ANALISI DEI PRINCIPALI DISTURBI IN ETA’ EVOLUTIVA NEL CONTESTO
SCOLASTICO
In questo capitolo verranno dapprima inquadrati i principali disturbi in età evolutiva che
maggiormente risultano inferire nel contesto scolastico, facendo riferimento ai Disturbi
dell’Apprendimento e Disturbi del Comportamento e successivamente saranno analizzate due
specifiche disabilità come la Dislessia ed il Deficit dell’Attenzione ed Iperattività per i quali, le attuali
norme cogenti riconoscono all’alunno il diritto ad una didattica flessibile e tutorata da figure di
sostegno e supporto.
Dei due disturbi vengono analizzati tutti gli aspetti clinici comprendendo in questi anche i
fattori di comorbilità con altre disabilità concorrenti.
1. Disturbo Specifico dell’Apprendimento
Il termine Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) si utilizza per indicare una
popolazione clinica, relativamente disomogenea, che presenta una difficoltà significativa e persistente
negli apprendimenti cosiddetti espliciti e per l’apprendimento scolastico di base (lettura, scrittura e
calcolo), in assenza di altre patologie (neurologiche, psichiatriche o sensoriali) ed in presenza di
adeguate opportunità di apprendimento (Stella, 2002).
Con il termine DSA ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati da
significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura,
ragionamento e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale. Con
i DSA possono coesistere difficoltà nei comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e
nell’interazione sociale, che tuttavia non costituiscono un DSA. Essi possono verificarsi in
concomitanza con altri fattori di disabilità con influenze estrinseche, ma non sono il risultato di quelle
condizioni o influenze (Hammil, 1990).
La categoria raccoglie una gamma diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e
nell’apprendimento scolastico che non rappresentano disabilità mentali gravi e definibili in base al
mancato raggiungimento di criteri attesi di apprendimento rispetto alle potenzialità generali del
soggetto (Cornoldi, 1991).
LE DISABILITA’ DEL MINORE NEL CONTESTO SCOLASTICO: DEFINIZIONE E ANALISI DEL FENOMENO E DELLE RETI DI
SOSTEGNO. INDAGINE CONOSCITIVA DELLA FIGURA DELL’AEC (Sperati, 2013)
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Grazie all’elaborazione di manuali diagnostici quali il DSM e l’ICD-10 è stato possibile
descrivere le difficoltà di apprendimento in età evolutiva in disturbi specifici dell'apprendimento
(DSA) e disturbi non specifici di apprendimento (DNSA). Grazie ad essi si può finalmente porre
un’accurata diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento solo quando, a test standardizzati di
lettura, scrittura e calcolo, il livello di una o più di queste tre competenze risulta di almeno due
deviazioni standard inferiore ai risultati medi prevedibili, oppure l’età di lettura e/o di scrittura e/o di
calcolo è inferiore di almeno due anni in rapporto all’età cronologica del soggetto, e/o all’età mentale,
misurata con test psicometrici standardizzati, nonostante una adeguata scolarizzazione. Tali disturbi
(denominati dislessia, disortografia e disgrafia, discalculia) sono sottesi da specifiche disfunzioni
neuropsicologiche, isolate o combinate. Nel DSM-IV sono inquadrati nell'Asse I come Disturbi della
Lettura, dell'Espressione Scritta e del Calcolo (DSM-IV, 1994).
Nell'ICD-10 vengono inseriti all'interno dei disturbi dello Sviluppo Psicologico con il termine
di Disturbi Specifici delle Abilità Scolastiche (DS di Lettura, di Compitazione, delle Abilità
Aritmetiche e DS misto). I disturbi non specifici di apprendimento, invece, si riferiscono ad una
disabilità ad acquisire nuove conoscenze e competenze non limitata ad uno o più settori specifici delle
competenze scolastiche, ma estesa a più settori.
Nel DSM-IV viene inoltre sottolineato che altre patologie quali il ritardo mentale, il livello
cognitivo borderline, l'ADHD, l'autismo ad alto funzionamento, i disturbi d'ansia, alcuni quadri
distimici, sono alcune tra le categorie o entità diagnostiche che causano o possono causare disturbi
non specifici dell'apprendimento. Sia il DSM-IV che l'ICD-10 prevedono anche una categoria
diagnostica denominata disturbo di apprendimento non altrimenti specificato, ovvero una categoria
residua del capitolo dei disturbi specifici di apprendimento.
Fondamentale per tale motivo risulta, prima di includere il disturbo di un bambino in questa
categoria diagnostica, escludere la presenza di una eziologia tra quelle antecedentemente citate, le
quali possono incidere negativamente sull’apprendimento e che possa di per sé giustificare il quadro
clinico.
I problemi di apprendimento, per le ragioni esplicate, condizionano la vita del bambino
disabile, incidendo negativamente sui risultati ed il percorso scolastico e relativo alle attività
quotidiane che richiedono, in particolar modo, capacità di lettura, calcolo e scrittura. Possono essere
utilizzati differenti metodi statistici per stabilire se un divario risulta significativo. Usualmente viene
definito sostanzialmente inferiore un divario minore tra i risultati ed il QI, specie nei casi in cui la
prestazione del soggetto nel test può essere stata compromessa da un disturbo associato
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dell’elaborazione cognitiva, da un disturbo mentale o da una condizione medica generale
concomitanti o dal retroterra etnico o culturale del soggetto. Nel caso in cui vi fosse un deficit
sensoriale, le difficoltà di apprendimento devono andare al di là di quelle di solito associate al deficit.
Per capire in maniera accurata l’incidenza che questa problematica causa nella vita delle
persone, basti pensare che i Disturbi dell’Apprendimento possono persistere nell’età adulta (DSMIV, 1994, 64). Tutto ciò sfata la nota e diffusa considerazione, che vigeva fino al decennio precedente,
secondo cui le difficoltà di letto-scrittura dei bambini derivano da problemi emotivi o relazionali, da
un approccio sbagliato di genitori o insegnanti, oppure da uno scarso impegno del bambino (Ibidem).
Per capire l’evoluzione dello studio e dell’analisi dei DSA, dopo aver presentato gli studi del
secolo scorso, vediamo come, in particolar modo nel contesto italiano, la sensibilità sia aumentata in
maniera proporzionale anche al livello di interesse e di analisi del fenomeno preso in esame.
Nel gennaio 2007, in un articolo redatto dalla Consensus Conference, vengono rese note le
“Raccomandazioni per la pratica clinica sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (Consensus
Conference, AID, 2007), promossa dall’Associazione Italiana Dislessia (AID), grazie alla
collaborazione di professionisti e dei rappresentanti delle principali organizzazioni che si occupano
di questi disturbi (neuropsichiatri infantili, psicologi, logopedisti, pediatri, ecc.).
Esse sono state inoltre aggiornate nel febbraio del 2011 grazie al lavoro del Panel di
Aggiornamento e Revisione della Consensus Conference (PARCC), la quale ha fatto richiesta di
approvazione al Sistema Nazionale delle Linee Guida (DSA Documento d’intesa, PARCC, 2011).
Le raccomandazioni per la pratica clinica sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento
prevedono che la principale caratteristica di definizione di questa “categoria nosografia”, è quella
della “specificità”, intesa come un disturbo che interessa uno specifico dominio di abilità in modo
significativo ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale (Consensus
Conference, AID, 2007).
In questo senso, secondo le nuove raccomandazione proposto dalla Consensus Conference, il
principale criterio necessario per stabilire la diagnosi di DSA è quello della “discrepanza” tra abilità
nel dominio specifico interessato (deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata)
e l’intelligenza generale (adeguata per l’età cronologica).
Lentamente lo studio dei DSA si è orientato, come per tutti i disturbi di sviluppo, secondo due
linee di ricerca: da un lato attraverso l’analisi trasversale di ampie popolazioni in modo tale da definire
in modo più preciso le caratteristiche neuropsicologiche del disturbo e l’esistenza di eventuali
sottogruppo clinici; dall’altro studi longitudinali di casi singoli o casistiche, analizzando l’evoluzione
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del disturbo settoriale e sulla sua influenza sullo sviluppo complessivo del bambino (DSA Documento
d’intesa, PARCC, 2011).
Considerato che un disturbo di apprendimento rappresenta un avvenimento vitale per un
bambino o un adolescente e anche per la sua famiglia, il disturbo specifico dell’apprendimento
diviene in grado di innescare reazione psicologiche che possono ulteriormente accentuare il disturbo
stesso, poiché sono in grado di interferire con il trattamento educativo stesso, possono ostacolare la
qualità del successivo andamento e possono rappresentare un fattore di rischio psicopatologico.
Per tale motivo si pone una particolare attenzione all’intreccio degli aspetti emotivi e cognitivi
che rappresentano spesso il cardine di ogni intervento riabilitativo (Masi et al., 1993).
Per ottenere un’adeguata analisi dei DSA, alla luce del percorso intrapreso, ritengo opportuno
avere un approccio di tipo psicopatologico, avvalendoci dei concetti espressi nel DSM-IV e nell’ICD10, poiché consentono una specifica analisi e definizione della struttura psicologica di un soggetto
con disturbi di apprendimento, in particolar modo della sua organizzazione funzionale e mentale.
Partendo dal presupposto che l’apprendimento viene considerato la funzione biologica per
eccellenza mentre l’intelligenza è la funzione di vertice della specie umana che sottintende tutte le
altre, dunque un malfunzionamento di queste aree ci obbliga a prendere in esame l’insieme dei
parametri che condizionano la vita mentale del bambino disabile (Stella, 2002).
La patologia è costituita da arresti e rallentamenti di sviluppo spesso precoci, o regressioni di
meccanismi amputanti o pervasivi. Si ottiene di conseguenza una distorsione primitiva o secondaria
dello sviluppo epistemico con riduzione dell’energia necessaria alla conoscenza.
In realtà la lettura e la scrittura sono così facili da acquisire che per un soggetto normodotato
ne risulta più difficile non imparare o resistere all’apprendimento piuttosto che appropriarsi di queste
abilità. Considerando che molti soggetti con deficit cognitivo di grado medio riescano ad imparare la
letto-scrittura, viene a confermarsi che l’acquisizione del codice scritto non richiede particolari
requisiti cognitivi (Ibidem).
In sintesi, la difficoltà a leggere e a scrivere è spesso indicativa della presenza di una difficoltà
specifica che riguarda determinati processi e abilità senza tuttavia includerne tutti gli ambiti del
funzionamento cognitivo.
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1.1. Tipi e classificazioni
Per garantire una corretta ed accurata analisi del fenomeno garantendo la classificazione dei
disturbi dell’apprendimento prenderemo in riferimento, in particolar modo, il DSM-IV e l’ICD10, in
quanto deputati allo studio minuzioso del disturbo da noi esaminato. Secondo tali manuali esistono
tre tipi principali di disturbi dell’apprendimento:
-
il disturbo specifico di lettura;
-
il disturbo specifico di scrittura;
-
il disturbo specifico del calcolo (DSM-IV, 1994).
Il disturbo specifico di lettura (dislessia evolutiva), è caratterizzato dalle difficoltà del
bambino nel comprendere i suoni delle lettere e nel riconoscere le parole, con problemi di memoria
e di linguaggio. Il secondo disturbo è rappresentato dai disturbi specifici di scrittura caratterizzando
nel bambino problemi di disortografia e disgrafia. Infine presentiamo i disturbi specifici del calcolo,
ovvero la discalculia, caratterizzati dall’incapacità evolutiva di produzione o “disturbo di scrittura e
aritmetica”, la quali causano anche problematiche nel calcolo, nella scrittura e spesso nello spelling.
Dopo aver presentato sinteticamente la classificazione dei DSA passiamo ora ad approfondire
ciascuna delle diverse tipologie. Per quanto concerne l’esame del processo di scrittura si richiede la
valutazione delle componenti disortografiche e disgrafiche. Per la diagnosi di disortografia, connessa
con disturbi dell'area linguistica, vale la regola di una quantità di errori ortografici che difettano in
misura uguale o superiore alle due deviazioni standard rispetto ai risultati medi dei bambini che
frequentano la stessa classe scolare.
La disgrafia, invece, sembra essere conseguenza di disturbi di esecuzione motoria di ordine
disprassico quando non fa parte di un quadro spastico o atassico o extrapiramidale. Anche per i
disturbi di apprendimento della scrittura sono riconosciuti sottotipi correlati a fattori linguistici
(disortografia) e a fattori visuo-spaziali (disortografia, disgrafia) e, inoltre, viene delineata una forma
di difficoltà della scrittura dovuta a disturbi di esecuzione motoria, di ordine disprassico (disgrafia).
Il terzo tipo di disturbo è chiamato disturbo di deficit attentivo e comporta difficoltà di concentrazione
e di controllo dell’impulso.
La diagnosi di discalculia non può essere formulata prima della III elementare, anche se già
nel primo ciclo elementare possono essere rilevate discrepanze fra le capacità cognitive globali e
l'apprendimento del calcolo numerico (che comprende la numerazione bidirezionale, la transcodifica,
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il calcolo mentale, l'immagazzinamento dei fatti aritmetici, il calcolo scritto). La valutazione si
riferisce alla correttezza e soprattutto alla rapidità.
