275 (pp. 219-220).
200
onirica, in forme patologiche che si mostrano nell’attività quotidiana del soggetto: isteria,
neurosi ossessive, fobie varie rappresentano infatti “i casi patologici limite di una scala di
comportamenti mancati”, in parte collocati nell’ambito della normalità e in parte
simboleggianti i criteri per ciò che è definito «normale». “‘Mancata’ [fehlerhaft] nel
senso metodologicamente rigoroso è infatti ogni deviazione dal modello del gioco
linguistico dell’agire comunicativo, nel quale coincidono motivi dell’agire e intenzioni
linguisticamente espresse”141. Si esplicita qui un primo evidente collegamento tra il
modello psicoanalitico e l’intenzione habermasiana di portare alla luce l’interesse
emancipativo delle scienze critiche. La devianza analizzata attraverso l’interpretazione
del sogno corrisponde al caso normale di ogni comunicazione nella quotidianità delle
condizioni sociali conosciute. Il disturbo che l’analista coglie attraverso la sua indagine
emerge proprio perché il modello, al quale si riferisce, non ammette una correlazione tra
“simboli scissi e connesse disposizioni di bisogno” nella sfera comunicativa pubblica.
Nella comunicazione ordinaria un siffatto schema potrebbe funzionare solo a patto di
essere applicato ad un paradigma di società non repressiva; ma è proprio questo il nodo
problematico che Habermas intende risolvere. La condizione ideale di un «dialogo libero
da dominio» corrisponde, nell’analisi habermasiana, a quella che Honneth ha definito la
“condizione ideale di un soggetto, trasparente rispetto agli altri e a se stesso e quindi
maturo, raggiunta attraverso una libera linguisticizzazione
(Versprachlichung) del
potenziale dei bisogni individuali”, e contrapposta ad una comunicazione “determinata
dalla coercizione, plasmata dal dominio” che genera i disturbi del processo di formazione
dell’identità142.
Per tale motivo, appartengono alla sfera interpretativa dell’ermeneutica del profondo
tutte le situazioni nelle quali “il testo del nostro gioco linguistico quotidiano” è interrotto
internamente da “simboli incomprensibili”. Questi simboli – incomprensibili perché non
sottoposti ad alcuna regola della grammatica della lingua in uso, dei modelli culturali e
delle norme d’azione – sono definiti da Freud «sintomi», che perdurano fintanto che il
soggetto è sottoposto a schemi costanti e vincolanti coercitivamente. I sintomi, d’altra
parte, possono anche rappresentare l’autoestraneazione del soggetto in considerazione,
causata dall’affermazione della violenza interpretativa originatasi dal sé o esternamente
all’Io. Per Habermas, quindi,
141
142
Ivi, p. 277 (p. 221).
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 314.
201
poiché i simboli che interpretano i bisogni repressi sono esclusi dalla comunicazione
pubblica, la comunicazione del soggetto parlante e agente è interrotta con se stesso. Il
linguaggio privatizzato dei motivi inconsci è sottratto all’Io, sebbene esso retroagisca
internamente sull’uso linguistico controllato dall’Io e sulle motivazioni delle sue
azioni, con il risultato che l’Io nelle connessioni simboliche, che produce
consciamente, si inganna necessariamente sulla propria identità143.
Il compito dell’interprete in una comunicazione distorta “internamente” si discosta in
modo considerevole da quello che svolge l’interprete ermeneutico, dal momento che
l’analista deve compiere una mediazione interna al soggetto, impartendogli le indicazioni
per comprendere il suo stesso linguaggio. Secondo Habermas, infatti, l’ermeneutica di
tipo psicanalitico ha come obiettivo l’«atto del comprendere» che la guida verso
l’autoriflessione, e non la comprensione di connessioni simboliche; così operando si
esplicita il motivo secondo il quale la psicoanalisi è un modello di autoriflessione: la
«traduzione dell’inconscio in conscio» è riflessione.
L’ipotesi di partenza – secondo la quale il percorso conoscitivo affrontato dal
paziente sarebbe una forma di autoriflessione – sembra essere confermata dal processo
analitico del transfert e della comunicazione tra il medico “che costruisce” e il paziente
“che trasforma” la comunicazione nell’azione del ricordo. Nell’indagine habermasiana,
ciò si rende possibile in forza di “un processo compensatorio che annulla i processi di
scissione”144, dell’eventualità, cioè, di deformare le regole della comunicazione in uso nel
linguaggio privato e, contemporaneamente, di ridurre i motivi d’azione – connessi a
simboli esclusi – a un qualcosa di innocuo. Si palesa così, seguendo l’argomentazione di
Habermas, il fatto che la totalità virtuale (die virtuelle Ganzheit), frammentata dalla
scissione, riproduce lo schema di un “puro agire comunicativo”, per il quale
tutte le interazioni diventate abituali e tutte le interpretazioni ricche di conseguenze
per la prassi della vita sono sempre accessibili, sulla base dell’apparato interiorizzato
del linguaggio corrente non ristretto in una comunicazione pubblica e senza vincoli, in
modo tale che è conservata anche la trasparenza della storia della vita ricordata145.
143
EI, p. 278-279 (p. 222).
Ivi, p. 285 (227).
145
Ibidem.
144
202
Il procedimento psicoanalitico si realizza nell’obiettivo terapeutico di sciogliere le
inibizioni della coscienza e di fare breccia nelle false oggettivazioni, per poter permettere
al soggetto di riappropriarsi di “un brano di storia della vita andato perduto”, facendo
regredire l’andamento della frattura. La conoscenza analitica è, pertanto, autoriflessione
poiché in essa “la dissoluzione analitica come tale è la sintesi, la ricostruzione di un’unità
corrotta (die Wiederherstellung einer korrumpierten Einheit)”146.
Un dato rilevante messo in luce da Habermas corrisponde al comportamento che
l’analista deve tenere nella situazione di transfert, affinché possano crearsi le condizioni
per un’adeguata interpretazione; il medico non si pone in atteggiamento contemplativo di
fronte al paziente ma, al contrario, si impegna a sostenere “metodicamente il ruolo del
partner”, in modo tale da trasformare la coazione neurotica a ripetere nell’identificazione
del transfert, “mantenendo i transfert ambivalenti e sciogliendo in sé il vincolo del
paziente”. Questo modo di agire fa sì che il terapeuta diventi un vero e proprio strumento
di conoscenza, grazie alla “controllata aggiunta della sua soggettività”147. Habermas
chiarisce quest’ultima affermazione in una nota al testo, nella quale enfatizza il carattere
dell’autoriflessione come movimento strettamente connesso all’intersoggettività di una
comunicazione linguistica tra soggetti, poiché, riprendendo Hegel, l’autocoscienza può
costituirsi solo sulla base del reciproco riconoscimento148. Come è stato osservato da
Cunico, infatti, Habermas sa bene che il quadro metateorico della psicoanalisi introduce
una «teoria del linguaggio ordinario», capace di illustrare la validità intersoggettiva dei
simboli linguistici e le interazioni interpersonali sulla scorta del riconoscimento
146
Ivi, p. 286 (p. 228).
Habermas riporta la seguente citazione da Freud, a sostegno della propria affermazione: “il malato
neurotico ci contrappone una vita psichica lacerata, divisa da resistenze, e mentre noi analizziamo,
vinciamo le resistenze, questa vita psichica si ricompone; la grande unità che noi diciamo essere l’Io
inserisce in se stessa tutte le pulsioni istintuali che sino ad allora erano scisse e tenute lontane da essa”, in
FREUD, Wege der psychoanalytischen Therapie, in Ges. Werke, cit., vol. XII, p. 186.
147
EI, p. 290 (p. 231).
148
Cfr. nota 56, p. 290 (p. 231): “[…] Ancora più importante è il fatto che il paziente può arrivare in
generale solo sino a quel grado dell’autoriflessione sul quale il medico gli si contrappone.
L’autoriflessione non è un movimento solitario, ma è legato alla intersoggettività di una comunicazione
linguistica con un altro: l’autocoscienza si costituisce alla fine solo sulla base di un riconoscimento
reciproco. Quando il medico lascia che il paziente si sciolga dalla situazione di transfert e lo libera come
un Io autonomo, i soggetti devono reciprocamente prendere una posizione nella quale il liberato sa che
l’identità dell’Io è possibile solo attraverso l’identità dell’altro che lo riconosce, identità a sua volta
dipendente dal suo riconoscimento”.
203
reciproco, che costituisce, di fatto, la colonna portante del processo di socializzazione dei
soggetti149.
Habermas si sofferma sull’elaborazione della struttura degli assunti psicoanalitici
fondamentali - condotta successivamente da Freud –, nella quale vengono distinti in i tre
momenti di Io, Es e Super-Io come dimostrazione della connessione essenziale interna
all’apparato psichico. Sembra opportuno non dilungarsi su tale aspetto, dal momento che
lo stesso Habermas – nonostante il numero di pagine dedicate alla questione – riconosce
in questa sistemazione un limite dell’analisi freudiana. La “derivazione del modello di
struttura dalle esperienze della situazione analitica”150 porta Freud ad intendere il
compito interpretativo dell’analista attraverso le espressioni teoretiche incluse in questo
modello, deviando l’idea di comunicazione dalla prospettiva della tecnica analitica a
quella teoretica. Ora, secondo Habermas, la conseguenza più evidente di tale evoluzione,
si configura nel depauperamento della forza del linguaggio emerso ed espresso tramite la
tecnica analitica; infatti,
nel modello di struttura […] l’istanza dell’Io non è più dotata della capacità, cui è
chiamata con quelle espressioni; l’Io esercita le funzioni di adattamento intelligente e
della censura pulsionale, ma manca della specifica prestazione di cui l’operazione di
difesa è solo il negativo: l’autoriflessione151.
In base alle osservazioni sulla forza emancipativa della psicoanalisi, è così possibile
derivare, in accordo con quanto osservato da Honneth, il motivo fondamentale cha ha
spinto Habermas ad accettare l’analisi psicoanalitica, linguisticamente interpretata, come
modello della “struttura metodologica della teoria critica della società innanzitutto sulla
149
“Habermas non si limita a sottolineare che la psicoanalisi è una conoscenza scientifica che mira a
eliminare una deformazione del comportamento, a liberare una comunicazione intrapsichica bloccata e
distorta, mediante un dialogo metodicamente condotto, volto a ripristinare un’autoriflessione del soggetto;
né si limita a rilevare il suo parallelismo con una teoria della società che mira a emancipare i soggetti
sociali oppressi, a liberare una comunicazione pubblica bloccata e deformata dalle strutture di dominio,
mediante una critica dell’ideologia volta a ripristinare l’autocoscienza dei soggetti. Habermas osserva
anche che il quadro metateorico della psicoanalisi presuppone una «teoria del linguaggio ordinario» che
chiarisca la validità intersoggettiva dei simboli linguistici, la mediazione linguistica delle interazioni
interpersonali sulla base del riconoscimento reciproco, che è anche la base del processo di formazione dei
soggetti come socializzazione e individuazione insieme”, in CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., pp.
76-77.
150
EI, p. 299 (p. 238).
151
Ivi, pp. 299-300 (p. 239).
204
scorta di prestazioni riflessive del processo di formazione individuale”152. Gli obiettivi
che la psicoanalisi si propone di realizzare – liberando il potenziale emancipativo, in
grado di affrancare l’individuo dai blocchi generati da un processo di linguisticizzazione
interrotto e dalle coercizioni dei conflitti interni resi irriconoscibili – costituisce, almeno
in questa fase del pensiero habermasiano, il modello metodologico di una nuova teoria
critica della società, il quale, in consonanza all’interesse emancipativo della conoscenza
psicoanalitica, “analizza conformemente il processo di formazione del genere per
liberarlo dalla violenza di dipendenze non pensate”153.
C’è, tuttavia, un ulteriore passaggio, compiuto da Habermas, prima di giungere alla
delineazione vera e propria degli aspetti salienti della sua teoria sociale in senso critico.
Egli propone un confronto tra la psicoanalisi freudiana e l’analisi marxiana della società,
sostenendo l’idea che il processo di interpretazione analitica di Freud possa essere
impiegato “per sviluppare ed elevare a un livello di consapevolezza critica la marxiana
«critica dell’ideologia»”. Secondo Habermas, infatti, Freud ha potuto far emergere una
connessione del tutto ignorata da Marx: il filosofo di Treviri “non ha potuto cogliere il
dominio e l’ideologia come comunicazione distorta perché assumeva che gli uomini si
fossero distinti dagli animali quando avevano iniziato a produrre i propri mezzi di
sussistenza”154, limitandosi con ciò a considerare l’organizzazione umana sotto l’aspetto
del lavoro e dell’agire strumentale. Freud, al contrario, ha contemplato come fondamento
naturale della storia “la specifica organizzazione corporale dell’uomo sotto la categoria
dell’eccedenza di pulsioni e della sua canalizzazione: l’animale inibito nelle pulsioni e
contemporaneamente capace di fantasia”155. Proprio questo ha consentito al padre della
psicoanalisi di concentrarsi sulle basi motivazionali dell’agire comunicativo, anziché
limitarsi all’ambito dell’organizzazione del lavoro e dell’agire strumentale. Con Freud
creano così le condizioni per porre il movimento della riflessione all’interno di una
cornice più ampia, quella della storia universale del genere umano, e, al contempo, di
indirizzarla contro il dominio e l’ideologia, che ora appaiono come categorie più estese.
I potenziali pulsionali ricostruiti appartengono come tali alla inconoscibile natura in
sé; nondimeno essi sono accessibili alla conoscenza in quanto determinano la
152
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 315.
Ivi, p. 316.
154
EI, p. 342 (p. 273).
155
Ivi, p. 343 (p. 274).
153
205
situazione di partenza di quel conflitto dal quale il genere umano prende avvio. Le
forme nelle quali il conflitto si esprime dipendono invece dalle condizioni culturali
della nostra esistenza: lavoro, linguaggio, dominio. Non ci siamo accertati delle
strutture di lavoro, linguaggio e dominio ingenuamente, ma attraverso una
autoriflessione della conoscenza, che imposta problemi di teoria della scienza, in
seguito declinata trascendentalmente e infine consapevole della sua connessione
oggettiva156.
Con queste parole Habermas ricostruisce il percorso fin qui seguito, al fine di poter
compiere l’ultimo e decisivo passo verso lo statuto della nuova teoria critica della società.
La psicoanalisi e l’autoriflessione ad essa associata hanno offerto la possibilità di
ricondurre sul piano oggettivo le condizioni trascendentali, grazie alle quali era stato
possibile enucleare gli interessi tecnico e pratico, rispettivamente associati alle scienze
empirico-analitiche e a quelle storico-ermeneutiche.
Trasponendo la condizione patologica analizzata dal procedimento psicoanalitico –
responsabile dell’autoriflessione del malato sulla propria condizione e della spinta verso
il superamento e l’eliminazione dei blocchi coercitivi – all’interno del più articolato
contesto sociale, è possibile riscontrare la stessa pulsione all’autoriflessione, capace di
decifrare “tanto le censure e i blocchi dogmatici imposti alla comunicazione dalla durezza
del dominio sociale, quanto la protesta implicita e, in senso non tecnico, inconscia contro
questo dominio”157. Secondo Habermas, infatti,
poiché sia la patologia delle istituzioni sociali che quella della coscienza individuale
sono fissate nel medium del linguaggio e dell’agire comunicativo ed assumono la
forma di una distorsione strutturale della comunicazione, quell’interesse posto con la
pressione del dolore è anche nel sistema sociale immediatamente un interesse alla
chiarificazione cosciente – e la riflessione è l’unico movimento possibile in cui esso si
attua. L’interesse alla ragione è una spinta alla progressiva realizzazione criticorivoluzionaria, ma per via di tentativi, delle grandi illusioni dell’umanità in cui i
motivi repressi sono stati elaborati in fantasie della speranza158.
156
Ivi, p. 347 (p. 277).
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 59.
158
EI, p. 349-350 (p. 279).
157
206
L’interesse alla ragione è strettamente connesso a quello dell’autoconservazione,
sebbene le due tipologie di interesse si differenzino tra loro sostanzialmente: il primo,
infatti, è radicato nella storia del genere umano, mentre il secondo si mostra come un dato
discontinuo, dal momento che non può essere inteso come separato e indipendente dalle
condizioni di lavoro, linguaggio e dominio. L’interesse all’autoconservazione mira al
raggiungimento di ciò che conferisce valore alla vita, ossia il “bene” che deve cogliere la
sua intrinseca articolazione con l’interesse fondamentale all’emancipazione. Le
condizioni stesse di conservazione della vita umana, prosegue l’argomentazione
habermasiana, rese possibili in forza del lavoro e dell’interazione, ma assoggettate alle
costrizioni di una comunicazione patologicamente distorta, mostrano il legame
inscindibile tra l’interesse all’autoconservazione e l’interesse alla ragione, “che si
sviluppa soltanto nella critica e si conferma nei suoi risultati pratici”.
L’esempio della psicoanalisi – come un modello tra i possibili – consente ora a
Habermas di definire l’essenza della scienza critica nell’unione di conoscenza e interesse:
soltanto se, sul modello della scienza critica, è colta questa unità di conoscenza e
interesse, può essere visto come necessari anche la correlazione di punti di vista
trascendentali della ricerca e interessi guida della conoscenza. […] l’interesse
all’autoconservazione […] si rivolge
[…] alle condizioni funzionali di lavoro e
interazione: esso si estende in egual misura alle relative categorie del sapere, a
processi di apprendimento cumulativi e ad interpretazioni durature mediate dalla
tradizione159.
159
Ivi, p. 351 (p. 280).
207
CAPITOLO QUINTO
La difficile traduzione del rapporto di teoria e prassi nella sfera
politica.
Nel percorso finora condotto, si è tentato di ricostruire più chiaramente possibile lo
svolgimento della critica habermasiana allo scientismo, tanto in ambito sociologico,
quanto in ambito filosofico. Ciò è avvenuto principalmente in relazione al tema degli
interessi guida della conoscenza, per giungere – dopo aver enucleato le diverse tipologie
di scienza esaminate da Habermas – alla definizione dello status di scienza critica,
grazie al raffronto con la teoria psicoanalitica. Nel fare questo si è intenzionalmente
tralasciata un’opera di grande portata teoretica, redatta per la prima volta nel 1963:
Theorie und Praxis1. Si tratta di una raccolta di saggi, che, come rilevato da Gian Enrico
Rusconi, riconducono al nucleo iniziale della speculazione habermasiana, ossia
“all’intenzione politica che è la molla della successiva ricerca fondativa e delle sue
evoluzioni"2.
Non sembra, tuttavia, costituire un problema, dal punto di vista della ricostruzione
sistematica dei temi portanti del pensiero del primo Habermas, l’aver compiuto questo
salto temporale, soprattutto considerando il fatto che la traduzione italiana di Theorie
und Praxis è avvenuta sulla seconda edizione del testo, quella del 1971, contenente una
nuova introduzione dell’autore che si riferisce esplicitamente al testo del 1968
Erkenntnis und Interesse, e riprende alcune delle obiezioni mossegli negli anni
immediatamente successivi alla pubblicazione.
È possibile suddividere il testo in tre sezioni tematiche principali, ognuna inerente
ad un rapporto specifico del legame di teoria e prassi, indagate da visuali prospettiche
differenti. In primo luogo, il tema del rapporto tra teoria e prassi è sviluppato secondo il
binomio «scienza politica» e «filosofia sociale». Il primo lemma indica “il concetto di
1
HABERMAS, Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Luchterland, Neuwied-Berlin 1963.
Quarta edizione, rivista, ampliata e con una nuova introduzione, edita da Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973;
(tr. it. di A. Gajano, Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna 1973). Da qui TP.
