Gruppo di supporto alla F.C. Varese Convegno IL SERVIZIO

Gruppo di supporto alla F.C. Varese
Convegno
IL SERVIZIO SOCIALE DI FRONTEALLA SFIDA DELLE NUOVE POVERTA’: ANALISI DEL FENOMENO E
DIMENSIONE DEONTOLOGICA
MARTEDI’ 20 OTTOBRE 2015
Centro Congressi CASTELLO DI MONTERUZZO
via Guglielmo Marconi 1, Castiglione Olona (VA)
Dott.ssa Cecilia Menefoglio : La povertà relazionale
La povertà non è solo di tipo materiale, oggi più che mai si assiste ad una situazione di povertà relazionale e
affettiva. L’uomo è un essere socializzante che comunica e interagisce con i propri simili, vive in società e
all'interno di essa acquista una propria identità. L'individuo, in base alle relazioni che agisce è marito,
moglie, lavoratore, genitore, amico ecc. Relazionarci con gli altri ci identifica e ci dona un’identità che ci
permette di essere riconosciuti ed accettati e integrati nel contesto. Alla base delle relazione c'è la
comunicazione, verbale e non verbale, che ci permette di definire la nostra identità sia attraversi ciò che
raccontiamo di noi ma anche attraverso alla gestualità , all'abbigliamento e agli oggetti che utilizziamo. Le
persone ci riconoscono perché noi ci facciamo conoscere comunicando con loro.
Negli ultimi decenni, a causa di una concatenazione di fenomeni importanti quali la crisi economica e
lavorativa, la crisi della famiglia e l'aumento delle separazioni,....... l'uomo è portato a disinvestire sulla
comunicazione non preoccupandosi di coltivare le relazioni concentrandosi sempre più su se stessi e
favorendo l'individualismo. Ciò è dovuto principalmente a una conseguenza che deriva dalla “perdita” di
lavoro, valori, affetti, oggetti che ci identificavano e che abbiamo perso a causa della mancanza di lavoro, di
disponibilità economiche e famigliari di riferimento. Un uomo che ha sempre lavorato si identifica e si fa
conoscere agli altri per il lavoro che fa. La perdita di lavoro perciò coincide con la perdita di una parte di
identità. Io sono disoccupato e non sono più operaio, giardiniere, impiegato. Inoltre non riesco più a
garantire il livello economico che ha sempre contraddistinto la mia vita e come conseguenza perdo la casa,
la macchina, e gli oggetti che mi sono sempre potuto permettere.
La crisi sociale, lavorativa ed economica ha portato le persone a chiudersi sempre più su se stessi . la povertà
relazionale è collegata alla povertà materiale e al disagio sociale che questa comporta ma è anche possibile
e sempre più frequente trovare situazioni di isolamento e chiusura anche in assenza di povertà economica.
Sviluppare relazioni implica mettere in gioco l’affettività e le emozioni e questo diventa sempre più
complicato. Gli stili di vita, le famiglie nucleari, l’aumento dei divorzi, la precarietà lavorativa portano le
persone a non investire nelle relazioni.
Paradossalmente il grande boom avuto dai social network ha portato ad un chiusura delle persone che
riescono a comunicare sempre di più attraverso un monitor e schermati dietro ad un filtro. Le identità social
“tutelano” le persone che non hanno più voglia e coraggio di investire nelle relazioni. Siamo curiosi di
sapere cosa accade al prossimo e passiamo ore davanti al pc ma se poi abbiamo veramente bisogno
dell’aiuto di un amico non troviamo nessuno disposto a darci una mano.
La nostra realtà è malata di relazioni sbagliate, superficiali, basate sull’appartenenza, sull’interesse, sulla
mancanza di impegno progettuale e responsabilità. E' estremamente facile accusare gli altri, la società, lo
stato, l'assistente sociale di non riuscire a dare risposte alle persone che si trovano ad affrontare una
situazione di difficoltà e di precarietà ma è molto più difficile attivarsi e riprendere in mano la propria vita
per rimettersi in gioco. Spesso per timore di non vedere accolte le proprie richieste o per la vergogna di
trovarsi in una condizione “bisognosa” chi è in difficoltà non chiede aiuto precipitando sempre di più in una
condizione di emarginazione.
