CLAUDIO TARDITI
Seminario della SFI su Filosofia e musica.
Mondovì, 1-3 maggio 2009.
Fenomenologia, ermeneutica, musicologia.
L’uomo che non ha musica nel cuore ed è insensibile
ai melodiosi accordi è adatto ai tradimenti, inganni
e rapine; i moti del suo animo sono spenti come la
notte, e i suoi appetiti sono tenebrosi come l’Erebo:
non fidarti di lui. Ascolta la musica.
W.Shakespeare, Il mercante di Venezia.
1. In un saggio del 2004 intitolato programmaticamente Musica, Elio Matassi evidenzia le
modalità argomentative attraverso cui la filosofia ha cercato d’impadronirsi della musica, di renderla
commensurabile al logos tradizionale, di considerarla alla stregua di uno dei tanti e possibili
“oggetti” della filosofia. “La correlazione tra musica e filosofia viene organizzata e dimensionata a
partire dalla filosofia, come se si ponesse un rapporto tra un prima (la musica) e un dopo (la
filosofia), tra un linguaggio puramente virtuale e uno, invece, compiutamente realizzato. La musica
come notte della filosofia. Quest’ultima detta dall’inizio alla fine le condizioni del rapporto, alla
musica non rimane altra scelta che accettarle.”1 Questo rapporto di subordinazione – prosegue
Matassi – inizia ad incrinarsi a partire dagli inizi dell’Ottocento. È sufficiente richiamare alla
memoria l’incipit della recensione di E.Th.A. Hoffmann alla Quinta sinfonia di Beethoven per
accorgersi di come vengano chiarite in maniera evidente i motivi per cui la musica è considerata
l’arte romantica per eccellenza, l’unica ad essere davvero tale in quanto, abbandonando ogni
relazione di dipendenza dalle altre arti, si apre ad un linguaggio ineffabile. Tale processo di
emancipazione della musica prosegue nel corso dell’Ottocento con E. Hanslick, il fondatore
dell’estetica musicale moderna: se nel linguaggio ordinario vi è un rapporto tra mezzo e fine, tra
significante e significato, nella musica, al contrario, il suono è contemporaneamente mezzo e fine. è
tuttavia indubbio che la svolta definitiva nella considerazione filosofica della musica si ha nel
Novecento; tra i maggiori fautori di una tale svolta si possono annoverare Bloch, Benjamin, Adorno,
Jankélévitch. Pur nelle differenze di impostazione, ciò che, secondo questi filosofi, continua a
sopravvivere nei suoni è la loro “volontà di essere ascoltati. Il paradigma dell’ascolto, dietro cui si
può intravedere un modello comunitario completamente rinnovato, viene approfondito e
1
D. Gentili (a cura di), Intervista a Elio Matassi, consultabile all’indirizzo web www.filosofia.it.
radicalizzato in autori quali Bloch e Benjamin, anche se la svolta decisiva risulta essere quella
adorniana, sottesa al grande paradigma dello sguardo di Euridice, come si suggerisce nella prima
delle grandi opere postume di Adorno, il Beethoven. Euridice, il grande mito della musica ci guarda
in modo triste, in attesa non di una risposta qualsiasi, ma di una risposta “elettiva”, risposta che può
essere fornita dalla filosofia a una sola condizione: accettare fino in fondo un rapporto egualitario
con la musica.”2
2. Proprio all’interno di questo orizzonte si muove il presente lavoro, nel tentativo cioè di
assumere questo rapporto paritario tra pensiero e musica, per sondare la presenza e la fecondità della
musica nella filosofia e per la filosofia: non più dunque una filosofia della musica - in cui la filosofia
è prima e si rivolge alla musica come ad un suo campo di indagine -, ma filosofia nella musica e
musica nella filosofia - ciò che va tematizzato è il rapporto: occorre sondare la portata della filosofia
per la comprensione del fenomeno musicale e, reciprocamente, la capacità della musica di illuminare
autonomamente particolari nodi teoretici. E tuttavia: quale filosofia?
Alcune osservazioni preliminari per rispondere a questo interrogativo. Nel primo saggio
contenuto nel recente volume che raccoglie gli atti del convegno su Filosofia e Musica svoltosi a
Chieti nel 2008, Enrica Lisciani Petrini osserva acutamente che fino ai giorni nostri la musica non è
mai stata ascoltata “come una costruzione sonora che si dà in se stessa, nella pura fenomenalità
dell’apparenza sensibile – per dirla con Jankélévitch”. Al contrario, “essa sembra concepita piuttosto
come il veicolo di un messaggio ideale – per esempio “utopico”, come nel caso di Bloch.”3 Proprio
in questo senso Adorno sostiene che l’ascolto debba essere “consapevole” e “colto”, cioè in grado di
comprendere le regole e la sintassi musicale nella loro evoluzione storica, di eseguire un brano
secondo le regole della teoria musicale, pena la regressione ad un ascolto meramente “sentimentale”.
Questo è pressochè quel che accade quando andiamo ad un concerto: chi ne è in grado sta attento
alle strutture compositive su cui il brano è costruito o cerca di notare affinità e differenze con altri
autori che ascolta abitualmente – ecco degli esempi di ascolto consapevole e colto -, chi non
possiede invece alcuna formazione musicale o musicologica, si abbandona a pure fantasticherie che
quella musica gli suggerisce – ecco l’esempio maggiore di ascolto emotivo.4 Ora, dobbiamo
chiederci: possiamo ancora assumere acriticamente la distinzione di Adorno? Oppure, proprio in
quella che Adorno chiama “regressione emotiva”, si apre la possibilità di esperire la musica ad un
livello più originario, fenomenologicamente primo? Non si tratta allora di operare una “riduzione”
dall’ascolto intellettuale, nel cui orizzonte la musica si dà solo attraverso la mediazione del concetto,
2
Ibidem.
E. Lisciani Petrini, Risonanze del corpo, in C.Tatasciore (a cura di), Filosofia e Musica, Milano, Bruno Mondadori,
2008, p. 6.
4
L’esempio è riportato da E. Lisciani Petrini nel saggio citato, p. 6.