2
G. E. RUSCONI, Una ridefinizione del concetto di prassi, in HABERMAS, Prassi politica e teoria
critica della società, tr. it. cit., p. 14.
209
politica nella distinzione aristotelica tra «prassi», come dialogo dei cittadini in un
contesto etico, e «tecnica» come gestione del potere al di sopra del consenso dei
cittadini”3. Il secondo suggerisce invece essenzialmente lo status di critica del
marxismo – condizione destinata a subire importanti mutamenti negli sviluppi
successivi del pensiero habermasiano –. Si tratta, in altre parole, del confronto specifico
che si viene a creare tra la teoria politica classica e la filosofia sociale moderna,
riconducibile al rapporto triadico fra theoria, praxis e poiesis. In secondo luogo, la
relazione teoria-prassi si riferisce ai problemi connessi alla formazione e alla critica
della sfera pubblica borghese, riallacciandosi direttamente al testo habermasiano
pubblicato nel 1962 Strukturwandel der Öffentlichkeit4. Infine, la coppia categoriale
teoria-prassi è analizzata al’interno del contesto del Positivismusstreit e si riconnette
direttamente alla questione degli interessi guida della conoscenza.
Si è già ampiamente discusso su quest’ultimo aspetto, dal momento che, come si è
appunto tentato di argomentare, la disputa sul positivismo costituisce il terreno
speculativo su cui propriamente si genera la presa di posizione habermasiana nei
confronti dello scientismo. Sembra opportuno, pertanto, soffermarsi ora solo sul primo
dei punti sopra enucleati, al fine di cogliere la peculiarità con cui la questione del
rapporto insito tra teoria e prassi si traduce all’interno della sfera politica.
Nell’Introduzione all’edizione del 1971, La difficile mediazione tra teoria e prassi,
Habermas ripropone il tema portante della raccolta Theorie und Praxis:
le indagini prevalentemente storiche raccolte in questo volume intendono sviluppare
l’idea di una teoria della società orientata verso la prassi, delimitando il suo statuto nei
confronti di teorie di altra origine. […] La teoria comprende dunque un duplice
rapporto fra teoria e prassi: da un lato esamina il contesto storico di costituzione di una
situazione di interesse, alla quale la teoria appartiene attraverso gli atti della
conoscenza; e dall’altro il contesto storico d’azione, sul quale può agire orientando
l’azione. Nel primo caso si tratta della prassi sociale che in quanto sintesi sociale
3
Ivi, p. 9.
HABERMAS, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen
Gesellschaft, Luchterland, Neuwied-Berlin 1963. Nuova edizione con una nuova introduzione, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1990; (tr. it. di A. Illuminati, F. Masini e W. Perretta, Storia e critica dell’opinione
pubblica, Laterza, Bari 1971).
4
210
rende possibile la conoscenza, nell’altro caso di una prassi politica consapevolmente
rivolta a sconvolgere il sistema istituzionale esistente5.
Habermas, sulla base di questa preliminare indicazione sulla differenza insita tra
prassi sociale e prassi politica, avanza subito l’ipotesi che solo la teoria critica –
riprendendo la distinzione elaborata da Horkheimer in Traditionelle und kritische
Theorie –, grazie all’anticipazione del contesto d’azione ad essa pertinente e alla
riflessione sulla propria validità, può ottenere un’affermazione all’interno di “processi
chiarificatori riusciti, cioè nel discorso pratico degli interessati”6. L’atteggiamento
contemplativo – attribuito da Habermas alle scienze empiriche e nomologiche in
generale, ma anche alla filosofia nel senso di metafisica – in questo ambito è del tutto
ricusato.
In Theorie und Praxis Habermas non offre uno sviluppo sistematico delle questioni
qui anticipate, fornendo piuttosto le coordinate “di una storia di problemi cui la
distinzione aristotelica fra prassi e tecnica fa da guida”7. Secondo l’argomentazione
habermasiana, è solo il distacco dall’ambito di esperienza della filosofia pratica a
portare in evidenza il trionfo della filosofia sociale nell’età moderna, supportata da una
regolamentazione «scientifica»; più precisamente,
la filosofia sociale divenuta nomologica non può più mettersi in rapporto con la prassi,
ma soltanto con un razionale agire in vista dello scopo [zweckrationalen Handeln],
orientato da raccomandazioni sociotecniche. Su questa base il materialismo storico
può essere inteso come teoria della società elaborata con finalità pratiche, che evita le
debolezze complementari della politica tradizionale e della filosofia sociale dell’epoca
moderna, e che collega dunque la sua pretesa di scientificità ad una struttura teorica
riferita alla prassi8.
Prima di soffermarsi sull’analisi del materialismo storico – che in questa fase
dell’analisi habermasiana possiede ancora la forza critica per il rinnovamento della
teoria della società – è opportuno esaminare altre due rilevanti questioni approfondite in
5
TP, pp. 9-10 (pp. 29-30).
Ivi, p. 10 (p. 30).
7
Ibidem.
8
Ibidem.
6
211
Theorie und Praxis: la natura e la portata del pensiero aristotelico in relazione alla
ripresa della valenza pratica della politica in senso classico, e il rapporto ambivalente di
teoria e prassi negli scritti politici di Hegel.
§. 1. Poiesis e praxis. La ripresa della valenza pratica della politica aristotelica9.
Come si è visto, il nucleo tematico sul quale poggia la riflessione di Habermas
degli anni Sessanta è rappresentato dalla critica allo scientismo, ossia dalla forte
contrapposizione nei confronti della pretesa positivistica contemporanea di conferire
validità solamente alle scienze empiriche, quale unica via d’accesso ad una conoscenza
empiricamente verificabile e conseguentemente valida. Nell’analisi habermasiana
questa pretesa non si limita, tuttavia, esclusivamente all’ambito delle scienze naturali:
sotto le sembianze di un movimento totalizzante, essa coinvolge tutti gli ambiti del
sapere, riducendo entro i termini della verifica sperimentale e della disposizione tecnica
anche quelle competenze conoscitive che dovrebbero sottrarsi alla logica del controllo e
del dominio, in primo luogo la politica.
Nel testo Theorie und Praxis, i due termini - chiaramente aristotelici – sono
attentamente analizzati nel loro scambio posizionale, ovvero secondo il capovolgimento
conseguente all’annullamento del secondo termine a favore del primo. Ciò che
Habermas propone può essere inteso in due sensi: da un lato la necessità di una
rivalutazione della praxis quale mezzo idoneo a fornire risposte in ambito sociologico e
politico e a restituire all’individuo la dimensione negata di soggetto; dall’altro l’auspicio
di una mediazione tra le due nozioni nell’ambito specifico dell’azione politica, in un
rapporto dialettico che si risolve nella dimensione di un’intersoggettività socialmente
condivisa tramite il medium del linguaggio.
9
È doveroso segnalare come la ripresa della filosofia pratica di Aristotele da parte di Habermas si
inserisca nel contesto della Rehabilitierung der praktischen Philosophie, un movimento di grande peso
teoretico nella riflessione filosofica del ventesimo secolo, in particolare nell’area tedesca. Tra gli
esponenti più importanti di questo corrente si ricordano: J. RITTER, Politik und Ethik in der praktischen
Philosophie des Aristoteles, Frankfurt a. Main 1969; M. RIEDEL, Rehabilitierung der praktischen
Philosophie, Rombach, Freiburg 1972-1974; H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode, op. cit.
Sul tema della ripresa del pensiero di Aristotele nel XX secolo, si veda E. BERTI, Aristotele nel
Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992; è da poco stata pubblicata la nuova edizione con l’aggiunta
Prefazione all’edizione 2008, alla quale si rimanda.
In merito alla rilettura habermasiana della politica aristotelica, mi permetto di rimandare al mio articolo
Poiesis e praxis. Aristotele nella filosofia di Habermas, in «Fenomenologia e società», 1 (2006), pp. 6983.
212
Il richiamo alla distinzione aristotelica tra praxis e poiesis riveste un ruolo centrale
e fondativo nel pensiero del primo Habermas, poiché il venir meno della dimensione
pratica nella riflessione filosofica moderna e contemporanea è da ricercare proprio
nell’associazione illecita tra questi due termini, ossia nella sovrapposizione di due
concetti inerenti a campi d’azione originariamente distinti ed opposti. Per Aristotele,
infatti, esiste una diversità strutturale nei fini di praxis e poiesis, rispettivamente agire
pratico e agire produttivo: è solo l’attività pratica ad identificarsi con la prassi, poiché il
suo fine è l’agire pratico in senso proprio10. Come osservato da Lucio Cortella,
Habermas riprende “la distinzione praxis-poiesis, assieme ad altri elementi fondamentali
dell’etica aristotelica, per usarli come paradigma critico nei confronti del progetto
moderno di tecnicizzazione della politica”11. In questa prospettiva, il saggio Dottrina
politica classica e filosofia sociale moderna delinea le motivazioni che, nell’ottica
habermasiana, hanno determinato tanto il collasso della politica nella sua valenza
classica, quale parte costitutiva della filosofia pratica, quanto il sorgere della scienza
politica in senso moderno. La tendenza sempre più totalizzante verso la
settorializzazione delle singole discipline filosofiche, entro ambiti specifici e ben
delimitati, fa sì che, come si esprime Habermas,
questo processo di sganciamento dal corpus della filosofia pratica termina con la
costituzione della politica in scienza, secondo il modello della moderna scienza
sperimentale che con l’antica «politica» ha ben poco in comune12.
La «privazione del diritto di cittadinanza» nell’ambito stesso della filosofia della
politica in età moderna si rivela, dunque, come uno dei risultati più devastanti del
processo di tecnoscientificizzazione della conoscenza, ed il riferimento implicito alla
politica, così com’è concepita da Aristotele, rende evidente quanto il pensiero pratico
dello Stagirita costituisca il primario termine di confronto per l’analisi dei motivi che in
età moderna, a partire da Machiavelli e Moro, hanno portato al costituirsi della politica
10
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI, 5, 1140 b 6-5: «Infatti il fine della produzione è diverso dalla
produzione stessa, mentre quello della prassi non lo è, dato che lo stesso agire con successo è fine. Allora
rimane solo che la saggezza sia uno stato abituale veriterio, unito a ragionamento, pratico, che riguarda
ciò che è bene e male per l’uomo».
11
L. CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi. Una analisi del dibattito sulla filosofia pratica
aristotelica in Germania, Jouvence, Roma 1987, p. 24.
12
TP, p. 48 (p. 77).
213
come scienza autonoma “avente per oggetto le condizioni (cioè i mezzi) della
sopravvivenza e del benessere”13.
L’assenza di rimandi puntuali a passi specifici delle opere aristoteliche di filosofia
pratica può dare l’impressione che il ruolo assegnato da Habermas ad Aristotele sia
quello di un termine di confronto poco convincente per un’analisi più completa della
politica nella sua forma moderna, attraverso le figure dei più importanti teorici di questa
nuova scienza. Tuttavia, il riferimento generale ad Aristotele è indicativo
dell’importanza che lo Stagirita riveste nella riflessione habermasiana: le espressioni
che rimandano alla «grande filosofia», ai «classici» o alla «grande tradizione» sono
sempre saldamente legate alla figura di Aristotele; è sulla sua impronta, e sulle sue
definizioni di politica, che è possibile ricostruire per gradi i momenti della dissoluzione
della valenza pratica della politica. Nonostante la forte presa di posizione antimetafisica,
quale atteggiamento chiave del suo intero pensiero, Habermas, in uno dei testi che
maggiormente descrive il proprio distacco dal movimento del ripristino della metafisica
– in particolare postkantiana e posthegeliana – formula una descrizione critica di questa
disciplina che non coinvolge Aristotele, quasi a volerlo preservare da qualsiasi
fraintendimento derivante dall’accezione fortemente negativa attribuita ad essa:
trascurando la linea aristotelica, con una rozza approssimazione, chiamo ‘metafisica’
quel pensiero, risalente a Platone, che è una forma di idealismo filosofico e che,
attraverso Plotino e il neoplatonismo, Agostino e Tommaso d’Aquino, Nicolò Cusano
e Pico della Mirandola, Cartesio, Spinoza e Leibniz, giunge fino a Kant, Fichte,
Schelling e Hegel14.
Nel saggio Dottrina politica e filosofia sociale, Habermas articola in tre passaggi il
processo di trasformazione che nell’età moderna ha condotto la filosofia politica
all’abbandono delle sue istanze classiche, vale a dire alla formazione di una disciplina
totalmente nuova, che ben poco conserva delle sue origini e che oggi ci appare
«estranea». L’analisi habermasiana è condotta attraverso una serie di rimandi
comparativi tra Aristotele e alcuni tra i più importanti pensatori politici moderni. È,
13
CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi, cit., p. 24.
J. HABERMAS, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M.
1988 (tr. it. di Marina Calloni, Il pensiero postmetafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 32).
14
214
anzi, possibile considerare come momento d’avvio proprio la definizione di politica,
esposta da Aristotele nel libro I dell’Etica Nicomachea: “poiché ogni conoscenza e ogni
scelta aspirano ad un bene, diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò cui tende la politica,
cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione”15.
La caratterizzazione aristotelica della politica come dottrina della vita buona e
giusta e il legame strettissimo di questa con l’etica, il connubio tra “la costituzione
fissata nei nomoi e l’etos della vita civile”, sono ripresi da Habermas come assunto
fondamentale dell’impossibilità di scindere dal costume e dalla legge l’eticità dell’agire:
solo la politeia dà al cittadino la possibilità della vita buona: zoon politikon è l’uomo
essenzialmente nel senso che egli è ordinato alla città per la realizzazione della sua
natura16.
Secondo Habermas, la svolta che inaugura la separazione delle due sfere avviene
con Kant e con la distinzione del comportamento etico dell’individuo – che mantiene la
libertà solo internamente – dalla legalità delle sue azioni esterne, e di queste dalla
politica intesa come “competenza tecnica propria di una dottrina utilitaristica della
saggezza”17; in tal modo l’oggetto d’indagine della politica diviene lo studio delle
condizioni per la sopravvivenza, e non già il bene e la virtù della polis, segnando un
deciso distacco dalla politica aristotelica.
Inoltre, la politica in senso classico era strettamente riferita alla prassi, nettamente
separata dalla techne, quale “attività del produrre opere e la capacità di affrontare
compiti oggettivanti”18, ed era rivolta alla formazione del carattere. Con Bacone e
15
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 4, 1095 a 15-20.
TP, p. 48 (p. 78).
17
Ibidem.
18
Ibidem. Si noti come nel passo citato Habermas rimandi in nota a Hannah Arendt, Vita Activa e a H. G.
Gadamer, Wahrheit und Methode, affermando come i due autori gli abbiano indicato “l’importanza
fondamentale della distinzione aristotelica tra tecnica e prassi”. Ad Arendt, in particolare, si deve la
rilettura del rapporto praxis-poiesis attraverso un’analisi molto originale che, distinguendo le tre
fondamentali attività umane nei termini del lavoro, della fabbricazione e dell’azione, ne rintraccia
l’evoluzione storica e, soprattutto l’impatto sulla modernità attraverso le figure dell’animal laborans e
dell’homo faber. Cfr., H. ARENDT, The Human Condition, Chicago 1958 (tr. it. a cura di A. Dal Lago,
Vita Activa, Idee Nuove, Milano 1964). Sul complesso argomento della rilettura habermasiana di Arendt,
la cui conseguenza è anche un assorbimento del discorso politico arendtiano nell’alveo del neoaristotelismo, si veda S. FORTI, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006,
pp. 14 sgg.
Oltre ai riferimenti a Gadamer e Arendt, in occasione del colloquio con Habermas, è emersa anche la
grande influenza esercitata dai testi del filosofo scozzese Adam Ferguson (1723-1816), nei quali emerge
16
215
Hobbes avviene, invece, un capovolgimento di prospettiva, coerentemente alla massima
della scientia propter potentiam: “la specie umana deve propriamente il suo progresso
massimamente alla tecnica e, in primo luogo, alla tecnica politica del corretto
ordinamento dello Stato”19. La politica è privata della sua connotazione pratica ed
assume una valenza tecnica, diventando, dunque, secondo il lessico habermasiano, agire
razionale rispetto allo scopo. L’annullamento della differenza tra tecnica e prassi si
svolge, come ha osservato M. L. Perri, nei termini di dominio dell’ideologia
tecnocratica attraverso “un processo di rimozione di quell’agire pratico che promuove e
definisce i rapporti e le relazioni di tipo sociale”20, in base, dunque, a nuovi criteri di
razionalità non più atti a guidare l’agire pratico, bensì rivolti alla creazione di relazioni
tra mezzi e scopi, internamente al contesto sociale del mondo della vita.
Habermas, infine, individua nella tendenza a conferire una base scientifica alla
politica il punto di svolta nella direzione della scienza politica moderna, affermando che
nel pensiero aristotelico
la politica, la filosofia pratica in generale, nella sua pretesa di conoscere, non si può
misurare con la scienza in senso stretto, con l’episteme apodittica, dal momento che
nel contesto della prassi mutevole e casuale, il suo oggetto, il giusto e l’eccellente,
mancano della continuità ontologica oltre che della necessità logica21.
In Hobbes la politica non si fonda più sulla phronesis, come facoltà del
comprendere la situazione in cui si colloca l’azione, ma trova il proprio terreno in una
fondazione rigorosamente scientifica. L’uomo, in quanto creatore dei principi che
costituiscono l’essenza della giustizia e delle leggi, è in grado di controllare
rigorosamente e riprodurre tecnicamente gli oggetti della propria conoscenza.
Secondo Habermas, attraverso questi tre passaggi, si rendono evidenti le ragioni di
fondo della transizione dalla politica classica a quella moderna, la quale assume, in
maniera sempre più crescente, le connotazioni di “filosofia sociale scientificamente
una prima valutazione dell’importanza del pensiero dello Stagirita nelle scienze sociali. Si veda in
particolare An Essas on the History of Civil Society (1767). Inoltre, Habermas ha ricordato i due corsi da
lui tenuti all’università di Heidelberg nei primi anni Sessanta sull’Etica Nicomachea e sulla Politica.
19
TP, p. 49 (p. 78).
20
M. L. PERRI, Il mutamento di paradigma e la patologia sociale in J. Habermas, Transeuropa, Ancona
1994, p. 49.
21
TP, p. 49 (p. 79).
216
fondata” ed avanza pretese prognostiche universalmente valide ed applicabili sotto
qualsiasi condizione per il corretto ordine della società e dello Stato:
le sue asserzioni saranno valide indipendentemente dal luogo, dal tempo e dalle
circostanze, e permetteranno, senza riguardo alla situazione storica, una fondazione
durevole della vita associata22.
Coerentemente a questa pretesa della nuova politica, si delinea il carattere di
disposizione tecnica della stessa, assunto in relazione alle condizioni di applicazione
delle conoscenze e manipolazione delle situazioni. Non è più necessaria la mediazione
della saggezza per la coordinazione dell’agire sociale; al suo posto si rende
indispensabile “una produzione calcolata di regole, rapporti ed istituzioni”23. Gli
individui coinvolti in tali rapporti perdono il loro status di soggetti e diventano oggetti,
materiale inseribile all’interno di categorie d’azione facilmente controllabili,
determinando una volta per sempre la separazione della politica dalla morale.
Questa separazione della politica dalla morale sostituisce la guida alla vita buona e
giusta con l’intenzione di rendere possibile il benessere in un ordine prodotto in un
modo corretto24.
Come esito generale del passaggio della politica in senso classico alla politica in
senso moderno, si rende chiaro un importante mutamento che coinvolge l’oggetto stesso
della politica: la regolamentazione dei rapporti sociali subentra all’ordine del
comportamento virtuoso e l’atteggiamento scientifico sostituisce quello metodico.