L'efficienza del problem solving matematico non concorre alla diagnosi di discalculia
evolutiva, ma appare correlato al livello delle competenze cognitive o al livello di competenza
linguistica. Per la discalculia sono individuati diversi tipi di disabilità che riguardano: la
processazione dei numeri, cioè il riconoscimento dei simboli numerici e la capacità di riprodurli
graficamente e organizzarli nello spazio, il sistema del calcolo con l’utilizzazione di procedure per
eseguire le operazioni matematiche, e la risoluzione dei problemi aritmetici che comporti l’analisi dei
dati e l’organizzazione del piano di lavoro.
Per avere un’idea dell’evoluzione degli studi effettuati nella seconda metà del secolo scorso,
con la conseguente visione del fenomeno presentiamo il lavoro di Boder che nel 1973, compie un
studio estensivo sugli errori di lettura in un gruppo di dislessici, arrivando a classificarli in tre distinte
categorie: disfonetici; diseidetici, misti. I disfonetici rappresentavano il 70% del campione,
presentando un pattern di errori compatibile con un deficit nella processazione fonologica. I
diseidetici, invece, manifestavano un pattern di errori di natura visiva. I misti, infine, evidenziavano
errori compatibili ad ambedue le categorie precedenti. L’autore conclude la sua indagine asserendo
che il gruppo dei misti rappresentava i casi più gravi assumendo peculiarità più enigmatiche rispetto
all’eziologia del disturbo (Boder, 1973).
Le principali differenze tra sottotipi, da cui sembrano derivare incongruenti associazioni,
dipendono dal fatto che mentre alcune classificazioni tra quelle derivate con metodi indiretti, cioè a
partire da modelli neuropsicologici, attribuiscono un nome al sottotipo in base alla funzione
“vicariante” (cioè il dominio cognitivo che in quel sottotipo è funzionalmente conservato), altre
classificazioni, tra cui quella di Boder (basata su un approccio diretto) utilizzano una tassonomia
descrittiva.
In questo secondo caso il sottotipo è denotato da un termine che indica il deficit
neuropsicologico o il dominio funzionale selettivamente colpito. Nonostante le differenze tuttavia
risulta evidente che, rispetto al fenotipo clinico, la maggior parte dei lavori individua due aree
funzionali coinvolte nel processo di lettura selettivamente colpite nei bambini dislessici,
grossolanamente corrispondenti a quelle che Boder chiama canale visivo e canale uditivo.
Attraverso l’approccio diretto è possibile ottenere una definizione operativa di dislessia come
un disturbo della lettura in cui le performance di lettura e scrittura mostrano l’esistenza di deficit
cognitivi nella funzione visivo-gestaltica, in quella uditivo analitica od in entrambe. Questa
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definizione, unitamente con i sottotipi identificati risulta compatibile con buona parte delle
descrizioni effettuate con il metodo indiretto: da ciò risulta evidente che la dislessia costituisca
un’entità nosologica definita da un pattern di deficit cognitivi specifici, le cui caratteristiche cliniche
dipendono da un equilibrio dinamico tra task cognitivi ascrivibili rispettivamente al canale visivo
gestaltico e uditivo-analitico.
Nella dislessia disfonetica è presente una disabilità fonologica connessa a volte con un
disturbo del linguaggio. Numerosi soggetti con dislessia di questo sottotipo presentano all’anamnesi
disturbi del linguaggio espressivo ed alcuni anche di quello recettivo, con evoluzione positiva per
quanto concerne l’eloquio per la maggior parte dei casi, ma persistenza di difficoltà di ordine
fonologico, morfologico e sintattico in merito all’apprendimento della lingua scritta.
I bambini con dislessia disfonetica mostrano difficoltà nell’analisi fonologica della parola e
nell’integrazione simbolo-suono (difficoltà a compitare foneticamente, a suddividere in suoni e
sillabe le parole); presentano errori di discriminazione uditiva, omissione-inversione-sostituzione di
lettere-sillabe, errori di analisi sequenziale uditiva.
Questi bambini leggono frettolosamente, tentano di leggere le parole utilizzando minimi
indizi, di solito dalla prima o dall’ultima sillaba, non si correggono quando sbagliano e pronunciano,
a volte, parole senza senso. Anche la scrittura risente di questa modalità di lettura. Gli errori più
frequenti sono: difficoltà nella corrispondenza grafema-fonema, inserimento od omissione di sillabe
e lettere, scambio di grafemi. Per la frequenza elevata di errori che compaiono immediatamente
all’inizio dell’apprendimento della lettura e scrittura, vengono solitamente individuati ed inviati ai
Servizi, molto tempo prima dei bambini dislessici diseidetici.
La dislessia diseidetica è sottesa da disturbi visuo-percettivi, cioè difficoltà nel riconoscere le
parole così come appaiono, nella memoria visiva di lettere e parole, nell’analisi sequenziale visiva; i
soggetti con questo sottotipo di dislessia compiono errori di tipo speculare, inversioni di lettere e
sillabe. Sono dei lettori lenti, ma accurati, tendono a sillabare tutte le parole come se le vedessero per
la prima volta. Nella scrittura sono accurati e gli errori ortografici sono comunque dei buoni
equivalenti fonetici. Possono però essere presenti inversioni di sillabe e lettere, inversioni visuospaziali ed inversioni di lettere visivamente simili. Per queste caratteristiche di lettura e scrittura non
vengono segnalati precocemente dalle scuole. Ciò avviene, di solito, alla fine della quinta elementare
oppure in prima media, quando le richieste scolastiche diventano maggiori delle capacità del
bambino. La dislessia mista comprende l’associazione delle difficoltà uditive e visive.
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Per la misurazione di questi disturbi dell’apprendimento vengono utilizzati diversi tipi di test,
in modo tale da garantire una visione specifica della problematica e garantire una valutazione accurata
di un bambino per un possibile disturbo di lettura il quale potrebbe includere una valutazione delle
abilità di riconoscimento delle parole.
Quest’ultime sono, infatti di rilevanza fondamentale, in quanto rappresentano le basi per
comprendere il significato a partire dalla decifrazione ed è importante conoscere se le abilità in questa
area sono significativamente sotto la media (Stanovich, 1982). Una valutazione potrebbe includere
un test di lettura che preveda la lettura di quelle che sono chiamate non-parole. Esse sono
combinazioni pronunciabili di lettere Inglesi che possono essere suoni che non rispettano le regole
fonetiche fondamentali.
Questo tipo di test valuta la consapevolezza fonemica che è la chiave per decodificare parole
in un sistema alfabetico come l’Inglese (Stella, 2002). Si possono utilizzare inoltre test di spelling
con parole dettate al bambino, test di calcolo aritmetico per determinare cosa il bambino conosce
delle operazioni aritmetiche fondamentali. Questi test vanno ad analizzare le prestazioni comparate
all’età e non al livello del raggiungimento scolastico e se un bambino presenta un basso livello di
conseguimento ai test è appropriato considerale questo problema come disturbo d’apprendimento.
Può, tuttavia, risultare doveroso analizzare altre ragioni per le basse prestazioni dovute a diverse cause
come, per esempio, la presenza di gravi disturbi emotivi o problemi neurologici.
Per identificare la presenza di un disturbo dell’apprendimento ci si avvale anche dell’ausilio
de Il Test dell’Intelligenza (QI test) definito come la base del processo di valutazione nella definizione
dei DSA, in quanto tale definizione richiede che un bambino abbia un’intelligenza nella media o sopra
la media (Ibidem). Inoltre vi deve essere la presenza di una sostanziale discrepanza tra il potenziale
QI ed i livelli di profitto conseguito nel periodo di scolarizzazione. In sintesi le abilità di lettura e di
calcolo devono essere significativamente inferiori a ciò che potrebbe essere predetto dal punteggio
del QI.
Nel 2007 la Consensus Conference, durante “Raccomandazioni per la pratica clinica sui
Disturbi Specifici dell’Apprendimento”, viene evidenziato come accanto al profilo della dislessia
intesa come disturbo specifico della decodifica vi sia anche l’accezione di disturbi della comprensione
del testo scritto indipendenti sia dai disturbi di comprensione da ascolto che dagli stessi disturbi di
decodifica. Inoltre sottolinea che riguardo all’età minima in cui è possibile effettuare la diagnosi, essa
dovrebbe teoricamente coincidere con il completamento del 2° anno della scuola primaria (2^
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elementare), dal momento che questa età coincide con il completamento del ciclo dell’istruzione
formale del codice scritto (Consensus Conference, AID, 2007).
Entro questa età l’elevata variabilità inter-individuale nei tempi di acquisizione non consente
un’applicazione dei valori normativi di riferimento che abbia le stesse caratteristiche di attendibilità
riscontrate ad età superiori. Ciò nonostante, è importante sottolineare che già alla fine del 1° anno
della scuola primaria (1^ elementare) si può capitare di valutare bambini con profili funzionali
compromessi con la presenza di altri specifici indicatori diagnostici (pregresso disturbo del
linguaggio, familiarità accertata per il disturbo di lettura), che si ritiene utile anticipare i tempi della
formulazione diagnostica, o comunque, di una ragionevole ipotesi diagnostica, prevedendo necessari
momenti di verifica successivi.
Esiste un generale consenso sul fatto che il disturbo specifico di lettura modifica la sua
espressione nel tempo. Si sottolinea, tuttavia, che la diversa espressività del disturbo nel tempo, anche
in relazione alle diverse fasi di acquisizione dell’abilità di lettura, andrebbe maggiormente
documentata e dettagliata. Riguardo alla diversa espressione del disturbo tra i soggetti, al momento
non è stato possibile definire con chiarezza dei “sottotipi” unanimemente condivisi.
Nella Consensus Conference si tratta del Disturbo della Scrittura suddividendola in due
componenti: una di natura linguistica (deficit nei processi di cifratura) e una di natura motoria (deficit
nei processi di realizzazione grafica). Anche nel caso della scrittura, è necessario somministrare prove
standardizzate. Il Disturbo di Scrittura può presentarsi in isolamento (raramente) o in associazione
(più tipicamente) ad altri disturbi specifici. Al fine di descrivere questa possibile co-occorrenza di più
disturbi, senza stabilire una gerarchia tra gli stessi, si propone di utilizzare la dicitura estesa “Disturbo
Specifico di Apprendimento della Lettura e/o della Scrittura (grafia e/o ortografia) e/o del Calcolo”.
Per quanto concerne il Disturbo del Calcolo, invece, esso si distingue nella Discalculia da i
differenti profili connotati da debolezza nella strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione
numerica (cioè intelligenza numerica basale: subitizing, meccanismi di quantificazione,
comparazione, seriazione, strategie di calcolo a mente) ed altri che coinvolgono procedure esecutive
(lettura, scrittura e messa in colonna dei numeri) ed il calcolo (recupero dei fatti numerici e algoritmi
del calcolo scritto).
Anche per il Disturbo Specifico del Calcolo, come per quelli della lettura e della scrittura, vi
è un generale accordo sulla necessità di somministrare prove standardizzate che forniscano parametri
per valutare la correttezza e la rapidità, attesi per l’età e/o classe frequentata nelle prove specifiche.
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Per la valutazione delle competenze di cognizione numerica si raccomanda di tenere conto soprattutto
del parametro rapidità (Ibidem).
Per l’analisi dei disturbi della cognizione numerica si raccomanda l’individuazione precoce di
soggetti a rischio tramite l’analisi di eventuali ritardi nella acquisizione di abilità inerenti alle
componenti di intelligenza numerica (possibile già in età prescolare).
L’analisi dei disturbi delle procedure esecutive e di calcolo si concorda con la prassi comune
di definire l’età minima per porre la diagnosi non prima della fine del 3° anno della scuola primaria
(3^ elementare), soprattutto per evitare l’individuazione di molti falsi positivi. Anche il Disturbo del
Calcolo può presentarsi in isolamento o in associazione (più tipicamente) ad altri disturbi specifici.
Come già specificato in precedenza si propone di utilizzare la dicitura estesa “Disturbo Specifico di
Apprendimento della Lettura e/o della Scrittura (grafia e/o ortografia) e/o del Calcolo”, per
caratterizzare queste diverse possibilità (Ibidem).
1.2. Dislessia, analisi e definizione
La dislessia, maggiormente studiato tra i DSA, è per la maggior parte espressione di un
qualche difetto delle funzioni corticali superiori (Mattis, 1978), che causa differenti problematiche e
per tale motivo si ritiene doveroso affrontare la problematica attraverso uno studio ed un approccio
di ricerca multidisciplinare. La dislessia è un’incapacità, o almeno una anormale difficoltà di
apprendimento della lettura, che ha i suoi caratteri specifici (Stella, 2002).
In alcuni casi i disturbi di lettura sono stati considerati come l’espressione di un deficit di
processamento uditivo (Tallal et al. 1991), in altri implicati da un deficit visivo e visuo-spaziale
(Pavlidis, 1985) oppure come espressione di deficit dei processi fonologici (Temple & Marshall,
1983) e meta fonologici (Lovett, 1992) o come il risultato di un deficit meno specifico ma altrettanto
significativo dei processi di automatizzazione (Nicholson & Fawcett, 1990).