Stefano Zamagni, docente di Economia Politica presso l'Università di Bologna, affronta il problema delle
relazioni descrivendo la differenza tra la catena e la corda. La catena è formata da tanti anelli, ognuno dei
quali rappresenta un indicatore di benessere materiale; la tendenza è di aggiungere anelli ad anelli, cioè di
accumulare sempre più beni materiali. Ma, se per una ragione qualsiasi, (una malattia, una sofferenza) un
anello si rompe, tutta la catena crolla (si rischia la depressione, il suicidio). La corda, invece, è formata da
tanti fili intrecciati che rappresentano le relazioni. Se anche qualche filo cede, qualche relazione si rompe,
mi reggeranno le altre relazioni. E’ molto più facile riannodare i fili della corda che non gli anelli della catena.
In conclusione dobbiamo cambiare la nostra mentalità: passare dalla cultura della catena alla cultura della
corda. L’ idea della corda ci dice di legare i rapporti interpersonali che devono essere sempre più stretti. La
lotta alle nuove povertà deve spronarci in questa direzione.
La crisi storica che stiamo affrontando vede l'emergere di mancanza di valori, di punti di riferimento certi di
certezza economica che permettono di fare prospettive a lungo termine. Sempre più spesso si cerca di
rispondere al bisogno immediato non cercando di sanare il problema che ha creato tale bisogno.
Rispondere alla necessità del momento e all’emergenza ci porta a focalizzarci sul trovare il prima possibile
una soluzione non valutando una progettualità basata sulle relazioni, sul supporto degli altri e la
collaborazione. Questo vorrebbe dire investite sulle relazioni, farsi conoscere nuovamente per quello che si
è a seguito della “perdita” della famiglia, del lavoro, dei soldi, significa inoltre impegnarsi concretamente per
risolvere la situazione assumendosi le responsabilità.
Il ruolo dei servizi sociali consiste proprio nel attivare la persona che si trova in uno stato di bisogno affinchè
possa riacquistare una situazione di benessere socio-relazionale che gli permetta di rimettere in moto la
propria vita.
Sicuramente i nuovi stili di vita, la dimensione culturale e del consumismo che caratterizza la
società moderna sono fondamentali per inquadrare le persone e inquadrarle in categorie definite.
Se si è fuori dagli “schemi” che convenzionalmente ci permettono di classificare la società si viene
emarginati ed esclusi.
Se l’esclusione sociale è un fenomeno individuale legato ad una vicenda biografica, esso, però, è
possibile e, forse, anche dovuto al contesto tipico della nostra vita sociale:
• la complessità delle relazioni, la moltiplicazione dei messaggi e delle proposte,
• la necessità di dover negoziare continuamente il proprio ruolo,
• la competitività continua di tutti contro tutti, la conflittualità,
• la precarietà e l’eccessiva flessibilità del lavoro,
• il mito del successo immediato e le continue e spietate verifiche,
• le ingiustizie, le prevaricazioni, la mancanza di riferimenti dove fare appello, …
Tutto questo può portare e porta molte persone che magari hanno accettato la sfida dell’effimero,
a crollare sotto il peso di qualche delusione, fino a non riconoscersi più nella società e a non
aspettarsi più nulla dagli altri.
Le nuove povertà sono collegate al concetto di emarginazione e, quindi, di esclusione sociale. Il
concetto di “esclusione sociale” si riferisce, però, a due fenomeni che rispondono ad approcci e a
preoccupazioni diverse (cf. C. Saraceno, Cittadini a metà. Le nuove forme della povertà e
dell’esclusione sociale, gennaio 2003).