3
2
della produzione soggettiva della certezza di una struttura - dunque un orizzonte all’interno del quale
la musica in quanto tale è per così dire “coperta” dalle sovrastrutture compositive, dalla stessa idea
di “forma musicale” (sonata, sinfonia, suite, ecc.) – ad una dimensione pre-categoriale, ad un luogo
originario in cui solo il sentir et ressentir rende possibile l’elaborazione concettuale ed estetica
successiva? Da un punto di vista strettamente fenomenologico, le questioni che ci devono guidare
sono: si può parlare di fenomenalità della musica? E, posto che non si tratti dello stesso tipo di
fenomenalità dei fenomeni cosiddetti “poveri” (una casa, un albero, un oggetto matematico, ecc.),
che tipo di fenomenalità è pensabile per la musica? E ancora: come pervenire a tale fenomenalità?
La musica come fenomeno, dunque. Fenomeno in quanto è intenzionata dalla coscienza in
una molteplicità di Erlebnisse e in quanto “ciò che si mostra a partire da se stesso”, secondo la
determinazione husserliano-heideggeriana. Su questo non ci sono dubbi: la musica deve possedere
una propria fenomenalità in quanto si dà come oggetto intenzionale della coscienza e, allo stesso
tempo, come ciò che ci si manifesta autonomamente proveniendo dall’esterno, da altrove. Ecco la
nostra tesi: in regime di riduzione, la musica può essere considerata fenomeno a pieno titolo.
Tentiamo allora un confronto con Husserl mettendo alla prova la fenomenalità della musica,
spingendoci in un territorio quasi inesplorato da Husserl stesso – eccezion fatta per qualche
riferimento all’ambito sonoro ne l’Idea della fenomenologia5, nelle Lezioni per una fenomenologia
della coscienza interna del tempo6 e nelle Lezioni sulla sintesi passiva.7 Prendiamo subito in
considerazione l’obiezione che minerebbe l’impianto stesso della nostra questione: proprio perché
siamo in regime di riduzione, non sarebbe più adeguato parlare di suono e non di musica?8 D’altra
parte, è lo stesso Husserl a chiamare in causa l’ambito fenomenologico sonoro, e mai musicale.
Insomma, mantenere la nozione di musica non significherebbe, da un punto di vista fenomenologico,
peccare di non sufficiente riduzione? Se così fosse, infatti, ogni singolo suono non potrebbe
pretendere per sé un tipo di fenomenalità diversa rispetto a quella di un qualunque vissuto
intenzionale (ad esempio la percezione di un colore, di una qualità qualunque), e quindi non
rivestirebbe alcun interesse fenomenologico particolare. Eppure, in uno dei rari passi in cui Husserl
utilizza l’immagine sonora, e anzi proprio a proposito dell’elaborazione dei concetti di ritenzione e
protenzione, fondamentali per la costituzione della coscienza del tempo (Zeitbewustsein), scrive:
E. Husserl, L’idea della fenomenologia, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1992.
E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, trad. it. Milano, Franco Angeli, 1985.
7
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. it. Milano, Guerini, 1993.
8
D’altra parte, questa distinzione fondamentale è stata messa a fuoco già durante il citato convegno di Chieti, e in
particolare da Riccardo Martinelli che, nel suo intervento sulla Filosofia del suono, osserva come storicamente il suono
e la musica siano stati oggetti di studi molto diversi e ben distinti (cfr. ad esempio l’Encyclopédie, in cui vi sono due
voci separate, una curata da d’Alembert e l’altra da Rousseau). Martinelli mostra anche come in epoca contemporanea
la filosofia abbia trattato il suono a prescindere dagli aspetti musicali, analizzandone soprattutto le proprietà specifiche
nel quadro di una fenomenologia della percezione. Ora, la direzione dell’intervento di Martinelli è opposta e tende a
mostrare la possibilità di pensare insieme suono e musica da un punto di vista acustico; sulla sua scia – seppur con
differenti sviluppi e da una differente angolazione prospettica - si inserisce il presente lavoro.
5
6
3
“Per esempio, il suono appena risuonato non è più presente, non è dato in maniera intuitiva o
impressionale. E tuttavia, esso, dopo il suo deflusso, non scompare senza lasciare traccia. Ciò che la
percezione aveva intuito è adesso ancora cosciente in modo non intuitivo, ma sfuma infine in un
vuoto generale, privo di differenze. Ogni simile rappresentazione vuota è una ritenzione.”9 Ciò
significa che, secondo Husserl, all’interno di una melodia è impossibile considerare ogni singolo
suono come isolato dagli altri, in quanto “ciò che viene ritenuto, al contrario, appartiene al tratto di
presenza vivente, costituisce l’alone di senso del presente, il suo orizzonte.” 10 D’altra parte, questa
affermazione è pienamente coerente con quella, contenuta in uno dei testi programmatici più
sigificativi per gli sviluppi del pensiero husserliano, L’idea della fenomenologia, del 1907. Nella
Quinta lezione (dedicata anch’essa al problema del tempo), Husserl scrive:
Il vissuto che noi viviamo adesso, nella riflessione immediata ci diviene oggettuale ed è lo stesso contenuto
oggettuale che in esso continua a presentarsi: lo stesso suono, or ora effettivo adesso, che continua ad essere
lo stesso, ma arretra nel passato, e arretrando costituisce sempre lo stesso momento temporale oggettivo. E se
il suono non cessa, ma dura, e nella sua durata si presenta come lo stesso dal punto di vista del contenuto, o
come trasformantesi, non è possibile cogliere con evidenza – entro certi limiti – il suo perdurare o
trasformarsi? E in ciò non è di nuovo implicito che il guardare va oltre il puro adesso e può conservare
intenzionalmente, nel nuovo adesso di volta in volta in atto, ciò che adesso non è più, e divenir certo di un
tratto del passato nel modo di una datità evidente? E di nuovo si separano qui, da una parte il contenuto
oggettuale di volta in volta in atto, quello che è ed era, che dura e si trasforma, e dall’altra il fenomeno, di
volta in volta in atto, dell’esser-presente e dell’esser-passato, il fenomeno del durare e del trasformarsi, che è
di volta in volta un adesso, e che, nello scorcio [Abschattung] che contiene e nella continua trasformazione
che esso stesso subisce, porta a manifestazione, a rappresentazione l’essere temporale.11
Si tratta senza dubbio di un punto fondamentale per il destino dell’indagine fenomenologica,
e proprio in questo nodo così complesso si nasconde, a nostro parere, la possibilità di tematizzare la
fenomenalità della musica anche laddove Husserl non si è spinto. In realtà, soprattutto se ci si
riferisce al testo capitale per la cosiddetta “svolta trascendentale” della fenomenologia, le Ideen I,
sorgono molteplici difficoltà, in quanto in quel testo l’oggetto percepito viene sempre presentato
come mero correlato noematico di una noesi, senza tuttavia porre la questione del rapporto tra le
singole sensazioni che costituiscono l’atto intenzionale e il noema, cioè tra il senso oggettuale e le
sensazioni mediante cui esso si manifesta e si costituisce. In altri termini, non si comprende come
una certa noesi possa assumere certe sensazioni come manifestazioni di un dato oggetto: “cosa
significa che l’atto intenzionale lega la molteplicità delle sensazioni nell’unità di un senso,
9
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., pp. 114-115.