Secondo Habermas, quindi, “la politica diventa filosofia del sociale così che oggi la
scienza politica può essere a buon diritto annoverata tra le scienze sociali”25.
Habermas prosegue la sua analisi estendendo le problematiche nascenti in età
moderna anche alla contemporaneità, secondo l’evoluzione delle scienze sociali nella
loro determinazione weberiana e positivistica; si tratta prevalentemente del deciso
abbandono degli elementi normativi, “eredità dimenticata della politica classica”, ossia
22
Ivi, p. 50 (pp. 79-80).
Ibidem.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
23
217
della valenza morale intrinsecamente connessa alle leggi giuridiche, grazie ad
un’autorappresentazione epistemologica guidata dalla logica posistivistica della ricerca.
Ciò nonostante, Habermas ritiene che le scienze sociali non eliminino completamente
tutti i presupposti etici e che lo smascheramento di celate implicazioni normative,
residuo della dottrina della morale, si coniughi col nascere di interrogativi circa la
possibilità di una conciliazione delle istanze classiche con quelle moderne:
come può essere realizzata la promessa della politica classica di orientare praticamente
su ciò che, secondo giustizia, si deve fare in una situazione data, senza rinunciare
d’altronde a quel rigore scientifico della conoscenza che la moderna filosofia sociale
rivendica in contrasto con la filosofia pratica dei classici? E, viceversa, come può
essere realizzata la promessa della filosofia sociale di un’analisi teorica del contesto
della vita sociale, senza rinunciare d’altra parte all’atteggiamento pratico della
filosofia classica?26.
Queste ultime considerazioni risultano fortemente indicative della prospettiva da
cui Habermas muove nella sua indagine sulla politica moderna come filosofia sociale e
di ciò che egli ritiene necessario affinché questa corrisponda effettivamente ad una
mediazione costruttiva di elementi provenienti tanto dalla tradizione classica, quanto dal
nuovo statuto della moderna filosofia sociale. Habermas non intende criticare tout court
l’atteggiamento scientifico che in età moderna pervade anche sfere di sapere
tradizionalmente immuni ad esso, perché ciò corrisponderebbe ad una visione miope del
moderno. Ciò che denuncia è la perdita della dimensione etica connessa alla politica,
ossia alla dimensione che corrisponde alla vera essenza della filosofia pratica; il
passaggio della filosofia sociale a scienza elimina uno dei tratti fondamentali della
politica classica, la phronesis intesa come “forza ermeneutica nella penetrazione teorica
di situazioni da dominare praticamente”27.
La differenza tra scienza e prudenza, la separazione degli ambiti di indagine di
episteme e phronesis e la distinzione tra filosofia teoretica e pratica costituiscono i tratti
fondamentali della filosofia aristotelica: la perdita di tali determinazioni è ciò che
Habermas denuncia come segno più evidente della frattura tra pensiero moderno e
26
27
Ivi, p. 51 (p. 81).
Ibidem.
218
classico, creatasi con la nascita della filosofia sociale. Riferendosi a Vico, il primo ad
aver riconosciuto una tendenza che si espliciterà nella sua ampiezza solo ai giorni
nostri28, Habermas descrive la presa di coscienza dell’esistenza di un rapporto dialettico
che si palesa solo con l’odierno sviluppo delle scienze sociali:
nella misura cioè in cui la politica viene scientificamente razionalizzata e la prassi
diretta teoricamente mediante raccomandazioni tecniche, cresce quella peculiare
problematica residua al cospetto della quale l’analisi scientifico-sperimentale deve
dichiararsi incompetente. Sulla base di una divisione del lavoro tra scienze empiriche
e posizioni di norme non più capaci di verità, cresce il margine della pura decisione:
l’ambito genuino della prassi si sottrae in misura crescente alla presa della discussione
metodica29.
Nella Realpolitik di Machiavelli e nell’Utopia di Moro, Habermas individua un
ulteriore sintomo della frattura con la tradizione, legato al mutamento di senso dei
concetti di «politico» e «sociale», asserendo che il cambiamento è percepibile da un
punto di vista sostanzialmente mutato circa i bisogni primari per la conservazione della
vita. La questione basilare per i pensatori moderni non riguarda più le “condizioni etiche
di una vita buona ed eccellente” bensì “le condizioni di fatto della sopravvivenza”;
l’interesse si sposta su problematiche di natura più contingente ed immediata, su
necessità pratiche che esigono una soluzione tecnica30. Proprio tale necessità immediata
si contrappone alla necessità etica della filosofia classica, dal momento che non si
richiede più “una fondazione teoretica delle virtù e delle leggi in una ontologia della
natura umana”, bensì uno spostamento della visuale prospettica dal generale al
particolare: all’interrogativo della filosofia classica su come gli uomini possano
corrispondere praticamente ad un ordine naturale, si sostituisce quello relativo al modo
in cui gli uomini possano dominare tecnicamente il male naturale che li minaccia31. Per
quanto il fine della filosofia sociale oltrepassi la soglia del mero mantenimento della
28
Cfr. G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione, 1708; tr. it. a cura di F. Nicolini, Il metodo degli
studi del tempo nostro, VII, in Opere, Ricciardi, Milano-Napoli 1953.
29
TP, p. 52 (p. 83).
30
Ivi, p. 56 (p. 88).
31
Ivi, p. 57 (p. 89).
219
vita come sopravvivenza, e offra anzi le condizioni e i mezzi per il suo miglioramento,
secondo Habermas
queste gradazioni pragmatiche della vita piacevole e della vita forte restano forme
comparative legate al loro positivo, la conservazione, restano comparative rispetto al
superamento dei pericoli elementari: la minaccia fisica del nemico e della fame32.
Habermas sostiene che, proprio a causa della mutata natura dei bisogni primari
dell’uomo per la propria sussistenza, la filosofia sociale moderna è spinta sempre più
marcatamente verso la radicale scissione della dimensione politica da quella etica. Per
Aristotele la politica, attraverso le leggi, ambiva ad un miglioramento dei cittadini
capaci di una vita buona e “la bontà del potere doveva misurarsi alla virtù dei cittadini e
alla loro libertà, realizzata nell’ambito delle leggi della città”33. Nell’età moderna viene
a mancare precisamente questa prospettiva: il senso normativo delle leggi, svuotato
della valenza etica, non scompare, ma le leggi hanno ora un valore strumentale, in
relazione al compito pratico della conservazione e dell’estensione della vita.
La scissione tra politica ed etica comporta un ulteriore mutamento, che si esprime
nella separazione della virtù privata da quella politica, dando vita a due distinte forme di
saggezza: “la saggezza pratica dei privati obbligati alla vita buona (ora intesa come vita
obbediente) è scissa dalla saggezza tecnica dei politici”34. Habermas avanza la tesi di un
mutamento non tanto relativo ad una diversa definizione di saggezza, quanto piuttosto
alla nascita di “un’organizzazione tecnicamente adeguata di ciò che è necessario alla
vita, una riproduzione della società istituzionalmente corretta, senza che questa
organizzazione sia essa stessa contenuto e fine dell’agire etico”35. Questa marcata
valenza tecnica della politica è ciò che appunto distingue la politica moderna da quella
classica, aristotelica: si tratta del superamento del limes che separa praxis e poiesis,
limite, invalicabile fino alla soglia dell’età moderna, che conferisce “la relativa
sicurezza del sapere tecnico-artigianale in un campo fino ad allora riservato
all’inesattezza di una saggezza pratica non trasmissibile”36. Nei confronti del processo
32
Ibidem.
Ivi, p. 58 (p. 90).
34
Ivi, p. 60 (p. 92).
35
Ibidem, (p. 93).
36
Ivi, pp. 65-66 (p. 99).
33
220
di tecnoscientificizzazione della politica moderna, Habermas ribadisce vigorosamente la
necessità della distinzione tra praxis e poiesis, quale paradigma critico essenziale per
contrastare le pretese avanzate dalla politica come agire poietico – “che distingue
rigorosamente i mezzi dai fini, ponendo il fine realizzato al di là di sé” – , trasformando
di conseguenza la politica in agire strumentale e, pertanto, totalmente irrilevante37.
Anche nella tradizione classica l’uomo politico con incarichi di governo, oltre alla
saggezza, doveva possedere delle abilità relative alla gestione dell’economia e alla
strategia militare. Tale caratterizzazione diverge profondamente dalla nuova per il fatto
che, in epoca moderna, ad esempio in Machiavelli, sembra rimanere della politica
solamente la perizia artigianale dello stratega, che si esplicita nella riduzione del sapere
pratico della politica ad un’abilità esclusivamente tecnica. E’ necessario tenere sempre
presente la valenza che il concetto di prassi acquisisce nel pensiero di Habermas, poiché
esso è “sempre legato ad una connotazione politica, ed è sempre contrapposto a tecnica.
Riporta alla formulazione del rapporto teoria e prassi al livello dell’istituzionalizzazione
del progresso tecnico e scientifico”38.
La riformulazione habermasiana di techne, come facoltà dell’agire in vista dello
scopo, e di phronesis, come saggezza dell’agire razionale, aderisce sostanzialmente alla
loro definizione classica; è mantenuta anche la loro posizione rispetto alla theoria, quale
scopo e fine supremo, mai deducibile o giustificabile da facoltà conoscitive «inferiori»:
la sfera del fare e dell’agire, il mondo della vita di uomini e di cittadini che
provvedono al loro sostentamento e alla loro convivenza, era ateoretica in senso
stretto39.
Il mutamento prospettico ha quindi origine nell’atto di sviluppo, interno alla scienza
naturale moderna, di una teoria supportata dall’atteggiamento del tecnico. Al contrario
dell’episteme, la techne ha come fine l’applicazione, che ora acquista una nuova valenza
come criterio di verità, in modo tale che il conoscere un determinato oggetto equivale
all’atto riproduttivo, al saper fare; conseguentemente
37
CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi, cit., p. 25.
C. DONOLO, Prefazione, in Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari 1971, p. 28.
39
TP, p. 66 (p. 100).
38
221
la ricerca condotta secondo l’atteggiamento del tecnico modifica il comportamento
tecnico stesso: infatti la certezza del tecnico, che caratterizza la conoscenza della
moderna scienza, è incommensurabile con la relativa sicurezza dell’artigiano classico,
che domina con l’esercizio il suo materiale40.
In queste osservazioni è possibile leggere una perfetta aderenza alla definizione
aristotelica della filosofia pratica, come scienza che ha per oggetto le azioni dell’uomo,
che trovano il loro principio nella scelta. Berti sottolinea, infatti, che, nel momento della
scelta, le azioni umane non sono indipendenti come le sostanze naturali: “l’azione
caratterizza la filosofia pratica sia come scopo che come oggetto, nel senso che l’unico
settore della realtà in cui sia possibile, secondo Aristotele, cambiare lo stato delle cose,
è quello costituito dalle azioni umane”41. In conformità a tale determinazione, la
filosofia pratica non è neutrale, né tanto meno avalutativa nella sua connessione col
mondo della vita, ma agisce attivamente in essa, giudicandone il valore con l’obiettivo
di migliorarla, grazie ad un’incessante ricerca della verità, sia negli effetti che nelle
cause.
Cosa comporta secondo Habermas questo mutamento? Quali conseguenze
determina la sovrapposizione di agire pratico e controllo tecnico? Alla soluzione di tali
interrogativi si rivolge la riflessione habermasiana nel tentativo di una riformulazione
del rapporto tra teoria e prassi nei termini di critica e di ragione comunicativa. Nel
saggio Dogmatismo, ragione e decisione. Teoria e prassi nella civiltà scientificizzata, il
confronto con il pensiero aristotelico, seppur nei termini di richiamo non diretto, è
sviluppato in relazione al rapporto che intercorre tra la teoria e la prassi, come coppia
categoriale investita da un fraintendimento decisivo per lo sviluppo del pensiero
moderno. La «tradizione della grande filosofia» ha sempre inteso il rapporto tra teoria e
prassi in connessione alla vita e alla convivenza buona e giusta tra gli uomini, sia come
individui che come cittadini, dal momento che il benessere del singolo uomo è sempre
connesso col benessere della polis. E’ evidente in questo passaggio il richiamo all’Etica
Nicomachea, nella quale Aristotele, riferendosi alla politica, afferma che “il suo fine
abbraccerà tutti i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se
40
Ibidem.
E. BERTI, Il metodo della filosofia secondo Aristotele, in Studi sull’etica di Aristotele, Bibliopolis,
Napoli 1990, pp. 23-63.
41
222
anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di
più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si
può, sì, accontentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il
bene di un popolo, cioè di intere città”42.
A partire dal XVIII secolo, invece,
la teoria orientata alla prassi, e al tempo stesso dipendente da essa, non ricomprende
più le azioni e le istituzioni naturali, veraci o proprie del genere umano costante nella
sua essenza; piuttosto, ora la teoria ha per oggetto il contesto oggettivo dello sviluppo
di un genere uomo che produce se stesso e si determina alla propria essenza,
l’umanità43.
Secondo Habermas, pur permanendo la necessità di un orientamento corretto
all’azione, le dimensioni della teoria – che procede lungo la verticale della storia del
mondo – e della prassi – che si sviluppa sui gradi dell’emancipazione – si estendono su
piani differenti. La politica, espressione più completa della filosofia pratica, rivolge ora
la sua attenzione esclusivamente al controllo dei mezzi, e non più ai fini, in un processo
irreversibile di trasformazione in agire sociotecnico e strumentale, che sottrae alla
politica la dimensione etica di guida per il raggiungimento di una vita buona.
Per Habermas, tuttavia, i problemi pratici rientrano in una logica del tutto differente
da quella che dirige l’agire tecnico-produttivo, ossia non possono trovare alcuna
soluzione all’interno di tale contesto, determinando, al contrario, la scomparsa della
dimensione politica, aristotelicamente intesa come agire avente come fine la buona
condotta; viene a mancare la dimensione soggettiva dei cittadini e il loro proponimento
di realizzare il bene, perché
al suo posto si presenta il tentativo di ottenere tecnicamente la disposizione sulla
storia, in modo non pratico e non storico, sotto forma di un’amministrazione
perfezionata della società44.
42
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 2, 1094 b 5-10.
TP, p. 307 (p. 387).
44
Ivi, p. 309 (p. 389).
43
223
Cortella ha posto in rilievo come, nell’ottica habermasiana, il mutamento strutturale
della politica produca inevitabilmente un cambiamento nella fisionomia della società
stessa, strutturata sui nuovi criteri di razionalità sociotecnica; questa annulla la
differenza tra la sfera soggettiva, ambito d’applicazione della praxis, e quella oggettiva,
ambito d’applicazione della poiesis, dal momento che “l’agire sociotecnico è
caratterizzato intrinsecamente, dunque, da una diversità strutturale tra chi agisce
tecnicamente (il soggetto) e chi subisce l’azione, che perciò rimane sempre un oggetto,
una cosa. Mentre l’agire pratico è un agire della società, quello tecnico è un agire sulla
società”45. Ciò che resta dell’essere umano non è la sua soggettività, la sua interazione
con altri soggetti non è più campo d’interesse di una prassi che si pone come obiettivo
primario una coordinazione armonica di azioni comunitarie ed intersoggettive;
dell’individuo rimane solo il comportamento controllabile tecnicamente e privato di
tutte le connotazioni che lo differenziano da un qualsiasi comportamento naturale, al
punto tale che residui della sua natura umana come la coscienza, l’opinione o il
consenso “sono problemi solo nella misura in cui si manifestano come alterazioni di
comportamento”46.
Sullo sfondo della condizione alienata in cui l’uomo è costretto a vivere nell’epoca
della società scientificizzata, Habermas avanza la proposta di una società basata sul
concetto di praxis, non tanto nella sua accezione classico-aristotelica – che risulterebbe
essere una trasposizione anacronistica di un modello non più attuabile e che di
conseguenza non potrebbe di sicuro offrire soluzioni alternative –, quanto piuttosto di
una sua rielaborazione in chiave comunicativa. Alla coppia poiesis-praxis si sostituisce
la dialettica di lavoro-interazione, nella quale – come si è già potuto osservare – il
lavoro indica “agire razionale rispetto allo scopo o agire strumentale […] organizzato
secondo regole tecniche, che si basano su un sapere empirico” mentre interazione indica
agire comunicativo, ossia “un’azione mediata simbolicamente […] organizzata in base a
norme vigenti in modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di
comportamento e che devono essere comprese e riconosciute da almeno due soggetti
agenti […] il loro senso si oggettiva in una comunicazione nel linguaggio quotidiano”47.
45
CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi, cit., p. 26.
Ibidem.
47
HABERMAS, Technik und Wissenschaft als ›Ideologie‹, in Technik und Wissenschaft als ›Ideologie‹,
cit., pp. 48-103; (pp. 195-234).
46
224
La nozione di agire comunicativo ha quindi il merito di conferire nuovamente lo
status di soggetto all’individuo, partecipe attivo di una comunicazione linguistica che
mantiene come scopo da realizzare il raggiungimento della «vita buona», non per il
singolo ma per l’intera comunità dei parlanti e partecipanti all’azione linguistica.
L’introduzione della categoria del linguaggio48 è un elemento del tutto estraneo alla
prassi aristotelica e tuttavia, come ha giustamente mostrato Cortella, l’obiettivo
dell’accordo intersoggettivo implicito nel linguaggio quotidiano ricopre lo stesso ruolo
che in Aristotele ha la prassi, il bene per l’intera comunità; infatti, “sia nel paradigma
aristotelico sia in quello habermasiano è essenziale la disposizione soggettiva (la
prohairesis, potremmo dire). La prassi, in Aristotele e Habermas, esclude la passività
dei cittadini, la loro addomesticabilità all’intervento tecnico, la docilità del loro
comportamento, ma al contrario esige la coscienza e la convinzione sui fini da
perseguire, il consenso attivo”49. Il soggetto agente della prassi è un macrosoggetto, che
comprende al suo interno la molteplicità dei soggetti appartenenti ad una stessa società,
sia essa la polis aristotelica o la comunità linguistica habermasiana. La forza motrice e
rischiaratrice di questo macrosoggetto è la ragione che si incarna “nelle teste dei
cittadini illuminati”50 e che si esplicita in tutta la sua potenza con “la capacità di
direzione da parte della società sul proprio agire, e cioè un autocontrollo”51.
Il processo di omologazione di tecnica e prassi, che conduce inesorabilmente al
potere dispotico del controllo tecnico esteso all’intero universo sociale, rientra
nell’insieme di quelle patologie sociali che l’età moderna cela al suo interno senza
essere in grado di risolvere. La razionalizzazione dei sottosistemi di agire razionale
rispetto allo scopo e del quadro istituzionale è sintomo evidente del controllo ideologico
della coscienza tecnocratica, la quale si manifesta con maggiore violenza, dal momento
che è “più ideologica, nel senso che si mostra più potente e inattaccabile nel rendere
48
Il termine categoria per definire il linguaggio emerge dall’analisi della Filosofia dello spirito jenese
hegeliana, nella quale Habermas individua come tappe fondamentali del Bildugprozess des Geistes la
triade formata da linguaggio, lavoro e rapporto etico: «non è lo spirito che, nel movimento assoluto
dell’autoriflessione si manifesta, tra l’altro, nel linguaggio, nel lavoro e nel rapporto etico, ma è il
rapporto dialettico tra simbolizzazione linguistica, lavoro e interazione a determinare il concetto di
spirito». A questo proposito cfr. HABERMAS, Arbeit und Interaktion, p. 10 ( pp. 22-23).
49
CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi, cit., p. 27.
50
TP, p. 309 (pp. 389-390).
51
CORTELLA, Aristotele e la razionalità della prassi, cit., p. 27.
