Habermasiana 1 - Leonardo Ceppa

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Habermasiana
Collana di filosofia normativa diretta da Leonardo Ceppa
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LEONARDO CEPPA
DISPENSE HABERMASIANE.
SOMMARI DA “FATTI E NORME”
TRAUBEN
© Leonardo Ceppa
[prima edizione 2001]
© 2009 Trauben
via Plana 1 – 10123 Torino
[email protected]
www. trauben.it
ISBN 978-88-89909 638
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Indice
Nota introduttiva
I
II
III
IV
V
Il sistema dei diritti (cap 3)
I principi dello Stato di diritto (cap. 4)
La politica deliberativa (cap. 7)
Società civile e sfera pubblica (cap. 8)
Paradigmi giuridici (cap. 9)
Postfazione: Movimentismo versus cittadinanza
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Nota introduttiva
1.
Un riassunto in sei punti
Le “sei questioni fondamentali” cui Fatti e norme* – uno dei
massimi testi di filosofia politica del secolo scorso – vuole dare
risposta sono illustrate dallo stesso Habermas in un breve intervento del giugno 1998 all’Istituto Universitario Europeo di Firenze (ora in “Ragion pratica” 1998/10, pp. 153-159, col titolo: La
fondazione discorsiva del diritto). Partiamo dal riassunto di tali questioni, per poi allargare il discorso ad alcune opzioni fondamentali
del normativismo di Habermas.
La prima questione riguarda forma e funzione del diritto moderno. Schierandosi con Durkheim e Parsons contro Weber, Habermas vede nell’armamentario giuridico moderno un collante integrativo della società e non semplicemente uno strumento machiavellico del potere. Senonché la legittimazione giuridica del potere
politico non rinvia più a una visione metafisica del mondo, ma
semplicemente alle dimensioni funzionali (soggettive, formali,
moralmente neutralizzate) di una legalità che tutela le dimensioni
Jürgen Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechststaats, Suhrkamp, Frankfurt-Main 1992, IV edizione con Nachwort ibidem 1994; trad. it. di Leonardo Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del
diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996.
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private e pubbliche dell’autonomia. La seconda questione riguarda
il rapporto tra diritto e morale. Il modello habermasiano dà parzialmente ragione sia ai positivisti sia ai giusnaturalisti. Per un verso la legittimità giuridica non va confusa con la validità morale,
per l’altro verso il diritto non può essere completamente separato
dalla morale (nel senso che il diritto non può mai contraddire la
morale, ma deve – per essere legittimo e meritare ottemperanza –
“armonizzare” con essa). La terza questione è relativa al rapporto
tra diritti umani e sovranità popolare. A differenza dell’autonomia
morale, l’autonomia giuridica ha due facce: privata e pubblica. La
secolare controversia tra liberalismo e democrazia viene risolta da
Habermas a partire dalla “cooriginarietà” dei due aspetti. Le persone giuridiche del diritto privato possono essere veramente autonome soltanto se esse, attivandosi sul piano del diritto pubblico, sanno esercitare i loro diritti civici e intendersi come gli autori
di quelle stesse norme cui sono, per altro verso, destinatari. (L’ultimo intervento di Habermas su questo tema ha per titolo Stato di
diritto e democrazia: nesso paradossale di princìpi contraddittori?, ed è apparso in “Teoria politica” XVI, 3/2000, pp. 3-17). La quarta questione riguarda la funzione epistemica della democrazia. Perché la
democrazia è la procedura più legittima – la più accettabile ed efficace – per affrontare i problemi delle società contemporanee?
Qui la ragione autolegislativa di Rousseau e Kant viene tradotta
da Habermas nei termini del “reason giving”, cioè di una ragione
discorsiva, deliberativa, dibattimentale. La struttura della comunicazione (struttura legittimante in quanto procedurale) deve creare
uno “spazio pubblico” mobilitante i contributi migliori per le
questioni più rilevanti, laddove la legittimazione “dipende da una
adeguata istituzionalizzazione giuridica di quelle forme di discorso
razionale, e di equa trattativa, che fondano la presunzione di una
accettabilità razionale dei risultati”. La quinta questione riguarda il
ruolo centrale della comunicazione pubblica (e risulta essere semplicemente una conseguenza della risposta data alla quarta que-
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stione). Gli aspetti socio-strutturali della comunicazione democratica sono più importanti delle buone intenzioni individuali. In questo senso la democrazia è selettiva e inclusoria nello stesso tempo.