La dislessia, quindi, non dipende da cause organiche, si stabilisce su un insieme di
insufficienze funzionali diversamente associate o isolate, quali, appunto, le insufficienze del
linguaggio, della capacità motoria, dello schema corporeo, dell’organizzazione spazio-temporale e
del ritmo, poiché si innesta su un ritardo della maturazione nei diversi campi causando un ritardo che
comporta un deficit strumentale sul piano del linguaggio scritto.
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Agli inizi degli anni ’90 viene proposto lo studio di Castel e Coltheart (1993) i quali hanno
descritto la dislessia come un disturbo derivante dal deficit di alcune componenti del sistema di lettura
attribuibile al cattivo funzionamento di moduli innati predisposti per questo tipo di apprendimento,
introducendo quindi ipotesi genetiche per spiegare l’origine di queste difficoltà.
Nel 1999 due autori (Biancardi e Milano) propongono un’ulteriore definizione terminologica
della “sindrome dislessica” la quale comprende oltre alla dislessia (difficoltà di lettura) anche i
disturbi come disgrafia (cattiva grafia), disortografia (frequenti errori ortografici), discalculia
(difficoltà nel calcolo e nella manipolazione dei numeri).
In sintesi, con il termine dislessia si intende uno specifico disturbo dell’apprendimento di
origine neurobiologica che si presenta in assenza di disabilità neurologiche o sensoriali e di condizioni
socioculturali svantaggiate. Essa si caratterizza principalmente per la difficoltà di automatizzazione
(velocità) e correttezza della lettura, tuttavia si ritiene doveroso considerarla come un disturbo
evolutivo complesso con una base biologica che produce una certa familiarità: spesso si trova
all’interno della famiglia del bambino dislessico un parente che condivide le stesse problematicità
(Marzocchi, 2011, 20).
Il DSM-IV pone come caratteristica fondamentale del Disturbo della Lettura (definita appunto
dislessia) il livello di capacità di leggere raggiunto (precisione, velocità, comprensione della lettura
misurate da test standardizzati somministrati individualmente) che si situa sostanzialmente al di sotto
di quanto ci si aspetterebbe data l’età cronologica del soggetto, la valutazione psicometrica
dell’intelligenza, e un istruzione adeguata all’età.
L’anomalia della lettura interferisce sostanzialmente con l’apprendimento scolastico o con le
attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura. Se risulta presente un deficit
sensoriale, la difficoltà nella lettura vanno al di là di quelle di solito associate con esso. Nei soggetti
con Disturbi della Lettura, la lettura orale è caratterizzata da distorsioni, sostituzioni o omissioni. Sia
la lettura orale che quella a mente sono caratterizzate da lentezza ed errori di comprensione.
Secondo i dati presente nel DSM-IV circa il 60-80% dei soggetti a cui viene diagnosticato un
Disturbo della Lettura sono maschi e molto spesso le procedure di segnalazione risultano fuorvianti
rispetto all’identificazione dei maschi poiché essi evidenziano, molto spesso, comportamenti
dirompenti in associazione con i Disturbi dell’Apprendimento. Si è riscontrato che il disturbo si
manifesta in percentuale più bilanciata tra maschi e femmine quando si usa una valutazione
diagnostica attenta e criteri rigorosi piuttosto che la segnalazione da parte della scuola e le procedure
diagnostiche tradizionali (DSM-IV, 1994, 66).
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La prevalenza del Disturbo della Lettura è difficile da stabilire perché molti studi sono centrati
sulla prevalenza dei Disturbi dell’Apprendimento senza un’accurata distinzione in disturbi specifici
della Lettura, del Calcolo, o dell’Espressione Scritta i quali rappresentano circa 4 casi su 5 di Disturbo
dell’Apprendimento (Ibidem).
A livello sintomatologico le difficoltà di lettura possono insorgere già nel periodo dell’asilo,
ma raramente viene diagnosticato in questa fase o all’inizio delle scuole elementari poiché
l’insegnamento formale della lettura di solito non inizia prima di questo livello nella maggior parte
degli ambienti scolastici, soprattutto nei casi in cui il Disturbo di Lettura è associato ad un QI alto.
Infatti il bambino può “funzionare” al livello della classe o quasi ed il disturbo può non essere
completamente visibile fino alla quarta elementare e oltre.
Gli studi sull’eziologia della dislessia evolutiva (DE), ovvero l’emergere del disturbo
all’inizio del processo di scolarizzazione, mostrano che la causa più frequente è la presenza di
difficoltà di lettura anche in alcuni membri della famiglia, in particolare da uno dei due genitori (Stella
et al., 2001), registrando, infatti in circa il 65% dei casi di Dislessia Evolutiva una familiarità per lo
stesso disturbo.
La dislessia evolutiva è un disturbo strumentale accompagnato spesso da difficoltà nella
scrittura e nei processi di letto-scrittura del numero e del calcolo. Si manifesta in soggetti privi di
disturbi neurologici, sensoriali, cognitivi, relazionali e risulta presente nonostante essi abbiamo avuto
normali opportunità scolastiche. Il dislessico evolutivo presenta:
- QI nella norma,
- lettura ad alta voce molto stentata,
- difficoltà ortografiche,
- difficoltà nella scrittura dei numeri,
- difficoltà di apprendimento delle tabelline e del calcolo mentale,
- instabilità motoria e/o disturbi di attenzione.
Si ritiene fondamentale riportare ciò che tali soggetti non presentano:
- difficoltà di ragionamento,
- difficoltà di comprensione delle spiegazioni orali,
- difficoltà di comprensione del testo (De Granndis, 2007, 13).
La dislessia evolutiva si accompagna quindi alle disortografie, ossia a difficoltà nel realizzare
i processi di correzione automatica del testo. Gli errori ricorrenti del dislessico sono di tipo fonologico
(scambi, omissioni-aggiunte, inversioni di regole) e/o di tipo grafemico (errori di regole, doppie,
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attaccatura-staccatura delle parole), i quali rappresentano gli errori maggiormente riscontrati a una
modificazione dell’apprendimento (Ibidem).
Castel e Coltheart, in linea con gli autori precedentemente citati, partono dall’ipotesi che per
la lettura esistano moduli innati, ovvero di capacità computazionali geneticamente prespecificate,
ipotizzando che la dislessia derivi dalla frattura selettiva di uno o più di questi moduli (Stella, 2002).
Negli stessi anni viene proposta una seconda ipotesi, presentata negli stessi anni, in contrasto
con la prima, poiché considera l’acquisizione di questa abilità come il risultato di un processo di
specializzazione funzionale che si conclude con una modularizzazione, una vera e propria
compilazione di un programma di esecuzione automatica di una serie di microprocessi, ma che
inizialmente non poggiano su componenti prespecificate per un unico compito (Karmiloff & Smith,
1992). Tuttavia questo approccio non pone in discussione la base genetica della dislessia, ma discute
il fatto che la restrizione genetica possa riguardare aspetti cosi specifici. Si ipotizza, quindi, che la
predisposizione riguardi i processi di codifica in generale, invece di coinvolgerne solo uno in
particolare.
I dati sulla comparsa a grappolo dei DSA e sul rapporto tra i disturbi specifici del linguaggio
e DSA evidenziano l’alta frequenza di disturbi di codifica piuttosto che compromissioni molto
settoriali, il che sembra confermare la seconda ipotesi (Brizzolara e Stella, 1995). Il problema dello
studio della dislessia sembra infatti scaturito dai differenti modelli di interpretazione, visto i diversi
approcci che determinano differenti classificazioni dei sottotipi di dislessia.
Una maggiore coerenza si scopre invece nei modelli più trasversali che ipotizzano che i deficit
nei processi di automatizzazione (Nicholson e Fawcett, 1994 a e b), o in altri in cui si attribuiscono
alle difficoltà di processa mento rapido di stimoli acustici (Merzenich et al., 1996) o visivi (Casco,
1993; Slaghuis et al., 1993) le difficoltà di acquisizione del codice scritto. Questi ultimi contributi
offrono un’interessante visione ai cosiddetti “ritardi di sviluppo” sia del linguaggio sia della lettoscrittura ed inoltre ai successivi deficit di automatizzazione.
Tali ricerche pongono come obiettivo primario la dimostrazione che alla base delle difficoltà
di apprendimento della lettura vi sarebbe una difficoltà dei soggetti, da loro esaminati, come elementi
dinamici di un processo. Il deficit responsabile della DE agirebbe sulla risoluzione temporale di eventi
percettivi e sull’organizzazione temporale di azioni coordinate (Lovegrove, 1993).
I DSA hanno la caratteristica di permanere nel tempo, tuttavia la compromissione funzionale
dei diversi sistemi quali la scrittura, lettura e calcolo, presenta un percorso diverso a seconda dalla
diversa struttura dei processi che li sottendono. Ciò significa che una persona dislessica mantiene
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un’efficienza di lettura diversa da un pari livello di educazione accademica anche dopo molti anni di
attività (Wolff et al., 1990; Klicpera e Schamann, 1993).
Questo rappresenta per il dislessico l’impossibilità di “guarire”, poiché la dislessia non è una
malattia, poiché è la conseguenza funzionale di una peculiare architettura neurofisiologica, neuro
biochimica o immuno-neuro-endocrina che in quanto tale non è modificabile.
Tuttavia si ritiene opportuno precisare che, talvolta, i bambini con DSA non mostrano
difficoltà nelle capacità cognitive, riuscendo di fatto ad assolvere con discreto successo alle funzioni
per le quali le loro abilità specifiche sono scadenti. Si possono incontrare casi in cui il bambino non
riesce a decifrare bene, ma capisce bene il testo, oppure bambini che risolvono problemi aritmetici
intuitivamente senza essere tuttavia in grado di scriverlo.
Dunque il disturbo di apprendimento si considera specifico nel senso che esso riguarda
specificamente alcuni aspetti di codifica e decodifica senza compromettere i processi strategici di
comprensione e di composizione del testo o di soluzione di problemi.
L’evoluzione naturale dei DSA non può essere trattata come fenomeno unico vista la diversità
dei singoli processi (lettura, scrittura, sistema dei numeri e calcolo), poiché la natura stessa di questi
compiti influisce in maniera diversa nello sviluppo. Ciò può spiegare il fatto che esistano differenti
strutture del compito tra le varie abilità che potrebbe contribuire a spiegare la differenzazione dei
profili come effetto dello sviluppo.
La letto-scrittura appare sin da subito abbastanza evidente, poiché per leggere e scrivere una
parola le unità sub lessicali da considerare sono molteplici. In seguito il processo di automatizzazione
grazie al raggruppamento delle sequenze ricorrenti (clusters), il processo si semplifica.
Nella scrittura del numero, invece, succede il contrario poiché all’inizio si scrivono numeri
piccoli con pochi elementi, che richiedono scarso impegno sequenziale e sintattico, mentre in seguito
il carico aumenta. Questo fenomeno è conosciuto come reading-arithmetic disparity (Whitehurst e
Fischel, 1993).
Di conseguenza l’evoluzione dei disturbi va analizzata in modo separato per ciascuna abilità.
Nel 1993 Klicpera e Schabmann propongono uno studio longitudinale sull’evoluzione della lettura e
della scrittura su un campione di 458 bambini austriaci seguiti dalla 2° elementare alla 3°.
Grazie a questi autori si può osservare l’andamento delle due abilità nel corso del periodo di
scolarizzazione obbligatoria. Vengono considerate separate le evoluzioni delle componenti di rapidità
e correttezza. Emerge che se pur l’andamento complessivo rappresenta un generale incremento di
velocità, le differenze tra i diversi gruppi selezionati rimangono inalterate nel corso dello sviluppo.
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Con tali risultati si evidenzia che i dislessici della 2° elementare e della 3° media mantengono
la stessa differenza di velocità nella lettura rispetto alla media e ai lettori normodotati. Le differenze
nella correttezza di codifica, ovvero la percentuale di errori commessi nel corso della lettura, si
riducono invece sensibilmente nel corso degli anni.
Questo miglioramento sarebbe un effetto della familiarizzazione con i patterns ortografici,
tuttavia, bisogna osservare che il gruppo dei bambini con DSA non raggiunge nemmeno in 3° media
il livello di correttezza che i lettori normodotati mostravano in 2° elementare. Questo perché l’effetto
dell’aumento della complessità ortografica si ripercuote negativamente su coloro che presentano
difficoltà di scrittura e lettura.
Uno studio effettuato da Stella e Biancardi (1992) su 24 soggetti con DE seguiti fino al termine
della scuola media inferiore, ne risulta che almeno 20 bambini hanno ricevuto una bocciatura, alcuni
di questi almeno due volte, specialmente durante il periodo della scuola media inferiore. Ciò fa
supporre che i bambini con DE, in questa fase, subiscono maggiormente l’influsso negativo della loro
problematica e sembra confermare la rilevanza che questo disturbo ha durante le diverse tappe della
scolarizzazione.
In questo studio, inoltre, vengono analizzate e ricercate eventuali correlazioni tra Q.I.,
provenienza familiare, il sesso, e l’insuccesso scolastico, ma in nessuna di queste sembra riscontrarsi
un fattore che abbia un effetto specifico sulla storia scolastica. I dislessici sono dunque candidati
all’insuccesso scolastico con una probabilità molto superiore rispetto alla media dei coetanei, già sin
dalle prime fase del periodo di scolarizzazione. Studi più recenti (Facoetti e Lorusso, 2000)
sostengono che la dislessia evolutiva abbia a livello biologico, un’eziologia neurologica. Si
tratterebbe dunque di un disturbo associato all’anormale sviluppo neurologico di entrambe le strutture
e le funzioni cerebrali.