V. Costa, Husserl, Roma, Carocci, 2009, p. 49.
11
E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 106.
10
4
trasformandole in manifestazioni dello stesso identico senso oggettuale?”12 Proprio con l’intento di
chiarire questo problema, Husserl introduce la funzione sintetica della coscienza e il carattere
temporale di ogni vissuto intenzionale: ogni percezione oggettuale è un “decorso di manifestazioni”
che richiedono di essere sintetizzate perché possa darsi un senso oggettuale determinato. Infatti,
l’Erlebnis non è di natura monadica, atomica, ma è un decorso temporale che implica una ritenzione
dell’“appena passato” e una protenzione della coscienza oltre-di-sé: infatti, se la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa, “questo qualcosa è in ogni momento più (ossia vi è qualcosa di più di
presunto) di quel che in ogni singolo momento c’è di esplicitamente inteso.”13 E ancora: “La
protenzione dev’essere interpretata come un’intentio anticipatrice, cioè come un’intentio diretta
verso il futuro, come un’intenzione pre-diretta e come una tendenza.”14 Se la protenzione permette a
Husserl di spiegare il carattere stesso dell’intenzionalità, sempre “avanti-a-sé” - per usare
un’espressione che Heidegger non riferirà più alla coscienza, ma al Dasein, non senza però chiare
assonanze -, la ritenzione rappresenta invece la chiave di volta per accedere alla possibilità di
tematizzare la fenomenalità della musica, e non soltanto del suono. Infatti, Husserl sottolinea che la
ritenzione non va confusa con la rimemorazione, entro cui i vissuti si ripresentano: ad esempio, se io
ricordo una melodia già ascoltata in passato, essa scorre di nuovo dinanzi a me solo nella forma della
ripresentazione; al contrario, ciò che viene ritenuto è come percepito anche in assenza dell’oggetto
intenzionale, e contribuisce a costituire il senso del noema come presenza evidente.
Un’ultima questione – ma di importanza capitale – va affrontata per poter affermare la
possibilità di un’indagine fenomenologica sulla musica in quanto tale. Husserl ha sempre affermato
la vocazione eidetica della fenomenologia, ossia il suo essere scienza di essenze. Se nelle Ricerche
Logiche e nelle prime tre lezioni de L’idea della fenomenologia sembra che la riflessione
fenomenologica colga le proprie essenze solo, o preferibilmente, in base a singole intuizioni
evidenti, nella Quinta lezione Husserl afferma che la materialità accidentale degli atti intenzionali
costituisce l’occasione del darsi dell’essenza. Proprio per questo, allora, la materialità della singola
cogitatio è di per sé irrilevante per il coglimento dell’essenza. Quest’ultima – e nel nostro caso
l’essenza “suono” – può essere ben afferrata in occasione di una percezione acustica diretta così
come in un atto di immaginazione o di rimemorazione, senza che il suo carattere di datità evidente
ne risulti modificato o indebolito. Scrive Husserl: “L’essenza della qualità o intensità di suono, o del
tono cromatico […], nell’accezione fenomenologica, è data direttamente altrettanto bene, sia che si
compia l’astrazione ideante sulla base di una percezione, sia sulla base di una presentificazione
immaginativa; e la posizione d’esistenza, reale e modificata, è irrilevante in entrambi i casi. […]
L’intuizione che di due tonalità una è più bassa e l’altra più alta, e che questo rapporto è
12
V. Costa, Husserl, cit., p. 48.
E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, Milano, Bompiani, 2002, p. 75.
14
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 131.
13
5
irreversibile, si costituisce nel semplice guardare. […] Il fatto che il suono percepito, con la sua
intensità, qualità, ecc., in un certo senso esiste, e che il suono immaginato, diciamo addirittura quello
fittizio, non esiste, che l’uno è materialmente presente in modo evidente e l’altro non lo è, e invece,
nel caso della rimemorazione, piuttosto che nell’adesso è posto come passato e nell’adesso è solo
presentificato – tutto ciò rientra in un’altra considerazione, non viene in questione nella
considerazione d’essenza […].”15 Quindi, secondo Husserl, c’è il suono immaginato – immagino il
suono di un violino -, c’è il suono fittizio – immagino un suono senza pensarlo prodotto da uno
strumento determinato -, e c’è il suono rimemorato e presentificato nel ricordo: ebbene, in tutti
questi casi l’essenza “suono” è data in modo assoluto e diretto, proprio nel senso della
Selbstgegebenheit.
3. Questa rapida ricognizione dei principali punti in cui Husserl si riferisce al fenomeno
sonoro ci ha permesso di mettere a fuoco tre risultati fondamentali: a) la temporalità è una forma di
ordinamento senza cui nulla potrebbe apparire; essa non vale solo per la coscienza – come sembra
essere il tempo come forma pura della sensibilità per Kant – ma risulta essere “una necessità interna
all’apparire in quanto tale: i fenomeni, manifestandosi, assumono una forma temporale.”16 Ecco
perché Husserl scrive che il tempo, in virtù dell’articolazione che deriva dai contenuti fenomenici,
“non è una forma della coscienza, bensì di ogni possibile oggettività”17; b) la ritenzione e la
protenzione rappresentano le due funzioni fenomenologiche essenziali attraverso cui il fenomeno
assume la forma temporale e si dà alla coscienza: come abbiamo visto, l’impossibilità di considerare
un suono isolatamente ci autorizza – nonostante manchi un’esplicita ammissione da parte di Husserl
– a considerare da un punto di vista fenomenologico la musica; c) ancora più radicalmente, l’ambito
sonoro compare proprio laddove Husserl tenta di chiarire la temporalità del fenomeno nella sua
dialettica costitutiva di ritenzione e protenzione, dunque si apre la possibilità – ed ecco il nostro
prossimo compito - di considerare la musica come paradigma della fenomenalità: in tal caso non
parleremmo più di fenomenologia della musica, ma della musica come modello di manifestazione
per ogni fenomeno in generale.
Per tentare questo percorso, tuttavia, occorre riflettere più a fondo sul tema della
fenomenalità. Due vie: la fenomenologia trascendentale (Husserl), e la fenomenologia
dell’inapparente (Heidegger-Marion).
