IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 IL RASOIO DI OCCAM ISSN 2281-924X Direttore: Paolo Flores d’Arcais con la collaborazione di: Giorgio Cesarale Comitato editoriale: Giorgio Cesarale, Giorgio Fazio, Cinzia Sciuto, Roberto Vignoli, Giacomo Fronzi, Marco Piasentier, Diego Ferrante Comitato scientifico: Giorgio Cesarale, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Gloria Origgi, Matteo Mameli Per contattare la redazione del “Rasoio di Occam”, inviare proposte o segnalazioni scrivere a: [email protected] tel: 06 49827134 – fax: 06 865147124 – via Cristoforo Colombo, 90 – Roma http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/ IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Marx, Wall Street e la lotta di classe di RICCARDO CAVALLO Da poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica [1] che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre. 1. What would Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi finanziaria che partita dall’esplosione del sistema dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare anche nel resto del mondo. Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la propria cover story ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street. Così il celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop, dai pixel giallo-oro che scorre al posto dei valori dei titoli azionari sul rullo della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che rimandano alla necessità di elaborare nuove idee per uscire dalla crisi e allo spauracchio del ritorno della povertà. Tutto insomma lascia presagire che le tesi di Marx, prima fra tutte quella sulla lotta di classe, siano più che mai da riprendere in considerazione come utile strumento per evitare il baratro generato dalla voracità autodistruttiva dei mercati. Malgrado le apparenze, nel suo articolo intitolato Rethinking Marx[2], l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un ritorno del marxismo, cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx, seppur profetiche e a tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente fallito. A tale scopo Gumbel intraprende una sorta di itinerario nei luoghi simbolo della vita del filosofo, ovvero le tre città che hanno avuto un ruolo determinante durante la sua esistenza: Treviri, sua città natale, Parigi dove aveva trovato rifugio per un po’ di tempo e infine Londra, in cui trascorse gli ultimi trentaquattro anni della sua vita e dove tuttora è possibile visitare la sua tomba su cui è scolpita la sua nota citazione, impressa con lettere dorate: «The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point however is to change it». Tuttavia quello che può sembrare un nostalgico tour in realtà sembra avere ben poco l’intento di auspicare un ritorno a Marx traducendosi, al contrario, in un netto rifiuto delle sue teorie. Alla fine del viaggio di Gumbel ciò che rimane è una visione del marxismo strettamente legata alle sue realizzazioni concrete e più o meno fedeli, nell’Ex IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Unione Sovietica e nei paesi dell’Est Europa. Un panorama piuttosto desolante in cui l’unica via è, nonostante la crisi, non rinunciare ad un modello economico di tipo capitalistico. Ma l’accostamento tra l’opera di Marx e la situazione di impasse generata dalla crisi già alla fine del 2008 aveva inspirato diversi articoli, tra cui quello pubblicato sul settimanale The Economist[3] che si chiedeva cosa Marx avrebbe pensato e teorizzato di fronte alla crisi e quello, ancora più eloquente, intitolato Booklovers turn to Karl Marx as financial crisis bites in Germany. Qui senza mezzi termini Kate Connolly, corrispondente da Berlino per la nota testata inglese The Guardian, inizia il proprio articolo[4] con la seguente lapidaria affermazione: «Karl Marx is back», per poi dilungarsi sui motivi del successo editoriale delle opere di Marx, specie tra i giovani studenti universitari tedeschi, alla ricerca di risposte illuminanti in tempi bui e soprattutto di alternative valide al dominio dell’Occidente liberal-capitalistico. Oltre all’impennata di vendite de Il Capitale fino a sfiorare numeri da best seller, testimoniata dalle stesse parole del responsabile di uno dei maggiori editori specializzati in testi accademici in Germania, la Karl-Dietz-Verlag, ciò che è apparso ancora più sorprendente è stato il giudizio espresso da più della metà dei cittadini dell’ex Germania dell’Est che hanno dichiarato di essere fortemente delusi dal capitalismo che inizialmente li aveva abbagliati con le sue armi seducenti e