LA DEMOCRAZIA DEI GRECI Lezione del 24 gennaio 2013 A

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LA DEMOCRAZIA DEI GRECI
Lezione del 24 gennaio 2013
A Matilde
Immaginare “romanticamente” l'avvento della democrazia in Atene come il risultato di una
consapevole rivendicazione politica delle masse popolari in corsa per la conquista del potere porta
assai lontano dalla verità storica: esso fu piuttosto l'esito di una brillante operazione – meditata e
studiata nel dettaglio, forse per anni – di arruolamento del demos in un progetto di blocco
preventivo contro una nuova tirannide, allo scadere tumultuoso del cinquantennio (561-510 a.C.) di
governo autocratico retto prima da Pisistrato (fino al 527 a.C.), poi dal figlio Ippia. Nonostante la
stringatezza delle cronache che riferiscono quell'episodio cruciale della storia di Atene 1 (cruciale
non solo per la città, che avrebbe imboccato da quel momento la via di un exploit a dir poco
strepitoso, ma anche, in più lunga prospettiva, per la storia dell'occidente), che non consentono
sempre di ricostruire con chiarezza di particolari l'andamento dei fatti, è tuttavia indiscutibile che la
regia di quell'operazione fu tutta nelle mani di esponenti dei ceti privilegiati, di quella classe
nobiliare le cui dinamiche interne, variamente altalenanti fra alleanze familiari e conflitti fra clan
rivali, costituiscono in larga misura il vero motore degli eventi.
Nella memoria storica degli Ateniesi di età classica, nella coscienza che essi avevano
elaborato e conservavano del loro passato, la democrazia ha tante nascite: se oggi è invalso l'uso di
identificarne la genesi nella riforma costituzionale varata da Clistene nel 508/7 a.C., ciò è dovuto al
fatto che tecnicamente fu allora che vennero gettate le basi istituzionali del nuovo regime; ma non
bisogna dimenticare che, anche nel resoconto che ne dà la storiografia greca ufficiale (Aristotele in
primis), l'iniziativa clistenica fu piuttosto il compimento di un processo storico già in atto da tempo.
Era, d'altra parte, una caratteristica mentale degli Ateniesi immaginare la loro storia passata, anche
quella remota, come ispirata da una nativa vocazione democratica: forse fu la concezione tragica,
profondamente tormentata, che sempre ebbero del potere come di qualcosa di pericoloso, che va
esorcizzato e controllato2, a suggerire loro l'idea che, nel loro paese, anche le forme più accentrate e
personalistiche di gestione politica, come quella monarchica di età micenea, fossero già temperate
da venature umanitarie, da quell'alto senso di civiltà che si traduceva nel rispetto della persona e
della libertà altrui, nel sentimento della dignità dell'altro che – ci credesse davvero o no – Pericle
metteva così bene a fuoco, come il più maturo frutto della democrazia, nel suo celebre Epitafio3.
Nulla di strano, dunque, se nella rielaborazione storico-patriottica della figura di Teseo, così spesso
presente sulla scena tragica, il sovrano – appena emergente dalle nebbie del mito, ma per
consolidata tradizione investito dell'alto merito politico di avere unificato a suo tempo l'Attica –
appariva atteggiato ad una gestualità umana e politica di segno schiettamente democratico. Anche
Aristotele, che non era ateniese, ma conosceva molto bene lo spirito della città che lo ospitava, rese
omaggio a questo convincimento e, nel tracciarne sinteticamente la storia, fece iniziare proprio da
Teseo il lento processo di democratizzazione dello stato di Atene, approdato, diversi secoli più tardi,
alla sua forma compiuta.
1 Clistene, a differenza di altri protagonisti della storia ateniese annoverati tra i padri fondatori della democrazia
(come, per esempio, Solone), non ha goduto di una tradizione biografica durevole e, di conseguenza, assai scarne
sono le notizie a noi giunte sul suo conto. Il naufragio pressoché completo della letteratura attidografica (una linea
storiografica incentrata sulla storia locale attica, largamente coltivata negli ambienti accademici ateniesi) ha,
naturalmente, aggravato l'incertezza.
2 Il potere è, anche per questa ragione, un tema assolutamente dominante nella letteratura tragica. C'è chi ha parlato di
una sotterranea e inconfessata vena anarchica che attraversa l'esperienza politica dei Greci, nonché la loro riflessione
sulla natura del potere e sui modi di esercitarlo (cfr. D. Musti, Demokratia, Roma-Bari 1995): fatto sta che su questo
tema tornarono continuamente ad interrogarsi, anche nelle sedi socialmente e politicamente più impegnative, come il
teatro.
3 cfr. Thuc. II 35 sgg.
Nel cap 41 della Athēnaiōn politeia4, punto di snodo fra la parte storico-antiquaria e quella
descrittiva pertinente all'assetto attuale del regime democratico, Aristotele elenca undici fasi
evolutive (metabolai: letteralmente “cambiamenti”) che scandiscono i momenti di crescita – o,
inversamente, di crisi – dell'istituto democratico.