1) Scrive Husserl: “Alla tesi del mondo, che è una tesi contingente, si contrappone la tesi del
mio io puro e della sua vita egologica, che è necessaria e assolutamente indubitabile. Ogni cosa
spaziale, anche se data in carne ed ossa, può non esistere; al contrario, un vissuto dato in carne ed
E.Husserl, L’idea della fenomenologia, p. 109.
V. Costa, Husserl, cit., p. 52.
17
E.Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, Husserliana, XXIV, Dordrecht, Nijhoff, 1984, p. 273.
15
16
6
ossa non può non esistere.”18 Se ammettiamo, con Husserl, l’assolutezza della coscienza come polo
egologico costituente, perveniamo ad un modello di fenomenalità di tipo trascendentale: ciò
significa che, se qualcosa esiste per noi, ciò avviene solo in quanto si manifesta nella nostra
esperienza soggettiva. Scrive ancora Husserl: “Il mondo della res trascendente è interamente riferito
alla coscienza.”19 Quest’affermazione, a parer nostro, esprime il senso della cosiddetta svolta
idealista della fenomenologia husserliana. Infatti, con quest’affermazione Husserl non vuol dire che
il mondo esista dentro la coscienza, né che sia soltanto una mia rappresentazione soggettiva, e
neppure che non esista in sé (tutte queste sono letture fuorvianti). Il carattere trascendentale della
fenomenologia di Husserl consiste nel fatto che tutto ciò di cui ha senso parlare rientra nel nostro
campo di esperienza possibile, cioè si manifesta in quanto fenomeno: pertanto, non vi è alcuna
fenomenologia laddove non vi è manifestazione del fenomeno, ovvero laddove il fenomeno si dà/si
rende presente nella sua correlazione costitutiva con il polo egologico della coscienza. “Ciò che le
cose sono – le uniche cose su cui possiamo pronunciare giudizi, sul cui essere o non essere,
sull’essere così o sull’essere diversamente noi possiamo disputare e decidere razionalmente -, lo
sono in quanto cose dell’esperienza.”20
2) È possibile intendere in un altro senso il fenomeno rispetto alla sua definizione husserliana
come presenza permanente alla coscienza? Rispondere ad una tale questione significa porre il
problema della presenza rispetto alla fenomenalità, cioè si tratta di sapere in che misura la
fenomenalità del fenomeno possa essere definita in termini di presenza. A questa domanda
Heidegger risponde – almeno ad un primo sguardo in conformità alla tesi husserliana – nel celebre
paragrafo 7 di Essere e tempo: il fenomeno è “ciò-che-si-mostra-in-se-stesso”. Questa definizione
segna il distacco da Husserl almeno per due ragioni: a) per Heidegger non si tratta qui di presenza,
ma del fenomeno che si mostra a partire da se stesso e dalla propria iniziativa: il fenomeno si mostra
a partire dalla propria visibilità, lungi dal lasciarsi ridurre alla presenza per una coscienza. Le
devianze possibili della fenomenalità attestano infatti che dipende dall’iniziativa del fenomeno la sua
entrata nella visibilità o la ricaduta in eventuali dissimulazioni. Tant’è che Heidegger non nomina
mai la coscienza; anche se non è richiesto nulla per vedere ciò che si rende visibile, in un certo senso
questa stessa visibilità decide di se stessa prima e a monte di ogni evidenza e quindi di ogni
coscienza: la visibilità non si rap-presenta, si presenta. Ed è precisamente perché si presenta da se
stessa che si può talvolta assentare o nascondere. Dalle accezioni deviate di ciò che è definito come
mostrantesi-da-se-stesso, dunque dai casi di non-mostrazione del fenomeno, Heidegger non deduce –
come fa Husserl – la necessità di una riduzione drastica alla presenza per la coscienza di tutto ciò che
18
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, I, trad. it. Torino, Einaudi, 2002, p.
113.
19
Ivi, p. 121.
20
Ivi, p. 116.
7
può essere considerato come fenomeno, ma conclude che il contro-concetto di fenomeno è “ciò che è
coperto”21. Gegenbegriff non significa infatti il “contrario” o il “contraddittorio”, ma il contraltare,
l’altra faccia, il lato nascosto, come se il fenomeno, pervenendo alla propria manifestazione, non
facesse altro che riprendere in modo manifesto ciò che restava coperto. Il fenomeno non manifesta
alcunché se non manifestando ciò che fino a quel momento restava non manifesto. b)
Conseguentemente, per Heidegger la fenomenologia oltrepassa l’accezione “volgare” del fenomeno
non rendendo manifesto ciò che, banalmente, è già manifesto, ma manifestando il non-manifesto.
“Cos’è che la fenomenologia fa quindi vedere? […] Qual è in questo caso il tema necessario di una
mostrazione esplicita? Evidentemente è ciò che di primo acchito non di mostra, ciò che resta
nascosto rispetto a ciò che si mostra ad un primo sguardo, ma che ciononostante appartiene
essenzialmente a ciò che si mostra al primo sguardo, in modo da costituirne il senso e il
fondamento.”22 Il fenomeno non si manifesterebbe se non in quanto non appare immediatamente:
dunque il fenomeno si caratterizza innanzitutto per il fatto che non appare. Conseguentemente, “è
proprio perché i fenomeni, di primo acchito e per la maggior parte del tempo, non sono dati che c’è
bisogno di una fenomenologia.”23 Come lo stesso Heidegger affermerà nel suo ultimo seminario del
1973, “questa fenomenologia è una fenomenologia dell’inapparente.”24
Due modelli di fenomenalità e di fenomenologia, dunque. Se cerchiamo di farli reagire con il
problema della fenomenalità della musica, siamo conseguentemente posti dinanzi ad un’alternativa
fondamentale:
a) Il fenomeno musicale si dà come correlato noematico di una noesi, e all’interno di tale
rapporto di correlazione essenziale l’Ego trascendentale – attraverso le sue strutture intenzionali a
priori – costituisce il fenomeno musicale stesso. Il fenomeno musicale assume la sua forma
temporale lasciandone traccia nella coscienza intenzionante (fenomeni di ritenzione e protenzione),
ma sempre a partire da quest’ultima: in altri termini, l’iniziativa (anche quella di “perdere
l’iniziativa”, cioè di procedere per riduzione) è del soggetto trascendentale, dinanzi alla cui polarità
intenzionale la musica si fenomenalizza facendosi totalmente presente. In quest’orizzonte – che
rappresenta la figura fenomenologica di ciò che Adorno chiamava “ascolto consapevole” – il
rapporto tra filosofia e musica difficilmente può salvaguardare l’autonomia dei due ambiti, ma si
sbilancia progressivamente a favore della prima, in quanto la funzione “ordinatrice” e “costituente”
dell’Ego trascendentale costringe la fenomenalità della musica entro le maglie strette della presenzaper-la-coscienza. In un certo senso, si potrebbe affermare che, nel contesto della fenomenologia
trascendentale, l’ascolto è fortemente dominato dalle strutture formali dell’Io, che costituisce il
21
M.Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Milano, Longanesi, 1976, p. 57.
