le equazioni di primo grado

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S.I.S.S.I.S.
Didattica della matematica
LE EQUAZIONI DI PRIMO GRADO
di
Di Verde Maria Rosa (47A)
Matranga Monica (47A)
DEFINIZIONI E STUDIO MATEMATICO DELLE
EQUAZIONI DI PRIMO GRADO
Del concetto di equazione si possono dare diverse definizioni che
comprendono le tipologie più comuni trovate nei testi presi in esame:
1. Equazione è una relazione di uguaglianza che traduce algebricamente un
problema.
2. Equazione è una relazione di uguaglianza contenente una lettera che rappresenta
un elemento variabile in un certo insieme.
3. Equazione è un’uguaglianza letterale tra due espressioni algebriche verificata da
particolari valori delle variabili (dette incognite).
4. Equazione è un’uguaglianza tra due funzioni y = f(x) e y = g(x) definite sullo
stesso insieme.
Un primo approccio al concetto di equazione avviene già alla scuola media inferiore
dove viene inizialmente presentato come strumento di risoluzione di problemi.
Subito dopo l’equazione è vista essenzialmente come “oggetto matematico”, la sua
risoluzione e le questioni ad essa connesse sono studiate da un punto di vista teorico,
senza alcuna interpretazione applicativa. Questa linea didattica continua al biennio
della scuola secondaria superiore.
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La strategia di approccio alle equazioni suggerita da M. Bovio, M. Reggiani
e N. Vercesi, si pone come primo obiettivo quello di condurre i ragazzi a scoprire la
potenza dell’equazione come strumento di risoluzione di problemi attraverso un
itinerario guidato.
Per fare ciò si propongono, inizialmente, agli studenti problemi per risolvere i quali
non è indispensabile impostare un’equazione. I ragazzi solitamente ricorrono a
soluzioni di altro tipo (metodi intuitivi) e solo una piccola parte fa uso delle
equazioni.
Queste esperienze evidenziano che alcuni studenti ritengono che le equazioni si
collochino in un ambito disgiunto da quello delle risoluzioni con metodi elementari.
Successivamente si propongono problemi in cui vi è l’esigenza di impostare
un’equazione, in questo modo le strategie “intuitive” dei ragazzi vengono messe in
crisi.
A questo punto obiettivo dell’insegnante sarà fare acquisire la definizione di
equazione, i metodi di risoluzione e la consapevolezza di ogni passaggio. Fatto ciò lo
studente vedrà nell’equazione l’unico modo per risolvere i problemi.
Un diverso approccio didattico è stato sperimentato per la prima volta negli
USA. Consiste nell’introdurre le equazioni dopo avere sviluppato il concetto di
funzione. La soluzione dell’equazione viene presentata come la ricerca del valore
incognito in un dominio comune per il quale le due funzioni forniscono lo stesso
risultato. Così, per esempio, risolvere l’equazione 5x + 3 = 2x + 4 significa trovare il
valore di x per cui le funzioni f(x) = 5x + 3 e g(x) = 2x + 4 hanno lo stesso valore.
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I propugnatori di questa impostazione didattica ne sottolineano la potenzialità sul
terreno dell’apprendimento, in quanto si fornisce la possibilità di pervenire alla
soluzione dell’equazione attraverso un approccio diverso dalla manipolazione
simbolica. E’ possibile risolvere l’equazione attraverso una tavola di valori per le
funzioni f(x) e g(x), si tratta di un approccio per tentativi ed errori.
La soluzione può essere ottenuta anche per via grafica disegnando le due funzioni e
proiettando il punto di intersezione dei due grafici nel dominio comune.
Si ritiene che il cambio di mondo risolutivo sia produttivo se permette un costante
processo di andata e ritorno tra i diversi mondi. La situazione didattica deve pertanto
favorire tale passaggio tra mondi.
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STUDIO STORICO DELLE EQUAZIONI
DI PRIMO GRADO
In un epigramma della “Antologia Palatina”, attribuito a Metrodoro di
Bisanzio, grammatico e aritmetico vissuto nel VI secolo d.C., si legge una curiosa
indicazione dalla quale è possibile trarre l’età del grande matematico greco Diofanto
di Alessandria, vissuto tra il II e il III secolo d.C.