[…] ma allora5 il demos, divenuto padrone della situazione, instaurò l'attuale regime, sotto
l'arcontato di Pithodoro: l'opinione comune era che il partito popolare avesse tutto il diritto di
assumere il potere, visto che con le sole sue forze era rientrato in città. Era questa
l'undicesima fase. La prima delle migrazioni antiche era stata, infatti, quella di Ione e di
quanti si erano uniti a lui: fu allora che per la prima volta si distribuirono nelle quattro tribù e
istituirono la figura del philobasileus. La seconda e prima successiva a questa che avesse la
forma di vero e proprio regime politico fu quella determinatasi al tempo di Teseo, con un
lieve scarto rispetto alla forma monarchica. A questa seguì quella dell'età di Draconte, durante
la quale per la prima volta stesero un codice di leggi. Terza fu quella successiva alla guerra
civile [stasis], nell'età di Solone, a partire dalla quale ebbe inizio la democrazia. La quarta fu
la tirannide all'epoca di Pisistrato. Quinta quella successiva all'abbattimento dei tiranni, quella
di Clistene, con connotati più democratici rispetto a quella di Solone. La sesta fu quella
successiva alle guerre persiane, quando esercitava la sua supervisione politica il consiglio
dell'Areopago. Settima e successiva a questa, quella che Aristide fece intravedere e che Efialte
portò a perfezione, esautorando il consiglio dell'Areopago: durante questa fase accadde che
per colpa dei capi del partito popolare lo stato commise molti errori, per via del controllo del
mare. L'ottava fase coincise con l'avvento del regime dei Quattrocento e, successiva a questa,
nona in ordine di tempo, di nuovo una democrazia. Decima fu la tirannide dei Trenta e dei
Dieci. Undicesima quella seguita al rientro da File e dal Pireo: a partire da questa,
incrementando sempre di più il potere delle masse, si è giunti all'assetto attuale. Di tutto,
infatti, il demos si è reso padrone e tutto viene gestito attraverso i decreti e i tribunali, nei
quali il demos è sovrano. Anche i dibattimenti che rientravano nella competenza del Consiglio
sono passati, infatti, al demos. Anche in questo pretendono di agire per il meglio, perché i
pochi sono più esposti dei molti alla corruzione, attraverso denaro e favori.6
È un passo notevolmente stringato, quasi schematico, che non tralascia, però, di far
trapelare qualche umore polemico, là dove si concede un rapido giudizio di valore sulle fasi più
avanzate della democrazia, implicitamente contrapposte ad altri momenti in cui il demos accettava
senza troppe resistenze una sorta di tutela da parte dell'aristocrazia, cui spettava storicamente il
merito – non dimentichiamolo – di avere inventato il nuovo regime. Senza perdere di vista
l'obiettività dello scienziato, Aristotele non dissimula mai le sue simpatie moderate. Se vogliamo
assumere il suo punto di vista storico e – senza enfatizzare troppo i presentimenti democratici di età
monarchica (consistenti, d'altra parte, in un piccolo scarto rispetto alla vera e propria regalità) –
allinearci alla prospettiva lunga entro la quale egli studia il cammino della democrazia, possiamo
senz'altro focalizzare come momento cruciale la stasis che precede, tra la fine del VII secolo a.C. e
l'inizio del V, l'avvento al potere di Solone (594/93 a.C. o, secondo una cronologia leggermente più
bassa, 592/91 a.C.).
La parola stasis, tradotta (forse con un po' di eccesso) con “guerra civile” nel passo sopra
citato, allude ad una situazione di forte conflittualità, ad una altissima tensione sociale (di segno più
economico che politico) prossima al punto di rottura. Gli interessi in gioco sono quelli di una
ristretta oligarchia detentrice della ricchezza, da una parte, e del demos asservito, dall'altra. Il
discorso aristotelico (capp. II e V della Athēnaiōn politeia) non fa che un rapido cenno agli equilibri
di potere (anche se è più che ovvio che questo aspetto esistesse e si può ben immaginare in che
senso fosse risolto: al demos non era riconosciuto alcun diritto7) e si concentra sulla questione più
specificamente socio-economica, lasciando intendere di considerarla più urgente: lo fa senza
ambiguità, ma su una linea molto generale, che non entra nei dettagli. I punti che emergono sono
4
5
6
7
cfr. lezione nr. 1.
403 a.C.
Arist., Ath. pol. 41, 1 sg.
Arist., Ath. pol. 2, 3.
due: 1. la concentrazione della ricchezza (ossia della proprietà terriera: non c'è traccia di allusione
ad altre attività economiche o ad altre forme di ricchezza, che pur dovevano essersi sviluppate) nelle
mani di una aristocrazia gelosa dei propri privilegi; 2. lo stato di asservimento economico del demos
(termine sociologico non ulteriormente articolato, da intendersi qui genericamente come l'insieme
dei soggetti sociali privi di privilegi connessi con il diritto di nascita) nei confronti del ceto
dominante. Il caso emblematico che Aristotele solleva e denuncia come il reale termometro del
disagio sociale è quello rappresentato dalla condizione degli hektēmoroi. La storiografia moderna ha
dibattuto a lungo nel tentativo di definire i contorni (non chiarissimi neppure per le fonti antiche) di
questa figura, che, a dispetto dell'assiduità della ricerca, presenta ancora aspetti notevolmente
problematici connessi – ed è questa una delle ragioni della difficoltà di messa a fuoco – con altre
questioni cruciali che il testo di Aristotele non tocca (o tocca in modo molto generale) e sui quali le
fonti non sono concordi: come tutti quelli che riguardano, per esempio, il regime della proprietà
terriera in età presoloniana. Se è fuori discussione l'esistenza di una grande proprietà fondiaria,
retaggio di un privilegio aristocratico socialmente riconosciuto ed equiparato ad una sorta di
titolarità, è tutt'altro che scontata (Aristotele parrebbe addirittura escluderlo) la possibilità di
dimostrare che esistesse anche una media o piccola proprietà che potesse vantare la medesima
certezza giuridica: fare dell'hektēmoros un piccolo proprietario terriero in difficoltà economica,
come vedremo, è ipotesi azzardata. D'altra parte, un'incertezza analoga pende anche sulla questione
della alienabilità della terra, la quale rimanda, a sua volta, ad altri aspetti legati al regime delle
ipoteche. Il quadro può arricchirsi ulteriormente, ma sempre in senso problematico, di altre ipotesi.
Alcuni storici, per esempio, tendono ad ammettere che, a fronte della grande proprietà privata,
appannaggio ereditario dei grandi clan aristocratici, esistesse anche una proprietà pubblica
storicamente risalente ad istituzioni micenee, un demanio teoricamente amministrato dallo stato, ma
di fatto assorbito anch'esso nel tempo, per un processo non contrastato di appropriazione indebita,
nella grande proprietà privata8.