M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 58.
23
M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 59.
24
M.Heidegger, Questions IV, Parigi, Gallimard, 1976, p. 339.
22
8
fenomeno musicale nell’atto stesso dell’ascolto, quasi sostituendosi all’esecutore, o almeno
plasmando insieme a lui la materia musicale cui dà forma. In questo senso, nel quadro di una
fenomenologia trascendentale, l’esecuzione è prima (laddove per esecuzione intendiamo la
costituzione del fenomeno musicale a partire dalla coscienza intenzionale, a prescindere che si tratti
della coscienza del vero e proprio esecutore, oppure di quella dell’ascoltatore).
b) Il fenomeno musicale si dà a partire da se stesso e non si rende visibile – o per meglio
dire, udibile – nella forma della presenza per la coscienza, ma le si manifesta del tutto
indipendentemente dall’intenzionalità, quasi la sommerge. A partire dalla sua in-udibilità originaria,
il fenomeno musicale emerge progressivamente, si fa voce-da-ascoltare, si fenomenalizza come
udibilità che si offre ad un Io aperto all’appello, alla chiamata di un altrove sonoro senza nome. Se
questo Io, non più costituente, ma costituito, lascia-essere la chiamata che il fenomeno musicale gli
invia, non la copre con sovrastrutture trascendentali o ontologiche, allora quest’ultimo completerà il
processo di anamorfosi25, ossia di emersione all’udibilità, rendendosi voce gratuita e libera che si espone all’ascolto (correndo così anche il rischio di non essere ascoltata). Questo modello
fenomenologico è dunque incentrato sull’inapparenza originaria del fenomeno musicale come
sfondo imprescindibile da cui il fenomeno musicale può – a partire da se stesso, liberamente,
gratuitamente – emergere all’udibilità. Fin troppo evidenti sono qui i richiami alla fenomenologia
della donazione di J.L.Marion; la nozione, ad esempio, di anamorfosi è largamente impiegata in
Etant donné per indicare il processo di emersione del fenomeno alla sua visibilità (di cui il termine,
qui utilizzato, udibilità, è chiaramente la traslitterazione in ambito sonoro). In effetti, la
fenomenologia della donazione di Marion ci permette di disegnare uno scenario fenomenologico
completamente opposto – molti critici parlano di “rovesciamento”, ma forse c’è qualcosa in più –
rispetto a quello trascendentale husserliano, portando sino all’estremo la nozione heideggeriana di
fenomenologia dell’inapparente. Infatti, lo scarto tra la Gegebenheit husserliana e la donazione segna
un capovolgimento di orizzonte, per cui non è più la coscienza trascendentale a costituire il
fenomeno intuitivamente intenzionando un correlato noematico (l’oggetto), ma è il fenomeno stesso
ad investire liberamente l’Io e a costituirlo – semplicemente come termine della donazione, come
adonato - da fuori, da altrove. Scrive Marion: “l’Io deve rinunciare ad ogni pretesa di sintesi
d’oggetto o di giudizio di fenomenalità, [...] esso non decide più del fenomeno ma lo riceve; ovvero,
da «maestro e possessore» del fenomeno, esso ne diventa l’attributario”26.
Secondo Marion, ciò è evidente in particolare in una certa classe di fenomeni, i cosiddetti
fenomeni saturi, in cui la “sommersione” dell’Io ad opera della donazione, spinta ai suoi margini
estremi, avviene completamente e senza riserve. Non vi è più il minimo residuo di costituzione,
25
Il concetto di anamorfosi e esplicitamente tratto da J.L.Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della
donazione, trad. it. Torino, SEI, 2001.
26
J.L.Marion, Dato che, cit., p. 231.
9
l’intenzionalità resta per così dire muta e attonita dinanzi ad un tale eccesso di donazione, dinanzi al
mostrarsi libero e inaspettato di un tale fenomeno. “Tutta la nostra impresa tende a pensare il
fenomeno di diritto comune e attraverso esso il fenomeno povero, a partire dal paradigma del
fenomeno saturo, di cui essi non offrono, l’uno e l’altro, che delle variazioni indebolite e da cui essi
derivano per progressive estenuazioni”27. Con i fenomeni saturi viene completamente rovesciato
quanto messo in atto da Husserl nelle Ricerche Logiche: l’intuizione non solo va oltre il concetto, ma
anche oltre ogni possibile significazione o significato. I fenomeni saturi che Marion prende in esame
sono cinque: a) l’evento, già descritto nel quarto libro di Dato che attraverso l’esempio storico della
battaglia di Waterloo, che sopravanza di gran lunga i suoi protagonisti, ignari degli effetti delle
azioni che stavano compiendo; b) l’idolo, tratto dall’ambito estetico, in cui il quadro rovescia il
centro di gravità del visibile dall’originale alla copia, sorprendendo e facendo slittare l’ammirazione
dal mondo fisico al “simile”: così facendo, la pittura domina la fenomenalità, la produce portandola
alla visione; c) la carne come donazione del sé28; d) l’icona, un paradosso che investe lo sguardo di
chi la guarda convocandolo a sè e, costituendolo così “a partire da ciò che gli adviene” 29, gli offre la
possibilità di accedere all’invisto; e) la rivelazione, della quale – così come dei precedendi fenomeni
saturi – la fenomenologia può limitarsi unicamente a dire la possibilità. Scrive Marion: “Si tratta di
pensare la sua possibilità formale – ma niente di più, poiché la fenomenologia non può e non deve
avventurarsi a decidere dell’effettività di un tale fenomeno – questione assolutamente al di fuori
della sua portata -, ma soltanto del tipo di fenomenalità che lo renderebbe possibile.”30 I fenomeni
saturi possono così aspirare al titolo di “realtà” poiché dicono, di diritto, di un’indicizzazione
possibile dell’esperienza. Interrogandosi sulla possibilità che si dia una donazione senza intuizione,
Marion risponde: “Non appena la donazione non dona più alcun oggetto o ente, ma un puro dato,
essa non si esercita più attraverso l’intuizione”, come mostra l’analisi di alcuni “dati puri
contemporaneamente vuoti e saturi di intuizione.”31 Si tratta di casi in cui la donazione mostra
“fenomeni non oggettivabili” – donare il tempo, la vita, ossia casi in cui si è dinanzi ad una pura
possibilità donata -, oppure del caso in cui “la donazione permette a fenomeni di non-enti di
mostrarsi”, come il caso della morte; e infine, si tratta del caso in cui “la donazione lascia che si
mostrino fenomeni che eccedono ogni entità e oggettualità, dunque la comprendono” 32 - come nel
dare la propria parola, dare la pace, dare il senso, ecc. Tutti questi casi sono esempi di dati puri privi
di intuizione ma pur sempre dati secondo la donazione. Ancora una volta, insiste Marion, essi si
attestano sul piano epistemologico della pura possibilità: “Il fenomeno saturo, poiché si dà senza
27
Ivi, p. 279.