“Ecco la tomba che racchiude Diofanto; una meraviglia da contemplare! Con
artificio aritmetico la pietra insegna la sua età: Dio gli concesse di rimanere
fanciullo un sesto della sua vita, dopo un altro dodicesimo le sue guance
germogliarono; dopo un settimo egli accese la fiaccola del matrimonio; e dopo
cinque anni gli nacque un figlio. Ma questi, giovane e disgraziato e pur tanto amato,
aveva appena raggiunto la metà dell’età cui doveva arrivare suo padre, quando
morì. Quattro anni ancora mitigando il proprio dolore con l’occuparsi della scienza
dei numeri, attese Diofanto prima di raggiungere il termine della sua esistenza”.
Come si vede si tratta proprio di un problema di primo grado. Se indichiamo,
infatti, con x l’età della morte del matematico, si ha:
x = 1/6 x + 1/12 x + 1/7 x + 5 + 1/2 x + 4
da cui si deduce x =84. Diofanto visse dunque 84 anni.
Le equazioni di primo grado erano note sia ai matematici greci, sia ai matematici
indiani che, probabilmente, le avevano apprese proprio dai greci e che crearono un
linguaggio sincopato abbastanza avanzato.
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Prima ancora dei greci altre civiltà molto più antiche avevano affrontato la
risoluzione dei problemi che portavano ad equazioni.
Nelle tavolette babilonesi e nei papiri egiziani si trovano infatti numerosi esempi di
queste equazioni con enunciati e soluzioni completamente privi di simbolismo
algebrico. Ad esempio il papiro Rhind (1700 a. C. circa che si trova nel British
Museum di Londra), noto anche come papiro Ahmes (nome del suo autore), contiene
una tavola per esprimere le frazioni con numeratore 2 e denominatore da 5 a 101
come somma di frazioni con numeratore 1 o frazioni unitarie. Consideriamo il
problema 25 in esso riportato:
“Una quantità sommata con la sua metà diventa 16”.
Noi scriveremmo subito:
x + 1/2 x = 16;
3x = 32;
x = 32/3 = 10 + 2/3.
Invece la risoluzione è indicata così:
“Conta con 2. Allora (1 + 1/2) di 2 è 3. Quante volte 3 deve essere moltiplicato
per dare 16, lo stesso numero di volte deve essere moltiplicato 2 per dare il numero
esatto. Allora dividi 16 con 3. Fa 5 + 1/3. Ora moltiplica 5 + 1/3 per 2. Fa 10 + 2/3.
Hai fatto come occorre: la quantità è 10 + 2/3; la sua metà è 5 + 1/3; la loro s omma
è 16”.
Il matematico egiziano ottiene il risultato con l’applicazione di un procedimento
molto diffuso nell’antichità, detto della “falsa posizione”. Anziché indicare il valore
da trovare con x, lo si pone uguale ad un numero vero e proprio (2 nel nostro caso):
se operando su di esso, come vuole l’enunciato, si perviene proprio al risultato
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richiesto (16), allora si è già risolto il problema. In caso contrario, si stabilisce in che
rapporto stanno il risultato richiesto (16) e quello ottenuto [(1 + 1/2)32 = 3]; tale
rapporto (16/3) deve sussistere anche tra il numero cercato e quello posto. Per cui il
numero cercato è uguale al prodotto del citato rapporto per il numero posto (16/332 =
32/3 = 10 + 2/3).
Si tenga presente che questo procedimento è legato alla proporzionalità diretta tra i
numeri di partenza e i risultati ottenuti (x : 2 = 16 : 3) ed è valido solo per particolari
problemi di primo grado.
Secondo Kline “gli estesi e complicati calcoli con le frazioni furono uno dei motivi
per cui gli egiziani non portarono mai la loro aritmetica e la loro algebra ad uno
studio avanzato”. Quello che mancava essenzialmente a quest’algebra era la
possibilità di indicare in qualche modo il numero incognito.
L’incognita appare esplicitamente per la prima volta in Diofanto che la chiama
“aritmos”, cioè numero incognito, e lo indica con il simbolo ξ, probabilmente perché
questa “s” greca è la lettera finale del suo nome.
Per risolvere equazioni di primo grado in una incognita, Diofanto raggruppa in un
membro tutti i termini contenenti l’incognita e nell’altro i termini noti, così il
problema è ridotto ad eseguire una divisione o a cercare un quarto proporzionale.
Anche i matematici greci anteriori a Diofanto sapevano risolvere equazioni di primo
e secondo grado ma affrontavano questi problemi geometricamente.
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Negli “Elementi” di Euclide, nell’ambito delle cosiddette “applicazioni delle aree”,
un’equazione del tipo ax = b si trasforma nel problema di cercare la misura x
dell’altezza di un rettangolo la cui base misura a e la cui area è b.