ingannevoli mentre un’altra buona parte di loro addirittura spera in un ritorno del socialismo. Tale sondaggio riportato da un altro giornalista della Reuters in un suo report[5] del 2008 costituisce il punto di partenza per un interrogativo più che legittimo: perché nonostante gli orrori e le storture del regime sovietico della DDR nascoste dietro un’apparenza di giustizia sociale e miseramente svelati al mondo intero dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 i cittadini della Germania dell’Est rimpiangono il socialismo e disprezzano le ‘gioie del capitalismo’? Se il volto del socialismo è stato a tratti spietato quello del capitalismo si rivela persino peggiore: come un killer dai modi di fare ammalianti e cortesi ha prima sedotto la prima vittima con promesse tanto allettanti quanto irrealizzabili e poi l’ha attaccata e uccisa nel peggiore dei modi. È allora inevitabile che, nel momento in cui in tanti si accorgono del volto mostruoso del capitale, si riscopra il valore delle teorie marxiste, specie quelle sulla lotta di classe, sia pure rivisitate, o meglio di un Marx reloaded, come ha affermato con un abile gioco di parole che richiama un noto film di fantascienza, il ‘pedagogista critico’ Ramin Farahmandpur un paio di anni addietro in un saggio che si interroga proprio sulla necessità di far studiare l’opera marxista nelle scuole pubbliche per contrastare l’inarrestabile (quanto deleteria) avanzata della sfrenata società capitalistica[6]. 2. In questo contesto va collocata l’ultima fatica di Domenico Losurdo "La lotta di classe. Una storia politica e filosofica" [7] che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre. La domanda fondamentale da cui prende le mosse la riflessione di Losurdo può essere riassunta nei termini seguenti: cosa intendono Marx ed Engels per lotta di classe? Per rispondere a questo interrogativo occorre innanzitutto sapersi orientare nei labirinti marx-engelsiani alla ricerca di quei frammentari luoghi teorici da cui emergono, nonostante l’evidente asistematicità, i principi-cardine di tale teoria e rileggerli nel milieu in cui sono maturati. Operazione a dir poco ardua che richiede, da un lato, una rigorosa analisi logico-filologica dei testi marx-engelsiani e, in modo particolare, del Manifesto e, dall’altro, un’articolata disamina del contesto storico, non dimenticando che la stessa lotta di classe – come sottolinea giustamente IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Losurdo – possa essere usata in maniera strumentale dal potere dominante ed essere quindi inserita nell’ambito di un progetto complessivo di segno conservatore e/o reazionario, com’è stato efficacemente dimostrato di recente da Luciano Gallino[8], il quale identifica l’offensiva, messa in atto specialmente nell’ultimo trentennio, dalle classi dominanti per ‘rovesciare’ a proprio vantaggio, come una nuova lotta di classe atta a scardinare ogni conquista ottenuta dal basso in seguito alle vecchie lotte sociali. Perciò la seria e dettagliata ricostruzione losurdiana, seppure non sempre condivisibile, può costituire indubbiamente un utile filo di Arianna per orientarsi nel dedalo marxiano della teoria della lotta di classe che, agli occhi dell’Autore, si presenta come una teoria generale del conflitto sociale, che operando una radicale rottura con le ideologie naturalistiche colloca tale conflitto sul terreno della storia. La conseguenza è che le innumerevoli forme in cui esso si manifesta nella realtà non possono essere non tenute in debito conto. Del resto, ciò si evince dalla scelta, nient’affatto casuale, operata da Marx ed Engels di utilizzare non il singolare Klassenkampf ma il plurale Klassenkämpfe. A partire da questa arguta precisazione, la lotta di classe non rinvia solo ed esclusivamente al conflitto tra la borghesia e il proletariato. Quest’ultimo pertanto non è l’unica forma possibile della lotta di classe ma una delle possibili forme che essa può assumere concretamente nelle diverse epoche storiche. Riconoscere la dimensione plurale della lotta di classe significa almeno ammettere che le tre grandi lotte di classe emancipatrici sono: 1) la lotta per l’emancipazione del proletariato; 2) la lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse; 3) la lotta per l’emancipazione della donna. Collocarsi sul terreno della comprensione storico-sociale comporta però il rifiuto di ogni spiegazione che enfatizzi, in modo unilaterale, elementi etnologico-razziali (esemplificati nella nota opera di Arthur de Gobineau, Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane) o