Essa per un verso “filtra” preferenze, interessi e motivazioni rendendoli pubblicamente presentabili (effetto “laundering”, per così
dire lavante e stirante). Per l’altro verso innesca (al contrario di
quanto pensava Foucalt) un inarrestabile processo di inclusione e
allargamento del riconoscimento. In tal modo il modello habermasiano può fare interagire gli aspetti normativi della democrazia
(come idea di autolegislazione) con gli aspetti fattuali, sistemici ed
empirici del potere automatizzato (ad es. l’autoriproduzione capitalistica di cui parlava Marx o la burocrazia come “gabbia di acciaio” di cui parlava Weber). La sesta ed ultima questione riguarda
la proposta habermasiana di un terzo modello di diritto, il diritto
proceduralista , cui toccherebbe il compito di rimpiazzare (mediandoli dialetticamente dall’interno) sia il modello liberale del diritto
privato sia il modello assistenziale dei diritti sociali. Anche questa
proposta poggia in Habermas sulla “cooriginarietà” di autonomia
privata e autonomia pubblica. Spetta infatti direttamente ai cittadini – che soffrono sulla loro pelle le disfunzioni degli apparati e
pagano di persona la ristrutturazione dello stato sociale – di dire
volta per volta quali devono essere le forme e i criteri più adeguati
per valutare giusto e ingiusto, eguale e diseguale. Invece il privatismo liberale e il paternalismo di welfare si limitavano, di fatto, a
litigare sulle modalità con cui meglio garantire l’autonomia privata: direttamente con le libertà negative del diritto privato oppure
indirettamente tramite le prestazioni assistenziali dello stato sociale? Anche qui l’idea normativa della partecipazione civica subisce
in Habermas una lettura pragmatica e (lungi dal contrapporsi velleitariamente alle dimensioni sistemiche delle società complesse)
diventa un indispensabile “prerequisito epistemico” per il buon
funzionamento di mercato e burocrazia.
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2) Il momento platonico-kantiano della validità oltrepassante
Il diritto (non diversamente dal linguaggio in generale) funziona in Habermas da cerniera tra il piano della fattualità e quello
della validità. La teoria habermasiana è rigorosa nel separare tra
loro oggetto fenomenico e pretesa di validità. Essa è però altrettanto rigorosa nel riallacciare i due piani. Infatti la pretesa di validità agisce dall’interno della prassi umana. Tanto che la situazione
discorsiva reale “anticipa” in sé la situazione ideale e, per converso, la situazione ideale produce “effetti” empiricamente rilevanti
sulla situazione reale. Il kantismo peculiare di Habermas si presenta dunque come un doppio movimento di separatezza e di
contestualizzazione, di trascendenza e di decentramento, di idealismo normativo e di realismo sistemico. Cerchiamo ora di vedere
in che senso Habermas è maestro della divisione non meno che
della congiunzione (secondo la vecchia definizione platonica della
dialettica – nel Fedro, 265 d – quale “arte dello scalco” che seziona con abilità le articolazioni naturali dell’idea).
La prima decisione di strategia teorica con cui Habermas apre
le Christian Gauss Lectures tenute nel 1971 alla università di
Princeton (ora in Vorstudien und Ergänzungen, Frankfurt-Main, p.