225
vuoto e inconsistente ogni riferimento degli uomini ai criteri di vita etici e pratici,
tradizionalmente concepiti o anche solo immaginati come superiori o trascendenti”52.
La coppia concettuale di lavoro e interazione è chiamata in causa da Habermas non
solo come analisi descrittiva del processo degenerativo di eliminazione della
dimensione pratica del contesto sociale di vita degli uomini, ma anche come strumento
di intervento attivo nel mondo della vita, per ricreare le condizioni di ricerca della verità
e del principio della vita buona. L’agire comunicativo svela una nuova prospettiva nella
riformulazione di un “nuovo equilibrio che, nel passaggio da un modello sociale
all’altro, di volta in volta viene a stabilirsi nella connessione tra gli ambiti tecnicoproduttivi e le forme di vita pratiche”53. Il paradigma dell’intesa linguistica dischiude un
ambito d’applicazione pratica dei principi di razionalità, ripristinando così la
prohairesis aristotelica per mezzo di norme capaci di orientare l’azione in vista
dell’intesa intersoggettivamente condivisa dalla comunità dei parlanti.
§. 2. Il pensiero politico di Hegel: l’ambiguità del rapporto tra teoria e prassi54.
Hegel ha elevato la rivoluzione a principio della sua filosofia per non esporre la
filosofia alla prova della rivoluzione. Infatti, solo dopo aver legato saldamente la
rivoluzione al cuore pulsante dello spirito del mondo, si sentì sicuro di fronte ad esso.
Con questa parole Habermas apre il saggio La critica hegeliana alla rivoluzione
francese55, riprendendo la tesi sostenuta da Joachim Ritter nel celebre testo Hegel e la
rivoluzione francese56, e ampliandola ulteriormente nell’intento di mettere in luce il
peculiare atteggiamento di timore di Hegel nei confronti dei coevi avvenimenti francesi.
Secondo Habermas, quindi, la rivoluzione francese è sì celebrata da Hegel ed elevata a
principio della sua filosofia, ma tale espressione ha in sé un fine assai differente,
52
PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 53.
Ivi, p. 52.
54
Ho affrontato la questione del rapporto tra teoria e prassi nel pensiero politico di Hegel in un breve
saggio, al quale mi permetto di rimandare: Ambivalenze e incongruenze all’ombra della rivoluzione. Il
pensiero politico di Hegel nell’interpretazione di J. Habermas, in «Bollettino della Società Filosofica
Italiana», in corso di pubblicazione.
55
TP, p. 128 (p. 175).
56
J. RITTER, Hegel und die Französische Revolution, Westdeutscher Verlag, Köln und Opladen 1957;
(tr. it., Hegel e la rivoluzione francese, Guida, Napoli 1970).
53
226
consistente nel tentativo di oltrepassare la rivoluzione stessa; in altre parole, “la filosofia
hegeliana della rivoluzione è la sua filosofia come critica di essa”57.
Per comprendere il senso di tali affermazioni è necessario chiarire un punto molto
significativo dell’interpretazione habermasiana del pensiero di Hegel, contenuta in un
testo di quasi vent’anni successivo, Il discorso filosofico della modernità58. Il proposito
di Habermas in quest’opera consiste nel ripercorrere e ricostruire – a partire da Hegel e
passando attraverso gli esponenti più significativi della filosofia europea – il significato
di «modernità» come concetto filosofico, assumendo come punto di partenza il fatto che
essa si presenti essenzialmente come “progetto non concluso”. Secondo Habermas, “il
primo filosofo che abbia sviluppato un chiaro concetto della modernità è stato Hegel”59,
il primo filosofo, cioè, ad aver conferito uno status filosofico al processo di
distanziamento progressivo della modernità dalle istanze del passato. Si legge, infatti,
nella Fenomenologia dello spirito:
lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad
oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato, e versa in un travagliato periodo di
trasformazione […]. La fatuità e la noia che invadono ciò che ancora sussiste,
l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di
diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi […] viene interrotto
dall’apparizione che, come in un lampo, mette innanzi la struttura del nuovo mondo60.
L’apertura al futuro fa sì che il mondo nuovo, moderno, si distingua
inequivocabilmente dal passato, sebbene sia solo la coscienza storica della modernità ad
istituire il confine tra la modernità stessa e la «contemporaneità»: il presente, proprio
all’interno
dell’orizzonte
dell’età
moderna,
mantiene
un
“valore
posizionale
prominente”61. Lo stesso Hegel, argomenta Habermas, ha inteso il «nostro tempo» come
contemporaneità, fissandone l’incipit temporale nell’Illuminismo e nella Rivoluzione
Francese, quali fratture epocali e definitive col passato. Se pertanto il presente è
57
TP, p. 128 (p. 175).
HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwolf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt a.
M. 1985; (tr. it. di Emilio e Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari
1987). Da qui citato PDM.
59
PDM, p. 12 (p. 4).
60
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., pp. 8 sgg.
61
PDM, p. 15 (p. 7).
58
227
concepito a partire dall’età moderna, vale a dire come “l’attualità dell’età
contemporanea”, esso deve eseguire come rinnovamento continuato la medesima frattura
che la modernità ha compiuto con il proprio passato. Ciò non implica che l’età moderna
debba forgiare i propri criteri d’orientamento sul modello di epoche trascorse, dal
momento che essa deriva la propria normatività da se stessa e non da qualcosa che è altro
da lei. È così possibile, secondo Habermas, dare ragione dell’impiego di alcuni termini
chiave del lessico hegeliano, come rivoluzione, progresso, emancipazione, sviluppo,
spirito del tempo, crisi: solo all’interno di questa cornice essi acquisiscono un nuovo
significato, esprimendo in modo esemplare quella idea di ‘movimento’ che costituisce
uno dei tratti distintivi dell’età moderna.
Anche la sfera del diritto non può sottrarsi a questo movimento intrinseco alla
modernità, e il diritto naturale classico non trova più un’adeguata collocazione
all’interno del nuovo assetto epocale; in tale prospettiva, la rivoluzione francese assume
un ruolo decisivo proprio nell’autocomprensione del diritto naturale moderno:
la rivoluzione sembra risolvere nei fatti una difficoltà che le dottrine giusnaturalistiche
si erano sempre portate dietro come residuo teorico insoluto: la rivoluzione cioè si
presenta come un rivolgimento imprevisto che si carica in un batter d’occhio di quella
peculiare traduzione della teoria nella prassi, che non poteva essere pensata fino a
fondo nell’ambito di quella stessa teoria62.
L’accento dell’argomentazione habermasiana si pone qui sul rapporto che intercorre
tra teoria e prassi, ed in particolare sulla difficoltà della traduzione della teoria in prassi:
differenziandosi dall’applicazione tecnica di risultati scientifici, la teoria necessita di una
penetrazione profonda all’interno delle stesse coscienze dei cittadini, affinché si possano
creare le condizioni reali per l’azione. Secondo Habermas, la rivoluzione ha risolto tale
difficoltà, avverando l’attuazione del diritto astratto non in maniera irriflessa, bensì
insinuandosi consapevolmente nella sensibilità dei cittadini; la rivoluzione francese “fu
la prima rivoluzione che, per quanto scoppiata come catastrofe storico-naturale, fu
immediatamente assunta nella volontà e nella coscienza di fautori e avversari”63.
62
63
TP, p. 130 (p. 178).
Ivi, p. 131 (p. 179).
228
Eppure, come riporta in seguito Habermas, Hegel stesso nella Fenomenologia dello
spirito utilizza altri toni nel descrivere la rivoluzione. L’essersi resa pratica della teoria
indietreggia rispetto al suo essersi realizzata, tornando nelle mani degli ‘ingegneri’ della
politica, rei di voler dare realtà alle norme generali senza mediazione:
la realizzazione diretta del diritto astratto, elaborato in precedenza nella teoria, pone il
problema della mediazione di una semplice, inflessibile, fredda universalità con la
assoluta, dura rigidezza ed egoistica puntualità dell’autocoscienza effettuale64.
Hegel riconosce la rivoluzione perché rappresenta il veicolo della realizzazione di
una situazione di diritto in senso kantiano, ma, allo stesso tempo, egli rivolge una feroce
critica ai rivoluzionari, poiché essi utilizzano, ai fini esclusivi del loro agire, la
realizzazione di questa situazione di diritto. Ciò che, secondo Habermas, Hegel non può
ritenere accettabile è l’autocomprensione della rivoluzione, vale a dire “la pretesa di
realizzare la ragione attraverso la potenza della coscienza soggettiva”65, che può generare
solamente astrazioni dell’intelletto.
Habermas rileva come il diritto astratto debba derivare la propria forza logica e
ontologica astraendo da quanto è mero divenire storico, sebbene questo sia pensabile
dalla filosofia come un momento della totalità storica, al fine di trarne una
giustificazione dell’intrinseca astrattezza. Ciò nonostante, non sembra esserci traccia di
tale natura storica del diritto all’interno della Filosofia del diritto, se non nella terza
parte. Qui infatti, nella sezione che appare con il titolo Amministrazione della giustizia, il
diritto astratto realizzato si mostra nell’esistenza come diritto privato positivamente
vigente. Secondo Habermas solo ora “esso si lascia riconoscere come la forma, nella
quale la sfera privata del lavoro sociale, la moderna società, cioè, diventa certa della sua
propria potenza”66.
Eppure in quest’opera Hegel non sembra dar ragione del processo di generazione del
diritto astratto dall’ambito del lavoro sociale della società industriale, come invece in
maniera assai più copiosa aveva fatto nelle opere giovanili – come ne Il sistema
dell’eticità e nelle due versioni della Realphilosophie –. Rifacendosi alle brillanti
64
Ibidem..
Ivi, p. 132 (p. 181).
66
Ivi, p. 133 (p. 182).
65
229
trattazioni di Ritter e di Manfred Riedel67, Habermas intravede nelle opere jenesi quel
fondamentale riferimento hegeliano all’economia politica, grazie al quale il filosofo di
Stoccarda era stato in grado di scandagliare accuratamente sia “la connessione storica e
sistematica tra determinati processi del lavoro sociale e il libero scambio dei produttori”,
sia le “regole formali dei rapporti di diritto privato”, quali principi successivamente
codificati nei codici civili del XVIII secolo.
Grazie al raffronto tra l’economia politica e il diritto naturale, derivato dalla filosofia
sociale moderna, Hegel mette in luce il nesso fondamentale tra questi due ambiti, ossia il
ruolo sostanziale del lavoro nella determinazione della libertà delle persone giuridiche e
della loro ‘uguaglianza sotto leggi generali’. Secondo Habermas, infatti,
il diritto astratto è l’attestato di una liberazione concreta: il lavoro sociale, infatti, è
quel processo, nel quale la coscienza si fa cosa, per formarsi in questo a se stessa e per
deporre infine, come figlia della società civile, la figura servile. In questo processo di
socializzazione si attua il diritto astratto dello Stato moderno: la finzione di un
contratto di unione e di un contratto di soggezione, attraverso il quale tutti i singoli
costituiscono ex novo lo Stato, astrae dal processo storico della coscienza che,
attraverso il sistema sviluppato dei bisogni, deve emanciparsi dalla coazione naturale e
svilupparsi all’autonomia di un partner contrattuale68.
Habermas sostiene che per Hegel, quindi, la rivoluzione francese è in grado di
realizzare la validità positiva del diritto astratto perché già precedentemente, per mezzo
del lavoro, si era costituita la società civile nella sua valenza moderna. Precisamente in
tal senso egli può conferire legittimità alla rivoluzione, privandola dei rivoluzionari.
Solamente una riforma prudente e consapevole può portare alla stabilità una situazione di
per sé precaria, non la violenza rivoluzionaria, la quale non è nient’altro se non un
particolare contro un particolare.
Ma il limitato può essere assalito dalla sua propria verità, che in esso risiede, e
condotto in contraddizione con essa: la sua signoria si fonda non sulla violenza di
particolari contro particolari, bensì su universalità; questa verità, il diritto, la quale esso
67
Cfr. RITTER, Hegel e la rivoluzione francese, op. cit., e M. RIEDEL, Hegel fra tradizione e
rivoluzione, tr. it. di F. Tota, Laterza, Roma-Bari 1975.
68
Ivi, p. 134 (p. 183).
230
rivendica a sé, gli deve esser tolta e attribuita a quella parte di vita che viene
richiesta69.
Il solo sentire tale necessità, senza la volontà di metterla concretamene in pratica, fa
sì che la trasformazione si rivolti contro gli stessi uomini sotto le sembianze della
rivoluzione. La teoria pretende ora il “sacrificio” dell’interesse particolare nella pretesa
universalità del concetto del sussistente: tuttavia, la filosofia, lungi dal poter far leva
sulla violenza rivoluzionaria, deve scontrarsi con il limitato, con la sua stessa verità e con
la costrizione alla riflessione sulla contraddittorietà della realtà con il suo concetto.
Habermas rileva come Hegel, così facendo, riconduca il processo di emancipazione
degli individui, attraverso il medio del lavoro, alla realizzazione “soggettivorivoluzionaria” del diritto astratto, per poter sostenere legittimamente il cambiamento
radicale della realtà senza la rivoluzione. Tuttavia, nota Habermas, in tal modo
egli si trova tra le mani il potenziale ancora più pericoloso di una teoria che ha
afferrato il suo stesso rapporto critico alla prassi, ed è proprio questo potenziale che
Hegel vuole ora disinnescare: può farlo ricordandosi di un altro senso che ha sempre
anche attribuito alla realizzazione del diritto astratto. […] il diritto astratto appare […]
anche quella forma nella quale si è decomposto il mondo sostanziale della polis
greca70.
Da tale caratterizzazione ulteriore del diritto astratto, come compresenza tanto di
elementi propriamente moderni, quale il lavoro sociale, quanto di suggestioni provenienti
dall’antichità classica, Habermas può parlare di ambiguità nella comprensione hegeliana
del diritto; quella stessa ambiguità che genera l’ambivalenza di Hegel nei confronti della
rivoluzione francese.
La decomposizione di cui parla Habermas, riferendosi a quanto Hegel afferma in
relazione alla polis greca, ha la sua manifestazione nella corruzione dell’eticità assoluta,
che si mostra in tutta la sua virulenza nella perdita della libertà politica, nel disinteresse
verso lo Stato e nella limitazione dell’esistenza dei cittadini alla mera singolarità; “il
morto spirito dell’universalità sostanziale, che si è disperso negli atomi dei molti singoli
69
70
HEGEL, Scritti politici, tr. it. di C. Cesa, Einaudi, Torino 1972, p. 11.
TP, p. 137 (p. 187).
231
posti assolutamente, si è imputridito in formalismo giuridico”71. Nella contrapposizione
tra l’universalità delle norme e la soggettività vivente – come “positivo rigido,
impersonale e indistruttibile” – l’individuale deve necessariamente sacrificarsi
nell’universale, vale a dire nelle leggi, all’interno delle quali non è più in grado di
riconoscersi. In tale circostanza, l’ordine può essere mantenuto solamente dalla pena,
sebbene questa appaia una coercizione esterna, non in grado cioè di creare le condizioni
per una conciliazione tra il reo e la legge. Se tuttavia, argomenta Habermas, la pena,
come legge astratta, è sostituita dalla vita stessa che punisce, allora la sanzione è
percepita come destino, “un individuale essa stessa, al quale come ad un nemico la
soggettività colpita può contrapporsi come potenza in lotta”72.
Secondo Habermas, proprio da questa opposizione sul modo di intendere la pena,
Hegel deriva la possibilità di mediare il diritto astratto con l’eticità sostanziale:
l’universalità della legge, irrigidita in positività, può essere superata nel compimento
della tragedia del mondo etico, soltanto se viene detronizzata dalla sua posizione di
realtà più alta, se viene riportata nell’arena della vita storica come diritto determinato
in concorrenza con un altro diritto, se viene implicata in una lotta per il diritto; la
guerra, di conseguenza, è il segno massimo della fine del diritto astratto
nell’autoaffermazione di uno Stato concreto73.
La guerra diviene pertanto il medio in grado di portare al livello della realtà il diritto,
attraverso l’abnegazione dell’individuale nell’universale etico. Il diritto ora divenuto
concreto, argomenta Habermas, si presenta allo sguardo di Hegel nella realizzazione
storica della lotta tra Stati, “come lotta interessata di una potenza con l’altra, laddove per
esse la legge non scritta dell’autoaffermazione concreta è il più alto diritto”74.
Habermas nota, a questo punto, come l’argomentazione hegeliana conduca, da un
lato, al definitivo abbandono della pretesa di concretizzare, attraverso la coscienza
rivoluzionaria, ciò che era stato concepito nelle teorie giusnaturalistiche; dall’altro, alla
negazione stessa della possibilità di una traduzione della teoria nella prassi, attraverso
quel procedimento dialettico auspicato dallo stesso Hegel. Se dunque il diritto astratto
71
Ivi, p. 138 (p. 188).
Ibidem.
73
Ibidem, (p. 189).
74
Ivi, p. 139 (p. 190).
72
232
sembra qualificarsi esclusivamente nei termini di dissoluzione dell’eticità, e non già
come espressione dell’emancipazione del lavoro sociale, allora, prosegue Habermas, lo
stesso problema relativo al diritto astratto assume una nuova connotazione:
non si discute più della situazione, ma della conciliazione del diritto astratto e, con
questo, della negazione e del superamento di quella sfera che dà vigore di diritto
positivo al diritto privato, della negazione e del superamento della società civile75.
Del tutto legittima appare, pertanto, la domanda che Habermas si pone relativamente
all’adesione di Hegel alla controrivoluzione, all’aver, cioè, rinunciato definitivamente
all’ordinamento del diritto astratto e alla società civile come ambito del diritto privato,
quali risultati più significativi della rivoluzione. Dall’attestazione che da qui deriva, ossia
dalla constatazione che si verifica qui il superamento del diritto e della società civile
nella sfera dell’eticità, Habermas trae una conseguenza importante per la sua
interpretazione del pensiero politico del filosofo di Stoccarda, direttamente connessa
all’atteggiamento ambivalente di Hegel nei confronti della rivoluzione francese. Un dato
certo che Habermas sottolinea, riguarda, in definitiva, l’effettiva incapacità di Hegel di
gestire, nella sua interezza, la critica da lui mossa alla rivoluzione76:
se non è la coscienza rivoluzionaria, chi è che sostiene la direzione rivoluzionaria che
la storia del mondo prende nella lotta della vita con la vita, per realizzare la ragione e
instaurare il diritto concreto? Il concetto della vita è storicamente troppo indeterminato
e deve essere sviluppato logicamente a vita del concetto77.
È questa, secondo l’argomentazione habermasiana, la chiave di volta per
comprendere, nel modo più esaustivo possibile, la peculiarità della posizione assunta da
Hegel rispetto alla rivoluzione. Sembra, infatti, che Hegel reintroduca al livello dello
spirito oggettivo ciò che egli aveva perentoriamente escluso al livello dello spirito
75
Ivi, p. 140 (p. 190).
Si noti come Habermas in queste pagine riporti, per legittimare tale affermazione, le tre maggiori
interpretazioni date alla superiorità qui conferita da Hegel alla sfera dell’eticità piuttosto che al diritto e
alla società civile: quella conservatrice (Karl Larenz), quella liberale (Joachim Ritter) e quella di sinistra
(Herbert Marcuse). Proprio la contrapposizione tra queste interpretazioni è sintomo, secondo Habermas,
dell’ambiguità racchiusa in questo punto del pensiero di Hegel.
77
TP, p. 142 (p. 194).
76
233
soggettivo, riabilitando in un certo qual modo la figura di Roberspierre a spirito del
mondo.