Essa ha, inoltre, origine nella famiglia poiché i fattori di rischio ereditabili variano dal 23 al
65%. Per esempio se si prendono in considerazione le famiglie con gemelli omozigoti, se uno dei due
è dislessico, risulta molto probabile che anche l’altro lo sia, piuttosto che nei casi di un gemello
dizigote. Gli studi genetici hanno identificato i possibili cromosomi compromessi: il 6 e il 15. Le
indagini neurobiologiche evidenziano differenze nella corteccia temporo-parietale tra soggetti con
dislessia e soggetti non affetti (Stella, 2002).
Tuttavia, essendo la lettura un processo di decodifica di simboli in sequenze fonemiche di
suoni, essa presuppone sia abilità visuo-percettive sia abilità linguistiche, ipotizzando quindi un
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deficit in ambedue le sfere. In un articolo dell’Espresso del 1 giugno del 2000, secondo Ovadia, il
periodo di manifestazione dei “segnali-spia” del disturbo variano a seconda dell’età:
-
tra i 3-4 anni se il bambino non riesce a tenere in mano un libro, non differenzia i segni e i
disegni dalle lettere, non sa riconoscere il proprio nome se scritto, presenta un vocabolario
limitato,
-
tra i 5-6 anni se il bambino non è in grado di individuare i suoni che compongono una parola,
se è lento nel nominare oggetti familiari o colori,
-
tra i 6-8 anni se si lamenta del fatto che leggere è più facile per i compagni che per lui, non sa
proprio come decodificare parole sconosciute, ha risultati scolastici molto inferiori alla media
della classe, evita di leggere,
-
tra gli 8-10 anni se il ragazzo comincia a rinchiudersi in se stesso o ha altri comportamenti
anormali, sembra indovinare le parole che non conosce usando strane strategie di lettura, si
concentra così tanto nel decodificare le parole che perde il senso di ciò che sta leggendo.
La commissione sulla Dislessia del Consiglio Superiore di Sanità dell’Olanda (1997) propone,
infatti, un periodo di osservazione con strumenti sistematici di almeno sei mesi nel corso dei primi
anni di scolarizzazione, consigliando per chi evidenziasse tali problematiche, servizi sanitari per una
diagnosi specializzata.
1.3. Comorbidità con altri disturbi
La condizione di dislessia spesso è associata ad altri disturbi evolutivi, quali disortografia,
discalculia, disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbi del comportamento o dell’umore
(demoralizzazione), scarsa autostima e deficit nelle capacità sociali.
Si ritiene opportuno sottolineare come la dislessia sia un disturbo in cui il sistema cognitivo
ha una serie di debolezze: nella ricerca visiva strategica, nella focalizzazione degli stimoli,
nell’apprendimento per appaiamento che risulta necessario all’acquisizione del processo di
conversione grafema-fonema, nella fusione e manipolazione, nella memoria di suoni, nel recupero
immediato di stringhe lessicali (Marzocchi, 2011, 20-21). Proprio queste debolezze possono essere
la causa principale delle comorbidità precedentemente citate.
La percentuale dei bambini o adolescenti con DA che abbandonano la scuola è stimata intorno
al 40%. Gli adulti con DA possono avere notevoli difficoltà nel lavoro o nell’adattamento sociale.
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Molti dei soggetti (10-25%) con Disturbo della Condotta, Disturbo Oppositivo Provocatorio,
Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Disturbo Depressivo Maggiore, o Disturbo Distimico
sono affetti anche da Disturbi dell’Apprendimento (DSM-IV, 1994, 64). Inoltre esistono verifiche
che i ritardi di sviluppo del linguaggio possono insorgere in associazione con i DA (specie con il
Disturbo della Lettura), anche se questi ritardi possono non essere sufficientemente gravi da
giustificare la diagnosi separata di Disturbo della Comunicazione. I DA possono, inoltre, essere
associati ad una più alta incidenza del Disturbo di Sviluppo della Coordinazione o ad una varietà di
condizioni mediche generali come avvelenamento da piombo, sindrome fetale da alcool, o sindrome
dell’X fragile (Ibidem).
In particolar modo lo studio della DE viene influenzato maggiormente dalla ricerca delle
componenti specifiche del disturbo, investigando in questo modo l’architettura neuro-psicologica del
processo di lettura. Nei bambini i disturbi di lettura tendono a presentarsi associati a disturbi di
scrittura quali la disortografia, che compromette l’utilizzazione del codice ortografico; la disgrafia
che causa difficoltà di realizzazione dei pattern motori; la discalculia associata ai disturbi del calcolo
e del sistema dei numeri.
L’ICD-10 codifica il disturbo di lettura con F81.0 e assegna la diagnosi anche in associazione
al disturbo specifico della compitazione (disortografia). Per consentire un’accurata comprensione dei
disturbi di scrittura si ritiene doveroso utilizzare il DSM-IV il quale asserisce che la caratteristica
fondamentale del Disturbo dell’Espressione Scritta è una capacità (misurata con test standardizzato
somministrato individualmente o con una valutazione funzionale delle capacità di scrittura) che si
situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, alla
valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione adeguata all’età.
L’anomalia dell’espressione scritta interferisce notevolmente con l’apprendimento scolastico
o con le attività di vita quotidiana che richiedono capacità di scrittura. Se è presente un deficit
sensoriale, le difficoltà nelle capacità di scrittura vanno al di là di quelle di solito associate ad esso.
Esiste, quindi, un insieme di difficoltà del soggetto di comporre testi scritti, evidenziata da errori
grammaticali o di punteggiatura nelle frasi, con una scadente organizzazione in capoversi, errori
multipli di compitazione e calligrafia deficitaria (DSM-IV, 1994, 69).
Il DSM-IV sottolinea come la principale caratteristica del Disturbo del Calcolo è rappresentata
da una capacità di calcolo (misurata con test standardizzati somministrati individualmente sul calcolo
o sul ragionamento matematico) che si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base
all’età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione
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adeguata all’età. Il disturbo del calcolo condiziona, quindi, in maniera significativa l’apprendimento
scolastico o le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di calcolo. Se appare presente un
deficit sensoriale le difficoltà nelle capacità di calcolo vanno al di là di quelle di solito associate con
esso.
Nel Disturbo del Calcolo possono essere compromesse diverse capacità come quelle
linguistiche, percettive, attentive e matematiche (DSM-IV, 1994, 68). Alla dislessia vengono spesso
associate problematiche relativa al mantenimento dell’attenzione, ad una scarsa memoria, a difficoltà
nell’organizzazione spaziale e/o temporale e difficoltà nella lateralizzazione (De Grandis, 2007, 1213).
Spesso si manifesta anche la compromissione del linguaggio verbale, interessate da disturbi
di alcune aree (accesso lessicale, ordinamento sintattico) e questo anche nei casi in cui non vi sia stato
un progressivo ritardo nell’acquisizione del codice verbale (Mattis, 1978; Chase & Tallal, 1990).
I bambini che presentano disturbi del linguaggio, infatti, manifestano quasi sempre difficoltà
nell’apprendere la letto-scrittura in quanto la difficoltà di decodifica dei segni scritti può essere
considerata una successione della primaria difficoltà di decodifica fonologica presentata dai bambini
con disturbo specifico di linguaggio (Snyder & Downey, 1991).
Con il progredire del tempo tali associazioni di disturbi tendono ad indebolirsi ed i profili che
ne emergono sono caratterizzati dalla presenza di un disturbo più marcato in una delle abilità
compromesse (lettura, scrittura, calcolo).
I disturbi specifici dell’apprendimento di natura congenita spesso si manifestano a grappolo
piuttosto che isolatamente, come accade nel caso dei disturbi acquisiti. Diverse ricerche confermano
percentuali molto elevate di compresenza di dislessia, disortografia e discalculia, soprattutto nei primi
anni di scolarizzazione (Badian, 1983; Rourke 1989).
Si può ipotizzare di conseguenza una fase di sviluppo in cui il disturbo è pervasivo ed interessa
tutte le abilità in cui si richiede l’acquisizione di un codice, mentre in un momento successivo, il
disturbo si circoscrive in un ambito più ristretto, in una o in alcune di queste abilità.
Sul piano applicativo questi elementi concordano con le osservazioni di genitori ed insegnanti
che riferiscono spesso le difficoltà in tutti gli ambiti (Stella, 2002). Esistono inoltre ipotesi sulle quali
i deficit di memoria fonologica e memoria di lavoro frequentemente rilevati come possibili cause
della dislessia possano essere considerati come sintomi di un unico deficit sottostante nei processi di
automatizzazione (Nicholson e Fawcett, 1993).
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Un disturbo neuropsicologico può dipendere da alcune disfunzioni che impediscono una o
poche competenze riguardanti il leggere e lo scrivere e per di più soltanto in una sola fase dello
sviluppo, altre volte un disturbo neuropsicologico può interferire con altri meccanismi
neuropsicologici causando problemi in una rete puro cognitiva più o meno ampia e complessa. Quindi
il disturbo neuropsicologico che causa la dislessia in una determinata fase dello sviluppo può perdere
il suo peso nella sua disfunzionalità dopo che quella stessa fase è stata superata, viceversa può avere
poco peso in una determinata tappa evolutiva e successivamente incrementarsi con altre disfunzioni
neuropsicologiche, determinando un disturbo rilevante.
Si ritiene necessario analizzare i disturbi neuropsicologici in età evolutiva definendo i DSA
caso per caso o tipo per tipo, in base a diverse ipotesi cliniche e patogenetiche.
Infatti un caso di DSA, per quanto specifico o settoriale, potrebbe scaturire da una diversa
presenza di disturbi neuropsicologici micro-settoriali, oppure da un sovraccarico imposto ad un
singolo meccanismo neuropsicologico necessario per attivare molte competenze o cui la rete
cognitiva risponde con troppi compensi, eccessivi ed non coordinati.
La neuropsicologia clinica ci fa constatare che su 3 bambini con DSA almeno uno al
completamento dell’età evolutiva si è organizzato come un Ritardo Mentale Lieve (Stella, 2002, 3940).
La definizione di Ritardo Mentale si basa su un riscontro di un disturbo cognitivo significativo,
che coinvolge una componente generale o specializzate dell’intelligenza. Il funzionamento
intellettivo nei casi di RM viene fortemente influenzato anche dai livelli motivazionali e dalla sfera
affettiva-sociale.
Numerosi autori evidenziano che la presenza di un riguardoso rischio psicopatologico globale
in soggetti con disturbi di apprendimento. L’incidenza con la depressione in questi soggetti appare
significativa in quanto risulta presente nel 25-35% dei casi (Stella, 2002, 65).
Altrettanto significativi sono i rapporti dei disturbi dell’apprendimento con i disturbi della
condotta (Heavy, 1989) tramite la manifestazione di quadri ansiosi nei quali la componente dell’ansia
diventa un tratto stabile della personalità (Margalit e Shulman, 1986), oppure tramite l’utilizzo di
lamentele somatiche ipocondriache (Margalit e Raviv, 1984), la presenza di idee suicidarie e/o
tentativo di suicidio. Proprio in quest’ultimo indice si ritiene doveroso soffermarsi in quanto in uno
studio di Peck nel 1985 esso riporta i dati secondo i quali il 50% dei ragazzi della sua casistica di
suicidio prima dei 15 anni presentava un disturbo di apprendimento. Di conseguenza si ritiene
doveroso consigliare e progettare programmi volti a garantire una maggiore informazione e
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consapevolezza nel personale scolastico, focalizzandosi sul riconoscimento di segnali premonitori di
un tentativo di suicidio, specie in assenza di chiare manifestazioni depressive (Smith, 1990).
Naturalmente i rapporti tra psicopatologia generale e disturbi di apprendimento non sono
univoci. Un disturbo dell’apprendimento può anche rappresentare il modo attraverso il quale si
esprime un preesistente disturbo globale della personalità, disturbo che cerca un nuovo equilibrio,
interno o esterno, amputante ed antieconomico. Queste implicazioni possono essere responsabili di
una insorgenza, un mantenimento o un irrigidimento del disturbo di apprendimento e possono
interferire con l’interevento riabilitativo.
I bambini, ma soprattutto gli adolescenti, tendono a crearsi rappresentazioni del loro
funzionamento mentale in base alla mediazione tra disturbo di apprendimento ed uno stato di
sofferenza emotivo. Le sviluppate capacità di astrazione possedute in questo periodo evolutivo
consentono un rapporto diverso con il proprio Sé e con il mondo esterno, condizionando la loro
visione spazio-temporale, con il possibile e con il reale, modificando in questo modo, la propria
percezione della realtà fisica e mentale.
Il sentimento della propria identità, la visione del proprio Sé, va incontro ad un continuo
processo di riorganizzazione (Harter, 1989) ché può essere fortemente influenzato da una
concomitante condizione psicopatologica (Masi et al., 1994).
Le razionalizzazioni e le intellettualizzazioni adolescenziali rappresentano un tentativo ci
confermare a se stessi la solidità di questo Sé cognitivo, come apparato di comprensione e di controllo
della realtà interna ed esterna. Per queste motivazioni i disturbi di apprendimento rappresentano un
evento vitale in grado di incrinare la solidità del Sé cognitivo, soprattutto nel periodo evolutivo poiché
il Sé acquista maggiore solidità e concretezza.