11 sgg.) consiste nel voler definire il “senso” in termini strettamente linguistici. Senso, per Habermas, è soltanto il significato di
una parola o di una frase. Per essere “chiare” (o “trasparenti” o
“responsabili”) le intenzioni devono rivestirsi di parole. “Whatever can be meant can be said”. Ciò gli consente di distinguere il
comportamento animale dall’azione propriamente umana, in cui
l’intenzione dev’essere sempre verbalizzabile. A prima vista – verrebbe fatto di osservare – quella di Habermas è una opzione discutibile: sappiamo tutti che il “senso” per cui il gatto miagola
quando agitiamo la scatola dei croccantini, oppure il “senso” per
cui facciamo una carezza alla donna amata, non chiedono di essere tradotti in parole e sembrano evidenti di per sé. Ma il problema
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di Habermas è un altro, ed è quello che troverà sviluppi grandiosi
nel tema della Verständigung (della intesa), tutto giocato sulla distinzione tra validità ideale e persuasione fattuale. Nel descrivere
la svolta habermasiana verso la pragmatica formale, Stefano Petrucciani ha centrato il punto con molta chiarezza: “Visto in negativo, il presupposto primo e fondamentale è che sia insostenibile
la tesi (che potremmo qualificare, per intendersi, nietzscheana)
secondo la quale nel discorso non esiste validità, ma solo una
maggiore o minore capacità o forza di persuasione” (Introduzione a
Habermas, Roma-Bari 2000, p. 75). In questa prospettiva diventa
significativa anche la valorizzazione habermasiana del concetto di
azione, teorizzato da Hannah Arendt in antitesi al concetto di lavoro e di opera. Com’è noto, “azione” è per la Arendt la sola attività che colleghi tra loro gli uomini attraverso il discorso, dunque
“senza la mediazione di cose materiali” (cfr. Vita activa, Milano
1989, p. 7). Che la validità sia irriducibile alla persuasione, che la
“forza dell’argomento migliore” sia una forza “sui generis”, imparagonabile alla forza della biologia naturalistica, è quanto discende
dal momento kantiano o platonico di Habermas, il momento, diciamo così, della trascendenza e della separatezza. Su questo piano – come bene ha visto Walter Privitera in Il luogo della critica,
Messina 1996, p. 54 – la ragione comunicativa di Habermas ricupera il momento critico-utopico della tradizione francortese e definisce (nella dimensione controfattuale di una “intesa” fondata
sul sistema delle pretese di validità) un “ambito di realtà libero dal
dominio”.
Non è difficile individuare gli snodi concettuali in cui tale “trascendenza dall’interno” è all’opera dentro l’architettura di Fatti e
norme. Si pensi alla irriducibilità del diritto alla politica (il momento che Habermas eredita dal giusnaturalismo illuministico), alla
dimensione normativa della sfera pubblica (il momento ch’egli eredita dalla tradizione repubblicana di Hannah Arendt), al rifiuto
del realismo economico marxista e dell’autonomia positivistico-
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procedurale di Kelsen e di Hart, alla contrapposizione di integrazione “sociale” (operante tramite consenso, valori, linguaggio e
intesa) e integrazione “sistemica” (operante tramite media delinguistificati e autostabilizzantesi), alla valorizzazione della dottrina
di Dworkin sulla integrità giuridica e sulla “sola risposta giusta”
della prassi giurisdizionale. “Vincolare la validità del diritto alla
sua genesi, scrive Habermas, significa dare al problema della razionalità una soluzione asimmetrica. Ragione e giustizia vengono,
in certo qual modo, subordinate alla storia” (Fatti e norme, Milano
1996, p. 241). In questa prospettiva – della separatezza e della trascendenza normativa – diventa anche comprensibile la distinzione
habermasiana tra particolarismo materiale dei valori e universalismo procedurale delle norme, con conseguente polemica contro
la “giurisprudenza dei valori” perseguita dalla Corte costituzionale
tedesca. Così come diventa rilevante l’esperimento mentale di una
socializzazione “puramente comunicativa” avanzato alla fine del
capitolo settimo. Qui, nel contesto dell’ ipotesi paradossale di una
società integrata soltanto dal meccanismo dell’intesa linguistica –
dunque senza impiego di forza giuridica o politica – troviamo anche (in nota) un attacco frontale all’impianto monisticomaterialistico di Karl Marx (p. 384).
Lo stessa trascendenza normativa consente ad Habermas, nella
Replica al convegno della Cardozo Law School, di polemizzare contro il
contestualismo pragmatistico di Bernstein, Michelman e McCarthy (in Solidarietà tra estranei, Milano 1996). Così come – nei saggi
sullo stato-nazione e sul processo di globalizzazione raccolti in
L’inclusione dell’altro, Milano 1998, e in La costellazione postnazionale,
Milano 1999 – egli può permettersi di contrapporre “nazionalismo” a “repubblicanesimo”, vale a dire il momento particolaristico della tradizione e della condivisione-di-un-destino al momento
universalistico del sistema dei diritti e dell’autolegislazione civica.