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel afferma:
fini, principi, ecc., sono nei nostri pensieri anzitutto in quanto sono nella nostra
intenzione interiore, o anche nei libri, ma non ancora nella realtà; ossia, ciò ch’è in sé è
in primo luogo una possibilità, un potere, ma non è ancora venuto dalla sua interiore
esistenza. Per la loro realtà deve aggiungersi un secondo momento, e questo è
l’attuazione, la realizzazione: il suo principio è la volontà, l’attività che l’uomo svolge
sotto ogni aspetto nel mondo78.
Lo spirito del mondo, argomenta Habermas, fa sì che sia possibile intendere il reale
svolgersi dell’evento rivoluzionario attraverso categorie derivate dalla coscienza
soggettivamente rivoluzionaria; e, tuttavia, queste devono avere validità esclusivamente
per il soggetto complessivo della storia. In tal modo, Hegel può intendere la storia come
la graduale realizzazione della volontà rivoluzionaria di attuazione del diritto, senza
tuttavia dover ammettere l’esistenza di un’attività rivoluzionaria della coscienza
soggettiva. Esiste però un secondo aspetto della medesima questione, che Habermas non
manca di sottolineare: Hegel non può facilmente accettare come valida la conseguenza
che lo spirito del mondo – prima di aver realizzato attraverso la rivoluzione il principio
storico da esso stesso portato – conosca come universale astratto quello stesso principio.
Secondo Habermas, è in questo momento che si manifesta chiaramente la
contraddizione, poiché, da un lato, è necessario un nuovo soggetto della storia affinché il
fine di questa si mostri come universale astratto per essere realizzato (nell’esigenza
rivoluzionaria); dall’altro, però, questo stesso universale deve necessariamente diventare
un in sé naturale, che può giungere a sé solo dopo essersi oggettivato nella storia. Per
Habermas, quindi,
la fictio dello spirito del mondo è creata per dare un nome all’astuzia della ragione: ma
soltanto dopo che l’astuzia è già stata esercitata, può esserci lo spirito del mondo che
perviene a pensieri astuti. In questo spirito del mondo, che ad un tempo è
78
HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze
1975, vol. I, pp. 69-70.
234
rivoluzionario e non può esserlo, si riassume ancora una volta il rapporto ambivalente
di Hegel alla rivoluzione francese: egli vuole il rivoluzionamento della realtà senza i
rivoluzionari79.
È qui che, secondo Habermas, si manifesta più chiaramente il paradosso: lo spirito
del mondo ha realizzato la rivoluzione e la ragione è divenuta pratica prima che la
filosofia conoscesse la realtà nella sua razionalità. Sullo spirito del mondo si proietta il
divieto imposto dallo Hegel maturo ai filosofi e ai politici di “agire e sapere”
contemporaneamente. Solo dopo che la ragione è divenuta reale, vale a dire dopo il
rivoluzionamento pratico della realtà, la filosofia può conoscere il mondo rivoluzionato e
razionalizzato. Per tale motivo, secondo Habermas, Hegel rende la rivoluzione “il cuore
della sua filosofia”: solo così egli può infatti scongiurare che “la filosofia diventi la
mezzana della rivoluzione [Zuhälter der Revolution]”80 e mantenere lo status della
dialettica come ontologia; in questo modo, egli non deve recidere il rapporto della
filosofia con la teoria, ossia non deve privare la teoria della sua supremazia sulla
coscienza storica e sulla prassi. Se lo Hegel di Jena, criticando la positività del
cristianesimo, aveva biasimato la speranza escatologica come manifestazione della
debolezza dell’eticità di concretizzarsi ad opera degli uomini, allo stesso modo lo Hegel
maturo critica l’opinare al livello dello spirito assoluto, “perché esso pretende di nuovo
l’azione e il compimento del bene realizzato”81.
Si è visto finora, seguendo lo svolgersi dell’interpretazione habermasiana, come
l’ambiguità del pensiero politico di Hegel si situi al livello più alto della sua filosofia,
vale a dire nella sua speculazione più squisitamente teoretica. È tuttavia possibile
rinvenire la stessa problematicità anche ad un altro livello, non accademico, ossia quello
della pubblicistica. Hegel fu anche un impegnato scrittore politico e, sebbene i suoi
scritti politici non abbiamo riscosso successo al tempo della loro diffusione, dobbiamo
intendere questa attività come significativa rispetto alla fondazione sistematica del suo
intero pensiero.
Hegel stesso, nella Filosofia del diritto, fornisce una chiave di lettura per intendere il
modo in cui debba relazionarsi alla realtà:
79
TP, p. 144 (p. 196).
Ibidem.
81
Ivi, p. 145 (p. 198).
80
235
è da considerare, quindi, come ventura per la scienza, – in realtà come si è notato, è la
necessità delle cose – che quella filosofia, che si poteva avvolgere in sé come
erudizione pedantesca, si sia posta in più intimo rapporto con la realtà, nella quale i
principi dei diritti e degli obblighi sono cosa seria, e la quale vive nella luce della
coscienza di tali principi; e che con ciò si sia venuti a un’aperta rottura. È appunto
questa collocazione della filosofia nella realtà, a cui si riferiscono i malintesi; e io
ritorno, quindi, a quel che ho notato in precedenza: che la filosofia, poiché è lo
scandaglio del razionale appunto perciò è la comprensione del presente e del reale82.
Secondo Habermas, l’esperienza è il banco di prova sul quale la filosofia deve
confrontarsi con la storia del mondo, senza avere tuttavia alcuna garanzia di successo;
Hegel, ciononostante, per non entrare in conflitto col suo stesso sistema, non è stato in
grado di assumere l’esperienza storica come criterio indipendente rispetto alla teoria. Per
questo motivo, prosegue Habermas, il principio e la fine del sistema hegeliano è da
vedersi nella filosofia dello spirito, in particolare dello spirito oggettivo: essa è costituita
tanto dalla teoria della società quanto dalla filosofia della storia, e deve rinvenire la
propria validità conformando la teoria alle esigenze del presente. Ciò comporta
inevitabilmente un adeguamento alle trasformazioni storico-mondiali, di un’attualità cioè
sempre progredente; ma proprio questo è ciò che risulta incompatibile con
l’autofondazione della filosofia stessa.
Gli scritti politici di Hegel sono costituiti da “pagine redatte per influire direttamente
sull’opinione pubblica: era come scrittore politico, e non come filosofo, che egli si
rivolgeva ad essa”83, ottemperando al compito affidato alla filosofia di cogliere il proprio
tempo col pensiero. A tal proposito, Habermas sostiene che
la pubblicistica definisce la forma della coscienza, nella quale si riflettono in prima
istanza i movimenti storici in margine degli avvenimenti del giorno. L’attività di
scrittore politico è il medio, attraverso il quale Hegel fa sua la molteplicità empirica
della pubblicistica84.
82
HEGEL, Prefazione, in Filosofia del diritto, tr. it. di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 15-16.
CLAUDIO CESA, Introduzione, in HEGEL, Scritti politici, tr. it. cit., p. VII.
84
TP, p. 149 (p. 202).
83
236
Questi scritti non ottennero successo tra i contemporanei, e la motivazione di tale
insuccesso, con molta probabilità, è da leggere, come sostiene Cesa, nelle posizioni
indipendenti assunte da Hegel nei confronti dell’andamento contingente degli
avvenimenti politici. Essi rivestono, tuttavia, un ruolo molto importante ai fini
dell’analisi habermasiana delle difficoltà incontrate da Hegel nel rapportare
coerentemente la teoria alla prassi; in essi è inoltre possibile vedere le diverse posizioni
hegeliane nei confronti dell’evolversi delle condizioni politiche contemporanee. A tal
proposito Habermas rileva come il solo fatto che Hegel abbia composto degli scritti di
polemica politica costringa ad osservare il peculiare rapporto della sua teoria alla prassi,
ed è quindi lecito interrogarsi sul nesso che intercorre tra “l’intenzione di trasformare la
realtà – e precisamente la realtà dell’idea etica – con una teoria che proprio questa
pretesa deve respingere come vana”85.
Riprendendo la Scienza della logica, Habermas evidenzia come Hegel abbia definito
chiaramente la relazione che si interpone tra l’attività soggettiva in vista dello scopo e
l’idea del bene, ossia la contrapposizione tra la teoria come «regno del pensiero
trasparente» e la realtà come «regno delle tenebre non ancora dischiuso». La prassi,
prosegue l’analisi habermasiana, è intesa da Hegel come agire politico e interazione
interiorizzata, ossia come eticità, e proprio per questo essa è sempre calata in una realtà
“nella quale la ragione ha impresso la sua immagine”86. È illusorio ritenere possibile un
mutamento di questa realtà tramite la volontà e la coscienza, dal momento che non è
lecito presupporre uno scopo non realizzato dopo la realizzazione di questo. Sulla scorta
di quanto appena detto, la citazione sopra riportata dalla prefazione alla Filosofia del
diritto deve essere intesa come un’ulteriore constatazione del fatto che la filosofia può
solo prendere atto della realtà così come è, ma non può insegnare al mondo come deve
essere. La filosofia
non può indirizzarsi criticamente contro quest’ultima [la realtà], ma soltanto contro le
astrazioni che si frappongono tra la ragione divenuta oggettiva e la nostra coscienza
soggettiva. La filosofia […] non offre alcun filo conduttore per una prassi
85
86
Ivi, p. 155 (p. 209).
Ivi, p. 155 (p. 210).
237
rivoluzionaria, mentre dà invece una lezione a quanti falsamente si servono di essa
quale guida dell’azione politica87.
Habermas sostiene che gli scritti politici hegeliani non sempre si pongono
coerentemente a quanto appena detto, dal momento che intenzione comune di questi è
proprio l’insegnare a chi opera nella politica. Ciò che, piuttosto, differenzia tra loro i
diversi scritti è il modo in cui l’insegnamento debba essere inteso.
La traduzione delle Lettere di Cart88 rivela una prima intenzione hegeliana di tipo
didattico o, come la definisce Cesa, di “pedagogia politica”89, già evidente
nell’Avvertenza al lettore tedesco che dice: “Discite justitiam moniti, ed a scuotere
violentemente i sordi provvederà il loro destino”. Il rimando è qui evidentemente alla
politica del mondo classico, nonché alla storiografia classica, che usualmente ricorreva
ad exempla per mostrare le conseguenze di un atteggiamento poco saggio dal punto di
vista della prassi politica; del resto, è doveroso ricordare che per Hegel, nel periodo
bernese, “l’antichità funge […] da contraltare politico-utopistico all’epoca presente”90.
La disfatta del governo bernese ha mostrato ciò che necessariamente doveva verificarsi,
la “caduta meritata di una aristocrazia degenerata”91.
Risalgono agli anni di Francoforte lo scritto sull’Ordinamento municipale92 e
l’introduzione alla Costituzione della Germania93; in entrambi i testi Habermas individua
87
Ivi, p. 156 (p. 211).
J. HOFFMEISTER, Dokumente zu Hegels Entwicklung, Fromman Verlag, Stuttgart 1936, pp. 248 sgg.
E 549 sgg. Le Die Vertraulichen Briefe über das vormalige Staatsrechtliche Verhältnis des Wadtlandes
zur Stadt Bern (tr. it. Lettere confidenziali sul passato rapporto di diritto pubblico tra il Cantone di Vaud
e la città di Berna) apparvero in edizione tedesca nel 1798, recando il nome dell’autore, l’avvocato Cart
del Cantone di Vaud. Nel 1909 Falkenheim ha scoperto che il traduttore e curatore anonimo era Hegel (H.
FALKENHEIM, Eine unbekannte Druckschrift Hegels, in “Prussische Jahrbücher”, 1909). Le Lettere
apparvero per la prima volta in lingua originale nel 1792, dopo la repressione di una rivolta nel Cantone
di Vaud contro i dominatori bernesi. L’edizione tedesca uscì nella primavera del 1798, poco prima che le
truppe francesi entrassero in Svizzera, determinando la caduta del regime bernese e l’acquisizione
dell’indipendenza politica del Cantone di Vaud.
89
CESA, Introduzione, in HEGEL, Scritti politici, tr. it. cit., p. XVII.
90
G. LUKÀCS, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, tr. it. di R. Solmi, Einaudi,
Torino 1960, p. 82.
91
TP, p. 156 (p. 212).
92
Questo scritto, non pubblicato, è stato composto nella prima metà del 1798 e ne sono rimasti solo
alcuni frammenti. Il titolo originale, che mostrava una formulazione evidentemente programmatica, Che i
consigli municipali siano eletti dal popolo, è stato cancellato e sostituito con Sulle più recenti vicende
interne del Württenberg e in particolare sui vizi dell’ordinamento municipale. Queste pagine contenevano
una proposta sulle modalità di elezione della dieta, e nell’impostazione generale pare che Hegel abbia
preso posizione a favore dei deputati, in contrapposizione al duca.
93
Il primo abbozzo della Costituzione è concluso da Hegel all’inizio del 1799, sebbene l’introduzione sia
stata ripresa e rielaborata tra il 1801 e il 1802. Il fine programmatico di questo scritto è la riforma
88
238
un mutamento rispetto all’insegnamento che essi dovrebbero impartire: Hegel abbandona
il riferimento alla politica classica e richiede ora alla filosofia un compito critico.
Secondo Habermas,
Hegel muove dalla positività della realtà presente: «positiva» egli chiama una società,
nelle cui forme storicamente irrigidite non è più presente lo spirito, e le cui istituzioni,
costituzioni e leggi non corrispondono più agli interessi, alle opinioni e ai sentimenti94.
Ciò che emerge da entrambi gli scritti è quello stato di scissione, già descritto da
Hegel negli Scritti teologici giovanili, nei quali il filosofo si confrontava con “il
disfacimento dell’eticità sostanziale di un’antichità trasfigurata”. Nella situazione
politica in cui versano la sua patria, il Württemberg, e l’intero impero tedesco, egli
contrappone il coraggio di coloro che sono illuminati nella ricerca di ciò che non è più
difendibile, al timore di coloro che, nonostante sentano la necessità di un cambiamento,
restano ancorati alla situazione attuale. Hegel ritiene quindi necessaria un’alternativa
inevitabile tra “un sovvertimento violento” e una oculata prassi riformatrice, che possa
condurre ad uno stadio di sicurezza:
un mutamento della realtà, che annienti la positività della vita che si è spenta: ma,
nell’abbattimento rivoluzionario, «il timore, che viene costretto», si attira sul capo un
cieco destino, mentre il previdente coraggio di una riforma che eserciti la giustizia
attua consapevolmente lo stesso destino e toglie alla violenza di questo destino il
carattere violento95.
Habermas riprende, giunto a questo punto, la questione della pena nei confronti del
reo, la stessa affrontata in relazione alla possibilità della mediazione tra il diritto e
l’eticità. Nello Spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel definisce «etica» una
situazione sociale in cui tutti gli individui godono di pari dignità di diritti e di
soddisfazione dei bisogni. In tale contesto, il reo che si macchia di un crimine infrange il
dell’impero sotto la guida dell’Austria, riforma che doveva prevedere innanzitutto il riassetto dell’esercito
e del suo finanziamento. La deliberazione della Deputazione imperiale approdò ad un esito diverso da
quello auspicato da Hegel, e per tale ragione lo scritto non venne diffuso. Solo nel 1893 il testo fu
pubblicato completamene ad opera di Mollat.
94
TP, p. 157 (p. 212).
95
Ivi, p. 157 (p. 213).
239
movimento stesso della vita etica, opprimendo la vita altrui e sperimentando, di
conseguenza, “la potenza di questa vita alienata come destino nemico”96. Qui si
manifesta la violenza reattiva di questa vita scissa come necessità storica del destino, che
infligge sofferenza al reo fino alla consapevolezza che l’alienazione da se stesso si situa
proprio nella separazione dall’altrui vita, nella soppressione di questa:
nella causalità del destino opera la potenza della vita che manca, che può essere
conciliata soltanto se dall’esperienza della negatività della vita scissa sale la nostalgia
della vita perduta e costringe a identificare nell’esistenza altrui la propria esistenza
negata. Le due parti, allora, riconoscono la reciproca posizione cristallizzata come
risultato del distacco, dell’astrazione dal loro contesto vitale comune – e in questo
riconoscono il fondamento della loro esistenza97.
Nell’argomentazione hegeliana, Habermas riscontra la medesima condizione di
positività che accomuna sia l’ordinamento del Württenberg che la costituzione della
Germania, e che porta il filosofo di Stoccarda a vedere la potenza della vita repressa
anche in siffatta situazione di negatività; deve senz’altro accadere, quindi, che il giusto
destino si compia su tutti i partecipanti in lotta attraverso la rivoluzione. Quest’ultima
possiede quelle connotazioni positive, in forza delle quali è ancora auspicabile, anzi è
necessario che si verifichi, il mutamento di realtà. Tuttavia, tale punto di vista non è
destinato a rimanere immutato.
Già nella stessa Costituzione, fa notare Habermas, è ancora tenuta in buona
considerazione la possibilità di prevenire un mutamento così radicale per mezzo della
rivoluzione; Hegel ritiene possibile una riflessione sul destino, capace di prevenire la
catastrofe. Una critica ponderata deve poter eliminare i residui di universalità sotto i
quali ancora si cela il destino, rafforzando, al contrario, proprio la forza di quella vita
messa a rischio e ancora voluta. Il filosofo deve accollarsi l’onere di tale compito,
guidando “una riforma che eserciti la giustizia per non patire la più terribile giustizia
della cieca violenza rivoluzionaria”98; egli deve portare coloro che nella situazione
prerivoluzionaria hanno elaborato la stessa idea all’intendimento storico di questa
96
Ibidem.
Ivi p. 158 (p. 213).
98
Ibidem, (p. 214).
97
240
opposizione. Tale critica non deve, tuttavia, implicare la partecipazione delle masse, dal
momento che esse non possiedono la capacità di una profonda e consapevole riflessione
sulla contraddizione, bensì deve rettificare l’azione di chi detiene il potere, per
scongiurare il compiersi della cruenta giustizia del destino.
Anche questa posizione, fa notare Habermas, è presto abbandonata. A Jena, infatti,
tra il 1801 e il 1802 Hegel rielabora più volte l’introduzione alla Costituzione e, al
momento della correzione finale, mostra di aver definitivamente rinunciato alla
prospettiva precedente. Non è da trascurare il fatto che questi sono gli anni in cui Hegel
elabora la sua dialettica, acquisendo sempre più autorità nelle dispute filosofiche del
tempo, sebbene sia
difficile sottrarsi all’impressione di uno iato profondo tra il filosofo della politica e il
pubblicista che cercava una soluzione alla crisi della Germania; […] le pagine più
specificamente politiche del System der Sittlichkeit o il saggio sul diritto naturale ci
portano in un altro clima mentale, che contrasta non tanto con la «empiricità»
dell’apparato storico della Costituzione della Germania (non è questo il problema)
quanto con le parti «teoriche» di essa99.
In maniera assolutamente antitetica a quanto precedentemente auspicato, ora per
Hegel non è più pensabile alcun tipo di riflessione sul destino; l’andamento storicomondiale può sì essere compreso e inteso come un qualcosa da cui imparare, ma ciò non
comporta affatto la possibilità di una reale influenza sul processo storico. La
Costituzione è null’altro se non la constatazione dell’andamento dei fatti storici, ed essa
non può fornire che una consolazione a coloro che soffrono, rendendo più sopportabile il
peso del destino. Non più la critica, bensì solo la forza di un conquistatore può, secondo
Hegel, portare alla riforma dell’impero tedesco: è il vigore “del generoso Teseo che
abbatte il particolarismo dei principi”100 l’unico veicolo per il rinnovamento già
precedentemente auspicato per mezzo della critica.