Il primo fenomeno riguarda l’uguaglianza sostanziale che permette a tutti di accedere agli stessi
diritti pur in presenza di diseguaglianze sociali di partenza; in questo senso, per esempio, c’è
esclusione sociale. Riguardo all’esclusione dai diritti, la recente ricerca (anno 2002) della Caritas
italiana con la Fondazione Zancan di Padova parlava di “cittadini invisibili”. Sono invisibili come
cittadini, perché ai diritti che definiscono la cittadinanza non riescono ad accedere; non riescono a
farsi vedere per rivendicarli e per goderne; nessuno si fa avanti per raggiungerli, accompagnarli.
Quest’anno il rapporto sui cittadini invisibili porta un deciso attacco al diffuso luogo comune, quello
per cui la povertà è identificata dai soli dislivelli di reddito e di capacità di consumo. Questi certo
hanno un peso decisivo, ma anche altri fattori vanno considerati. Si può essere poveri di soldi e si
può essere poveri di diritti. Si è poveri di diritti quando si vive in una condizione di cittadinanza
negata, o limitata, cioè quando si è invisibili agli occhi della società.
Titolari sì di diritti formali, come quello di voto, ma non dei diritti sostanziali di accesso e di
fruizione delle opportunità che la società offre, o dovrebbe offrire in modo ugualitario, a tutte le
persone che espongano determinate situazioni di bisogno.
La famiglia, per assumere le responsabilità che la caratterizzano ha bisogno di una comunità che
abbia cura di essa, anche attraverso servizi che non siano solo per la famiglia ma anche e
soprattutto con la famiglia. Se è vero infatti che la felicità non dipende dai servizi sociali, è vero
anche che questi possono contribuire in modo incisivo a rimuovere disparità e dislivelli ed a
consentire l’accesso alla normalità della vita sociale. Di qui anche le preoccupazioni per il timore
dell’introduzione di eccessive differenziazioni tra regioni e l’insistenza sull’importanza, anche per la
famiglia, dei livelli essenziali delle prestazioni e dei sostegni. Occorre far fronte ai rischi di caduta di
tutela, con particolare riguardo a quelle situazioni e contesti sociali deboli, che non riescono da soli
a far valere i propri diritti di cittadinanza. (V. NOZZA, I poveri e gli esclusi del terzo millennio,
febbraio 2003)
Il secondo fenomeno riguarda il “processo” di progressivo isolamento e di “disaffiliazione” sociale
(di chi non si sente più figlio, non si riconosce dentro la società) che porta una persona a perdere i
contatti con la società, fino a giungere a rinnegare quasi la propria stessa identità (è il caso
“estremo” dei “senza dimora”). Qui si possono collocare casi di diversa gravità e quasi sempre
caratterizzati da “multiproblematicità”, dove un evento di “rottura” traumatica o anche di “microfrattura” nelle relazioni sociali può essere il segnale che sta iniziando un processo verso
l’esclusione.
E’ la condizione di quelle persone che chiamiamo “senza dimora” . La “novità” rispetto alle vecchie
povertà è qualitativa e non quantitativa; non si tratta di essere o di cadere “più in basso”, ma di
essere sospinti “fuori” dal contesto sociale: c’è discontinuità tra le due forme di povertà.
Nel caso delle nuove povertà ci si riferisce a povertà “esistenziali”, perché sono legate alla biografia
di una persona e alla sua evoluzione soggettiva. Si parla, poi, di “processi” di esclusione e di
“carriere della povertà”: l’ironia dei sociologi allude alla dinamicità di una condizione che,
attraverso molteplici “fratture” o “micro-fratture” della relazione sociale, attraverso “rotture
biografiche”, schizza sempre più verso l’isolamento (cf G.Pieretti,in AA.VV., Servizio sociale e
povertà estreme, Milano, 2003).
L’esito “estremo” è la condizione di chi “vive senza dimora”, sia nel senso che non ha più una casa
dove proteggersi, non ha più un domicilio dove sia reperibile, dove ricevere una lettera, una
telefonata, dove qualcuno possa cercarlo per tenere una relazione, ma soprattutto non ha più un
luogo, una casa dove riconoscersi e dove ricollocare la propria identità.