In questa fase il disturbo può assumere caratteristiche ego distoniche, in quanto estende la sua
area di influenza anche al di fuori del contesto scolastico, sviluppando la nascita di schemi
interpretativi che negano il funzionamento mentale, ovvero l’apprendimento (Stella, 2002).
Determinate ricerche parlano di una componente specifica del Sé in età evolutiva, il cosiddetto
“Sé accademico” che raffigura la rappresentazione di sé come studente (Chapman, 1988). Esso appare
strettamente correlato al Sé cognitivo ed una sua debolezza può introdurre reazioni più generalizzate
sulle modalità di auto rappresentazione (Stella, 2002).
Questo può essere la causa principale di determinate manifestazioni psicopatologiche
particolarmente frequenti nei soggetti con disturbi di apprendimento, poiché rappresentati da una
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evidente debolezza dell’autostima e da una fragilità nella rappresentazione dei propri successi si
pensiero (Fine et al., 1993). Risultano frequenti alcuni aspetti clinici quali:
-
la prevalenza di contenuti di inferiorità e di vulnerabilità, con riferimento alle proprie funzioni
mentali,
-
la percezione di uno scarso potere di controllo sul proprio ambiente e sul proprio destino
(Weisz et al., 1993),
-
un disinvestimento cognitivo ed un funzionamento mentale superficiale.
Spesso è rintracciabile inoltre un fattore scatenante o aggravante il quale è rappresentato da
un evento vitale negativo che mina ulteriormente la fiducia nel potere conoscitivo ed interpretativo
del proprio destino. Ciò non determina una vera e propria depressione ma una forte debolezza del Sé
cognitivo, determinando una serie di conseguenze sulla qualità dei processi di apprendimento e sulle
possibilità di una loro modifica nell’intervento riabilitativo.
Questa debolezza può esprimersi clinicamente in modo diretto esprimendo sentimenti di
inadeguatezza, di colpa, di solitudine, di abbandono o, in caso contrario, presentando una espressività
di tipo provocatorio-oppositorio, la quale maschera solo in parte i sentimenti depressivi sottostanti.
Le rappresentazioni deboli del Sé sono accentuati da due aspetti fondamentali quali la bassa autostima
derivata da qualcosa che il soggetto non ritiene di avere (intelligenza) e la carenza (di intelligenza)
che riguarda il soggetto stesso, ma non le altre figure che lo circondano (Stella, 2002).
Questo indica che la percezione di un funzionamento intellettivo non adeguato può essere in
grado di attivare un intreccio emotivo-cognitivo con una propria autonomia psicopatologica. In questa
maniera si possono leggere i dati epistemologici che sottolineano l’elevata incidenza di disturbi
depressivi con ritardo mentale di diversa eziologia (Bregman, 1991).
Può spesso accadere che la mancanza di un’adeguata autostima accademica diventa pervasiva,
togliendo complessità al Sé, che si mostra uniformemente dominato dalla debolezza della propria
auto rappresentazione. Ciò può scaturire, nei casi di fallimento cognitivo, una sovrapposizione a
strutture preesistenti narcisisticamente più fragili, per fattori relazionali precoci, causando nel
soggetto un indebolimento strutturale intollerabile manifestando di conseguenza fughe della mente,
ricorso ad agiti, fughe nel lavoro e talvolta anche tentativi di suicidio (Stella, 2002).
Il DSM-IV sottolinea come i Disturbi dell’Apprendimento devono essere differenziati da
normali variazioni nei risultati scolastici e da difficoltà scolastiche dovute a mancanza di opportunità,
insegnamento scadente, o fattori culturali. Un’istruzione inadeguata può causare una scadente
prestazione ai test standardizzati di rendimento.
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Inoltre i bambini che presentano una retroterra etnico o culturale differente rispetto alla cultura
scolastica prevalente o che seguono i loro studi in lingue diverse dalla lingua di appartenenza possono
avere risultati inferiori ai test di rendimento presentando punteggi relativamente bassi (DSM-IV,
1994, 65).
Una compromissione visiva o uditiva può danneggiare la capacità di apprendimento e
quest’ultimo può essere diagnosticato in presenza di tali deficit sensoriali solo se le difficoltà di
apprendimento vanno al di là di quelle solitamente associate a quei deficit.
Concomitanti condizioni neurologiche o altre condizioni mediche generali dovrebbero essere
codificate sull’Asse III. Nel Ritardo Mentale le difficoltà di apprendimento sono proporzionate alla
compromissione generale del funzionamento intellettivo. In alcuni casi di Ritardo Mentale Lieve, il
livello di apprendimento nella lettura, nel calcolo, o nell’espressione scritta è significativamente al di
sotto dei livelli previsti in base all’istruzione del soggetto e alla gravità del Ritardo Mentale. In questi
casi dovrebbe essere ulteriormente diagnosticato l’appropriato Disturbo dell’Apprendimento.
Dovrebbe essere fatta un’ulteriore diagnosi aggiuntiva di Disturbo dell’Apprendimento nel
contesto di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo solo quando la compromissione scolastica è
significativamente al di sotto dei livelli previsti in base al funzionamento intellettivo e all’istruzione
del soggetto. Può accadere anche che in soggetti con Disturbi della Comunicazione il funzionamento
intellettivo debba essere valutato usando misurazioni standardizzate della capacità intellettiva non
verbale. Può essere diagnosticato il Disturbo dell’Apprendimento nei casi in cui si manifesta un
rendimento scolastico significativamente inferiore rispetto ai risultati della misurazione di questa
capacità.
Il Disturbo del Calcolo e il Disturbo dell’Espressione Scritta insorgono assai frequentemente
in associazione con il Disturbo della Lettura. Quando vengono soddisfatti tutti i criteri per più di un
Disturbo dell’Apprendimento, tutti quanti dovrebbero essere diagnosticati (Ibidem).
Nel caso in cui il DSA sia associato ad un disturbo psicopatologico la comorbidità tra le due
affezioni può sottendere relazioni diverse, con diverse implicazioni teoriche e cliniche, anche se non
sempre chiaramente distinguibili nel singolo soggetto, soprattutto se la diagnosi viene posta
tardivamente. In alcuni casi il disturbo psicopatologico sembra essere una conseguenza del disturbo
di apprendimento e dell'insuccesso scolastico che esso comporta.
In questi casi il disturbo psicopatologico tende a ridursi spontaneamente in parallelo con la
riduzione delle difficoltà scolastiche; in altri casi il DSA appare agire come un fattore scatenante per
la strutturazione di un disturbo psicopatologico già presente, sia pur in forma larvata, negli anni
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precedenti, in questo caso l'andamento dei due disturbi appare relativamente indipendente. Queste
due situazioni non vanno in ogni caso confuse con il percorso inverso, quando cioè il disturbo di
apprendimento è aspecifico e rappresenta solo un sintomo del disturbo psicopatologico.
La comprensione della natura dei rapporti tra DSA e disturbi del comportamento richiede una
interpretazione esplicativa che a sua volta deve fare riferimento a una precisa teoria psicopatologica.
Per esempio se si adotta la chiave di lettura della Psicopatologia Cognitiva si può capire come il DSA
si inserisce lungo l’itinerario di sviluppo di un bambino determinando comportamenti di chiusura
depressiva (internalizzanti) oppure di oppositività (esternalizzanti), che hanno significati diversi a
seconda della qualità dei legami di attaccamento genitori–bambino.
In letteratura viene riportata comorbilità fra disturbi specifici di apprendimento e disturbi
psicopatologici appartenenti all'Asse I del DSM IV nel 50% dei casi. Molteplici sono le categorie
diagnostiche interessate.
Disturbi esternalizzati o disturbi con comportamento disturbante (DSM IV-R):
-
Disturbo da deficit di attenzione e iperattività frequentemente è embricato con i
disturbi
di apprendimento specifici e aspecifici,
-
Disturbo Oppositivo-Provocatorio: favorisce il disadattamento scolastico e talvolta può essere
secondario alle esperienze frustranti vissute dai bambini a causa di insuccessi nella didattica,
-
Disturbi della condotta e inerenti l'area della devianza sociale, eventualmente associati ad
abuso di sostanze e comportamenti delinquenziali spesso in rapporto con situazioni scadenti
sul piano sociale.
Disturbi internalizzati:
-
i Disturbi d'ansia sono spesso associati ai Disturbi di apprendimento, nelle varie articolazioni:
attacchi di panico, disturbo di ansia di separazione, fobie semplici, fobia sociale. Questi
disturbi possono condurre anche a ritiro dalla scuola, per periodi transitori o prolungati, e
comunque interferiscono sulle possibilità di trattamento e recupero delle difficoltà nel settore
didattico,
-
Disturbi somatoformi possono essere espressione di reazioni secondarie agli insuccessi e
frustrazioni in campo didattico e produrre disadattamento e ritiro transitorio o prolungato dalla
scuola,
-
Disturbi dell'umore possono subentrare secondariamente a disturbi specifici delle abilità
scolastiche o essere una componente causale di disturbi aspecifici di apprendimento.
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Rappresentano un rischio sia per il fenomeno di abbandono della scuola, spesso collegato a
ritiro sociale, sia, più raramente, per la comparsa di idee suicide.
2.
Disturbi del comportamento
L’origine di questi disturbi, un tempo considerati capricci e spesso perseguiti con castighi e
punizioni, può essere individuata dall’attenta analisi delle caratteristiche neuropsicologiche del
bambino, delle modalità dei primi rapporti con la madre, della tipologia personale dei modelli di
riferimento evolutivo, della modalità educativa.
Il disturbo della condotta è uno dei più frequenti problemi riscontrati in salute mentale perché
gli aggressori non solo infliggono gravi danni agli altri ma rischiano più degli altri di essere condotti
in arresto, di cadere in depressione, di fare abuso di sostanze e, infine, di tendere al suicidio (Hales
et. al., 1999). Non si tratta di una singola entità medica ma coinvolge varie forme di comportamento
deviante. Dopo i 18 anni, il disturbo della condotta può sfociare in un disturbo della personalità
antisociale, che rientra nella psicopatia (Lahey et al., 2005).
Diversi autori sostengono una predisposizione ereditaria associata a modelli familiari e/o
sociali in contrasto con le necessità evolutive di un bambino con determinate caratteristiche personali
(Raine et al., 1990). Si ipotizza una diminuita funzionalità del Sistema Nervoso Autonomo e la
maggiore attività di neurotrasmettitori implicati nei meccanismi aggressivi e nel metabolismo della
serotonina (Lahey et al., 1993).
Nei genitori di bambini affetti da DC sono di frequente riscontro: abuso di sostanze, patologie
psichiatriche, carenze affettive, modelli educativi rigidi o assenti o frustanti, con la conseguenza di
disturbo nel processo d’attaccamento, inizio dei disturbi del bambino e conseguente carente
disponibilità di supporto affettivo-educativo da parte dei caregiver. I bambini con DC appartengono
più frequentemente a famiglie con problematiche sociali ed economiche (Patterson et al., 1989).
Nel 1997 con la American Academy of Child & Adolescent Psychiatric (AACAP) si
propongono le linee guida ed una sintesi pratica dei parametri con la quale si descrive la valutazione,
diagnosi differenziale ed il trattamento di bambini, adolescenti e adulti che manifestano i sintomi del
disturbo da deficit dell’attenzione.
In un modo o nell'altro, molti giovani fanno cose che hanno effetti distruttivi su sé stessi o su
altri. Ogni ragazzo ha un proprio metodo di fronteggiamento, sebbene solo alcuni di tali metodi hanno
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conseguenze nefaste. Così come il comportamento è indicativo di un disturbo della condotta, tanto il
disturbo è comune tra i giovani. Almeno il 50% di genitori con figli di un'età compresa tra i 3 ed i 6
anni, hanno riferito determinati comportamenti da parte loro, anche se il trend è in diminuzione
(Santrock, 2008).
Coloro che persistono nella propria condotta deviante sono probabili candidati per un servizio
di consulenza psicologica. Si stima che almeno il 5% di giovani mostrano gravi problemi della
condotta, essendo descritti come impulsivi, iperattivi, aggressivi e coinvolti in condotte devianti. Le
motivazioni spaziano da tare ereditarie e/o caratteriali, genitori irresponsivi e ambiente sociale dove
la violenza è all'ordine del giorno. A fronte dei considerevoli interventi posti in essere dalle istituzioni
pubbliche per prevenire e curare tali disturbi, c'è un vuoto di consenso su quali metodi effettivamente
promuovere (Ibidem).
Nei genitori di bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio è più frequente il riscontro di
disturbi dell’umore. I tratti di maggiore riscontro nella personalità dei genitori di bambini con DC
sono: depressione, abuso di sostanze, comportamenti antisociali. Pur accettando la predisposizione
genetica, risulta più significativo per determinare l’insorgenza del DC le caratteristiche dei modelli
familiari e sociali.
Questi tipi di disturbi sono diventati molto frequenti, a tal punto da essere considerati, da
alcuni genitori specie nelle società benestanti, come parte di una condizione del processo evolutivo
infantile. Tali condizioni, spesso generatrici di marcati disagi nei bambini, nelle famiglie e nella
società, producono difficoltà nella relazione con gli altri e un’organizzazione problematica della
personalità.