Habermas collega la nuova valutazione elaborata da Hegel sul valore dispotico alla
ricezione avvenuta in quegli anni dei testi di Machiavelli e Hobbes e, di conseguenza, al
99
CESA, Introduzione, in HEGEL, Scritti politici, tr. it. cit., p. XXII.
TP, p. 160 (p. 216).
100
241
concetto moderno di Stato101. La positività dell’impero, con le sue forme storicamente
irrigidite, può ora trovare una soluzione attraverso la trasformazione in un “moderno
Stato burocratico, fondato su una amministrazione finanziaria centralizzata e su un
esercito professionale fortemente organizzato, Stato che in quanto tale resta esterno alla
sfera dei privati rapporti civili emancipati”102. Eppure, prosegue Habermas, a questo
stesso Stato Hegel attribuisce ancora la forma di eticità appartenente alla polis greca,
ricollegando ancora la sovranità ad un potere in grado di garantire forza militare
all’esterno, grazie al sacrificio da parte dei cittadini della loro libertà e della loro vita per
ottemperare al supremo compito della difesa del tutto. “Da questo momento la categoria
della guerra acquista una posizione dominante. La guerra è il medio attraverso il quale il
destino storico-mondiale si manifesta nei popoli”; non più l’ironica pena della causalità
del destino, bensì, tramite il sacrificio volontario dei cittadini “all’autoestraniazione
dell’assoluto nel suo altro”, Hegel può conferire validità allo Stato moderno borghese e
al suo apparato di dominio103.
Come correttamente evidenza Habermas, furono gli stessi fatti storici, “i campi di
battaglia napoleonici”, a mostrare la scarsa forza delle argomentazioni hegeliane. Alla
fine del periodo jenese, Hegel può definitivamente spogliare la filosofia del suo compito
critico e lasciare che essa si limiti alla contemplazione, poiché “il concetto giustifica una
realtà che si è compiuta da sé ed esso, per parte sua, non ha più bisogno di essere
giustificato dalla forza esterna”104.
Verso la conclusione del 1817 comparve, negli «Heidelberger Jahrbücher», il saggio
di Hegel Valutazione degli atti a stampa dell’assemblea dei deputati del regno del
Württenberg negli anni 1815-1816. Secondo Habermas, in questa circostanza
Hegel scrittore politico per la prima ed unica volta, concorda interamente, circa il
rapporto della sua teoria con la prassi, con lo Hegel logico e filosofo del diritto, cioè
con l’autocomprensione del sistema, secondo la quale, dopo che ha conosciuto
concettualmente il processo di formazione dello spirito, la teoria può rivolgesi
criticamente contro coloro che sono sotto il livello della storia del mondo105.
101
Cfr. RIEDEL, Hegel tra tradizione e rivoluzione, tr. it. cit.
TP, p. 160 (p. 216).
103
Ivi, p. 161 (p. 217).
104
Ibidem, (p. 218).
105
Ivi, pp. 164-165 (p. 222).
102
242
In queste pagine Hegel, rivolgendosi all’assemblea del Württenberg, si schiera contro
la proposta di riforma della costituzione proposta dal re, che metteva in relazione il
diritto di voto all’età e al reddito. Il filosofo sostiene, al contrario, la necessità di un
adeguamento dei diritti politici del cittadino allo status del medesimo nella società. Per
Hegel, infatti, la possibilità di filtrare in tal modo gli aventi diritto al voto costituisce una
garanzia per la salvaguardia del potere dello Stato, rispetto al piano dei conflitti sociali.
Secondo Habermas, lo scambio dello Stato con la società civile e la connotazione dello
Stato esclusivamente come garante della sicurezza e della protezione della proprietà e
della libertà, è ciò che Hegel più teme come conseguenza dell’inasprirsi dei risultati della
rivoluzione di luglio – democratizzazione del diritto elettorale in Francia e riforma
elettorale in Inghilterra –.
Habermas, tuttavia, non ritiene plausibile che “l’indolenza del vecchio Hegel e il suo
lamento di Cassandra” trovino una spiegazione solo nella semplice paura della
rivoluzione, come aveva precedentemente sostenuto Rosenzweig. Egli avanza perciò
un’ulteriore ipotesi:
il pessimismo di Hegel, che, come testimoniano le lettere, alla fine della sua vita cresce
fino a diventare insicurezza, non potrebbe essere sintomo di una inquietudine più
profonda, di un turbamento non limitato alla vita privata, che, senza che Hegel ne sia
cosciente, nascerebbe dall’insorgere di dubbi sulla teoria stessa?106
Questa affermazione di Habermas può sembrare senz’altro azzardata, ma egli motiva
quanto detto stabilendo un confronto con le Lezioni sulla filosofia della religione. Hegel
sostiene qui che la filosofia ha il compito di giustificare i contenuti della religione al
cospetto della ragione; la conoscenza religiosa che ne deriva dissolve la fede, a causa
della sua natura filosofica, e in tal modo non permette una diffusione universale. Nel
passaggio dalla comunità dei credenti alla comunità dei filosofi, la conoscenza religiosa
perde la forma di riconoscimento universale, e nemmeno lo Stato può prevenire, tramite
la sua forza, la sciagura che qui si prefigura. Habermas parla di “tranquillità” e di
“distacco” di Hegel nel descrivere l’anticipazione di questo processo: la dissonanza della
106
Ivi, p. 165-166 (p. 223).
243
realtà può dissolversi per la filosofia e attraverso essa, ma la riconciliazione che così si
verifica non è universale, bensì parziale, poiché essa vale solo per la comunità
circoscritta dei filosofi.
Riportando il discorso agli scritti politici hegeliani, Habermas sostiene che il distacco
della teoria dalla prassi, che qui si manifesta, dimostra contemporaneamente tanto la
superiorità quanto il distacco della prima nei riguardi della seconda, e che tuttavia ciò
ben si conforma con i presupposti del sistema hegeliano. Ciononostante, sotto
l’incombenza dei nuovi pericoli provenienti dalla Francia, Hegel tenta nuovamente, nelle
vesti di scrittore politico, di influire sulla prassi, ponendosi ancora una volta in
contraddizione col suo sistema.
È nella Filosofia del diritto, secondo Habermas, che Hegel prova a dare un’ultima
definizione del rapporto, per lui indubbiamente difficoltoso, tra Stato e società civile,
approdando ad una soluzione che intende la società civile moderna come “un contesto
coattivo antagonistico”, pur mantenendo in opposizione ad essa lo Stato come “potere
sostanziale”. Habermas rileva, quindi, come nello Stato si riproponga ancora una volta
l’eticità assoluta della “vita buona” aristotelicamente intesa, attraverso l’interpolazione
del sistema dei bisogni. La relazione tra il concetto della moderna società civile –
derivata dallo sviluppo del diritto naturale razionale e dall’economia politica – con
quello della politica in senso classico può avvenire solo grazie ad altre istanze che si
pongono tra essi, e che Hegel “trova in un’articolazione corporativa della società e in
un’assemblea di stati composta organicamente”107. In questa prospettiva, argomenta
Habermas, le costruzioni statali di Francia e Inghilterra dovevano apparire agli occhi di
Hegel come arretrate rispetto al principio storico-mondiale già in vigore in Prussia.
Una risposta al pessimismo di Hegel è individuata da Habermas proprio nella presa
di coscienza che Francia e Inghilterra, e non quindi la Prussia, siano “la realtà nella quale
più profondamente si è impresso il principio dominante della storia”108; l’attribuire
ancora autorità statale a quelle rappresentanze politiche della società preborghese, ormai
dissoltesi e trasformatesi in ceti e classi sociali, starebbe ad indicare, secondo l’analisi
habermasiana, un vano tentativo di restaurazione. La critica, quindi, sembra essere
rivolta contro le conseguenze generatesi dalla rivoluzione, la stessa acclamata fintanto
che i principi del diritto astratto non si estesero ai diritti politici di uguaglianza. La teoria
107
108
Ivi, p. 167 (p. 225).
Ivi, p. 168 (p. 226).
244
stessa è ciò che si dischiude agli occhi di Hegel come passibile dell’attacco del divenire
degli avvenimenti, nella continua pretesa della filosofia di intendere ciò che è eterno nel
tramontare di ciò che è transitorio.
La critica, nella quale la filosofia si è sempre convertita nelle mani dello Hegel
pubblicista, muta collocazione un’ultima volta: di nuovo, come nei giorni della
giovinezza, si rivolge contro l’oggettività di rapporti reali, ma questa volta non più
come allora contro uno stato del mondo irrigidito in positività, ma contro lo spirito
vivente della rivoluzione che si riproduce. Hegel non sente più il vento dietro le
spalle109.
§. 3. Materialismo storico come critica.
Il primo testo ad esprimere l’orientamento marxista del giovane Habermas è
Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus,
pubblicato nel 1957 sulla rivista allora diretta da Gadamer «Philosophische
Rundschau». Si tratta, come segnala Cunico, di un marxismo “assai poco affine
all’ortodossia di partito sovietica”, mediato da letture considerate «eretiche», come
Geschichte und Klassenbewusstsein di G. Lukács e dallo studio delle analisi, sviluppate
nell’immediato dopoguerra, di Sartre, Merleau-Ponty e Marcuse. Il marxismo di questa
fase del pensiero habermasiano è “per un verso polemicamente anti-metafisico (aperto
all’interazione critica tra filosofia e scienze empiriche) e per l’altro fortemente
politicizzato (in senso critico-radicale più che in senso partitico)” 110. Le influenze della
teoria critica degli anni Trenta sono evidenti, sebbene si mescolino con una critica della
società condotta sul terreno del presente.
In Theorie und Praxis, lo studio del marxismo come «critica» - nei termini di
indagine sul “suo specifico statuto teorico, che si colloca in modo peculiare tra filosofia
e scienza”111 – e l’analisi condotta da una prospettiva di filosofia della storia avvengono
secondo l’impostazione, leggermente modificata, già impiegata da Habermas nel
Literaturberich.
109
Ivi, p. 169 (p. 227).
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 56.
111
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 20.
110
245
Nei paesi capitalistici avanzati […] l’interesse all’emancipazione della società non può
più articolarsi immediatamente in espressioni economiche: l’«alienazione» non ha più
la forma economica eclatante della miseria. Il pauperismo del lavoro alienato, ha un
suo lontano riflesso nel pauperismo del tempo libero alienato: in forma sublimata e
non più legata ad una classe particolare, lo scorbuto e il rachitismo si conservano nei
disturbi psicosomatici, la fame e gli stenti nella desolazione di una sollecitazione
eteropianificata, nella soddisfazione di bisogni che non sono i «propri»112.
Così Habermas, riprendendo Herbert Marcuse113, apre il saggio Zwischen
Philosophie und Wissenschaft: Marxismus als Kritik, proponendo – come già nel
Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus114 – una
valutazione sullo stato attuale del capitalismo avanzato. A partire dalla considerazione
che l’alienazione ha cessato di mostrarsi nella forma economica dell’indigenza,
Habermas deriva la modificazione della morfologia tradizionale dei rapporti di dominio:
quest’ultimo non è più sancito dal “contratto di lavoro salariato”, bensì dalla forza
anonima di un governo indiretto, espressa nella figura della manipolazione sociotecnica. Quale esito più emblematico delle mutazioni sociali in corso, l’autore di
Theorie und Praxis indica la dissoluzione del proletariato in quanto tale – “l’agente
designato di una futura rivoluzione socialista”115 –: la “massa della popolazione”, da un
punto di vista oggettivo, è ancora “proletaria” nella misura in cui è esclusa da qualsiasi
possibilità di disposizione sui mezzi di produzione; tuttavia, non essendo più privata
delle “ricompense sociali” – reddito, istruzione, ecc. – essa perde, da un punto di vista
soggettivo, la percezione di essere “proletaria”. Secondo Habermas, non c’è più un
bersaglio contro il quale possa rivolgersi la critica, “ogni teoria rivoluzionaria non ha a
chi indirizzarsi: gli argomenti non si lasciano più tradurre in parole d’ordine. Al cervello
della critica, se pure ancora c’è, manca il cuore”116.
A queste considerazioni preliminari, seguono una serie di valutazioni sullo status
del marxismo, come teoria politica rivoluzionaria, legate alla situazione contingente
112
T. P., p. 228 (pp. 301-302).
H. MARCUSE, Eros and Civilization, The Beacon Press, Boston 1955; (tr. it., Eros e civiltà, Einaudi,
Torino 1964).
114
HABERMAS, Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus,
«Philosophische Rundschau», 1957, pp. 165-235; (tr. it. di E. Agazzi, Dialettica della razionalizzazione,
Unicopli, Milano 1983, pp. 23-107).
115
T. P., p. 229 (p. 302).
116
Ibidem (p. 303).
113
246
degli anni Sessanta, e che qui si ritiene opportuno tralasciare117. Sono altri, invece, gli
aspetti su cui sembra interessante soffermarsi, coerentemente con l’intento di enucleare
gli aspetti peculiari del rapporto tra teoria e prassi nel contesto del materialismo storico:
il primo, in merito alla pretesa del marxismo di porsi come luogo dell’unità di teoria e
prassi e il secondo, in relazione alla possibilità per una filosofia della storia,
materialisticamente intesa, di realizzarsi come critica dell’ideologia.
Uno degli aspetti più significativi della teoria sociale di Marx, fatto proprio da
Habermas, è, come si è già detto, l’idea della società come totalità. Questa visione –
ereditata dalla tradizione filosofica e non creata ex novo dal pensatore di Treviri – è oggi
scardinata dall’esigenza del frazionamento del contesto di vita sociale in settori sempre
più differenziati tra loro, ossia dall’esigenza di una ripartizione interna alla realtà sociale
motivata e supportata dall’idea di poter così guadagnare un considerevole avanzamento
conoscitivo. Tuttavia, questo progresso, argomenta Habermas, “esige un prezzo che per
le scienze della società è molto più alto che non per le scienze della natura, specialmente
se quelle della società hanno perso ogni coscienza di sé”118.
Habermas afferma che la sociologia contemporanea, in conformità alla urgenza di
settorializzazione sopra descritta, si appresta allo studio degli uomini come portatori di
ruoli sociali (Menschen als Träger sozialer Rollen); così operando, essa intende
realizzare forme di analisi esatte di sempre nuovi “campi del comportamento sociale”. Il
«ruolo», infatti, rappresenta l’aspettativa di comportamento di un determinato gruppo e,
al contempo, descrive una grandezza storica. Tuttavia, prosegue l’analisi habermasiana,
l’andamento storico-evolutivo è interamente e volontariamente tralasciato dall’indagine
sociologica, la variazione storica – cui ogni gruppo è soggetto – non è il campo
d’indagine
privilegiato
dalla
sociologia.
Solo
l’incremento
esponenziale,
l’autonomizzarsi e il rendersi vicendevolmente indipendenti delle funzioni sociali
conferiscono
117
Si noti che, nell’edizione del 1971, Habermas stesso riporta in nota alcune considerazioni riviste in
merito ad espressioni forti e ormai anacronistiche utilizzate nella versione del 1963.
A questo proposito, risulta interessante quanto affermato da Perri, in merito alla recezione critica del
pensiero habermasiano, in Italia e all’estero, a conclusione degli anni Sessanta: “Non è un caso quindi che
i temi più dibattuti in quegli anni fossero anche quelli più decisamente collegati alla possibilità di
elaborare un’anatomia del sociale cui non dovevano sfuggire, a livello teoretico, occasioni per sciogliere
le ambiguità della prima teoria critica francofortese ma soprattutto per stabilire un confronto criticocostruttivo con il programma scientifico di Marx, il cui nucleo forte, nel frattempo, veniva seriamente
compromesso e talora smentito degli eventi storici degli ultimi anni ’60”, in PERRI, Il mutamento di
paradigma, cit., p. 17.
118
T P, p. 238 (p. 314).
247
ai «ruoli» un’esistenza semicosale [eine quasi dingliche Existenz] di fronte alle
persone, le quali si «estraniano» in essi e nel prendere coscienza dell’estraniazione
sviluppano l’esigenza dell’interiorità, come dimostra la storia della coscienza
borghese, specialmente nel secolo diciottesimo119.
Secondo Habermas, Marx non ritiene plausibile la disgiunzione dell’analisi dei
ruoli dall’andamento storico della compagine sociale, dal momento che costituisce un
dato indiscutibile il realizzarsi di questi “compiti sociali” solo all’interno della società.
Nel momento in cui, però, la separazione viene attuata, ne consegue lo sfasamento tra lo
sviluppo sociale e quello storico: non coincidendo più i due andamenti, si determina la
trasformazione dei ruoli in categorie universali. Le conseguenze appaiono antitetiche,
poiché, da un lato, si incrementa la possibilità del passaggio tra ruoli differenti, mentre,
d’altro lato, si crea un nuovo genere di illibertà (Unfreiheit), “nella misura in cui ci si
vede costretti a ruoli imposti dall’esterno”120. Per Habermas, dunque, un tipo di
sociologia vincolata esclusivamente all’analisi dei ruoli tralascia del tutto la dimensione
storica, riducendo
lo sviluppo sociale alla declinazione dei casi di una grammatica sociale i cui rapporti
fondamentali restano sempre gli stessi. I ruoli in quanto tali […] vengono posti in
rapporto costante ai portatori dei ruoli, come se il contesto della vita sociale fosse
sempre nella stessa maniera tanto esterno alla vita degli uomini stessi quanto Kant l’ha
rappresentato nel rapporto fra carattere empirico e carattere intellegibile121.
L’evoluzione metodologica e conoscitiva della sociologia non si limita a negare il
carattere storico della società – in quanto non pertinente alla logica della ricerca –; essa
rinuncia, secondo Habermas, a considerare le conseguenze pratiche del suo modo di
procedere, che si manifestano non solo nella riduzione dell’ambito oggettuale
dell’analisi, ma anche nella possibilità di valutare se stessa. A supporto di quanto
appena asserito, Habermas riprende nuovamente l’esempio dei ruoli sociali,
riportandolo al caso della netta separazione tra la “costruzione scientifica del portatore
119
Ivi, p. 239 (p. 315).
Ibidem.
121
Ibidem (pp. 315-316).
120
248
del ruolo” e la “dimensione della decisione morale dell’uomo concreto”. Il sociologo,
posto di fronte a siffatta situazione, deve vagliare e distinguere sia le risposte a questioni
tecniche secondo un metodo empirico, sia le questioni di carattere etico-politiche per
mezzo di un’indagine normativa. L’analisi habermasiana rileva come, tuttavia, proprio
nel
momento
della
trasformazione
della
sociologia
in
“scienza
ausiliaria
dell’amministrazione”, la traduzione tecnica degli esiti della ricerca agisca
sull’ambiente sociale e non su paradigmi analitici, smascherando così la fictio
dell’isolamento artificiale. Pertanto,
in rapporto alle conseguenze politico-sociali, malgrado tutte le esigenze metodiche di
estraneazione dell’oggetto, il sociologo ha a che fare sempre anche con gli uomini
reali, con il contesto vivente della società122.
L’ulteriore interrogativo che Habermas si pone riguarda il modo in cui la
mediazione tra la costruzione di fenomeni e l’esistenza sociale possa inserirsi all’interno
della riflessione, vale a dire – in termini più generali – come sia possibile comprendere e
anticipare, a livello teorico, il rapporto tra teoria e prassi. A tale questione si collega
quella degli interessi guida della conoscenza, già ampiamente discussa, e della loro
influenza sulla scelta tanto dei problemi da analizzare, quanto delle categorie
sistematiche impiegate per l’indagine. Il presupposto di fondo, derivato essenzialmente
da Marx e dalla sua critica a Hegel, è quello dell’intreccio reciproco di soggetto e
oggetto, come possibilità di riproduzione del genere umano attraverso il lavoro sociale.