In questi casi non si può intervenire semplicemente innalzando il reddito economico della persona,
ma si dovrà avviare un “accompagnamento” per farle rinascere la voglia di essere ricuperata alla
socialità. Prima ancora che la situazione precipiti si dovrà riuscire ad essere presenti, osservando i
“fattori di rischio” per intervenire in tempo e prevenire possibili derive; si dovrà cercare di essere
accanto alle persone in occasione di “eventi critici” dove è più frequente che la deriva di esclusione
prenda avvio o trovi un’accelerazione.
I “nuovi poveri” sempre più spesso sono persone che hanno avuto una “vita normale” ed ora si
trovano ad affrontare una nuova condizione nella quali si sono trovati contro la loro volontà. Ci
troviamo di fronte ad un processo che non coinvolge più solamente coloro che si collocano ai livelli più bassi
della stratificazione sociale, ma anche persone che, fino a questo momento, erano inserite nel circuito
del lavoro e del consumo e che ora si trovano a dover affrontare una situazione di precarietà ed incertezza
economica. Le certezze che hanno caratterizzato la maggior parte della vita vita di queste persone sono
crollate e i cambiamenti socio culturali hanno che spingono sempre di più all'individualismo rendono
sempre più complicata la riattivazione personale. La società e i servizi non riescono ad affrontare lo stato di
bisogno che si è creato dalla mancanza di lavoro, dalla perdita dei figli, dalla povertà culturale. Le politiche
sociali non offrono garanzie di assistenza e danno solo aiuti principalmente economici che possono
“tappare” per un breve periodo la situazione di bisogno ma probabilmente bisogna cambiare la prospettiva
di intervento. Ripartire dalla valorizzazione delle persone, riattivando le capacità e rafforzando le sicurezze
che sono venute meno a causa della perdita subita.
Laura Fruggeri e Massimo Matteini (“Povertà e Servizi sociali” pubblicato in Prospettive Sociali e Sanitarie,
XXV(3), 1995) sostengono che la povertà appare come un fenomeno dalle molteplici facce. Essa non è
soltanto legata ad una concreta mancanza di risorse materiali, ma anche ad una carenza di risorse sociali,
psicologiche e relazionali. Si coniano nuove terminologie. Le espressioni "nuove povertà" o "povertà
postmaterialistica "(Serpellon, 1982, Censis, 1979) designano condizioni di carenza di beni non materiali
presenti in settori della società, quali l'isolamento degli anziani, l'emarginazione delle minoranza etniche e
sociali, l'istituzionalizzazione dei minori, ecc. Sul piano delle soluzioni, la "povertà postmaterialistica" apre
nuovi scenari di intervento, impone l'individuazione di opportune politiche sociali e suggerisce la creazione
di reti di sostegno nel sistema della comunità locale (servizi di assistenza domiciliare agli anziani, centri
diurni per l'assistenza ai disabili, servizi di supporto alle famiglie con bambini piccoli, ecc.).
Il problema è che pur cambiando la tipologia di povertà i servizi sociali rimangono legati ad un approccio di
tipo economicistico e assistenzialistico che pongono l'utente come persona in stato di bisogno e il servizio
come il fornitore di risorse, siano esse beni materiali o sostegno psicologico o sociale.
Tre sono le idee implicite in tale impostazione:
1) non si distingue il bisogno dalla persona che si trova in stato di bisogno; ciò porta a focalizzarsi sulla
carenza che viene portata e non vengono valorizzate le risorse personali dell'utente. La relazione d'aiuto
è asimmetrica e tende a costruire processi interattivi non evolutivi
2) presuppone che la dissoluzione della condizione di bisogno sia legata ad un trasferimento di risorse
dal servizio all'utente; dare risposte puramente di tipo economico non sempre esaurisce lo stato di
bisogno che si ripresenterà successivamente in altre forme. Questo atteggiamento porta l'utente a
essere sempre più richiedente perchè non viene affrontata la causa dello stato di bisogno.