Come si vede, il tappeto di ipotesi (numerose e spesso tra di loro incoerenti) sul quale si è
costretti a camminare non consente movimenti sicuri. Forse vale la pena cominciare da una
puntualizzazione linguistica. Il significato etimologico della parola hektēmoros (lievemente
problematico anch'esso, ma per un aspetto, tutto sommato, non centrale) implica un rapporto di tipo
tributario tra il soggetto sociale che essa definisce e la sua controparte economica, il padrone della
terra: una traduzione possibile è “titolare della sesta parte”. Parlare, come fa Aristotele, di un
canone di affitto, significa forse modernizzare troppo una situazione non ancora del tutto
interpretabile alla luce di criteri tipici di un'economia pienamente monetaria, come quella del IV
sec. a.C.: tuttavia l'idea è, almeno nella sostanza, vicina alla realtà e sembra alludere all'istituto della
“colonia parziaria”. In definitiva, la ricostruzione più sensata potrebbe essere la seguente:
1.
L' hektēmoros non è un piccolo proprietario terriero (non ha alcuna titolarità sul
fondo che coltiva), ma un nullatenente che mette a disposizione del grande proprietario la sua forza
lavoro.
2.
Il padrone della terra (il vero titolare), che lo assume come bracciante agricolo, gli
concede, a titolo di possesso precario, un fondo da coltivare, riconoscendogli il diritto di trattenere
per sé parte del raccolto.
3.
La quota da trattenere annualmente e, di conseguenza, quella da versare al
proprietario rispondono al criterio di una partizione in sesti. Su questo punto le fonti antiche (e, al
loro seguito, anche gli interpreti moderni) sono discordi ed oscillano nella quantificazione della
quota spettante all'hektēmoros: alcune propendono per i cinque sesti, altre – più aderenti all'esatta
etimologia della parola – per un solo sesto. In entrambi i casi (nel secondo in misura drammatica) la
possibilità di rimanere in arretrato nel versamento delle quote era più che concreta e poteva finire,
8 Una situazione non identica, ma per certi versi analoga, è riscontrabile nella questione dell'ager publicus nella Roma
repubblicana della fine del II sec. a.C.: una questione che, come è noto, determinò un problema sociale acutissimo,
responsabile, insieme ad altre pendenze più propriamente politiche alle quali inevitabilmente si legò, delle prime
inconfondibili manifestazioni di scontro civile, all'epoca dei Gracchi.
con il tempo, per creare un rapporto debitorio sempre più pesante. L'insolvenza cronica
determinava, a sua volta, un ulteriore scadimento giuridico dell'hektēmoros, che diventava
agōgimos, ossia oggetto rientrante (lui e la sua famiglia) nella piena ed assoluta disponibilità del
creditore.
Da questa situazione debitoria conseguente all'accumulo progressivo dell'arretrato va,
probabilmente, distinta (ed Aristotele sembra effettivamente distinguerla) quella dei veri e propri
prestiti (daneismoi). Non esisteva, al tempo di Solone, una norma legale che disciplinasse il regime
degli interessi9 ed è inevitabile supporre che da parte del creditore vi fosse, in tal senso, piena
libertà. La garanzia che la parte debitrice era tenuta ad offrire era sulla sua stessa persona: su
questo punto tutte le fonti antiche convergono. Di conseguenza, il debitore insolvente andava
incontro allo stesso destino dell'hektēmoros rimasto in arretrato e diventava anch'egli agōgimos, con
l'unica differenza, rispetto all'altro, che la perdita della libertà personale coinvolgeva questa volta
solo lui, non l'intero nucleo familiare.
La schiavitù per debiti poteva essere già di per sé, data la crudeltà disumana della norma
giuridica che la legittimava, una gravissima piaga sociale: vi si aggiungeva l'aggravante che, al
tempo di Solone, il fenomeno era diventato dilagante ed aveva innescato una dolorosa diaspora
demografica: quella di chi, per evitare la schiavitù, sceglieva volontariamente l'esilio in terra
straniera e quella di chi, ormai non più libero, si vedeva immettere nei flussi del mercato schiavile
che lo portavano, come merce di scambio, in paesi lontani.
Solone sembrava l'uomo giusto per intervenire sulla situazione e risanarla: la sua
ascendenza aristocratica (il re Codro era tra i suoi antenati) gli conciliava le simpatie dei ceti alti,
mentre la sua più modesta condizione economica (il padre, a quanto racconta Plutarco10, aveva
notevolmente assottigliato il patrimonio in atti di liberalità) lo avvicinava alle parti sociali più
sofferenti, in attesa di un riscatto. Esclusa, forse per ragioni morali, ma anche per prudenza
politica11, l'ipotesi di una soluzione tirannica, sulla quale, tuttavia, sembra si fosse determinata una
convergenza relativamente ampia12, Solone accettò il ruolo di mediatore (diallaktēs) e fu designato
arconte. Prima di metter mano alla stesura del codice di leggi, al quale è più strettamente legato il
significato politico della sua magistratura e che occupa la seconda fase del suo mandato, l'intervento
del neoeletto arconte (verosimilmente il suo primo atto pubblico) si rivolse direttamente e
prioritariamente a disinnescare il meccanismo che alimentava il conflitto sociale. Il resoconto
aristotelico prosegue, infatti, in questi termini:
Divenuto arbitro della situazione, Solone liberò il demos, per il presente e per il futuro,
vietando che i prestiti venissero garantiti dalla persona, emanò un codice di leggi e sancì la
cancellazione dei debiti (chreōn apokopē), sia di quelli privati che di quelli pubblici, quella
che chiamano “scuotimento dei pesi” (seisachtheia), nell'idea che si fossero scrollati di dosso
il fardello13.
L'atto radicale della cancellazione dei debiti comportava, con effetto retroattivo, l'annullamento
immediato e automatico di qualunque restrizione già in essere della libertà personale e reintegrava i
soggetti colpiti nella loro piena dignità civile: anche quelli che, venduti fuori dell'Attica, si
trovavano in terra straniera. Si possono intuire le difficoltà di carattere logistico ed amministrativo
che un provvedimento del genere sollevava: oltre ad essere complicato rintracciare fisicamente i
debitori ridotti in schiavitù e venduti all'estero (di molti di loro potevano perfino essersi perdute le
tracce), il recupero non poteva non passare attraverso una forma di riscatto, a risarcimento del
9 Questo sembra potersi dedurre da un passo di Lisia, X 18.
10 Plut., Sol. 2, 1.
11 Plutarco (Sol. 14, 8) riferisce che Solone, agli amici che lo invitavano ad assumere il potere tirannico, avrebbe
risposto che «la tirannide è una bella fortezza, ma senza uscita».