A proposito di questo tema, Marion è profondamente influenzato dal pensiero di Michel Henry, alla cui memoria –
unitamente a quella di Emmanuel Lévinas - Marion dedica Il visibile e il rivelato, trad. it. it. Milano, Jaca Book, 2005.
29
J.L.Marion, De surcroît, Parigi, PUF, 2001, p. 129 (trad. nostra).
30
J.L.Marion, De surcroît, cit., p. 191.
31
J.L.Marion, Dato che, cit., p. 301.
32
Ivi, pp. 301-302.
28
10
condizione né trattenuta, offrirebbe allora il paradigma del fenomeno finalmente senza riserve. Così,
sul filo conduttore del fenomeno saturo, la fenomenologia trova la sua ultima possibilità: non solo la
possibilità che supera l’effettività, ma la possibilità della possibilità incondizionata – altrimenti detto
la possibilità dell’impossibile, il fenomeno saturo.”33
Tentiamo di far reagire questo modello di fenomenalità – secondo la donazione saturante –
con il nostro tema specifico, quello della fenomenalità della musica. Se cerchiamo di superare il
modello fenomenologico trascendentale in vista della comprensione del fenomeno musicale non
come mero correlato intenzionale dell’Ego costituente, siamo indotti a mettere alla prova la
fenomenalità della musica attraverso la nozione di donazione e, in particolare, quella di donazione
saturante. In altri termini: la musica può essere forse annoverata tra i fenomeni saturi? È forse
possibile “aggiungere” – almeno in nota! – la musica alla topica dei fenomeni che Marion svolge in
Dato che? A nostro parere vi è questa possibilità, a patto che se ne chiarisca il senso. Proprio con
l’intento di chiarire la portata della musica come fenomeno saturo, è opportuno misurare questa
ipotesi con una delle più penetranti considerazioni che Marion fa sull’icona: “Il centro del volto si
fissa negli occhi, il vuoto delle pupille: qui sorge un contro-sguardo; quest’ultimo sfugge al mio
sguardo e mi guarda a sua volta – di fatto, mi vede lui per primo, perché prende l’iniziativa. Lo
sguardo d’altri, proprio perché in-guardabile, fa irruzione nel visibile […]. Eccesso di intuizione
perché il volto si impone a me, all’intenzionalità centrifuga che viene da me si sostituisce
un’anamorfosi per eccellenza – un punto di vista venuto da altrove che mi impone il suo angolo di
visione. L’intuizione non parte da alcuna intenzione significante, ma sorge come un fatto della
fenomenalità. Eccesso dell’intuizione su ogni significato e concetto.”34 Se proviamo a sostituire, nel
passo citato, la dimensione – già sopra accennata – dell’udibilità a quella della visibilità, ci
avviciniamo forse ad una comprensione più adeguata della “saturazione musicale”: il centro
dell’udito (inteso non solo in senso acustico, ma come plesso ricettivo che coinvolge l’intero
soggetto nella sua più intima sensibilità) si concentra su ciò che si dà all’ascolto: qui sorge un
contro-ascolto, in quanto la musica mi interpella, attende ed esige una mia risposta – sia pure muta o
disattesa – ad essa; ancora più radicalmente, è essa stessa ad ascoltarmi per prima, perché prende
l’iniziativa di rendersi udibile a me, richiamandomi all’ascolto. Vi è così un eccesso di intuizione
perché la musica mi si impone, la mia intenzionalità è quasi nullificata da un’autentica anamorfosi –
una voce che si rende udibile da altrove e che chiede di essere ascoltata (processo del tutto simile a
quella della risalita alla visibilità da parte dell’icona). Anche nel caso del fenomeno (saturo) della
musica, l’intuizione non parte da alcuna intenzione significante, ma sorge come un fatto della
fenomenalità. Eccesso dell’intuizione su ogni significato e concetto. Se nel quadro della
33
34
Ivi, pp. 268-269 [corsivo nostro].
Ivi, p. 140 (trad. nostra) [corsivo nostro].
11
fenomenologia trascendentale della musica – come esplicitato più sopra - l’esecuzione è prima
(intesa, in senso ampio, come preminenza delle strutture trascendentali della coscienza costituente
sull’ascolto, a prescindere che ci si ponga dal punto di vista del vero e proprio esecutore o
dell’ascoltatore), nell’orizzonte della musica intesa come fenomeno saturo l’ascolto è primo, in
quanto l’Io stesso viene costituito da una fenomenalità proveniente da un altrove senza nome e che si
fa voce udibile esigendo risposta: l’a-donato – figura di un Io ultra-trascendentale e ultra-ontologico
– riceve se stesso in quanto termine di quella donazione così “senza riserve” da schiacciare quasi
completamente la sua intenzionalità, in favore di un’intuizione sovrabbondante ed eccedente ogni
forma di concettualità.