Il disturbo della condotta è un comportamento caratterizzato dalla persistenza dell’assenza di
rispetto per i diritti delle altre persone e dal mancato adeguamento alle regole familiari e sociali,
includendo anche le forme di bullismo frequenti e persistenti.
Possono essere distinte due forme di DC, una a esordio nel periodo infantile e una in fase
adolescenziale (DSM-IV, 1994). Vi sono bambini con insorgenza precoce del disturbo (24-36 mesi)
con un’evoluzione caratterizzata da manifestazioni con maggiore espressività in determinati periodi,
spesso in concomitanza con situazioni ambientali che richiedono nuovi adattamenti comportamentali,
mentre in altri periodi il comportamento è meno disturbante, ma con una continuità che tende ad
assumere caratteristiche più gravi nelle fasi evolutive successive e in particolare nell’adolescenza.
Per la diagnosi i sintomi devono persistere per almeno sei mesi, pertanto non vanno interpretati come
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DC quelle manifestazioni reattive e oppositive di breve durata per condizioni ambientali
particolarmente impegnative per l’adattamento comportamentale.
Il DSM-IV individua come rappresentativi quattro sintomi: aggressione o minacce gravi a
persone o animali, danni alle proprietà, violazione delle regole familiari e sociali, persistente
atteggiamento negativizzante e mentoniero per ottenere vantaggi o evitare punizioni. Il DSM-IV
ritiene necessari per la diagnosi di DC almeno tre dei sintomi sopra citati.
Per l’ICD-10 (F91) i DC sono caratterizzati da una modalità ripetitiva e persistente di condotta
antisociale, aggressiva o provocatoria, la cui diagnosi va posta tenendo in considerazione l’età del
bambino ed escludendo alcune manifestazioni tipiche di fasi precoci quali accessi d’ira e aggressività
saltuaria.
I sintomi più frequenti sono: manifestazioni aggressive verso persone o cose, crudeltà verso
gli animali, danni a proprietà (distruzioni, furti, incendi), marcati accessi d’ira scarsamente motivati,
assenze da scuola e fughe da casa, comportamento provocatorio e insolente, rifiuto di qualsiasi regola.
Sono esclusi da questa diagnosi tutti i comportamenti antisociali isolati o molto saltuari.
I soggetti con DC hanno scarsa capacità di dare valore alle necessità del benessere altrui, non
si percepiscono problematici, anzi ritengono gli altri offensivi e minacciosi nei propri confronti e per
tale motivo giustificano il loro comportamento aggressivo e antisociale. Genitori e insegnanti
frequentemente non comprendono questi comportamenti come espressione di una patologia,
ritengono il bambino capriccioso e necessario di castighi e punizioni, potenziando così le dinamiche
vissute e aggravando le manifestazioni patologiche.
Una delle conseguenze del disturbo della condotta è la delinquenza minorile che si riferisce
ad una serie di comportamenti tesi a violare la legge e ad assumere pattern devianti, un concetto più
ampio che spazia dal vandalismo al delitto. Seguendo le statistiche americane, otto giovani su dieci
vanno a delinquere. Negli ultimi due decenni, comunque, c'è stato un trend crescente di reati compiuti
da femmine (Tong, 2010). La delinquenza minorile è stata rilevata in diverse culture quali minoranze
etniche e sub culture devianti in proporzione a tutta la popolazione, come precedentemente citato,
anche da alcuni fattori quali l'eredità, i condizionamenti sociali e le esperienze familiari traumatiche.
In sintesi uno dei fattori, determinanti nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti
associati al disturbo della condotta, è l'adesione a comportamenti indesiderati. La terapia adatta, di
conseguenza, si concentra principalmente su come determinati problemi possono essere stimolati
dall'ambiente sociale di riferimento (Eyberg et al., 2008). Si necessita quindi l’incoraggiamento dei
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giovani ad assumere atteggiamenti e sperimentare situazioni tali da evitare che i su detti problemi
possano incidere nelle scelte individuali.
Oltretutto, si cerca di coinvolgere anche i genitori in modo da evitare che si possano ricreare
delle situazioni che in maniera latente potrebbero favorire comportamenti devianti (Ibidem).
2.1.
Tipi e classificazioni
I bambini con disturbi del comportamento rappresentano l'incubo di genitori e insegnanti. Questi
bambini sembrano essere accomunati da una difficoltà di controllo e gestione delle proprie emozioni
e da una compromessa capacità di conformare il proprio comportamento alle richieste dell'ambiente.
Sono bambini che faticano a prendere in considerazione il punto di vista altrui e pretendono che i loro
desideri e necessità abbiano la priorità su tutto e su tutti.
Frequentemente è riscontrabile aggressività, rabbia, oppositività, provocazione e trasgressione di
norme sociali e morali. Questi problemi possono diventare delle vere e proprie patologie psichiche e
costituiscono quelli che vengono chiamati disturbi del comportamento. Le manifestazioni più
facilmente riscontrate sono tre: il disturbo da deficit di attenzione-iperattività, il disturbo della
condotta e il disturbo oppositivo provocatorio.
I bambini con DC ad esordio precoce sono solitamente più aggressivi, manifestano
menomazioni nel funzionamento più marcate e hanno maggiori problemi temperamentali, cognitivi
e neurologici hanno spesso una storia familiare per tale disturbo, provengono da ambienti familiari
peggiori e hanno maggiori problemi sociali rispetto ai soggetti con DC ad esordio adolescenziale
(Moffitt e Caspi, 2001).
I disturbi del comportamento, secondo l'ICD-10, sono una modalità ripetitiva e persistente di
condotta antisociale, aggressiva o provocatoria, introducendo sottocategorie diagnostiche:
- disturbo della condotta limitata al contesto familiare,
- disturbo della condotta con ridotta socializzazione,
- disturbo della condotta con socializzazione normale,
- disturbo oppositivo provocatorio.
Il disturbo della condotta limitato al contesto familiare (ICD-10, F91.0) prevede che il
comportamento antisociale è attuato solo all’interno del nucleo familiare e le manifestazioni possono
essere: furti a scapito dei familiari (specie di denaro), azioni distruttive di oggetti dei componenti la
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famiglia, aggressioni ai membri del nucleo familiare, provocazioni, opposizioni, non rispetto delle
regole familiari, incendi e distruzioni di mobili e apparecchiature del nucleo.
Il disturbo della condotta con ridotta socializzazione (ICD-10, F91.1) è caratterizzato dalla
presenza del comportamento tipico del disturbo e dalla mancata socializzazione con il gruppo dei
coetanei che tendono a isolarlo per il suo comportamento.
Le manifestazioni più frequenti sono: spacconerie e rissosità con i compagni, estorsioni e
aggressioni verso i coetanei, mancato rispetto delle regole comunitarie, rifiuti alla collaborazione,
violenti accessi di rabbia incontrollabile, azioni distruttive delle cose altrui, incendi, crudeltà verso i
compagni e gli animali.
Il disturbo della condotta con socializzazione normale (ICD-10. F91.2) è caratterizzato da un
comportamento antisociale e aggressivo che non avviene nel proprio gruppo di coetanei, nei cui
confronti si comporta adeguatamente anche con legami di amicizia. La condotta antisociale si
manifesta al di fuori del gruppo d’appartenenza, può rivolgersi verso adulti, familiari o altri bambini.
Il gruppo d’appartenenza può essere un gruppo delinquenziale o anche formato da individui normali.
Le manifestazioni più frequenti sono: spacconerie e rissosità con i compagni esterni al proprio
gruppo, provocazioni, opposizioni, rifiuti alla collaborazione, furti, azioni distruttive, estorsioni e
aggressioni, violenti accessi di rabbia incontrollabile, azioni distruttive delle cose altrui, incendi,
crudeltà verso i compagni e gli animali, mancato rispetto delle regole comunitarie.
Il disturbo oppositivo provocatorio (ICD-10, F91.3) è contraddistinto da un comportamento
persistente, ripetitivo e marcatamente ostile, oppositivo e provocatorio, in assenza di attività
antisociali e aggressive. Il comportamento scorretto si manifesta verso adulti e bambini con rapporti
di confidenza.
Le manifestazioni più frequenti sono: sfide, provocazioni, scontri verbali e insulti, opposizioni
alle regole e alle richieste di partecipazione, facile irritabilità, atteggiamenti negativizzanti, insolenti
e offensivi. Da alcuni autori questo tipo non è considerato come DC (DSM-IV) anche se col tempo
può trasformarsi in DC. Secondo il DSM-IV, invece, il disturbo della condotta si caratterizza per una
modalità ripetitiva e persistente di comportamento antisociale, aggressivo e provocatorio, in cui i
diritti fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate per l'età vengono
isolate, manifestato dalla presenza di almeno 3 dei seguenti criteri nei 12 mesi precedenti, con almeno
un criterio presente negli ultimi 6 mesi. Aggressioni a persone o animali (minacce, frequenti
comportamenti prepotenti; frequente scatenamento di risse; uso di armi che possano arrecare danni
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fisici ad altri; crudeltà fisica con persone o animali; furto con aggressioni, scippo, estorsione o rapina;
attività sessuali imposte ad altri).
Distruzione della proprietà (accensione di fuochi con deliberata intenzione di recare danni,
distruzione deliberata di proprietà altrui). Frode o furto (penetrazione in edifici, domicili o automobili
altrui; frequenti menzogne per ottenere vantaggi o favori; furto di articoli di valore senza affrontare
la vittima). Gravi violazioni di regole (non ritorno a casa per la notte prima dei 13 anni di età non
stante le proibizioni genitoriali; fuga da casa in almeno due occasioni mentre vive con i genitori, non
frequenza delle lezioni, con inizio prima dei 13 anni).
Il disturbo oppositivo provocatorio prevede invece la manifestazione di una modalità di
comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura da almeno 6 mesi, durante i quali si
evidenziano almeno 4 dei seguenti sintomi: collera frequente; litigiosità frequente con adulti; sfida
aperta frequente/rifiuto di rispettar le regole, adulte o meno; frequente provocazione; suscettibilità e
irritabilità; rancorosità e vendetta frequente.
Viene considerato soddisfatto un criterio solo se il comportamento si manifesta più
frequentemente rispetto a quanto si osserva tipicamente in soggetti paragonabili per età e livello di
sviluppo. L'anomalia del comportamento causa in ambedue i disturbi una forte compromissione,
clinicamente significativa, del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo, e nel caso in cui il
soggetto ha 18 anni o più, non sono soddisfatti i criteri per un disturbo antisociale di personalità
(DSM-IV, 1994).
2.2.
Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione (ADHD)
Il disturbo da deficit d'attenzione e iperattività (ADHD) è caratterizzato da un grado di
attenzione scarso, inadeguato per lo sviluppo, o da aspetti di iperattività e impulsività inappropriata
all’età o da entrambi. Si tratta di bambini con un alto livello di attivazione, evidenziando
un’impossibilità nello stare fermi, mostrandosi irrequieti e impulsivi, parlando incessantemente e ad
alta voce (Viola, 2010, 17).
Il disturbo da deficit d'attenzione e iperattività rappresenta una delle condizioni maggiormente
incidenti in età evolutiva, riguardando il 5% circa della popolazione scolare, mediamente un bambino
iperattivo per classe (Fedeli, 2012). La situazione diviene ancora più allarmante se si considerano due
aspetti: da un lato, accanto ai soggetti con una chiara diagnosi del disturbo, esiste un'ampia zona grigia
di bambini e ragazzi che presentano generiche difficoltà d'attenzione e di autoregolazione
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comportamentale; dall'altro lato, tali problematiche determinano sequele particolarmente invalidanti
a tutti i livelli dell'esperienza quotidiana.
Il bambino iperattivo, infatti, non apprende efficacemente, ha difficoltà a interagire in modo
positivo con i compagni, va incontro a numerosi piccoli e grandi incidenti. Il quadro si completa con
un dato ancor più preoccupante: i deficit attentivi presentano un fortissimo rischio di cronicizzazione,
in grado di incidere sull'intera carriera del soggetto (Ibidem).
Storicamente agli inizi del 1900 i bambini con danni neurologici causati da encefalite che
manifestavano sintomi di iperattività, impulsività e disinibizione furono raggruppato sotto l’etichetta
di “sindrome iperattiva”; negli anni sessanta, invece, un gruppo di bambini senza danni neurologici
ma con disturbi di apprendimento e instabilità emotiva, fu descritto come affetto da danno celebrale
minimo (Kaplan, 2002).
Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è stato proposto nel DSM-III (1980) per
descrivere aspetti diffusi e problematici che riguardano l’area sia comportamentale che cognitiva,
causandone una significativa ripercussione negativa negli aspetti scolastici.
La caratteristica fondamentale del Disturbo di Attenzione/Iperattività è una persistente
modalità di disattenzione e/o iperattività-impulsività che è più frequente e più grave di quanto si
osserva tipicamente in soggetti ad un livello di sviluppo paragonabile.