12 Su questo insiste particolarmente Plutarco (Sol. 14), che cita a tal proposito preziosi frammenti dell'opera poetica di
Solone, una sorta di apologia delle sue scelte politiche.
13 Arist., Ath. pol. 6, 1
danno economico subito dall'ultimo padrone che li aveva acquistati e, date le dimensioni del
fenomeno, l'esborso calcolabile non doveva essere lieve. Supponendo che il carico dovesse ricadere
sullo stato, è legittimo chiedersi dove e come venissero reperiti i fondi necessari. Su questi aspetti
tutte le fonti tacciono: il buon senso induce a credere che la percentuale di quanti poterono
effettivamente beneficiare della nuova disposizione di legge fosse abbastanza bassa e che la
retroattività del decreto sia rimasta più nominale che altro.
Quello che, invece, traspare con una certa evidenza è il disagio e l'imbarazzo con cui alcuni
testimoni antichi cercano di esorcizzare e circoscrivere la portata politica di quella decisione. Nella
prospettiva del pensiero politico antico (non solo greco 14) atti come la cancellazione dei debiti o la
redistribuzione della terra erano sentiti come lesivi del diritto di proprietà e, come tali,
pericolosamente aperti a derive eversive. Quando, all'epoca di Platone, nacque la moda di stilare
l'elenco di tutti gli orrori di cui un regime politico socialmente destabilizzante poteva macchiarsi (e
per Platone la democrazia era un regime del genere), le due voci di cui si discute occupavano
immancabilmente il primo posto: cancellazione dei debiti e redistribuzione della terra venivano
indicati come i sintomi più allarmanti di un imminente collasso dello stato, come la negazione dei
più elementari diritti della convivenza sociale. Chi, di fronte a certe “sbandate” populistiche della
democrazia radicale, invocava, pur senza rinnegare nello spirito il concetto della sovranità popolare,
il ritorno a forme più moderate e garantiste di gestione del regime democratico (quella che allora
usava chiamarsi patrios politeia, ossia “ordinamento politico avito”, identificato di volta in volta
con il modello clistenico o con quello soloniano) e additava nei demagoghi che cavalcavano, per
puro tornaconto politico, gli istinti più sovversivi della plebaglia scatenata contro i privilegi dei
ricchi, il vero cancro della democrazia, non poteva accettare serenamente l'idea che il padre stesso
(o uno dei padri) della costituzione democratica si fosse indotto ad un gesto così radicale. Aristotele,
al solito, da osservatore distaccato e passionalmente poco coinvolto nel dibattito politico, non
accenna ad ammorbidire in qualche modo il dato depositato nella tradizione. Lo faceva, invece, un
suo contemporaneo, un attidografo utilizzato altrove, insieme ad altri, come fonte nella parte storica
del suo opuscolo: Androzione. Sappiamo da Plutarco15 – che lo cita esplicitamente e a cui dobbiamo
la preziosa informazione – che Androzione (non è possibile indurre se anche qualcun altro)
interpretava l'imbarazzante chreōn apokopē di Solone non come radicale cassazione dei debiti
pendenti, ma come una manovra finanziaria tesa alla riduzione degli interessi e forse, nella forma di
una svalutazione della moneta, anche del capitale da restituire. A Solone la tradizione effettivamente
attribuisce una riforma monetaria, pensata verosimilmente per agevolare le transazioni commerciali:
più precisamente, la mina eginetica (equivalente a settanta – o settantatré, secondo altre fonti –
dracme) sarebbe stata sostituita dalla mina euboica (equivalente a cento dracme). Ciò equivale ad
una svalutazione oscillante tra il trenta ed il ventisette per cento della dracma, provvidenziale per i
debitori che avrebbero potuto saldare i loro debiti con interessi più contenuti e con la nuova valuta
più leggera. Il carattere sospetto di questa ipotesi consiste nel suo anacronismo: un'operazione del
genere, perfettamente in linea con il regime finanziario del IV sec. a.C., è difficilmente trasferibile
nell'ambiente economico di oltre due secoli addietro; senza contare il fatto che, a meno di dubbie
forzature, non sarebbe stata applicabile alle situazioni debitorie derivanti non da prestiti finanziari,
ma da accumulo di arretrati non corrisposti, che non comportavano movimenti di denaro, come nel
caso degli hektēmoroi. Più in generale, a parte l'ipotesi di Androzione, non c'è alcuna prova positiva
che tra la cancellazione dei debiti e la riforma monetaria vi fosse una relazione diretta: Aristotele,
che, pur senza citarla, sicuramente conosceva la proposta dell'attidografo, non dà l'impressione di
avallarla né di collegare in alcun modo le due cose. Quello che, invece, emerge esplicitamente dal
suo dettato è una sostanziale equiparazione tra la chreōn apokopē e la seisachtheia (lo “scuotimento
dei pesi”). L'immagine, evidentemente metaforica, dello scuotimento dei pesi non è perspicua di per
14 Anche Cesare, nella propaganda “democratica” disseminata qua e là nel Bellum civile, si premura di rassicurare il
ceto medio, di cui sollecita l'appoggio, dalla paventata cancellazione dei debiti (tabulae novae) invocata da più parti,
che lo avrebbe danneggiato: il nuovo regime non avrebbe lasciato spazio ad aperture populistiche o proletarie. Cfr.,
per es., B.C. III 20-22.