Durante il periodo altomedievale (dal 400 al 1100 circa) non vi fu alcun
progresso nel campo della matematica. Tutti i problemi erano ridotti all’applicazione
delle quattro operazioni fra numeri interi.
Attraverso il commercio e i viaggi, intorno al 1100, gli europei vengono a contatto
con gli arabi e con i bizantini. Tra questi europei, Leonardo Pisano (1170-1250),
detto Fibonacci, visitò l’Algeria per imparare i procedimenti aritmetici utilizzati dagli
Arabi. Tra le sue opere, il “Liber Quadratorum” presenta una certa analogia con il
lavoro di Diofanto. Infatti anche l’algebra di Pisano utilizza il linguaggio naturale, ma
si manifesta già una certa tendenza verso il simbolismo, per alcune abbreviazioni
usate per rappresentare l’incognita e le sue potenze. A differenza dell’algebra di
Diofanto, quella di Pisano è un’ “algebra geometrica”, utilizza infatti il metodo
euclideo della rappresentazione lineare dei numeri. Tuttavia è soltanto nell’ultima
proposizione del “Liber Quadratorum” che compaiono le parole Res e Census per
indicare, rispettivamente l’incognita e il suo quadrato.
Questo simbolismo nascente è più accentuato nel “Liber Abaci” dove Pisano
rappresenta i numeri mediante segmenti di retta e questo favorisce l’impiego di
lettere per indicare dati e incognite del problema.
A partire dal XIII secolo si verificarono importanti progressi nel campo
dell’aritmetica e dell’algebra. E’ del XIV secolo il “Trattato d’Algibra”, scritto da
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un anonimo maestro fiorentino d’abaco, in cui viene utilizzato il linguaggio naturale
per descrivere tutte le operazioni algebriche, ma già si manifesta una certa tendenza
verso il simbolismo perché l’incognita e le sue potenze vengono chiamate con dei
nomi particolari . Ad esempio la “cosa”, considerata come “posizione per un valore
particolare”, si identifica con l’incognita di un’equazione.
E’ importante sottolineare che tutti i cambiamenti di notazione introdotti fino al ‘500
erano abbreviazioni di parole comuni. I matematici di questo periodo, a causa delle
richieste sempre crescenti della scienza, sentivano il bisogno di utilizzare una
notazione simbolica. Spesso però i nuovi simboli introdotti non venivano adottati in
modo immediato dai matematici contemporanei. Cioè l’algebra simbolica non ha
soppiantato di colpo quella sincopata, che era ormai divenuta un paradigma nel senso
di Kuhn.
Il cambiamento più significativo in questo senso fu introdotto da Viète (1540-1603).
Egli fu il primo ad usare sistematicamente le lettere sia per rappresentare l’incognita e
le sue potenze che per i coefficienti generici.
Nella prima metà del XIX secolo si sviluppa, all’interno della comunità dei
matematici britannici, una vivace polemica sul significato dell’algebra e del suo
simbolismo. Fino ad allora, l’algebra era stata considerata come “aritmetica
universale”. Nasceva il bisogno di liberarla da ogni limitazione. In questa nuova
visione, la variabile non poteva continuare ad essere un numero generalizzato, ma era
una cosa in sé, svuotata di ogni significato esterno. L’algebra veniva ad essere
completamente sganciata dall’aritmetica.
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Come abbiamo visto dunque, la costruzione del linguaggio simbolico è stata
troppo lenta e difficoltosa. Nesselman ha individuato tre stadi distinti nella storia
dell’algebra:
1. Fase retorica (anteriore a Diofanto di Alessandria, 250 d.C.): si ricorre soltanto
al linguaggio naturale, senza l’uso di simboli;
2. Fase sincopata (da Diofanto, che la iniziò, fino al XVI secolo): i calcoli sono
ancora eseguiti nel linguaggio naturale, ma si ha l’introduzione di abbreviazioni
per l’incognita e le sue potenze;
3. Fase simbolica (introdotta da Viète): si usano le lettere per tutte le quantità, i
segni per le operazioni e il linguaggio simbolico viene anche utilizzato per
provare regole generali.
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DIFFICOLTA’ ED OSTACOLI
L’algebra retorica, detta anche verbale, fu utilizzata quindi fino al XVI secolo:
il mezzo verbale agevola il controllo semantico, ma può causare un aggravio della
memoria. Pertanto ci si aspetterebbe che, nel momento in cui lo studente accede al
simbolismo algebrico, continui a farne ricorso in ogni possibile contesto.