Il DSM-IV distingue tre tipi di ADHD: uno prevalentemente inattentivo, uno prevalentemente
iperattivo /impulsivo ed uno combinato (DSM-IV, 1994). I bambini con ADHD mostrano, soprattutto
in assenza di un supervisore adulto, un rapido raggiungimento di un elevato livello di "stanchezza" e
di “noia” che si evidenzia con frequenti spostamenti da un'attività, non completata, ad un'altra, perdita
di concentrazione e incapacità di portare a termine qualsiasi attività protratta nel tempo.
Nella gran parte delle situazioni, questi bambini hanno difficoltà a controllare i propri impulsi
ed a posticipare una gratificazione: non riescono a riflettere prima di agire, ad aspettare il proprio
turno, a lavorare per un premio lontano nel tempo anche se consistente (Ibidem). Quando confrontati
con i coetanei, questi bambini mostrano una eccessiva attività motoria (come muovere continuamente
le gambe anche da seduti, giocherellare o lanciare oggetti, spostarsi da una posizione all'altra).
L’iperattività compromette l’adeguata esecuzione dei compiti richiesti, infatti questi bambini
sono visti, nella gran parte dei contesti ambientali, come agitati, irrequieti, incapaci di stare fermi, e
sempre sul punto di partire. Un adulto può avere l’impressione che il bambino abbia difficoltà a
comprendere le istruzioni e faccia un uso improprio delle abilità di memoria.
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L’eziologia del disturbo non è tuttavia ancora nota, la maggior parte dei bambini con ADHD
non mostrano danni celebrali e la mancanza di una base neurofisiologica e neurochimica specifica
del disturbo suggerisce una causa multifattoriale (Viola, 2010, 19).
Alcuni studi sostengono che le cause derivano da fattori che potrebbero aver contribuito al
verificarsi dell’ADHD quali:
-
esposizione prenatale ad elementi tossici,
-
prematurità,
-
insulti meccanici prenatali al sistema nervoso fetale (Kaplan, 2002).
Le ultime ricerche evidenziano un’incidenza ereditaria di circa l’80%, tuttavia non sono
ancora state identificati geni specifici legati al disturbo. Gli studi di genetica molecolare hanno
individuato due geni legati alla dopamina che risultano alterati (Bisiacchi, Fabbro, 2002).
Di tutt’altra opinione sono gli studi che sostengono e dimostrano che i bambini
istituzionalizzati con una prolungata e drammatica carenza emozionale, sono spesso iperattivi e con
uno scarso livello di attenzione, dimostrando che gli eventi stressanti, danni emotivi, condizioni
socio-economiche contribuiscono all’instaurarsi e al mantenimento dell’ADHD senza tuttavia
risultare un fattore predominante (Kaplan, 2002).
Secondo i criteri del DSM-IV (Ibidem), il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività
(ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder) e’ caratterizzato da due
gruppi
di
sintomi
o
dimensioni
psicopatologiche
definibili
come
inattenzione
e
impulsività/iperattività. L’inattenzione, o distraibilità, si manifesta soprattutto come scarsa cura per i
dettagli ed incapacità a portare a termine le azioni intraprese: i bambini appaiono costantemente
distratti come se avessero sempre altro in mente, evitano di svolgere attività che richiedano attenzione
per i particolari o abilità organizzative, perdono frequentemente oggetti significativi o dimenticano
attività importanti.
L’impulsività si manifesta come difficoltà, ad organizzare azioni complesse, con tendenza al
cambiamento rapido da un’attività ad un’altra e difficoltà ad aspettare il proprio turno in situazioni di
gioco e/o di gruppo. Tale impulsività è generalmente associata ad iperattività: questi bambini vengono
riferiti "come mossi da un motorino", hanno difficoltà a rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei
coetanei, a scuola trovano spesso difficile anche rimanere seduti.
Tutto ciò cause delle assolute conseguenze negative a livello sociale, scolastico ed
occupazionale, poiché causa spesso, per le ragioni analizzate, intraprendere azioni pericolose senza
prima aver ragionato sulle conseguenze (Cornoldi et al., 2009). Tutti questi sintomi non sono causati
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da deficit cognitivo (ritardo mentale) ma da difficoltà oggettive nell'autocontrollo e nella capacità di
pianificazione.
Secondo il DSM-IV alcuni sintomi di iperattività–impulsività o di disattenzione che causano
menomazione devono essere presenti prima dei 7 anni di età, nonostante spesso molti soggetti
vengano diagnosticati dopo che i sintomi permangono da diversi anni, soprattutto per i casi relativi
agli individui affetti dal Tipo con Disattenzione Predominante. Una compromissione deve essere
presente in almeno due contesti (a casa, a scuola o a lavoro). Deve essere chiaramente un’interferenza
col funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo adeguato rispetto al livello di sviluppo.
L’anomalia non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Pervasivo dello
Sviluppo, di Schizofrenia o di un altro disturbo Psicotico e non è attribuibile ad un altro disturbo
mentale (Disturbo dell’Umore, Disturbo d’Ansia, Disturbo Dissociativo o un Disturbo di Personalità).
La disattenzione può manifestarsi in situazione scolastiche, lavorative e sociali con la conseguenza
di caratterizzare tali soggetti non consentendo a prestare attenzione ai particolari con la conseguenza
di fare errori di distrazione nel lavoro scolastico o in altri compiti. Il lavoro spesso si presenta
disordinato e svolto senza cura e ponderazione poiché i soggetti hanno spesso hanno difficoltà a
mantenere l’attenzione nei compiti e nell’attività di gioco trovando molto difficile di conseguenza
portare a termine i compiti, passando di frequente da un’attività ad un’altra senza completarne
nessuna. Spesso sembra che la loro mente sia altrove o che essi non ascoltino o non abbiano sentito
cosa sia stato detto loro.
I soggetti a cui è stato diagnosticato questo disturbo possono cominciare a fare qualcosa,
passare ad un’altra attività, dedicarsi ancora ad altro, passare a qualcos’altro ancora, prima di portare
a termine qualsiasi cosa. Proprio per questa situazione essi non riescono a portare a compimento i
compiti, incombenze o doveri da svolgere, poiché non riescono a seguire le istruzioni e soddisfare le
varie richieste. L’incapacità di portare a termine i compiti deve essere presa in considerazione nel
fare questa diagnosi solo se è dovuta a disattenzione piuttosto che ad altre possibili ragioni.
Questi soggetti hanno spesso difficoltà nell’organizzarsi per svolgere compiti e attività, poiché
questi richiedono uno sforzo mentale protratto vengono avvertiti come spiacevoli e notevolmente
avversati. Di conseguenza, questi soggetti tipicamente evitano o hanno forte avversione per attività
che richiedono protratta applicazione e sforzo mentale o che richiedono capacità organizzative o
particolare concentrazione.
Questo evitamento deve essere dovuto alle difficoltà del soggetto connesse all’attenzione e
non dovuto ad un’attitudine oppositiva primaria, anche se può manifestarsi, tuttavia, un’opposizione
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secondaria. La modalità con la quale questi soggetti lavorano è caratterizzata da uno stato di
“disorganizzazione” ed il materiale necessario per svolgere i vari compiti viene disperso, adoperato
senza cura e spesso danneggiato. Inoltre si sottolinea una spiccata tendenza a distrarsi da stimoli
irrilevanti e sovente sospendono i lavori in corso, prestando attenzione a rumori o ad eventi privi di
una e vera e propria rilevanza.
Si presentano spesso distratti e sbadati nelle attività, mentre nelle situazioni sociali, la
disattenzione può essere espressa dal fatto che cambiano spesso d’argomento nella conversazione,
non manifestano un ascolto attivo, né un’attenzione alle conversazioni e non seguono le indicazioni
e le regole di giochi e attività. Vista la particolarità di questo disturbo, numerosi sono stati gli studi
sull’attenzione arrivando a teorizzare tre livelli di attenzione:
-
l’attenzione sostenuta che rappresenta la capacità di mantenere il livello di attenzione
prolungato nel tempo,
-
l’attenzione divisa che consiste nella capacità di prestare attenzione a più stimoli
contemporaneamente,
-
lo shift attentivo riguarda l’abilità di spostare alternativamente l’attenzione tra due compiti
(Di Nuovo, 2006).
L’iperattività può essere manifestata, riportando vari esempi dal DSM-IV, agitandosi e
dimenandosi sulla propria sedia, non restando seduti quando si dovrebbe; correndo privi di controllo
o arrampicando in situazioni in cui è fuori luogo; può esprimersi con difficoltà nel gioco o in una
tranquilla dedizione in attività da tempo libero; con il sembrare spesso “sotto pressione” o
“motorizzati”; oppure manifestando un eloquio eccessivo.
Per quanto concerne in particolar modo il contesto scolastico, sia in classe sia nel gioco i
bambini con ADHD si caratterizzano per il continuo cambiamento di attività, visto che perdono
rapidamente l’interesse per ogni iniziativa che venga proposta o che loro stessi iniziano (Cornoldi et
al., 2009).
L’iperattività può variare con l’età del soggetto e con il livello di sviluppo e la diagnosi
dovrebbe essere fatta con cautela con i bambini piccoli. I bambini che muovono i primi passi e i
bambini in età prescolare con questo disturbo differiscono dai bambini con una attività normale per
il fatto che sono sempre in movimento e sempre tra i piedi, saltellano avanti e indietro, si arrampicano
sui mobili, corrono per la casa ed presentano evidenti difficoltà a partecipare ad attività di gruppo
sedentarie all’asilo.
LE DISABILITA’ DEL MINORE NEL CONTESTO SCOLASTICO: DEFINIZIONE E ANALISI DEL FENOMENO E DELLE RETI DI
SOSTEGNO. INDAGINE CONOSCITIVA DELLA FIGURA DELL’AEC (Sperati, 2013)
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Il DSM-IV ci riporta alcuni esempi di bambini in età scolare evidenziano comportamenti
simili, ma con una minore frequenza o intensità rispetto ai bambini che muovono i primi passi e ai
bambini in età prescolare. Essi hanno difficoltà nel rimanere seduti, si alzano frequentemente e si
dimenano sulla propria sedia, oppure si aggrappano al suo bordo. Giocherellano nervosamente con
oggetti, picchiettano con le mani, e agitano troppo gambe e piedi. Si alzano spesso da tavola durante
i pasti, mentre guardano la televisione o mentre fanno i compiti; parlano di continuo e fanno troppo
rumore durante attività che dovrebbero comportare calma.
Negli adolescenti e negli adulti i sintomi di iperattività assumono la forma di irrequietezza e
di difficoltà a dedicarsi ad attività tranquille e sedentarie. L’impulsività si manifesta con l’impazienza,
la difficoltà nella gestione dei propri sentimenti e reazioni, per esempio, “sparando” le risposte prima
che le domande siano state formulate completamente, evidenziando difficoltà nell’attendere il proprio
turno, interrompendo sovente gli altri o intromettendosi nei “fatti altrui” fino al punto di causare
difficoltà nell’ambiente sociale, scolastico e lavorativo.
Gli altri possono lamentarsi di non riuscire a dire una parola in una conversazione, poiché i
soggetti con questo disturbo tipicamente fanno commenti quando non è il momento, non ascoltano le
direttive, iniziano conversazioni in momenti non idonei, interrompendo eccessivamente gli altri, sono
invadenti, arraffano oggetti altrui, toccano cose che non dovrebbero toccare, e fanno i pagliacci.
L’impulsività può essere, spesso, anche la causa di incidenti e al coinvolgimento in attività
potenzialmente pericolose senza considerare le possibili conseguenze. Le manifestazioni attentive e
comportamentali compaiono di solito in diversi contesti, che includono la casa, la scuola, il lavoro e
le situazioni sociali. Per fare una diagnosi deve essere presente una compromissione almeno in due
contesti.
Risulta difficile e raro che un soggetto mostri lo stesso livello di malfunzionamento in tutti i
contesti o tutte le volte nello stesso contesto. I sintomi tipicamente peggiorano in situazioni che
richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo o che mancano di attrattiva o novità. I segni del
disturbo possono essere minimi o assenti quando il soggetto riceve frequenti premi per il
comportamento appropriato, quando è sotto stretto controllo, in un ambiente nuovo, quando è
impegnato in attività particolarmente interessanti, in una situazione a due, mentre con molta più
probabilità i sintomi si manifestano in situazioni di gruppo (DSM-IV, 1994).
Per tutte le ragioni precedentemente citate è fondamentale porre una grande attenzione ed
occuparsi della sfera emozionale del bambino con ADHD. Proporre programmi in grado di sviluppare
capacità di empatiche e di comportamenti pro sociali, i quali si rivelerebbero utili poiché in grado di
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aumentare nel bambino la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni e lo aiuterebbe nella gestione
complessa dei rapporti interpersonali, accrescendo l’autostima e la possibilità di instaurare buone
relazioni sociali (Tironi, Marzocchi, 2009).
Il clinico, quindi, dovrà attuare un’indagine completa e accurata tramite una raccolta di
informazioni da diverse fonti come quella dei genitori e degli insegnanti, indagando il comportamento
del soggetto in analisi in diverse situazioni ed in ciascun contesto.
2.3.
Comorbidità con altri disturbi
All'ADHD possono accompagnarsi altri disturbi come l'ansia o la depressione. Tali elementi
possono complicare notevolmente la diagnosi e il trattamento. Studi accademici e ricerca in ambito
pratico suggeriscono che la depressione nell'ADHD sembra incrementarsi nei bambini parallelamente
alla loro crescita, con un più alto tasso di crescita nelle ragazze che nei ragazzi (Brunsvold, 2008).