15 Plut., Sol. 15, 3 sgg.
sé ed ha immancabilmente dato luogo anch'essa a dibattiti. Già la critica antica la interpretava
variamente. Senza entrare nei dettagli, che ci porterebbero a percorrere casistiche inutilmente
(almeno qui) minute, forse ci soccorre, più opportuna, la testimonianza diretta di Solone che, in un
lungo frammento citato sia da Aristotele che da Plutarco16, dichiara:
Potrebbe rendermene testimonianza di fronte al tribunale del tempo
la madre augusta degli dei Olimpi,
meglio di ogni altra cosa, la nera Terra, dalla quale io una volta
rimossi gli horoi conficcati dovunque,
prima schiava, ora libera.
Gli horoi sono dei cippi di pietra conficcati nel terreno (dal testo si induce che ce ne fossero un po'
dappertutto: indizio di un fenomeno molto diffuso) la cui funzione è controversa. Si è pensato che
fossero segnali indicanti l'esistenza di un'ipoteca sul terreno contrassegnato dalla loro presenza,
specie di sigilli che testimoniavano lo stato non libero del fondo, su cui gravavano diritti di altri: la
terra, offerta in garanzia a fronte di un debito contratto, rimaneva così visibilmente vincolata al
diritto del creditore di entrarne in possesso in caso di insolvenza della parte debitrice. Tutto ciò,
ovviamente, ha senso (e qui sta la difficoltà) in un contesto economico ove sia dimostrabile
l'esistenza della piccola proprietà privata, che consente di costituire un fondo di garanzia proprio
sulla base della titolarità del proprietario. Nell'età di Solone, lo abbiamo visto, la situazione era
quasi certamente diversa; e, d'altra parte, il fatto inequivocabile, deducibile dal testo di Aristotele,
che «fino al tempo di Solone i prestiti erano per tutti garantiti dalla persona fisica [del debitore]»17
inficia l'attendibilità dell'ipotesi appena descritta. È più probabile, allora, che gli horoi fossero dei
segnali di confine (questa è esattamente la funzione che hanno nel mondo omerico), la cui
rimozione avrebbe liberato la terra da presunti diritti di proprietà fondati sull'occupazione abusiva.
La tesi che si trattasse di demanio pubblico finito per usurpazione sotto il controllo dell'aristocrazia
terriera è stata sostenuta con autorità18: la mano d'opera libera ivi impiegata avrebbe dovuto
sottostare al vincolo gravoso dell'ectemorato, con gli obblighi, i rischi e le conseguenze che già
conosciamo. La “liberazione” voluta da Solone avrebbe restituito quella terra alla collettività
(attraverso la rimozione degli horoi abusivi), sgravando i braccianti da ogni onere tributario (di qui
la parola seisachtheia = “scuotimento dei pesi”) ed avviando in questo modo il processo di
formazione della piccola proprietà.
Che il provvedimento soloniano di cassazione dei debiti (agrari o finanziari che fossero) si
prestasse a manovre speculative è un sospetto che affiorò con una certa insistenza anche nella
storiografia antica. Sia Aristotele che Plutarco19 riferiscono, senza precisarne l'origine, un aneddoto
che racconta di come alcuni galantuomini (gnōrimoi: è la parola che normalmente designa la
nobiltà), avuta notizia del decreto che Solone si accingeva ad emanare, avrebbero profittato
dell'occasione per acquistare terra con denaro ottenuto in prestito: l'estinzione del debito
sopravvenuta di lì a poco li avrebbe lasciati liberi da ogni obbligo di restituzione del denaro e
padroni di vasti fondi. Entrambi gli scrittori si affrettano a difendere Solone dall'accusa di aver
consentito, se non addirittura favorito, quella speculazione e lo fanno entrambi appellandosi alla
statura morale del personaggio, che nel resto della sua opera di statista e riformatore avrebbe dato
prova indiscutibile di equilibrio ed imparzialità. L'episodio è probabilmente frutto di una
falsificazione messa a punto nei circoli oligarchici attivi fra V e IV sec. e mirante a gettare
discredito non solo sulla figura di Solone, in quanto padre di quel regime detestato che era la
democrazia, ma anche sui discendenti di quelle famiglie che, con la sua complicità, si sarebbero
arricchite in modo così discutibile. Chi erano quei discendenti? Erano figure di primissimo piano
della scena politica ateniese sullo scorcio del V secolo e agli esordi del IV: Alcibiade, Conone,
16 Arist., Ath. Pol. 12, 4; Plut., Sol. 15, 5. La citazione di Aristotele è più estesa di quella plutarchea e tra le due
occorrono alcune lievi divergenze testuali.
17 Arist., Ath. pol. 2, 2.
18 F. Cassola Solone, la terra e gli ectemori in “La parola del passato” XIX, 1964 pagg. 26 sgg.
19 Arist., Ath. Pol. 6, 2 sgg.; Plut., Sol. 15, 7 sgg.
Callia. Il tradimento da essi perpetrato contro il loro sangue e contro i principî della loro educazione
aristocratica nel momento in cui avevano, per calcolo politico, accettato di collaborare con la
democrazia veniva bollato come un marchio di infamia: un tradimento che allungava la sua ombra
sul loro passato poco pulito, sul modo poco onesto con cui i loro antenati avevano costruito la loro
immensa ricchezza. Ecco come la lettura del passato si prestava, nell'aspro dibattito politico, alle
strumentalizzazioni più spericolate.
Ma è sul versante più schiettamente politico che l'opera di Solone lascia vedere gli
addentellati più chiari con le fasi più mature della democrazia. La logica cui si ispira il suo progetto
riformatore e che dà, in sostanza, unità alla sua linea politica è, ancora una volta, suggerita da
istanze economiche. L'idea che emerge dal quadro di insieme che le fonti consentono di ricostruire,
per quanto inevitabili siano i margini di problematicità, è relativamente limpida e si potrebbe
sintetizzare come tentativo di valorizzazione politica della capacità di produrre ricchezza; in altri
termini: la ricchezza associata alla nobiltà di sangue come criterio di selezione della classe politica.
La suddivisione in classi censitarie (telē) della popolazione attica esisteva quasi certamente
già prima di Solone e, come tutti gli istituti radicati nella tradizione, avrebbe conservato a lungo la
sua funzionalità (ma non sempre la stessa) nella storia amministrativa dello stato ateniese. Lo
schema che la riassume è il seguente:
1.