4. Al termine del nostro percorso, una nuova questione – che tuttavia ha già tormentato
sotterraneamente il cammino della fenomenologia fin qui, ma che ora esplode con forza - ci si
presenta: nella fenomenologia dell’inapparente, e quindi anche nella fenomenologia della donazione
(fino all’allargamento estremo del campo della fenomenalità che si ha col fenomeno saturo), non è
già sempre in gioco un’ermeneutica?35 Il nesso profondo tra fenomenologia ed ermeneutica va
ricercato nelle radici stesse del progetto fenomenologico heideggeriano, in quel luogo di fratturacontinuità con la fenomenologia trascendentale husserliana in cui viene messa in campo la
fenomenologia dell’inapparente. Insomma, non è soltanto perché i fenomeni sono già sempre
immersi nelle interpretazioni che su di essi si sedimentano nel corso del tempo che la
fenomenologia si lega all’ermeneutica, ma innanzitutto perché il processo che conduce il fenomeno
dalla copertura originaria alla visibilità è costitutivamente interpretativo. Molto spesso i critici di
Heidegger hanno spiegato la coimplicazione di fenomenologia ed ermeneutica partendo dal
presupposto che i fenomeni di cui si occupa la fenomenologia sono dei dati originariamente
immersi in altre interpretazioni: l’ermeneutica consisterebbe dunque nell’articolare questa
dimensione originariamente interpretativa dei fenomeni. In altri termini, secondo questa lettura
Heidegger sosterrebbe che non vi sono cose stesse, ma solo interpretazioni36, e ciò spiegherebbe
l’entrata in scena dell’ermeneutica. Niente di più falso. Innanzitutto, Heidegger non ha mai
suggerito – né in Essere e tempo, né nei corsi pubblicati negli anni successivi – che sia quella la via
più feconda per pensare il rapporto tra fenomenologia e ontologia; in secondo luogo, se Heidegger
fa dell’ermeneutica, non è perché non vi sono cose stesse, ma proprio per articolare l’accesso a
queste ultime. Se ne trova l’esempio più chiaro nel famoso § 32 dedicato alla comprensione; dal
momento che Heidegger vi sostiene la tesi che ogni comprensione obbedisce ad una struttura
Questa è, essenzialmente, l’obiezione che C.Ciancio ha rivolto a Marion nella recente “Giornata di studi su e con
Jean-Luc Marion” svoltasi a Macerata il 30 ottobre 2008.
36
Storicamente, bisogna riconoscere che una parte dell’ermeneutica contemporanea – come del decostruzionismo - ha
assunto tale aforisma di Nietzsche come una sorta di dogma, precludendosi interamente l’accesso al campo della
fenomenalità.
35
12
d’anticipazione (Vorstruktur), si è spesso dedotto che tale struttura d’anticipazione (la precomprensione) indebolisca inesorabilmente il ritorno alle cose stesse (questo, forse, vale per
Gadamer, ma non certo per Heidegger). Ora, Heidegger sostiene esattamente il contrario. “Il
compito ultimo dell’interpretazione” è infatti “di assicurare il proprio tema scientifico sviluppando
queste concezioni a partire dalle cose stesse.” Questo appello alle cose stesse si trova nel cuore dei
paragrafi di Essere e tempo dedicati all’ermeneutica (§ 31-34): è esattamente nel momento in cui si
potrebbe supporre che Heidegger si allontani definitivamente dalla fenomenologia husserliana –
cioè nel punto dove introduce il circolo ermeneutico – che egli richiama con insistenza l’istanza del
ritorno alle cose stesse: qualunque comprensione deve cercare di articolarsi in conformità con le
cose stesse.
Cosa comporta questo innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia (dell’inapparente) per il
nostro tema? Si è visto come la fenomenologia dell’inapparente si apra alla possibilità di una sua
radicalizzazione attraverso la nozione di saturazione: il fenomeno saturo sommerge e annienta
l’intenzionalità per imporre se stesso liberamente, cioè senza riserve e a partire da se stesso. In
questo quadro, tuttavia, l’Io è condannato al silenzio o può tematizzare il proprio rapporto col
fenomeno saturo? Può farlo, ma abbandonando qualunque pretesa di possessione concettuale del
fenomeno, che gli si dà piuttosto come fonte sovrabbondante di significati, come paradosso o come
simbolo che – secondo l’espressione ricoeuriana – “dà a pensare” senza mai lasciarsi esaurire in una
prospettiva unica. Così, l’io a-donato può rispondere all’appello che il fenomeno musicale gli invia
solo nella forma dell’interpretazione, come un tentativo – finito, provvisorio - di esprimere
attraverso il Logos, la ragione e il linguaggio, quella voce che arriva da altrove, senza nome, senza
causa, e che tuttavia lo rivendica insistentemente.
Ci inoltriamo in un’ambito tematico – potremmo dire: ci affacciamo su una soglia - nel
quale Marion non è più disposto a seguirci, nonostante le molteplici recenti sollecitazioni ad un
confronto diretto con l’ermeneutica37. Il punto è: come articolare la risposta dell’a-donato
all’appello della donazione saturante? Qui, a nostro parere, entra in scena l’interpretazione, come
significazione prospettica e personale di quell’indicibile che avviene nella donazione ultratrascendentale e ultra-ontologica del fenomeno saturo. Ancora più radicalmente: se il fenomeno
saturo è indicato da Marion come paradigma della fenomenalità, di cui i fenomeni cosiddetti poveri
(poveri di intuizione e ricchi di intenzione) sono delle progressive “estenuazioni”, allora
l’interpretazione diviene la modalità fondamentale del rapporto coi fenomeni in generale38. Il
Il riferimento è ancora alla giornata di studi con J.L.Marion svoltasi all’Università di Macerata nell’ottobre 2008, e in
particolare alle relazioni di C.Ciancio e U.Perone.
38
Obiezione ovvia: alla stessa conclusione perviene Heidegger in Essere e tempo. Tuttavia, va ricordato che
l’impostazione heideggeriana rimane ontologico-esistenziale, mentre il rapporto tra l’a-donato e la donazione è
fenomenologicamente primo rispetto a quello tra il Dasein e l’essere: pertanto, il fatto che l’interpretazione si
37
13
fenomeno saturo musicale investe l’Io, lo sommerge cogliendolo di sorpresa, prendendo l’iniziativa
ancor prima che egli si decida per l’ascolto o per il rifiuto, e lo espone alla possibilità libera
dell’interpretazione – sia che si tratti dell’esecutore, sia del semplice ascoltatore. Nel caso
dell’esecutore, la risposta all’appello del fenomeno musicale coinvolgerà – ma solo
secondariamente – le strutture trascendentali che gli serviranno per “produrre” materialmente il
suono, ma la vera e propria interpretazione si darà soltanto se egli si ritroverà come a-donato del
fenomeno musicale, come liberamente investito dalla sua donazione e da esso reso capace di donare
a propria volta – donare l’interpretazione personale di una certa composizione (cfr. la donazione
come Ereignis ed Enteignis). Nel caso opposto, in cui le strutture trascendentali della coscienza
coprono l’ascolto autentico, l’esposizione senza riserve alla donazione, allora l’esecutore fornirà
soltanto una riproduzione, non una vera e propria interpretazione.