Questa unità non è connaturata nell’uomo, non esiste in lui né come spirito, né come
ente naturale, ma emerge «praticamente» solo nello scambio con la natura per mezzo
del lavoro, secondo il criterio di un vicendevole processo formativo; per Habermas,
infatti, “ogni possibile esperienza è contenuta nell’orizzonte di questa prassi e, sulla
base di essa, è dunque sempre anche esperienza interessata [interessierte
Erfahrung]”123. La separazione di soggetto e oggetto, come formalizzazione
dell’operare metodico delle scienze, non elimina l’unità iniziale: deve sempre sussistere
il presupposto di un’autocomprensione che rifletta sulla società come totalità, poiché
122
123
Ivi, p. 240 (p. 317).
Ivi, p. 241 (p. 318).
249
l’esperienza interessata non contrappone un «essere» ad un «dover essere», come,
d'altronde, non separa ciò che conosce in fatti e norme.
Naturalmente nelle analisi di Marx la questione dell’autocoscienza materialistica
della critica, così come è trattata da Horkheimer a partire dagli anni Trenta, non si
genera nell’alveo delle scienze sociali positive – ancora troppo poco sviluppate per
costituire un problema – bensì nel contesto delle conseguenze politiche della filosofia
del suo tempo e, in particolare, dalla contingenza legata all’economia e al suo essere
così profondamente permeata dalla pretesa scientifica della filosofia. Costituisce,
tuttavia, un dato sorprendente il fatto che la coincidenza odierna tra scienze positive e
filosofia tradizionale, contrapposta alla teoria critica, determini una situazione così
singolare “da far sì che l’autochiarificazione critica del positivismo introduca nella
stessa dimensione a cui Marx era pervenuto, se così si può dire, dalla parte opposta”124.
Un dato altrettanto rilevante, nota Habermas, è da leggere nell’attribuzione alla teoria
marxiana della definizione di «critica», dove con questo termine si deve intendere
«ragione», come capacità di giudicare e come “energia che spinge senza tregua il
ragionamento in tutte le direzioni” anche contro se stesso: non critica come filosofia,
bensì come suo superamento (Überwindung)125.
Indagando storicamente la genesi del termine critica – a partire dal suo uso
linguistico nella tradizione greca, cristiana, mistica e illuministica – Habermas ne
sottolinea il valore nella Filosofia della storia di Hegel, nella quale il filosofo di
Stoccarda “razionalizza lo schema mitico della logica dialettica della storia del mondo
come crisi, il cui corso flessibile è il corso stesso della flessibilità dialettica”126.
Tuttavia, rileva Habermas, una filosofia del mondo così concepita mantiene un
atteggiamento contemplativo che non le permette di considerare se stessa come crisi
(Krisis); al contrario, essa si reputa la soluzione della crisi, costituendosi come una
totalità propria, non nella forma della critica (Kritik), bensì in quella di sintesi
(Synthese)127.
124
Ivi, pp. 243-244 (p. 321).
È significativo che in Theorie und Praxis Habermas impieghi il termine Überwindung per indicare il
superamento della filosofia che Marx intende realizzare. In un altro testo, Der philosophische Diskurs der
Moderne, per indicare lo stesso concetto l’autore utilizza il verbo aufheben per designare l’obiettivo
marxiano: “Marx vuole superare [aufheben] la filosofia, per realizzarla”, PDM, p. 66 (53).
126
TP, p. 247 (p. 325).
127
“Il Dio filosofico, che malgrado ogni apparenza non si è dato completamente alla storia, si recupera
nella riflessione filosofica dello spirito assoluto, la quale, non attaccata dalla crisi e restando superiore ad
125
250
Questo è ciò che, secondo Marx, contraddistingue il sistema hegeliano: la
separazione della filosofia dal mondo e il suo innalzarsi al di sopra di esso come un
qualcosa di in sé compiuto e totale; il mondo, quindi, sarebbe nient’altro che una
seconda totalità, che, a differenza della filosofia, si mostra nella sua incompiutezza e nei
suoi squarci intestini128. La critica marxiana a questo presupposto del sistema hegeliano,
come sottolinea Habermas, necessita dell’accettazione della dialettica che ne è alla base:
Marx, infatti, riprende tanto le categorie dello spirito oggettivo, da un punto di vista
sistematico, quanto il modello di eticità che intende l’esistenza sociale come totalità; in
questo modo egli può giustificare la realtà sociale come totalità, nella forma del
rapporto antitetico “all’eticità di un mondo lacerato”. Più precisamente,
nella sociologia marxiana, allo spirito oggettivo della filosofia hegeliana viene provato
che esso, ingannevole immagine riflessa dell’anticipata conciliazione, può essere
guadagnato soltanto attraverso la negazione determinata, a partire dalle contraddizioni
esistenti della società esistente […]. Soltanto se la dialettica è già assunta come una
dialettica dei rapporti sociali stessi, questi ultimi possono essere riconosciuti129.
Secondo Habermas, al problema che qui si pone – vale a dire quello della
possibilità di una giustificazione dell’utilizzo dei presupposti idealistici così
veementemente respinti – Marx può far fronte solo dimostrando che l’interesse pratico è
un interesse oggettivo; in altre parole, egli deve avvalorare l’ipotesi che “il suo impulso
critico” sia situato all’interno della crisi e dei suoi andamenti oggettivi, e ciò può
avvenire solo sulla scorta dell’analisi del lavoro sociale, “del lavoro alienato
[entfremdeten Arbeit] a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione, durante la
prima fase dell’industrializzazione”130. Marx deve assumere come base di partenza per
l’indagine sulla realtà – e sulla storia – gli individui e le loro azioni nel contesto sociale,
essa, non ha bisogno di concepirsi come critica, come giudizio in una lotta di vita o di morte, come
anticipazione della vita che deve confermarsi attraverso la vita stessa. Ben lungi dal porsi in siffatto
modo, la filosofia si costituisce in totalità propria: non critica, ma sintesi”. Ivi, pp. 247-248 (p. 326).
128
“Il sistema viene ridotto ad una totalità astratta […] Animato dall’impulso di attuarsi, entra in tensione
con la realtà esterna […] Ne consegue che il filosofizzarsi del mondo è, insieme, il fenomenizzarsi della
filosofia, che il suo attuarsi è, insieme, il suo perdersi”, in MARX, Sulla fondazione del materialismo
storico, tr. it. di A. Sabetti, , La Nuova Italia, Firenze 1962, pp. 412-413.
129
TP, p. 248 (pp. 326-327).
130
Ivi, p. 249 (p. 327).
251
“abbandonando come falsi i presupposti astratti della coscienza filosofica”131; come si
legge nell’Ideologia tedesca
i presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti
reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la
loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato
già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono
dunque constatabili per via puramente empirica132.
È in questo modo, quindi, che Marx è in grado di svolgere le proprie analisi senza
appoggiarsi sulla logica hegeliana, basandosi, al contrario, sul rapporto esistente tra
lavoro salariato e capitale come espressione materialistica del «nucleo razionale» della
dialettica idealistica133. Egli, come afferma Perri, muove la sua critica contro “il
paradigma moderno della filosofia della coscienza” e, al contempo, fonda nell’Ideologia
tedesca “il modello di una teoria dell’ideologia, che si mostra in grado di operare
un’autentica rottura epistemologica con i contenuti della tradizione filosofica e in
particolare con le proposte degli ideologi tedeschi”134
A tale proposito, Habermas afferma che
l’esperienza del lavoro alienato è la verifica materialistica dell’empiria dialettica: che
gli uomini, in ciò che accade loro, sono posti sulle tracce della loro propria storia; che
nelle forze che si radunano sulle loro teste, essi incontrano le loro proprie opere, e
nell’appropriazione degli oggetti riprendono soltanto le loro proprie forze essenziali
oggettivate135.
131
PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 65.
MARX – ENGELS, Die deutsche Ideologie. Kritik der neuesten deutsche Philosophie und ihren
Repräsentanten Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und des deutschen Sozialismus in seinen verschiedenen
Propheten, in Werke, cit., Bd. III; (tr. it., di F. Codino, L’ideologia tedesca. Critica della più recente
filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi
profeti, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 8).
133
“L’importante della Fenomenologia […] sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione
dell’uomo come processo, l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione
di questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo
oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro”, in MARX, Ökonomischphilosophische Manuscripte aus dem Jahre 1844, in Werke, cit., vol. suppl., parte I, Dietz Verlag, Berlin
1968; (tr. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968, p. 167).
134
PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 65.
135
TP, p. 249 (p. 328).
132
252
La crisi, così com’è concepita da Marx, si esprime materialisticamente entro i
confini della dialettica del lavoro sociale e questo dato è indice, secondo Habermas, del
motivo che spinge Marx a conferire alle sue indagini la struttura di critica all’economia
politica; la configurazione che così si determina fa assumere alla critica marxiana un
aspetto affatto significativo, dal momento che, come si legge nell’analisi habermasiana,
“la critica dell’economia politica […] rivendica anche il senso ulteriore di una teoria
costruita con l’intenzione pratica di superare la crisi: […] si palesa così teoria della crisi
in senso proprio”136. L’effetto più innovativo di uno studio condotto al livello del lavoro
alienato si esprime nel suo essere una sorta di premessa alla dialettica materialista, la
sola in grado di situare la critica dal punto di vista degli uomini, ossia dalla prospettiva
che propriamente le appartiene. Questo nuovo giudizio dischiude agli uomini una nuova
visuale, permettendo loro di prendere chiaramente coscienza che “l’apparente potenza
dei rapporti quasi naturali è opera del lavoro delle loro mani”.
Il carattere di feticcio della merce, ampiamente analizzato da Marx, permette di
raggruppare al suo interno ogni possibile prodotto del lavoro, solamente, però, nel
momento in cui anch’esso diviene merce, vale a dire allorché il modo di produzione
diventa capitalistico. È questa la condizione, argomenta Habermas, che mostra
l’andamento in base al quale il processo lavorativo acquisisce sempre maggior
indipendenza dall’uomo: il lavoratore salariato, vendendo la sua forza lavoro come
merce, crea le condizioni per lo sganciamento del processo lavorativo – come processo
di valorizzazione – dall’uomo. Secondo Habermas, in questo modo
la produzione di valori d’uso sembra sparire totalmente in una sorta di automovimento
del capitale, e la critica di questa apparenza oggettiva, come premessa teorica di
un’appropriazione pratica delle forze essenziali capitalisticamente alienate, identifica
nel lavoro salariato la fonte del plusvalore137.
Habermas sottolinea come l’attenzione critica rivolta da Marx al rapporto antitetico
tra lavoro salariato e capitale possa essere giustificata considerando l’intenzione di
risolvere la crisi praticamente: Marx ritiene, infatti, di poter rinvenire proprio all’interno
di questa relazione la causa della “dialettica dell’autodislocazione” (Dialektik der
136
137
Ivi, p. 250 (p. 329).
Ivi, p. 251 (p. 331).
253
Selbstverstellung), che impedisce agli uomini di concepirsi come soggetti della loro
storia. Da quest’ultima considerazione, prosegue l’argomentazione habermasiana, si
possono evincere due tesi. La prima concerne l’idea che la crisi interna al sistema
capitalistico sia la conseguenza diretta del processo di valorizzazione del capitale e che,
di conseguenza, debba essere risolta nel contesto dell’economia politica come teoria
della crisi. La seconda presuppone che il mondo nel quale emerge la crisi abbia solo una
natura di tipo economico, ossia che esso sia astratto dalla crisi e, al contempo,
risolvibile con essa; questa tesi esige, pertanto, di essere sviluppata nel materialismo
storico come dottrina delle ideologie.
Delle due tesi sopra enucleate, la seconda è quella più pertinente ai fini
dell’indagine sulla possibilità del materialismo di porsi come critica. Nel paragrafo del
testo preso qui in esame, Critica dell’ideologia e appropriazione critica delle idee della
tradizione, si trova un’interessante definizione di ideologia, derivata dal confronto con
la scienza. Habermas afferma che nel concetto di ideologia
interessi e idee sono certo semplici momenti dialettici della medesima totalità, ma
questa, come totalità, viene tenuta insieme da categorie di un processo di riproduzione,
che si costituisce come sistema chiuso (e quindi si lascia anche ricostruire) fino a
quando i soggetti in esso non riconoscono come loro propria la prassi distaccata da
loro138.
La riflessione marxiana, argomenta Habermas, ha tentato di mostrare come
l’anticipazione, che dovrebbe essere messa in atto dai soggetti, necessiti di una verifica
all’interno del rapporto che lega tra loro politica ed economia. In tal senso, sia le azioni
politiche che le istituzioni dovrebbero emergere dai conflitti di interesse che si generano
nel sistema produttivo capitalistico. Tuttavia, egli ritiene che un’economia politica,
condotta come critica, permetta di definire i movimenti interni al sistema di produzione
come un “contesto sistematico”, ossia senza valersi di fenomeni che si verificano al di
fuori del contesto di valorizzazione del capitale139. In effetti, il momento storico nel
138
Ivi, p. 265 (p. 349).
“[…] la critica dell’ideologia, che ribalta la filosofia della coscienza in teoria della produzione (la pars
destruens), non sembra in grado di trasformarsi in fonte di conoscenza di tutti quegli aspetti delle
relazioni sociali e dei rapporti tra gli individui, che si sviluppano al di fuori dell’attività produttiva; anzi,
stando alle affermazioni di Marx, bisogna dire che non si danno relazioni sociali se non all’interno e sotto
139
254
quale Marx ipotizzava una simile scenario era idoneo a favorire quanto auspicato,
poiché, come argomenta Habermas, nella fase liberale del capitalismo “trovano un certo
fondamento in re, sia le finzioni del modello della concorrenza perfetta, sia il modello
della «società civile»”, quest’ultima intesa come ambito d’autonomia privato, che
precede e fonda lo Stato, ambito della disposizione sulla proprietà. Il corso storico non
ha però realizzato queste aspettative, dando luogo, al contrario, ad una sempre crescente
concentrazione del capitale e ad un mutamento oligopolistico dei rapporti di scambio;
anche la relazione classica di dipendenza della politica dall’economia si infrange, con
l’immissione di elementi della sovrastruttura, al livello della base. Marx non poteva
ipotizzare simili cambiamenti, interni al capitalismo stesso: egli non poteva prevedere
che, col nascere di nuove forze politiche, si sarebbero rotti gli argini di un sistema in sé
chiuso.
Anche l’autofraintendimento della critica come scienza positiva e quello della
dialettica come legge universale del mondo, hanno creato le condizioni per la
trasformazione del carattere ideologico della coscienza in qualità metafisiche. Non è
plausibile, argomenta Habermas, che questi fraintendimenti siano avvenuti per
“ingenuità”, dal momento che Marx conosceva molto bene il metodo dialettico;
piuttosto la causa deve essere ricercata nella mancanza di riflessione sulla critica stessa,
ossia nell’aver tralasciato “di giustificare, accanto agli elementi scientifici contro la
filosofia, anche gli elementi che la critica deve alla sua origine filosofica, contro i limiti
positivi delle scienze”140. È possibile leggere nel rimando ai «presupposti reali»,
riscontrabili empiricamente come dati naturali e indipendenti dalla coscienza degli
individui, la stessa condizione delle leggi naturali: “come le leggi della natura, i
presupposti materiali costituiscono i punti di partenza e insieme di strutture legittimanti
la scientificità del metodo d’analisi”141.
Allo stato attuale, si interroga Habermas, se la critica rinuncia alla filosofia come
filosofia dell’origine, senza tuttavia poterla superare nelle scienze positive, a quale
le condizioni della produzione, ovvero sotto le forme e i ruoli stabiliti dallo sviluppo della divisione del
lavoro, e questo sia in relazione ai rapporti interni di un’organizzazione sociale e politica, sia in relazione
ai rapporti esterni tra più società e nazioni”, in PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 66.
140
Ivi, p. 267 (p. 351).
141
“Sembra dunque inevitabile che la critica della società come critica dell’ideologia […] si dispieghi
[…] come un processo di equiparazione della teoria critica della società con la metodologia della scienza
naturale e che qui si vengano a determinare le pretese universalistiche di una scienza naturale del sociale”,
in PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 67.
255
principio d’esperienza può rivolgersi? Per conferire fondatezza all’approccio critico in
quanto tale, “non deve essa abbandonarsi al contesto delle esperienze, storicamente
variabile, del mondo della vita sociale concreta, prima di qualsiasi oggettivazione
metodica?”142. Habermas ritiene che sia ancora possibile una rivalutazione dello spirito,
così fortemente rinnegato dalla critica dell’ideologia, dal momento che “l’eredità dello
spirito assoluto”, nei suoi contenuti utopici può ancora essere metabolizzata e utilizzata
dalla critica, “a dimostrazione dell’inconciliato nella sua inconciliabilità”143.
Il pensatore di Treviri confidava in una logica della storia capace di realizzarsi
praticamente e, di conseguenza, in grado di lasciarsi anche annullare, come nel caso
dell’analisi della dialettica della società civile capace di prevedere la rivoluzione e di
compiersi in essa. Tuttavia, come rilevato da Wellmer, Marx non ha mai considerato la
possibilità di una filosofia della storia con finalità politiche, né la questione criticoconoscitiva ad essa connessa144.
Esaminando le condizioni di possibilità di una filosofia in senso materialistico –
dopo aver considerato la genesi stessa della filosofia della storia nel pensiero di Vico e
poi attraverso Kant –, Habermas attribuisce a Hegel il merito di aver riconosciuto,
all’interno della contraddizione tra “la pretesa di fondare la pretesa conoscitiva sulla
fattibilità della storia” e l’impossibilità della rinuncia alla provvidenza agente nella
storia, la forza di un’umanità capace di affrancarsi dalle proprie rappresentazioni e,
quindi, di generare se stessa. Tuttavia, rileva Habermas, Hegel non affronta il problema
della “fondazione critico-conoscitiva della prognostica [der erkenntniskritischen
Begründung der Prognostik]”, limitandosi all’idea di una “filosofia della storia come
storia dello spirito nell’autocoscienza assoluta della filosofia”145.
Solo grazie alla trasformazione della dialettica hegeliana in dialettica materialistica,
afferma Habermas, la prospettiva assoluta – che riflette filosoficamente la storia come
totalità – viene eliminata. Portando all’evidenza il dominio del lavoro morto su quello
vivo, Marx permette di smascherare anche il motivo dell’impotenza dei soggetti storici
al cospetto del soggetto della storia: la storia appare guidata dal lavoro alienato, inteso
concettualmente. Habermas può dunque affermare che
142
TP, p. 270 (p. 355).
Ibidem.
144
WELLMER, Kritische Gesellschaftstheorie und Positivismus, cit., p. 69.
145
TP, p. 275 (p. 361).
143
256
questa prassi è mediata da atti teorici, ma la teoria in quanto tale, anche l’ultima,
quella che penetra dialetticamente dal punto di vista della filosofia della storia, resta il
penultimo passo di fronte alla prassi, che è soltanto introdotta e guidata dalla teoria.
Anche la filosofia della storia marxista, e soltanto essa veramente per la prima volta,
implica il proprio sforzo: rapportata retrospettivamente e prospettivamente alla prassi
sociale sotto di sé (produzione) e alla prassi rivoluzionaria davanti a sé, essa trasforma
la contemplazione in critica146.
La forza prospettica della filosofia della storia marxiana, secondo Habermas, si
esplicita nell’idea che il significato della storia possa essere realmente conosciuto
teoricamente solo se gli uomini si pongono al suo cospetto con l’intento di renderlo
effettivo praticamente: non irriflessamente, bensì con “volontà e coscienza”. Questo è
l’obiettivo che la critica non deve tralasciare, se intende concepirsi come momento della
situazione che vuole abolire. Solo grazie all’autocoinvolgimento materialistico nella
storia, la filosofia della storia invera la sua premessa, “seguendo la quale essa pone la
contraddizione del suo approccio conoscitivo come contraddizione motrice della storia
stessa”147.