2.
3.
4.
Pentakosiomedimnoi: titolari di aziende che producono annualmente almeno 500
misure di frumento, di olive o di vino.
Hippeis (“cavalieri”): titolari di aziende che producono annualmente 300÷500
misure di frumento, di olive o di vino.
Zeugitai: titolari di aziende che producono annualmente 200÷300 misure di
frumento, di olive o di vino.
Thetes: titolari di un reddito inferiore alle 200 misure di frumento, di olive o di vino.
La misura utilizzata per la quantificazione del prodotto era diversa a seconda che si trattasse di
cereali (medimnos = 52 litri) oppure di olive o di vino (metrētēs = 39 litri). Nelle prime due classi
rientrano i soggetti ad alto reddito; nella terza quelli a reddito medio; nella quarta confluiscono i ceti
economicamente svantaggiati (per lo più nullatenenti). Si tratta di classi aperte che, almeno
teoricamente, consentono movimenti interni.
È notevole il fatto che la ricchezza venga misurata non su base patrimoniale, ma con
parametri reddituali e che l'attività economica presupposta e, per così dire, fotografata in quel
modello di ripartizione sia unicamente quella agricola. Non c'è prova sicura che i quantitativi
standard venissero tradotti in valori monetari, per essere estesi anche alle attività artigianali e
mercantili, che al principio del VI secolo dovevano già rappresentare una voce importante
dell'economia ateniese: Plutarco dedica parecchie pagine della sua biografia di Solone a dar conto
dell'imput che lo statista diede all'iniziativa imprenditoriale e dell'attenzione riservata al commercio
e alle esportazioni. D'altra parte, i termini utilizzati per designare le quattro classi hanno valore
eminentemente economico ed è assai improbabile (anche se l'ipotesi è stata avanzata) che siano in
qualche modo relazionati con gli obblighi militari20. Relazione sicura c'è, invece, con l'arruolamento
della classe dirigente, le cui attribuzioni politiche erano direttamente proporzionali al gradiente di
ricchezza:
Distribuì la gestione di tutte le altre magistrature tra uomini appartenenti alla classe dei
pentacosiomedimni, dei cavalieri e degli zeugiti (ossia il collegio dei nove arconti, i tesorieri,
20 Se pentakosiomedimnoi e thetes sono termini indiscutibilmente economici, hippeis e zeugitai si prestano
effettivamente ad essere letti in chiave militare, potendo designare l'uno i cavalieri, l'altro gli opliti di cui è costituita
la fanteria pesante. È dimostrato che nel V secolo la griglia censitaria costituiva la base selettiva per l'arruolamento
delle forze armate e che si accedeva all'uno o all'altro corpo (cavalleria, fanteria, marina) a seconda della classe cui
si apparteneva: per l'età di Solone manca una documentazione adeguata. È, tutto sommato, più prudente fidarsi di
Aristotele (Ath. pol. 7, 4) che propende esplicitamente per l'interpretazione economica del termine hippeis.
i banditori pubblici, il collegio degli undici e i colacreti), assegnando a ciascuno di loro una
carica corrispondente alla consistenza del suo censo (timē). A quanti appartenevano alla classe
dei teti, invece, consentì di partecipare solo all'assemblea e ai tribunali.21
Questo criterio timocratico, che all'epoca di Solone rappresentava il vero progresso rispetto al
passato, in quanto estendeva l'accesso alla cosa pubblica anche al di fuori dell'ambito strettamente
aristocratico e, almeno teoricamente, metteva fine al monopolio politico della nobiltà di nascita,
perse gradatamente efficacia pratica dopo la riforma di Clistene (508/7 a.C.), lungo il cinquantennio
(quarantasei anni, per la precisione) che approdò (nel 462 a.C.) all'inaugurazione della fase radicale
della democrazia ateniese, conservando o – sarebbe più opportuno dire – assumendo una più
circoscritta funzione nell'ambito della leva militare. È, tuttavia, interessante osservare che
l'arcontato (una delle magistrature più prestigiose) fu ufficialmente reso accessibile agli zeugiti
(ossia alla classe media) solo nel 457 a.C., trent'anni dopo che la magistratura aveva perso il suo
primato storico per essere passata, insieme alla maggior parte delle altre, dal sistema della
designazione a quello del sorteggio. Ancora nel IV secolo – assicura Aristotele22 – creava un certo
imbarazzo dover dichiarare di appartenere alla quarta classe al momento dell'esame che accertava il
possesso dei titoli per assumere un incarico politico: «Per cui anche ai giorni nostri, quando si
chiede a chi si presenta per essere sorteggiato ad una magistratura quale sia la sua classe censitaria,
nessuno risponderebbe di appartenere a quella dei teti».
Abbiamo già visto come la storiografia antica tendesse ad attribuire a Solone tratti
democratici forse più accentuati di quanto non comportasse la reale portata della sua riforma: una
più serena valutazione della sua azione politica è in grado di distinguerne meglio la fisionomia
sostanzialmente conservatrice: superata, o avviata a soluzione, l'emergenza sociale che l'aveva
chiamato al potere (è in quest'ambito che si consuma, con la cassazione dei debiti, l'iniziativa più
sbilanciata in senso popolare), le speranze “rivoluzionarie” dei ceti disagiati rientrarono subito e
prese corpo quel programma di intervento coerente con le sue più autentiche ambizioni riformatrici,
orientato alla mediazione piuttosto che al drastico rinnovamento. In un frammento elegiaco citato
da Aristotele23, Solone stesso dichiara:
Al demos ho concesso quel tanto di diritti (geras) che era sufficiente concedergli,
senza togliergli né accrescergli onore (timē);
quanti detenevano il potere ed erano ammirati per ricchezza,
anche per loro mi sono dato pensiero che non subissero alcun danno indegno del loro rango.
Mi levai davanti a loro, coprendo entrambi di un solido scudo
e non permisi che nessuno dei due prevalesse violando la giustizia.