5. Un ultimo punto, per concludere. Avevamo iniziato sondando il rapporto della
fenomenologia husserliana (trascendentale) con la temporalità; se la fenomenologia dell’inapparente
– e della donazione – ci è parsa in seguito offrire un modello fenomenologico più adeguato per
comprendere la fenomenalità della musica mantenendone la propria autonomia rispetto al pensiero,
preservandone cioè la propria possibilità di “mostrarsi a partire da se stessa”, rimane nondimeno la
necessità di far reagire questo modello fenomenologico-ermeneutico con la questione della
temporalità. In quanto musicale, l’opera si dona soltanto secondo l’ordine del tempo: in questo
senso, nella sua progressività, essa si manifesta sempre nella forma di un’irrisolvibile incompiutezza.
Ogni volta che un’opera musicale si rende udibile, di fatto a farsi udire è solo una parte, e tuttavia
una parte perfettamente compiuta. Nel suo presentarsi secondo l’ordine del tempo, “incarnandosi”
cioè in un prima, in un ora e in un dopo, la parte appare simultaneamente come compiutezza,
rendendo così possibile il godimento dell’armonia che l’opera parrebbe poter rivendicare solo se
potesse darsi compiutamente in un solo istante. Il fenomeno saturo della musica fa della propria
irrisolvibile parzialità qualcosa che, paradossalmente, solo in quanto parziale riesce a non patire mai
la mancanza della compiutezza ma, al contrario, a renderlo sempre presente. Insomma, la musica si
manifesta nel suo farsi: solo in quanto sempre parziale – cioè nel suo dispiegamento secondo
l’ordine della temporalità – il fenomeno musicale si rende udibile. In questo senso, “l’esperienza
della musica riesce a compiere un vero miracolo: ossia a trasfigurare l’esperienza comune della
temporalità – alla cui luce, il dinamismo processuale cui appaiono condannate ogni nostra azione e
ogni nostra percezione sembrerebbe destinato a perenne insoddisfazione, e quindi a un inestirpabile
bisogno di compiutezza o di totalità. Il fatto è che, se normalmente la totalità è proprio ciò che
manca e la parzialità viene dunque vissuta come limite, come condizione di infermità, nella musica,
riconfermi qui come la modalità essenziale dei due rapporti costituisce una conferma di secondo grado della coerenza
del procedimento fenomenologico seguito.
14
al contrario – e solo nell’esperienza da essa resa possibile – la forma della percezione viene
radicalmente rovesciata.”39 Ecco perchè, spinti dal godimento legato ad una determinata esperienza
musicale, ci troviamo talvolta a riascoltare lo stesso brano più volte di seguito, con la speranza di
poter ancora una volta provare l’emozione connessa a questa esperienza temporale – e perciò stesso
insuperabilmente parziale. Ecco perché si può affermare che il tempo musicale non aspira affatto
all’eterno, all’hic et nunc dell’istante presente, ma si rende esperibile attraverso gli scarti di cui è
intessuto, ossia per le dinamiche che fanno di ogni suo attimo un momento carico di potenzialità
future e ricordi – protenzione e ritenzione – che lo rendono perfetto nella sua sospensione e
incompiutezza. “Solo il presente è, nella musica, davvero in grado di dare senso al passato e al
futuro”40, e proprio in ragione del fatto che non può renderli presenti: ancora una volta, sondiamo qui
la straordinaria portata fenomenologica ed ermeneutica della nozione di soglia, che tratteggia quella
zona di passaggio sempre mobile e incerta, intrisa di finitezza e di incompiutezza, sospesa tra un
passato che è memoria ed un futuro che è attesa, speranza, progetto. Ebbene, tutto il percorso
seguito fin qui ci conduce in questo luogo strano e misterioso, la soglia, in cui tentiamo di dire
l’indicibile, il fenomeno saturo della musica, cogliendolo come presente incompiuto e proprio come
tale il solo a poter illuminare il nostro presente e il nostro passato. Forse, in questo nodo profondo,
davvero il fenomeno musicale sovrasta la nostra stessa capacità di articolarlo razionalmente, e si
affida liberamente e gratuitamente – anche a costo della sua possibile distruzione o fraintendimento alla nostra interpretazione personale; forse, in questa figura finale della soglia la musica trascende se
stessa, e si fa simbolo della nostra condizione incerta e incompiuta ma che tuttavia non possiamo
rinunciare a pensare; forse, sulle rovine della metafisica oggettivante e di ogni possibile sistema
sperimentato dalla modernità, possiamo tentare di riesperire la fenomenalità originaria della musica,
accostandoci ad essa più umilmente, cioè ermeneuticamente.
Una bella immagine evoca quest’assonanza tra le rovine di una delle città più rappresentative
della storia dell’Occidente e il destino stesso della metafisica, e con questa immagine vorrei
concludere il presente intervento. La sera del 27 novembre 1944 le squadriglie dei bombardieri
anglo-americani sferrano un violentissimo attacco contro la città di Friburgo; solo il duomo, se pure
gravemente danneggiato, resta in piedi e la sua torre, miracolosamente intatta, diviene da allora il
simbolo della resistenza e della speranza, muta e solenne sentinella della verità e del sacro nella
«grande tempesta» che travolge la Germania e l'Europa intera. Pochi giorni dopo Martin Heidegger,
sulla via che da Friburgo, la città che lo aveva visto raggiungere la notorietà e il prestigio
accademico, lo conduce a Meßkirch, il paese natale nel cuore dello Schwarzwald, chiede accoglienza
ad un suo allievo, Georg Picht, che così riferisce di questa singolare ed inaspettata visita:
39
40
M.Donà, Filosofia della musica, Milano, Bompiani, 2006, p. 24.
Ivi, p. 25.
15
Un giorno, nel dicembre 1944, bussarono alla nostra porta quando era già buio. Fuori c'erano Heidegger, la
nuora e la sua assistente. Erano in fuga da Friburgo, bombardata e minacciata dall'ingresso degli alleati, verso
Meßkirch. Non c'erano mezzi di trasporto. Ci chiesero di poter alloggiare da noi quella notte. Trascorremmo
una serata tranquilla e distesa. Per desiderio di Heidegger, mia moglie eseguì la sonata postuma in si bemollemaggiore di Schubert. Quando la musica finì, egli mi guardò e disse: «Questo noi non possiamo farlo con la
filosofia».
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