Dal discorso fin qui condotto, Habermas giunge a due conclusioni rispetto allo
status della filosofia della storia nelle società industrializzate. Da un lato, si è verificata
un’evoluzione tale nella dipendenza reciproca tra avvenimenti politici e integrazione dei
rapporti sociali – inimmaginabile fino al diciannovesimo secolo – che nel nostro
contesto di comunicazione è possibile parlare di “storia di un mondo”. Allo stesso
tempo, però, nella contemporaneità la storia non è mai stata così sottratta al governo
dell’umanità, a causa dei mezzi di affermazione violenta, impiegati senza un preciso
scopo politico. In questo modo, secondo Habermas, si sono avverate le premesse
immanenti della filosofia della storia, nonostante il dubbio di volersi sottrarre ai
problemi connessi a “tutte quelle ideologie [Gegenideologien] che pretendono di aver
superato la problematica della filosofia della storia”148. D’altro lato, si esaspera la
difficoltà di rappresentare la storia come totalità, poiché solo recentemente si è giunti a
pensare nella prospettiva della storia del mondo, e non è possibile tradurre
146
Ibidem (p. 362).
Ivi, p. 276 (p. 363).
148
Ivi, p. 278 (p. 365).
147
257
retrospettivamente questa concezione. Allo stesso modo, non è possibile nemmeno
leggere la storia passata in termini di fattibilità, dal momento che solo ora anche i
rapporti sociali sono diventati disponibili per la pianificazione razionale degli uomini.
Sulla scorta delle difficoltà emerse da queste considerazioni conclusive, Habermas
può dunque definire il modo in cui si dovrebbero dispiegare le potenzialità di una
filosofia della storia, poiché essa
dovrebbe concepire rigorosamente le sue premesse a partire dal contesto epocale, dal
quale essa è storicamente scaturita. Essa dovrebbe assumere criticamente nella sua
autocoscienza che le categorie dell’unità del mondo e della fattibilità della storia sono
state fatte vere dalla storia stessa soltanto in una determinata fase149.
Secondo Habermas, la filosofia della storia crea una rappresentazione nella quale i
soggetti storici diventano il soggetto della storia, tenendo saldo il presupposto che le
evoluzioni oggettivamente negative del suo sviluppo possano essere affrontate dagli
uomini con “volontà e coscienza”, grazie ad un impegno unanime e condiviso in una
politica mirante al benessere. Pertanto, conclude Habermas,
è a partire da questa fictio che la situazione si manifesta nelle sue ambivalenze
aggredibili nella prassi, così che un’umanità ormai edotta possa anche elevarsi a ciò
che in un primo tempo essa fu soltanto ipotizzata essere150.
149
150
Ivi, p. 279 (p. 366).
Ibidem.
258
CONCLUSIONE
La scelta di ricostruire l’andamento storico-concettuale lungo il quale si svolge la
critica di Habermas allo scientismo, ha comportato la suddivisione del percorso in due
differenti aree: entrambe, come si è visto, possiedono uguale importanza per lo sviluppo
della proposta teoretica del giovane Habermas contro il predominio – termine più volte
impiegato sia dall’autore che dalla critica – dell’impostazione positivistica, sia in
ambito sociologico che filosofico.
L’analisi svolta internamente al contesto delle scienze sociali, e strutturata nel suo
complesso lungo la direttrice del Positivismusstreit, si è mostrata affatto centrale per
comprendere le premesse concettuali e le motivazioni personali che hanno determinato
lo sviluppo autonomo del pensiero habermasiano. In effetti, la cornice del dibattito sullo
statuto epistemologico della sociologia, sviluppatosi in Germania sul finire degli anni
Cinquanta con la contrapposizione tra «dialettici» e «positivisti», costituisce il
presupposto ineludibile per ogni considerazione sul significato che assumono tanto il
termine scientismo, quanto la critica ad esso connessa. L’esame iniziale della
contrapposizione tra Adorno e Popper ha permesso di porre sotto la giusta luce le
componenti concettuali che, all’inizio degli anni Sessanta, costituiscono l’eredità
maggiore ricevuta da Habermas dal suo maestro francofortese.
Nel riprendere le posizioni adorniane e nello sviluppare la contrapposizione con
Albert, Habermas procede già verso il superamento dei capisaldi della scienza sociale
dialettica
–
condivisi
pressoché
unanimemente
all’interno
dell’Institut
für
Sozialforschung di Francoforte –, muovendosi in una direzione già proiettata verso lo
sviluppo di nuove prospettive, “con una sua personale variante della teoria critica dai
tratti già ben delineati”1. È, infatti, nell’alveo della polemica sociologica che Habermas
avanza per la prima volta l’idea della dimensione comunicativa come paradigma
risolutivo delle difficoltà di un’analisi del sociale che sembra soprattutto patire degli
angusti limiti posti dall’approccio empirico-analitico dominante. Per recuperare la
1
WIGGERHAUS, La scuola di Francoforte, tr. it. cit., p. 580.
259
dimensione della totalità del reale, concetto chiave per i dialettici francofortesi, l’allora
giovane assistente di Adorno prospetta così un nuovo scenario interno alla stessa prassi
di ricerca scientifica. L’aver messo in luce la dimensione dell’interesse alla disposizione
tecnica come motore delle scienze empiriche, permette a Habermas di avanzare la
proposta di un ulteriore interesse, posto alla base del processo conoscitivo. Egli, infatti,
riconosce la diversità che contraddistingue il nuovo tipo di comunicazione da quello
avente luogo internamente alla comunità scientifica: si tratta di un rapporto dialogico,
sottratto alla rigida logica grammaticale di elaborazione di teorie vincolanti, che si
manifesta nella ricerca di un accordo tra gli scienziati impegnati nella risoluzione
tecnica di problemi.
In questa fase, per così dire embrionale, dell’elaborazione teoretica di quelli che
saranno i capisaldi delle sue riflessioni fino agli anni Settanta, Habermas parla ancora di
“precomprensione ermeneutica” per descrivere quest’attitudine conoscitiva guidata
dall’interesse all’intesa. Contro il modello popperiano di discussione critica razionale,
quale presupposto fondativo dell’oggettività scientifica, Habermas propone il paradigma
della “razionalità complessiva del libero dialogo degli uomini che comunicano tra
loro”2, guidato non più dall’interesse tecnico del progresso scientifico, bensì da quello
dell’intesa dialogica: questa si configura come l’unica via percorribile per recuperare,
assieme
all’oggettività
scientifica,
anche
la
dimensione
prescientifica
della
concertazione intersoggettiva. L’espressione «naturale ermeneutica del linguaggio
quotidiano» rivela le potenzialità del linguaggio di recuperare la dimensione
dell’autoriflessione, attraverso l’impiego della comunicazione ordinaria: gli uomini,
infatti, in quanto soggetti parlanti si trovano “sempre all’interno di un processo di
comunicazione che deve condurre alla reciproca intesa e quindi alla «alla razionalità
complessiva»”3.
La conclusione cui Habermas giunge, nel dibattito sui presupposti epistemologici
delle scienze sociali, costituisce il battistrada concettuale per il passo successivo delle
sue indagini, vale a dire la riflessione pragmatico-trascendentale per la fondazione
epistemologica della teoria della società. Abbandonata la via dialettica fino ad allora
seguita – sotto l’influenza ancora molto forte di Adorno –, nella prolusione
francofortese del 1965 Erkenntnis und Interesse e nel testo omonimo del 1968,
2
3
AA. VV., Positivismusstreit, p. 254 (p. 101).
Ivi, p. 254 (p. 248).
260
Habermas sviluppa il tema degli interessi guida della conoscenza al fine di mostrare
come la fondazione di una nuova forma di teoria critica della società sia possibile solo
nella figura di una critica radicale della conoscenza.
Si è visto che nella prolusione del 1965 il punto di riferimento principale a cui
Habermas guarda è costituito dagli scritti di Horkheimer risalenti agli anni Trenta, in
particolare Traditionelle und kritische Theorie. In quelle pagine, infatti, era già stata
delineata dal maestro francofortese la differenza sostanziale tra la teoria di tipo
tradizionale e quella critica, orientata ad una concreta trasformazione della realtà
sociale. Come Horkheimer, così Habermas, a trent’anni di distanza, ritiene che,
mantenendo inalterata la nozione di teoria tradizionale come teoria contemplativa, si
legittimi la possibilità per le scienze empiriche di definirsi come «pure» e totalmente
svincolate da qualsiasi riferimento ad interessi di tipo pratico. Precisamente a questo
deve contrapporsi il modello di teoria critica, riconoscendo innanzitutto il rinvio
imprescindibile al sostrato pratico, sul quale si fondano gli interessi che guidano tutte le
forme di conoscenza, per mezzo di una nuova consapevolezza epistemologica. Nella
tripartizione operata da Habermas dei tipi di scienza – empirico-analitica, storicoermeneutica e critica – e dei rispettivi interessi posti alla loro base – tecnico, pratico ed
emancipativo
–
emerge
un’importante
differenza
rispetto
all’impostazione
horkheimeriana: Habermas, infatti, assume come paradigma fondativo una diversa
concezione della conoscenza umana, basata sui presupposti della teoria dell’azione –
derivata da Gehlen – e che, come afferma Honneth, “è superiore per complessità a
quella della teoria critica”4.
Nell’incipit della prolusione francofortese, Habermas sviluppa un’analogia tra le
scienze positivistiche e la filosofia tradizionale, basata sulla constatazione che entrambe
condividono un atteggiamento contemplativo – e quindi teorico – nei confronti della
realtà esterna. Entrambe, quindi, appaiono come forme di conoscenza prive di interessi,
o meglio, come conoscenze che, a causa di un’autocomprensione oggettivistica, hanno
di fatto, reso irriconoscibile l’interesse posto comunque alla loro base. Habermas
condivide con Horkheimer la premessa che ogni forma di conoscenza sia basata su un
complesso di interessi “prescientifici”; tuttavia trova inadeguata la semplice
contrapposizione tra il modello di teoria tradizionale e di teoria critica ad esprimere la
4
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 278.
261
natura epistemologica del suo progetto. Lo sforzo habermasiano, per poter giungere alla
definizione del tipo di interesse caratterizzante lo statuto della nuova teoria critica della
società, deve infatti procedere a sviscerare dall’interno l’intera sfera delle scienze, al
fine di enucleare gli interessi posti in essa e, al contempo, mostrarne i limiti intrinseci.
L’interpolazione delle scienze ermeneutiche, tra quelle empiriche e quelle critiche,
segna il distacco dall’impostazione dualistica di Traditionelle und kritische Theorie,
coerentemente all’intento programmatico espresso nella prolusione francofortese, nella
quale sono già rinvenibili i tratti peculiari dell’impianto iniziale della sua teoria.
Con l’organizzazione sistematica del 1968, il programma di ricostruzione della
connessione di conoscenza e interesse, quale requisito fondamentale delle scienze
critiche, sembra giungere ad una definizione completa ed esaustiva, sia da un punto di
vista storico-genetico che epistemologico. L’accurato studio della teoria psicoanalitica
freudiana sembra aver ormai definito lo status scientifico della teoria critica della
società: questa introduce all’interno delle condizioni “normali” della società –
contraddistinta da numerosi blocchi ideologici – la tecnica di superamento dei blocchi
interni alla comunicazione del paziente con se stesso. L’interesse emancipativo, che qui
emerge nella potenza di una comunicazione non distorta, appare pertanto lo strumento
terapeutico efficace per la fondazione di un ben più ampio progetto di costruzione della
teoria sociale.
Tuttavia, la proposta innovativa elaborata in questi anni viene ben presto
abbandonata da Habermas. La terza edizione di Conoscenza e interesse contiene
l’aggiunta Proscritto 1973, nel quale l’autore, a pochi anni di distanza dalla prima
edizione, risponde alle obiezioni che da più fronti gli erano state mosse. Significative
risultano le prime righe del Nachwort:
Dopo quasi cinque anni Conoscenza e interesse si ripresenta […] immutato. Ciò non
vuol dire che secondo me il testo non abbia bisogno di modifiche; ma piuttosto che la
discussione da esso suscitata, insperabilmente intensa e diffusa, ha sollevato un così
gran numero di questioni che, se volessi trattarle tutte in modo sistematico, dovrei
scrivere un altro libro5.
5
EI, p. 367 (p. 293).
262
Sono cinque i versanti lungo i quali si snodano le critiche rivolte ad Habermas e che
è possibile ricondurre ai seguenti blocchi tematici: contro “il procedimento al contempo
storico e sistematico di una storiografia ricostruttiva”; contro “la formulazione nonrealistica della conoscenza”, in particolare nell’aver circoscritto gli ambiti oggettuali e
le rispettive forme di conoscenza nei termini di “teoria della costituzione”; contro “la
concezione non-idealistica dell’oggettività e della verità”, in particolare la revisione del
trascendentale e dell’ambivalenza degli interessi conoscitivi; infine, contro alcune
“incoerenze ed oscurità”, che tuttavia sono rivolte ad ulteriori chiarimenti, modifiche e
sviluppi successivi del programma epistemologico habermasiano6.
Anche nel concetto di «autoriflessione» è possibile individuare un nodo spinoso
contenuto in Conoscenza e interesse, poiché gran parte dei fraintendimenti e delle
critiche, per stessa ammissione di Habermas7, si sono generate proprio a partire dall’uso
ambiguo di questo termine. L’autore, infatti, impiega in maniera pressoché
indifferenziata questa espressione per mostrare la capacità unificatrice della “ragione
comprensiva” (umfassende Vernunft), riferendosi indistintamente alla teoria della
conoscenza, alla teoria dell’evoluzione delle competenze umane, alla teoria della società
e all’emancipazione pratica8. La dimensione onnicomprensiva della ragione è ciò che
può garantire la possibilità di proseguire la discussione teoretica sulla fondazione della
teoria critica; tuttavia, come segnalato da Honneth, Habermas congiunge all’analisi
della natura autoriflessiva delle discussioni “l’intenzione aggiuntiva di fondare quelle
norme che possono servire da criterio di una scienza critica”9. Ma questo presupposto
comporta necessariamente un chiarimento delle implicazioni normative che stanno alla
base di qualsiasi forma di dibattito. Sviluppando il tema dell’interesse emancipativo,
Habermas indica con autoriflessione anche il processo fondamentale di riproduzione del
6
Ibidem, (pp. 293-294).
“In Conoscenza e interesse le mie ricerche non soffrono soltanto della mancanza di una recisa
distinzione fra oggettività e verità, bensì anche della mancata differenziazione fra ricostruzione e autoriflessione nel senso della critica. Soltanto in seguito mi è divenuto chiaro che l’uso linguistico
tradizionale (che risale all’idealismo tedesco) del termine «riflessione» comprende (e confonde) due cose
diverse: cioè da una parte la riflessione sulle condizioni di possibilità di competenze del soggetto che
conosce, parla e agisce in generale, e dall’altra la riflessione sulle delimitazioni, inconsapevolmente
prodotte, alle quali si sottomette nel suo processo di formazione un soggetto determinato di volta in volta
(o un determinato gruppo di soggetti, o un determinato soggetto generico)”. Ivi, p. 411 (p. 330).
8
Cfr. CUNICO, Critica e ragione utopica, cit., p. 70.
9
HONNETH, Critica del potere, tr. it. cit., p. 308.
7
263
genere umano nel suo complesso10. Ma proprio al livello della fondazione del terzo
interesse conoscitivo emergono gli aspetti aporetici che condurranno Habermas
all’abbandono definitivo di una fondazione della teoria critica della società ancora
basata su presupposti dialettici. Aporetiche risultano infatti, da un lato, la pretesa
risolutiva della questione di legittimazione normativa nei termini di “costituzione di un
determinato ambito oggettuale di esperienza”, dall’altro, l’ambivalenza nel considerare
l’interesse emancipativo sia come a priori del linguaggio, sia come interesse legittimato
dalle “condizioni di possibilità di un determinato tipo di scienza (critico-emancipatoria)
e, infine, anche come dato emergente in maniera dialettica «dalle tracce storiche del
dialogo represso»”11.
La ricerca “di nuove prospettive concettuali e di nuovi criteri epistemologici”
condurranno Habermas, negli anni immediatamente successivi, ad un “appropriato e
opportuno spostamento di significato”12 del suo progetto di teoria sociale verso il
quadro della razionalità dell’intesa linguistica. Perché ciò possa avvenire, è perciò
necessario l’abbandono dei presupposti di filosofia della storia13, responsabili dell’esito
negativo dei modelli precedenti di teoria critica della società14, e il mutamento di
prospettiva verso un’analisi ricostruttiva “astorica” e interdisciplinarmente disposta.
L’orizzonte aperto dalla Teoria dell’agire comunicativo pone, come alternativa alle
premesse della filosofia della storia – divenute ormai espressioni pseudo-normative del
rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione –, un nuovo sfondo
normativo: “il mutamento di paradigma di razionalità – dalla razionalità del soggetto
10
“[…] solo quando l’intersoggettivo «movimento di riflessione» può affermarsi come una forma di
conoscenza da cui l’uomo, nel suo sviluppo, dipende a livello costitutivo tanto quanto dipende dalla
conoscenza oggettivante della natura e dalla comprensione ermeneutica, allora esso può essere ricondotto
a ragione ad un ulteriore interesse della conoscenza e, così, essere posto allo stesso livello antropologicotrascendentale come gli altri modi della conoscenza”. Ivi, p. 309.
11
CUNICO, Critica e ragione utopica, cit. p. 71.
12
PERRI, Il mutamento di paradigma, cit. p. 12.
13
Cfr. la nuova introduzione del 1972 a Theorie und Praxis.
14
“Di fronte alla fragilità dei fondamenti della filosofia della storia ci si può rendere conto del perché
questo tentativo di una teoria critica della società attuato in forma interdisciplinare dovesse fallire […] Gli
assunti in chiave di materialismo storico circa il rapporto dialettico di forze produttive e rapporti di
produzione si erano trasformati in enunciati pseudo-normativi su una teleologia oggettiva della storia.
[…] La teoria critica poteva accertarsi dei propri fondamenti soltanto in termini di filosofia della storia.
Questo terreno non era abbastanza solido per un programma di ricerca empirica”. HABERMAS, Theorie
des kommunikativem Handelns, 2 Bd., Suhrkamp, Frankfurt a. M 1981, Bd. II, p. 561; (tr. it. di P.
Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., Il Mulino, Bologna 1986, vol. II, p. 1058).
A questa affermazione habermasiana si contrappone l’interpretazione di S. Benhabib, secondo la quale
l’abbandono del progetto iniziale, formulato in termini di filosofia della storia, corrisponde ad una perdita
del senso e dei propositi pratico-politici, che rende astratto il paradigma di razionalità comunicativa. Cfr.
S. BENHABIB, Modernity and the aporias of critical theory, in «Telos», 49 (1981).
264
coscienziale alla razionalità dell’intesa intersoggettiva – si presenta dunque come il
nodo teoretico fondamentale della teoria di Habermas”15.
La «pragmatica universale», sviluppata da Habermas nella sua opera principale –
corrispondente allo studio delle regole che guidano nell’uso disciplinato da norme “di
espressioni in situazioni di interazione discorsiva” –, descrive un diverso scenario; non
più l’ambito della semplice competenza linguistica, bensì quello ben più articolato –
grazie anche all’appropriazione delle analisi linguistiche provenienti dall’area
statunitense e al successivo tentativo di mediazione tra le impostazioni analitiche e
continentali – della “teoria della competenza comunicativa”16.
15
16
PERRI, Il mutamento di paradigma, cit., p. 13.
PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., p. 72.
265
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