psico-patologici (si pensi alla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon) sottese ai paradigmi dominanti nella cultura borghese della seconda metà dell’Ottocento che, in molti casi, finiscono per intrecciarsi e sovrapporsi. E proprio contro la reductio agli aspetti biologico-naturalistici degli appartenenti alle classi subalterne, assimilati a barbari o addirittura a soggetti di rango inferiore e la conseguente legittimazione dell’istituto della schiavitù, che viene elaborata la teoria della lotta di classe. Ma quest’ultima, Losurdo non si stanca mai di ripeterlo, va intesa non in maniera grettamente economicistica (lotta per la redistribuzione) ma anche e soprattutto come lotta contro i processi disumani e coercitivi che caratterizzano la società capitalistica (lotta per il riconoscimento). Innumerevoli sono le espressioni (anche forti) a cui ricorrono, molte volte, nei loro scritti i due filosofi e militanti rivoluzionari per denunciare le condizioni miserrime del proletariato che vanno ben al di là dell’angusto orizzonte economicistico (come vuole la tradizione liberale) coinvolgendo anche ogni ostacolo all’affermazione dell’uomo in quanto tale e della sua dignità costantemente calpestata. Qui i riferimenti filosofici a cui ricorre Marx sono piuttosto evidenti e sono rintracciabili nel paradigma del riconoscimento di hegeliana memoria e, in particolare, nella dialettica tra servo e padrone immortalata nelle celebri pagine della Fenomenologia dello spirito. Se per un verso Marx sembra far tesoro della grande lezione hegeliana che considera l’individuo realmente libero solo quando riconosce e rispetta l’altro quale individuo libero, per un altro la traspone dal piano individuale a quello collettivo. La denuncia dell’antiumanesimo che pervade il sistema capitalistico dunque non può ritenersi episodica o marginale ma rappresenta una sorta di leitmotiv che attraversa il pensiero di Marx ed Engels e non può essere affatto confusa con la retorica umanistica. Ad incorrere in un siffatto errore è stato, com’è noto, Louis Althusser, il quale aveva parlato di una rottura epistemologica nell’opera marxiana, laddove Losurdo al contrario scorge solo il passaggio a un ordine diverso del discorso nell’ambito del quale «la condanna morale dei processi di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 reificazione insiti nella società borghese e del suo antiumanesimo è espressa in modo più sintetico ed ellittico»[9]. 3. Ma l’elemento che più di ogni altra cosa emerge dal lavoro di Losurdo è la costante attenzione riservata da Marx ed Engels alla questione nazionale che molti studiosi marxisti sulla base del noto passaggio tratto dal Manifesto in cui si afferma che «gli operai non hanno patria», hanno liquidato in modo piuttosto frettoloso e superficiale. A smentire un siffatto assunto basta sfogliare le numerose pagine delle loro opere, rinvenibili in ordine sparso, dedicate a tale questione e, nello specifico, alla lotta del popolo irlandese contro il dominio degli inglesi da un lato e di quello polacco contro il regime zarista dall’altro. Il significato politico-rivoluzionario di tali lotte, al di là delle differenze, sta nel fatto che la questione sociale si presenta quasi sempre come questione nazionale. In particolare, il caso irlandese viene visto da Marx con favore per la sua potenzialità di divenire una sorta di detonatore in grado di far esplodere la rivoluzione anche altrove; invece, quello polacco si presenta funzionale a fronteggiare la Russia zarista che all’epoca, per il suo essere l’ultimo bastione della reazione in Europa, rappresentava la principale minaccia verso la classe operaia e la democrazia. Non è un caso che quest’episodio rimanga impresso nella memoria collettiva grazie alla lapidaria affermazione di Lenin: «la Russia era ancora addormentata mentre la Polonia era in fermento». Allo stesso modo, come non dimenticare il trasporto con cui Marx segue a più riprese le vicende dell’India definita, non a caso, l’Irlanda dell’Oriente, in cui milioni di operai sono stati costretti a sacrificare la propria vita non per garantire un futuro migliore al loro paese quanto piuttosto - per riprendere l’amara constatazione dello stesso Marx - «procurare al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità su dieci»[10]. Ciò nonostante - Losurdo non manca di rilevarlo - in molti settori del movimento comunista prevale una sorta di internazionalismo dai tratti utopistici che mira a liquidare come falsi miti le identità nazionali. Un esempio emblematico di tale forma mentis è l’atteggiamento cinico