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3) Il momento sistemico della automatizzazione alienante
Se il momento della trascendenza normativa riallaccia Habermas al giusnaturalismo, il momento dell’autostabilizzazione sistemica (economica e burocratica) lo ricollega alla tradizione demistificante e oggettivistica delle scienze sociali (da Hobbes a
Marx, da Foucault a Luhmann). In questa prospettiva, negli ultimi
tre capitoli di Fatti e norme Habermas cerca di collegare dall’interno il concetto procedurale e deliberativo di democrazia alle concezioni empiristiche e realistiche del potere. Coniugare i modelli
normativi di democrazia alla teorie sociologiche di essa significa
per Habermas descrivere la tensione (empiricamente registrabile)
che si instaura tra l’autocomprensione universalistica dello stato di
diritto e la fattualità empirica dei processi politici. Nel capitolo
settimo Habermas a) dimostra la insufficienza di ogni giustificazione meramente empiristica della democrazia, b) sviluppa una
concezione procedurale di democrazia che rompe con la concezione olistica di una società centrata sullo stato, c) ripercorre il
tentativo di Robert Dahl di dare una verifica sociologica a questo
concetto procedurale di democrazia. Nel capitolo ottavo egli ripercorre il grande scontro, avvenuto nel secondo dopoguerra, tra
i modelli “normativi” di democrazia (liberalismo e repubblicanesimo) e i modelli “realistici” della integrazione sociale (Parsons,
Luhmann, gli utilitaristi). Secondo Habermas, il vantaggio di tali
modelli realistici sta nell’illustrare la controcircolazione del potere
illegittimo, cioè di quel potere che si affianca, sabotandolo, al circuito decisionale democratico. Il limite di questi modelli, tuttavia,
sta nel dimenticare quell’unione di potere e diritto, forza statale e
pretesa di giustizia, che è costitutiva dello stato di diritto a partire
dall’illuminismo europeo. Nel capitolo nono, infine, Habermas
indica nel modello proceduralista del diritto la possibilità di riqualificare le promesse universalistiche delle costituzioni moderne,
ristrutturando dall’interno (senza smantellarle) le prestazioni bu-
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rocratiche dello stato assistenziale. La crisi attuale della democrazia non si presenta per lui come una crisi del medium giuridico in
quanto tale. Non si tratta cioè di una crisi dell’idea di giustizia in
sé e per sé (più di quanto, per esempio, la emergenza sanitaria del
continente africano non sia una crisi della medicina in generale).
Piuttosto, la crisi della democrazia è per Habermas una crisi di implementazione, un deficit della politica, una mancata realizzazione
del diritto. Da questa crisi non si esce facendo un passo indietro e
corazzando difensivamente la democrazia, bensì radicalizzandone
e rilanciandone in avanti l’ambizioso e individualistico progetto.
Non si tratta dunque di puntare sull’onnipotenza dello stato o sull’automatismo del progresso, bensì soltanto sulla riuscita di un
(fallibilistico) processo di apprendimento collettivo.
In questa prospettiva diventa interessante la coniugazione habermasiana di temi liberali e temi repubblicani. Libertà e pace sociale devono essere visti come “cooriginari”, se non vogliamo che
l’ordine si fondi sul terrore o la libertà si autodistrugga nel conflitto. La soluzione trasversale con cui Habermas affronta la discussione tra “liberals” e “communitarians” si adatta bene a coniugare
dall’interno i due modelli storici di repubblicanesimo cui fa riferimento un recente, brillante saggio di Nadia Urbinati (in “Filosofia e questioni pubbliche”, V, 1/ 2000, pp. 81-92). Il modello
“Sparta e Venezia”, propugnato per esempio da Harrington, restringeva al senato la facoltà argomentativa e discorsiva in quanto
puntava sulla ragione scientifica posthobbesiana, dunque sulla
dimensione antiretorica e antiplebiscitaria dell’idea democratica.
Invece il modello “Atene e Roma”, propugnato per esempio da
Machiavelli, valorizzava il conflitto civico (regolato da leggi) in
quanto puntava sul significato epistemico, legittimante ed antielitario, della discussione. Ed in effetti, nel “two-track model” di
democrazia teorizzato in Fatti e norme, il dialogo informale dei cittadini ha per Habermas funzione cognitiva e legittimante: serve a individuare i problemi da affrontare e ad approvare (o disapprova-
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re) l’operato dei rappresentanti. Per contro, il dialogo formalizzato (con agende, procedure e scadenze) dei governanti ha funzione
istruttoria e decisoria: serve a elaborare tecnicamente i problemi, a
deciderli, a implementare la decisione.
Ci auguriamo che i nostri sommari da Fatti e norme – pur nella
sommarietà di un simile strumento di lavoro – aiutino studenti e
lettori ad affrontare uno dei testi più stimolanti della teoria democratica contemporanea, facendone emergere nuove e feconde implicazioni. Ricordiamo anche che la postfazione qui raccolta (una
recensione parallela a Habermas e Touraine) era già uscita in
“Teoria politica” XVI, 2/2000, pp. 180-184.
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