3) considera l'azione dell'operatore sociale limitatamente alla quantità e al tipo di risorse da reperire e
da mettere a disposizione dell'utente. Ci si concentra unicamente sulle risorse da mettere a
disposizione; il contesto relazionale dell'azione dell'operatore e il processo interpersonale che tale
azione contribuisce a strutturare è completamente ignorato.
I servizi sociali dovrebbero ribaltare questa visione spostando l'attenzione dal bisogno alle persone in stato
di bisogno considerando quest'ultimo come il risultato di processi psicosociali particolari. Bisogna inoltre
riconsiderare gli utenti come risorse non solo come attori passivi nel processo d'aiuto. Supportarli in questa
fase è fondamentale. Ridare forza alle persone in difficoltà non coincide solo con aiutarli economicamente
ma nell'aiutarli a riprendere in mano le redini della propria vita riaffermandosi e riconquistando una dignità
sociale.
Facendo riferimento al codice deontologico dell'assistente sociale il TITOLO II “PRINCIPI” riporta:
art 5: la professione dell'assistente sociale si fonda sul valore, sulla dignità e sull'unicità di tutte le persone,
sul rispetto del poro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà,
uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sull'affermazione dei principi di giustizia ed equità
sociali.
Art. 6: la professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse
aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo; ne valorizza l'autonomia, la soggettività, la capacità di
assunzione di responsabilità;li sostiene nel processo di cambiamento, nell'uso delle risorse proprie e della
società nel prevenire ed affrontare situazioni di bisogno o di disagio e nel promuovere ogni iniziativa atta a
ridurre i rischi di emarginazione.
Art. 7: l'assistente sociale riconosce la centralità della persona in ogni intervento. Considera e accoglie ogni
persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di u problema come unica e distinta da altre in analoghe
situazioni e la colloca entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso
antropologico-culturale che fisico.
Il TITOLO III “RESPONSABILITA' DELL'ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELLA PERSONA UTENTE E
CLIENTE” riporta:
CAPO I “diritti degli utente e dei clienti”
art. 11: l'assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere
l'autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, in quanto soggetti attivi del
progetto d'aiuto, favorendo l'instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione.
Art. 12: nella relazione d'aiuto l'assistente sociale ha il dovere di dare, tenendo conto delle caratteristiche
culturali e delle capacità di discernimento degli interessati, la più ampia informazione sui loro diritti, sui
vantaggi, svantaggi, impegni, risorse, programmi e strumenti dell'intervento professionale, per il quale deve
ricevere esplicito consenso, salvo disposizioni legislative e amministrative.
Il TITOLO IV “RESPONSABILITA' DELL'ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELLA SOCIETA'” riporta:
CAPO I “Partecipazione e promozione del benessere sociale”
art. 33: l'assistente sociale deve contribuire e promuovere una cultura della solidarietà e della sussidiarietà,
favorendo o promuovendo iniziative di partecipazione volte a costruire un tessuto sociale accogliente e
rispettoso dei diritti di tutti; in particolare riconosce la famiglia nelle sue forme ed espressione come luogo
privilegiato di relazioni stabili e significative per la persona e la sostiene quale risorsa primaria.
art. 34: l'assistente sociale deve contribuire a sviluppare negli utente e nei clienti la conoscenza e l'esercizio
dei propri diritti-doveri nell'ambito della collettività e favorire percorsi di crescita anche collettivi che
sviluppino sinergie e aiutino singoli e gruppi, soprattutto in situazione di svantaggio.
Art. 38: l'assistente sociale deve conoscere i soggetti attivi in campo sociale, sia privati che pubblici, e
ricercarne la collaborazione per obiettivi e azioni comuni che rispondano in maniera articolata e
differenziata a bisogni espressi, superando la logica della risposta assistenzialistica e contribuendo alla
promozione di un sistema di rete integrato.