Eppure la percezione delle potenzialità democratiche di quella riforma c'era e se ne
potevano anche argomentare le ragioni. Un osservatore del IV secolo poteva dire:
Si ritiene che siano questi i tre aspetti più democratici dell'ordinamento politico di Solone: il
primo (e più importante) consiste nell'aver vietato di concedere prestiti garantiti sulla persona;
poi, l'aver consentito a chiunque lo volesse di intraprendere un'azione legale a difesa di quanti
fossero vittime di un torto; il terzo (quello grazie al quale si dice che il demos abbia acquisito
il massimo di potere) è il diritto di appello al tribunale popolare: quando, infatti, il demos è
padrone del voto, diventa padrone del sistema politico. Inoltre, dato che le leggi non erano
redatte in forma semplice e chiara, come per esempio quelle sulle eredità e sulle ereditiere, era
inevitabile che sorgessero molte contestazioni e che il tribunale fosse chiamato a decidere di
tutti gli affari, privati e pubblici. Qualcuno, dunque, ritiene che egli avesse intenzionalmente
redatto le leggi in forma imprecisa, perché il demos fosse poi arbitro del giudizio. Ipotesi
improbabile: la ragione è che non si può attingere la perfezione con un enunciato generale:
non è giusto, infatti, valutare le sue intenzioni sulla base di quello che avviene oggi, ma in
21 Arist., Ath. pol. 7, 3.
22 Arist. Ath. pol. 7, 4.
23 Arist. Ath. pol. 12, 1.
base al complesso della sua riforma.24
Quello dello strapotere dei tribunali era effettivamente un nervo scoperto nella propaganda
antidemocratica del IV secolo e nelle osservazioni conclusive del passo appena letto se ne sente
molto bene l'eco. Aristotele, che condivideva tutte le riserve degli ambienti moderati nei confronti
degli eccessi della democrazia radicale ma, come al solito, giudica con equilibrio, respinge la tesi
apertamente faziosa di quanti insinuavano che la forma imprecisa data alle leggi fosse stata
deliberatamente pensata per essere funzionale al potere dei tribunali popolari e ne ricerca le ragioni
in un principio di carattere generale. Era quello un punto centrale nel dibattito costituzionale del suo
tempo, che discendeva recta via da certe dichiarazioni pertinenti l'istituto della legge scritta del
discorso programmatico di Pericle25, ed Aristotele perciò lo tocca senza infingimenti. Ma, per
quanto prenda le distanze da posizioni polemiche poco attendibili sul piano della verità storica, non
può fare a meno, neppure lui, di cogliere in quel tratto democratico dell'ordinamento soloniano (il
diritto di appello ai tribunali popolari, la cui fondazione a fianco dell'Areopago veniva
concordemente attribuita allo statista) l'origine di una stortura del sistema democratico.
La soluzione tirannica che Solone, nell'atto di assumere il potere, aveva scartato come
immorale e politicamente inopportuna, finì con l'imporsi circa trent'anni più tardi. L'esperienza della
tirannide26 ha percorso tutto il mondo greco: Atene non si sottrasse a questo passo obbligato che
sembra avere una sua necessità ineludibile nella storia delle istituzioni politiche di quel mondo. Se
la città di Atene ne uscì dopo circa un cinquantennio, ormai matura per l'esperimento democratico,
lo si deve ad una partita abilmente giocata tra i clan aristocratici, dal cui conflitto la tirannide era
sorta: il vario e instabile atteggiarsi delle alleanze familiari, dettato da interessi sempre contingenti e
mutevoli, e perciò mai risolutivo, trovò stabilità nella soluzione inedita di un patto stretto tra l'ala
che potremmo chiamare più progressista della nobiltà e il demos. A dir la verità, un patto del genere
aveva già dato prova di poter garantire una buona tenuta all'assetto socio-politico dello stato, perché
proprio grazie a quella formula il governo tirannico di Pisistrato aveva potuto mantenersi saldo e
metter mano, con qualche interruzione intermedia, a programmi a lungo termine e di ampio
orizzonte che, come è noto, ebbero ricadute cospicue nella storia culturale di Atene. È un dato
indiscutibile che la base sociale che sostenne il regime tirannico per i primi trent'anni (dal 561 al
527 a.C., anno della morte di Pisistrato: da allora, sotto la mano meno felice del figlio Ippia che gli
subentrò, la tensione salì) si identifica nei ceti popolari: quelli, per essere più precisi, dislocati nelle
aree economicamente più deboli dell'Attica (la zona montuosa a nord-est di Atene, verso il Parnete
e il confine con la Beozia), ma ai quali potevano ben essersi aggiunti molti dei delusi dalle riforme
di Solone27. La differenza sta nel fatto che quell'alleanza, gestita paternalisticamente dall'alto al
tempo di Pisistrato, veniva ora accettata nella sua piena valenza conflittuale, in un rapporto
politicamente paritario (in cui, ovviamente, i dislivelli sociali rimanevano, con tutti i loro corollari
culturali), ma apertamente dialettico, dinamico e fecondo di idee. Nella lotta tra i clan rivali,
all'indomani della cacciata di Ippia (510 a.C.) il demos veniva chiamato a dare man forte e peso
specifico decisivo alla famiglia28 (quella degli Alcmeonidi, cui apparteneva Clistene: prima al
fianco di Pisistrato, poi passata ad un'opposizione radicale) che rivendicava il merito della
riconquistata libertà e si candidava contestualmente al ruolo di leadership nell'Atene nuovamente
libera. Non ci sono prove che il nuovo regime si desse già il nome di democrazia (le parole chiave
del nuovo linguaggio politico furono piuttosto isotēs e isonomia, entrambe alludenti al concetto di
“uguaglianza” e di “parità di fronte alla legge”) e, per quanto gli argumenta ex silentio non abbiano,
in generale, una forza probante risolutiva, questo potrebbe essere un indizio della percezione che di
24 Arist. Ath. Pol. 9.
25 cfr. Thuc. II 35 sgg.