In realtà, studi sperimentali (Clement, Lochhead, Laborde e Soloway) hanno
mostrato che anche studenti che hanno ormai una certa padronanza dell’algebra
simbolica preferiscono usare i metodi verbali: l’algebra retorica e sincopata è più
semplice da capire dell’algebra simbolica.
Si è rilevato che non sempre lo studente riesce a tradurre in maniera corretta il
linguaggio naturale in linguaggio simbolico. Su un campione di 150 studenti del
primo anno di ingegneria, sottoposti a due problemi algebrici assegnati con
linguaggio naturale, si sono riscontrate il 63% di risposte corrette al primo problema
e soltanto il 27% al secondo. Le percentuali di risposte scorrette, secondo studi di
Lochhead e Mestre, aumentano se si richiede di interpretare un’equazione data
(M = 7S, con M = n° di montatori, S = n° saldatori) piuttosto che generarla.
La causa delle difficoltà incontrate dagli studenti nell’approccio dell’algebra è di
natura epistemologica, dovuta al forte distacco qualitativo tra aritmetica e
algebra. E’ importante capire che c’è continuità tra queste due aree della
matematica, ovvero lo studio dell’algebra deve tenere conto delle sue profonde e
storiche radici nell’aritmetica.
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Da un punto di vista didattico, già ai primi livelli di scolarità, lo studente dovrebbe
capire che può tradurre il suo pensiero in un linguaggio diverso da quello naturale e
che questa nuova lingua ha regole proprie che vanno rispettate.
La sensazione degli studenti sembra essere la stessa di Bertrand Russell il quale,
ricordando il momento in cui gli capitò di accostarsi all’algebra, scrisse:
“Quando si arriva all’algebra e si deve operare con x e y, c’è il desiderio
naturale di saper cosa sono realmente x e y. Questo, almeno, era il mio sentimento:
io ho sempre pensato che l’insegnante sapesse cosa erano x e y, ma che lei non me
l’avrebbe mai detto”.
Di fronte a un problema che non ammette come risposta un numero, spesso si
riscontra una certa riluttanza ad accettare come soluzione un’espressione
contenente un’incognita. Un problema di questo tipo potrebbe essere:
“In un poligono regolare ciascun lato misura 7 cm. Come si può descrivere il
perimetro sapendo che il poligono ha y lati?”.
Sempre dalla radice aritmetica sembrano derivare altri ostacoli cognitivi. Uno di
questi sembra essere dovuto alla “mancanza del referente numerico” per la
lettera: se l’allievo non vede le lettere come rappresentative di numeri, l’operare su
di esse perde totalmente di significato. Al problema:
“In una piramide quadrangolare VABCD il triangolo VAC è equilatero di lato l.
Determinare il volume”
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in una classe di 14 alunni, con alle spalle tre anni di algebra, 8 di questi non sono
riusciti ad individuare i dati (non hanno capito che la lettera l doveva essere
interpretata come un numero).
La ricerca in didattica ha messo in luce tutta una serie di misconcetti che si
possono sviluppare negli alunni in relazione al concetto di equazione.
Diverse esperienze mostrano che a qualunque livello scolastico i ragazzi tendono a
meccanizzare i procedimenti risolutivi ed incorrono in banali errori. Non sono in
grado di giustificare le operazioni permesse nella soluzione di un’equazione che,
piuttosto appaiono ai loro occhi come delle arbitrarie “regole del gioco”.
Un errore in cui spesso incorrono, risolvendo un’equazione di primo grado, si
verifica nel portare termini da un membro all’altro di un’uguaglianza “dimenticando
di cambiare il segno”.
Qual è la causa di questo errore ricorrente?
Gli studenti spesso vedono la soluzione di un’equazione come il risultato di
manipolazioni magiche, tendono cioè a meccanizzare i procedimenti non tenendo
conto e anzi, banalizzando, i principi di equivalenza che sono alla base della
risoluzione di un’equazione.
Solitamente in un’equazione la lettera o le lettere utilizzate come incognite
sono sempre le stesse (x oppure y). Di conseguenza, lo studente, messo davanti ad
un’equazione del tipo 2a + 3 = 0, ha difficoltà ad individuare l’incognita e piuttosto
pensa che l’insegnante abbia “dimenticato” a scriverla.