Quando un disturbo dell'umore complica l'ADHD sarebbe più auspicabile trattare prima il
disturbo dell'umore anche se i genitori dei bambini che hanno ADHD spesso desiderano che sia
trattato prima l'ADHD, dato che la risposta al trattamento è più veloce (Ibidem). In un recente studio
sui disturbi dell'umore ha evidenziato come i ragazzi con diagnosi di sottotipo combinato hanno
dimostrato di soffrire di ADHD (Bauermeister et al., 2007). Per quanto concerne i disturbi relativi
all'ansia, invece, si è riscontrato essere comune nelle ragazze con diagnosi di sottotipo caratterizzato
da disattenzione di ADHD (Ibidem).
Le caratteristiche associate variano a seconda dell’età e del livello di sviluppo e possono
includere scarsa tolleranza alla frustrazione, accessi d’ira, prepotenza, caparbietà eccessiva e
frequente insistenza sul fatto che le richieste siano soddisfatte, labilità d’umore, demoralizzazione,
disforia, rifiuto da parte dei coetanei e scarsa autostima. I risultati scolastici spesso risultano scarsi,
compromessi e svalorizzati in modo significativo, comportando, tipicamente conflitti con la famiglia
e con le autorità scolastiche.
I disturbi del comportamento nel contesto scolastico sono spesso correlati con il disturbo da
deficit di attenzione/iperattività, infatti i sistemi diagnostici (DSM-IV; ICD-10) correlano tra loro i
disturbi nella sfera dell'attenzione e i disturbi delle manifestazioni comportamentali.
Il DSM-IV riunisce sotto la denominazione disturbi da deficit dell'attenzione e da
comportamento dirompente l'ADHD, il disturbo oppositivo provocatorio e i disturbi della condotta.
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Nell'ICD-10 è presente la descrizione di quadri analoghi sotto la diagnosi generale di disturbi da
condotta ipercinetica. Gli ostacoli più frequentemente incontrati dai bambini con questo tipo di
diagnosi riguardano le aree dell'apprendimento, del controllo dell'aggressività e delle relazioni sociali,
inoltre la presenza contemporanea di comportamenti aggressivi e disturbi della condotta o oppositivo
provocatorio è un forte predittore dell'abuso di sostanze, della delinquenza e dell'iperattività.
La comorbidità con la diagnosi di disturbo dell'apprendimento non raggiunge percentuali
elevate, seppur le difficoltà scolastiche rappresentino un segno centrale del disturbo, mentre risulta
rilevante il fattore rivestito dal rifiuto da parte dei pari. Essa è una delle caratteristiche maggiormente
riscontrate nelle ricerche e nella pratica clinica. Si evidenzia, inoltre, come la valutazione negativa da
parte del gruppo dei pari sia un forte predittore di esiti negativi a lungo termine come abbandoni
scolastici, delinquenza e indici globali di psicopatologia.
I dinamismi e le disfunzioni familiari fanno rilevare frequentemente alti livelli di stress, come
pure difficoltà nella sfera dell'attenzione e dell'apprendimento, nei genitori, che presentano spesso,
oltre alla psicopatologia in sé, elevati tassi di stress e scarso senso di competenza e interazioni
conflittuali con il bambino.
L'ICD-10 definisce il disturbo oppositivo provocatorio in base alla presenza di un
comportamento marcatamente provocatorio, ostile e disobbediente e all'assenza di più gravi atti
antisociali o aggressivi, inserendolo tra i disturbi della condotta, mentre per il DSM-IV, il disturbo
oppositivo provocatorio prevede una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio
che dura da almeno 6 mesi, durante i quali si evidenziano almeno 4 dei seguenti sintomi: collera
frequente; litigiosità frequente con adulti; sfida aperta frequente/rifiuto di rispettar le regole, adulte o
meno; frequente provocazione; suscettibilità e irritabilità; rancorosità e vendetta frequente. Viene
considerato soddisfatto un criterio solo se il comportamento si manifesta più frequentemente rispetto
a quanto si osserva tipicamente in soggetti paragonabili per età e livello di sviluppo.
Nel disturbo della condotta l'ICD-10 illustra una modalità ripetitiva e persistente di condotta
antisociale, aggressiva o provocatoria, introducendo sottocategorie diagnostiche: disturbo della
condotta limitata al contesto familiare; disturbo della condotta con ridotta socializzazione; disturbo
della condotta con socializzazione normale; disturbo oppositivo provocatorio.
Secondo il DSM-IV, invece, il disturbo della condotta si caratterizza per una modalità
ripetitiva e persistente di comportamento antisociale, aggressivo e provocatorio, in cui i diritti
fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate per l'età vengono isolate.
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Per effettuare, infatti, una diagnosi di disturbo dell’attività e dell’attenzione, infatti, il bambino
deve manifestare contemporaneamente la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività. L’esperienza
clinica e gli studi neuropsicologici confermano che una compromissione funzionale del bambino che
presenta solo i sintomi del disturbo dell’attenzione è paragonabile a quello del bambino che manifesta
sia disattenzione che iperattività-impulsività (Marzocchi, 2011, 10).
Secondo il manuale dell’OMS la diagnosi di disturbo dell’attività senza iperattività viene
inserita in “altri disturbi specifici comportamentali o emotivi solitamente con insorgenza in età
infantile” (ICD-10, F.98.8).
Molti casi tendono a registrare sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività,
predominando o l’una o l’altra caratteristica. Il sottotipo appropriato dovrebbe essere indicato sulla
base della caratteristica sintomatologica predominante negli ultimi sei mesi. I criteri diagnostici del
DSM-IV per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività prevede la decodifica in base al tipo: tipo
combinato; tipo con disattenzione predominante; tipo con iperattività/impulsività predominante.
Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo Combinato, prevede la comparsa di sei
(o più) sintomi di disattenzione e sei (o più) sintomi di iperattività-impulsività, i quali persistono per
almeno sei mesi. La maggior parte dei bambini e degli adolescenti con questo disturbo presentano
quindi il Tipo Combinato, anche se ciò non può essere applicato con certezza anche per gli adulti
affetti dal disturbo.
Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante,
caratterizzano questo sottotipo con la presenza e la persistenza di sei (o più) sintomi di disattenzione
(ma meno di sei sintomi di iperattività-impulsività) per almeno sei mesi. L’iperattività può non essere
ancora una manifestazione clinica significativa in molti casi, mentre in altri si tratta solo di
disattenzione.
Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Iperattività-Impulsività
Predominante, dovrebbe essere usato se sei (o più) sintomi di iperattività-impulsività (ma meno di sei
sintomi di disattenzione) sono persistenti per almeno sei mesi. Tuttavia la disattenzione è anche in
questi casi una manifestazione clinica significativa.
In sintesi i disturbi del comportamento che possono associarsi all'ADHD sono il Disturbo
Oppositivo-Provocatorio (DOP) ed il Disturbo della Condotta (DC). La precocità dell'associazione
ADHD-DC rappresenta un fattore di forte rischio evolutivo e richiede quindi interventi terapeutici
tempestivi, per evitare l'evoluzione verso un disturbo antisociale a varia espressività. Studi in followup tendono a confermare come ADHD e DOP-DC possano essere considerate condizioni cliniche
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almeno parzialmente distinte e che il rischio di evoluzione verso un disturbo antisociale sia legato a
questa comorbidità piuttosto che all'ADHD di per sé.
Bambini con ADHD e DC hanno un DC generalmente più precoce, più grave e duraturo, che
fa seguito ad un iniziale ADHD. Se è vero che circa 1/3 dei bambini o adolescenti con DC evolvono
verso un disturbo antisociale della personalità, appare probabile che i soggetti con comorbidità
ADHD-DC possano rappresentare un sottogruppo a più alto rischio sul piano prognostico, in
particolare se l'ADHD permane in adolescenza (Masi, 2012).
Il rischio di disturbo antisociale è molto inferiore, se non assente, nei bambini con ADHD
senza DC. Il DC, ma non il DOP, è un predittore di una negativa evoluzione, quale l'associazione con
una dipendenza da sostanze; la prognosi sarebbe negativa solo in quella parte minoritaria di DOP che
evolvono verso il DC. Se infatti è vero che il DC è generalmente preceduto da un DOP, il DOP di per
sé è solo un debole predittore di DC (Ibidem).
In un articolo proposto da Gabriele Masi, direttore dell’unità operativa di neuropsichiatria
infantile di Pisa, emergono dati secondo i quali L’ADHD e i disturbi dell’umore presentano una
percentuale variabile di coesistenza che oscilla dal 15 al 75% dei casi a seconda delle diverse
casistiche. Questo rilevante scarto nelle stime epidemiologiche sottolinea la discordanza tra i
ricercatori nell'interpretare manifestazioni depressive come una demoralizzazione implicita al
disturbo oppure come un disturbo depressivo associato.
La frequenza di depressione nei bambini ADHD e nei loro parenti di primo grado è maggiore
rispetto alla popolazione generale sia in campioni clinici che epidemiologici, inoltre i figli di soggetti
con disturbo depressivo hanno un’incidenza maggiore di ADHD. I soggetti con ADHD associato a
disturbi depressivi (e/o ansiosi) hanno una insorgenza più tardiva, una minore compromissione
cognitiva e minori segni di disfunzione neurologica minore; tali dati avrebbero fatto pensare ad un
sottogruppo con distinta eziologia.
Circa il 25% dei bambini con ADHD presenta associati disturbi d’ansia, tale frequenza è
riferita maggiore nei soggetti con ADD senza iperattività, che rappresentano anche la popolazione
che pone nei confronti dei disturbi d'ansia i problemi più spinosi di diagnosi differenziale. Infatti
sintomi cognitivi (difficoltà di concentrazione), comportamentali (irritabilità, agitazione
psicomotoria) ed affettivi (labilità emotiva, demoralizzazione, necessità di rassicurazioni) possono
essere presenti sia in soggetti ADHD che in soggetti con disturbi d'ansia.
I bambini ADHD con comorbidità ansiosa si presentano meno impulsivi, hanno minore
frequenza di DC, mentre sono più frequenti le difficoltà nella socializzazione, in particolare in
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adolescenza. In altri termini sembra che l'associazione con disturbi d'ansia eserciti una azione
protettiva nei confronti di una possibile evoluzione dissociale.
Sintomi del tipo ADHD sono frequentemente descritti in bambini con ritardo mentale o
patologie dello spettro dei disturbi pervasivi dello sviluppo, sia di tipo autistico che non autistico. Si
ritiene che la frequenza di disturbi dell'attenzione con iperattività sia 3-4 volte superiore in soggetti
con ritardo mentale rispetto ai soggetti normodotati, anche se una diagnosi di ADHD non dovrebbe
essere fatta in soggetti con ritardo mentale grave o profondo. In questi casi è spesso difficile
riconoscere i disturbi comportamentali impliciti nel ritardo mentale da quelli legati ad una
comorbidità ADHD.
In generale il problema della comorbidità in questi soggetti è spesso trascurato, per un effetto
generale di mascheramento diagnostico che il ritardo mentale esercita sulle manifestazioni
psicopatologiche ad esso associate.
In questi casi deve essere affrontato il problema della diagnosi differenziale, che è rilevante
soprattutto in età prescolare, quando bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo non autistici o
bambini con ritardo mentale presentano una marcata disorganizzazione del comportamento, con
iperattività, discontrollo del comportamento, instabilità affettiva, aggressività, che possono essere
confusi con i sintomi dell'ADHD. La ripetitività e rigidità di questi sintomi è maggiore nei soggetti
con disturbi pervasivi dello sviluppo e/o ritardo mentale, così come è maggiore la frequenza di
disturbi della comunicazione, di ritiro sociale e di stereotipie motorie o linguistiche.
In genere con il passare degli anni la diagnosi differenziale diventa più chiara, ma la possibilità
di una associazione tra questi disturbi può favorire un mascheramento diagnostico che impedisce il
riconoscimento dell'ADHD associato.
Sintomi dell'ADHD possono infine essere riscontrati in bambini o adolescenti che pur in
presenza di un livello intellettivo nella norma o solo lievemente deficitario presentano caratteristiche
atipiche nella qualità delle relazioni interpersonali e nella regolazione delle emozioni. In contesti
sociali questi bambini appaiono scarsamente in contatto con gli altri o mostrano scarsi segni di
interesse emotivo oppure si sentono fortemente a disagio ed hanno gravi alterazioni nelle regole della
interazione sociale. Talora essi reagiscono in modo catastrofico a frustrazioni anche non gravi con
pianto o rabbia. Possono essere presenti manierismi, stereotipie, che si accentuano sotto stress.
Il pensiero può essere atipico, con tendenza alla perseverazione su temi specifici, con
ossessioni o fobie bizzarre, magari con interessi stereotipati, ma talora anche francamente
disorganizzato. Tali bambini ed adolescenti vengono percepiti come bizzarri, strani, eccentrici. Essi
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non rientrano in categorie diagnostiche definite, anche se alcuni ricevono diagnosi di disturbo
pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, oppure di sindrome di Asperger oppure di
disturbo della personalità schizoide o schizotipico (Masi, 2012).
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