26 È appena il caso di ricordare che la parola “tirannide” non nasce con i connotati negativi che assumerà con il tempo:
essa designa un potere personale immune da rendiconto, ottenuto con un colpo di mano, al di fuori delle procedure
legali. Normalmente costituiva l'esito di conflitti tra famiglie aristocratiche.
27 cfr. Arist., Ath. pol. 13, 5.
28 Questo forse intende Erodoto (V, 66, 2), quando dice che «Clistene fece entrare il demos nella sua eteria».
questo esperimento si ebbe nell'epoca della sua prima attuazione: non una reale e assoluta sovranità
riconosciuta al demos (i vincoli aristocratici erano ancora molto forti), ma una sorta di fronte
comune contro il pericolo di revanches tiranniche. La democrazia nasce come blocco di potere
contro la tirannide e conserverà sempre, anche nelle fasi più avanzate, il sentimento di questa sua
primitiva vocazione: al punto che nella psicologia del democratico medio ogni attentato alla
democrazia si configura sempre ed istintivamente come tentativo di restaurazione della tirannide e
gli slogan sbandierati ogniqualvolta prende corpo lo spettro di un'offensiva oligarchica si adeguano
a quella ossessione. Lo stesso pensiero politico della prima generazione democratica, rintracciabile,
ad esempio, attraverso il teatro, si atteggia nella polarità di un binomio: da un lato la libertà del
regime isonomico, dall'altro la schiavitù del potere autocratico. Solo più tardi prenderà forma il
modello triadico, tipico del pensiero politico più maturo, costituito sul trinomio monarchia /
aristocrazia / democrazia: lo si sorprende per la prima volta, nel V secolo avanzato, nel celebre
tripolitikos logos di Erodoto29.
Se si vogliono cogliere, in estrema sintesi, le linee guida che l'esperimento democratico
avviato nel 507 a.C. si diede nel tradursi in prassi politica – linee che paiono studiate a tavolino e
miranti a costituire una nuova topografia politica dell'Attica del tutto slegata da quella storicamente
esistente – i punti programmatici possono ridursi a due:
1.
Destrutturazione dei gruppi di potere tradizionalmente consolidati attorno a relazioni
familiari o ad interessi economico-politici.
2.
Forte radicamento sul territorio delle istituzioni democratiche (segnatamente del
Consiglio dei Cinquecento).
Il primo punto si attuò attraverso la costituzione di un nuovo assetto territoriale che andò a
sovrapporsi, senza sostituirlo del tutto, ma assumendo rispetto ad esso una funzione politicoamministrativa assolutamente prevalente, quello tradizionale. Già prima dell'avvento di Pisistrato,
l'Attica era topograficamente organizzata in tre distretti: la mesogaios (costituita dalle pianure
dell'interno, inglobanti anche l'insediamento urbano di Atene: era l'area delle grandi tenute agricole,
patrimonio dell'aristocrazia terriera), la paralia (la zona costiera, sede di attività artigianali e
mercantili, gravitante attorno alle aree portuali) e la diakria (la zona collinare e montuosa,
economicamente più povera). Non è facile stabilire fino a che punto questa diversificazione socioeconomica comportasse anche un'articolazione di orientamenti politici. Il quadro che ne fornisce
Aristotele30 pecca, forse, di schematismo quando dà come cosa certa l'esistenza di fazioni politiche
(staseis) ben contrapposte, ma non è incoerente con il contesto: tendenze moderate nella paralia
(leader: Megacle, della famiglia degli Alcmeonidi), oligarchiche nella mesogaios (leader: Licurgo),
democratiche nella diakria (leader: Pisistrato). Il territorio era disseminato di insediamenti più o
meno grandi (dēmoi), assimilabili al moderno concetto di “comune”: poteva trattarsi di villaggi di
campagna, di centri costruiti in prossimità delle zone di traffico portuale, di punti di raccolta alla
confluenza delle valli interne, di aree cultuali annesse ai santuari e così via. Il loro numero non è
certo, ma era sicuramente superiore al centinaio (forse 139). Nella riforma clistenica i dēmoi, dotati
di loro proprie funzioni amministrative, furono investiti di un ruolo anagrafico fondamentale:
l'essere iscritto nei registri di un dēmos era titolo sufficiente per acquisire, al compimento della
maggiore età, tutti i diritti di cittadino e il nome del dēmos di appartenenza costituiva, insieme al
nome proprio e al patronimico, elemento integrante di identificazione (es.: Sofocle, figlio di Sofillo,
del dēmos di Colono). Il passo ulteriore fu l'accorpamento dei dēmoi in trenta strutture più
complesse (trittyes) dislocate, in pari proporzione, nei tre distretti territoriali, ciascuno dei quali ne
ospitava dieci. Un successivo e definitivo raggruppamento, che non teneva di conto della loro
contiguità geografica, ma assumeva come criterio quello di raccordarle in modo che tutti e tre i
distretti territoriali fossero rappresentati, distribuì le trenta trittyes in dieci tribù (phylai), pilastro di
29 Erodoto III 80-82.
30 Arist., Ath. pol. 13, 4.
tutto l'assetto politico-amministrativo dell'Atene democratica. Ogni tribù, in quanto risultante
dall'assemblaggio di tre trittyes provenienti rispettivamente dalla mesogaios, dalla paralia e dalla
diakria, costituiva uno spaccato rappresentativo di tutte le realtà socio-economiche dell'Attica. Il
fatto, poi, che le tribù fossero territorialmente discontinue contribuiva allo sbriciolamento dei gruppi
di interesse che potevano essersi formati (e si erano di fatto formati) sulla base di vincoli di sangue
o di comuni obiettivi economici.
Sulla base di un sorteggio effettuato da una lista di candidati, ogni tribù designava
annualmente cinquanta rappresentanti che sarebbero andati a costituire il nuovo Consiglio (boulē)
dei Cinquecento, vero organo rappresentativo che dava voce, nell'ambito delle funzioni ad esso
affidate, all'intero corpo sociale dello stato e garantiva un'equità che in altre sedi (l'assemblea e i
tribunali), per le ragioni che vedremo, era assai più difficile raggiungere.
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