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La definizione n° 2 data inizialmente prevede che venga data in un secondo
momento la definizione di equazione letterale. Lo studente che abbia acquisito
questa come definizione generale di equazione potrebbe mostrare perplessità di
fronte ad un’equazione che, oltre l’incognita, presenta altre lettere.
Inizialmente abbiamo messo in evidenza che una corretta linea didattica da
seguire per l’approccio allo studio delle equazioni, sarebbe quella di presentare
l’equazione come strumento di risoluzione di problemi. In questo caso una difficoltà
potrebbe essere la traduzione dal linguaggio naturale al linguaggio simbolicoalgebrico e in particolare nella scelta dell’incognita. Se questa non viene fatta in
modo opportuno la scrittura dell’equazione può diventare inutilmente complicata.
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LE EQUAZONI DI PRIMO GRADO
NEI PROGRAMMI SCOLASTICI
Analizzando alcuni libri di testo di scuola media inferiore e di scuola media
superiore abbiamo potuto rilevare alcune differenze nell’introduzione delle equazioni
di primo grado.
Nel Linardi-Galbusera, “Percorsi di algebra”, testo per la scuola media inferiore, si
introduce il concetto di equazione come la traduzione di un problema:
PROBLEMA
→
EQUAZIONE


SOLUZIONE
DEL
PROBLEMA
TECNICHE DI
← CALCOLO PER LA

SOLUZIONE DELLA
↓
EQUAZIONE
SOLUZIONE
←
DELLA
EQUAZIONE
In un secondo testo di scuola media inferiore analizzato, G.Lepre-B.Bolzoni,
“Algebra”, l’argomento viene affrontato indipendentemente dalla risoluzione di
problemi, ma semplicemente come uguaglianza letterale.
Un’analisi di testi di scuole medie superiori di diverso indirizzo, ci ha
permesso di riscontrare una tendenza sempre maggiore negli anni a definire le
equazioni di primo grado solo dopo avere introdotto il concetto di funzione, cioè sulla
linea degli studi condotti negli USA.
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TEST DI VERIFICA
1. Trascrivere in linguaggio matematico il seguente problema.
La metà di 24 diminuita della metà di un certo numero dà la metà di 16. Qual è
quel certo numero?
2. Verificare se sono stati applicati correttamente i principi di equivalenza alle
seguenti equazioni:
a) x + 6 = 21
x + 6 = 21 – 6
b) 3x = 5
3/5 x = 5/5
c) 2x – 7 = -7
2x - 2x – 7 = -7 – 2x
3. Eseguire le seguenti equazioni utilizzando i principi di equivalenza:
a) 4x + 6 = -9
b) 36x = -45
4. Indicare il valore corretto di x per la seguente equazione:
3x + 5 = 0
a) x = 5/3
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b) x = 3/5
c) x = - 5/3
d) x = 8
e) x = - 3/5
5. Risolvere la seguente equazione:
2x + 5 = 11
6. Risolvere la seguente equazione:
4a + 1 = 2a
7. Determinare il valore di x:
2a + 3x +2 = 3a
8. Dato un triangolo equilatero di lato l determinarne l’area.
9. Indichiamo con y i calciatori e con x gli arbitri. Come interpreti l’equazione
y = 8x
10. Calcolare un numero che addizionato con la sua metà dà per somma 9.
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ANALISI DEL TEST
1. Avendo introdotto il concetto di equazione come la traduzione di un problema, si
testa la capacità dello studente di trascrivere in linguaggio algebrico il linguaggio
naturale.
2. Si testa se lo studente sa individuare errori sull’applicazione dei principi di
equivalenza.
3. Si verifica se lo studente ha acquisito padronanza dei principi di equivalenza
suggerendogli di usarli.
4. Si verifica se lo studente sa risolvere le equazioni (manca il suggerimento di usare
i principi ma sono date possibili soluzioni).
5. Lo studente deve mostrare di saper risolvere in modo autonomo le equazioni.
6. Si mette lo studente di fronte ad un’incognita diversa dalla solita ‘x’.
7. L’incognita sarà ottenuta in funzione di un’altra lettera, questo spesso crea
perplessità nello studente.
8. Lo studente potrebbe non intuire che la lettera deve essere interpretata come un
numero.
9. Interpretare un’equazione a volte può risultare più difficile di generarla.
10.Avendo ormai imparato a tradurre il linguaggio naturale in linguaggio matematico
e a risolvere le equazioni di primo grado, lo studente dovrebbe adesso essere in
grado di trovare la soluzione ad un problema aritmetico.
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