e sprezzante dell’anarcosocialista francese Pierre-Joseph Proudhon reo, a detta di Marx ed Engels, di aver irriso e condannato le aspirazioni nazionali dei popoli oppressi. Già da queste brevi notazioni si scorge come la loro passione verso l’emancipazione delle nazionalità oppresse sia inscindibile da quella per l’emancipazione del proletariato. Del resto, la vittoria della Rivoluzione di Ottobre non si può comprendere - per parafrasare Walter Benjamin omettendo la rilevanza del sentimento nazionale che il bolscevismo aveva sviluppato in tutti i russi senza distinzione di sorta e che Losurdo ritiene essere addirittura una delle cause (rectius: la causa) della disgregazione dell’impero sovietico. In ultima analisi, eludere la questione nazionale vuol dire rovesciare il preteso cosmopolitismo o internazionalismo in una sorta di sciovinismo acritico e settario. Un ulteriore aspetto che Losurdo sembra avere a cuore e sul quale si sofferma nelle pagine conclusive consiste nella messa in guardia dalla ricorrente tentazione populista che, al di là delle sue diverse varianti, si basa sulla credenza mitologica del valore salvifico del popolo. Credenza oggi ancora più pressante a causa della crisi teorica che investe la dottrina marxista. In realtà, si tratta di un fenomeno per niente inedito, in quanto la semplicistica lettura binaria del conflitto la si ritrova, per esempio, già durante la rivoluzione bolscevica, laddove l’emergere di un rozzo egualitarismo e un altrettanto grossolano ascetismo universale è ciò che sembra accomunare, al di là delle differenze, non solo il fervente cristiano Pierre Pascal e l’operaio belga Lazarević ma molti altri seguaci del bolscevismo, tra cui lo stesso Lenin come si desume dal tenore letterale di alcuni discorsi pronunciati in questo periodo. Come non rammentare allora le taglienti parole di Antonio IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Gramsci che, nel noto scritto La Rivoluzione contro il Capitale, si scaglia contro il collettivismo della miseria e della sofferenza? Essa si ripresenta, in modo ancor più accentuato, negli scritti di Simone Weil che tende a ridurre la lotta di classe alla riscossa degli umili e dei reietti e che Losurdo, malgrado l’empatia che la filosofa prova nei confronti del movimento operaio, rigetta ricorrendo a diversi esempi storici (tra cui la Comune di Parigi e la guerra di secessione americana) che dimostrano con estrema chiarezza la sua inadeguatezza, vista la diversità dei soggetti che, a seconda delle situazioni concrete, possono incarnare le istanze rivoluzionarie. Losurdo sembra qui tenere ben a mente il celebre ammonimento marxiano: «non c’è nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista». Da ultimo, una forma più o meno latente di populismo riemerge sia in alcuni lavori di Slavoj Žižek che non esita a qualificare l’approccio di Weil, secondo cui solo i mendichi e reietti sono in grado di dire la verità, come «semplice e toccante», sia negli scritti di Antonio Negri e Michael Hardt, in cui il conflitto tra l’impero e la moltitudine assume anch’esso un’intonazione di tipo moralistico soprattutto quando si celebra l’eccellenza morale insita nella figura del ribelle che rimane tale solo fino a quando si tratta di liberare un popolo oppresso ed umiliato ma viene meno nel momento in cui esso si dismette di tali panni. 4. La lettura del volume di Losurdo si rivela dunque utilissima quanto affatto consolatoria: lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è, a dir poco, inquietante se si pensa che la storia occidentale è stata costellata da brutali episodi, da cui emerge in maniera costante la volontà di ridurre l’altro in schiavitù, sia in forme più o meno palesi, sia in forme più o meno subdole. Nonostante i facili trionfalismi diffusisi subito dopo la caduta del Muro di Berlino e la conseguente dissoluzione dell’impero sovietico, nuove forme di colonialismo e di imperialismo da parte dell’Occidente che, in realtà, ricordano molto da vicino le forme di schiavitù otto-novecentesche si stanno sempre più affermando. Un’analoga riflessione suscita il riaffiorare, in molte metropoli, di una figura, a lungo negletta, come quella del working poor appartenente a quella fascia di lavoratori che, pur percependo un reddito, si avvicinano o si trovano al di sotto della soglia di povertà. A dispetto di quanto si possa pensare, tale fenomeno non riguarda solo coloro che per mancanza di qualifiche diventano ‘obsoleti’ rispetto ai lavoratori più qualificati o in linea con l’avanzamento tecnologico, ma paradossalmente colpisce soprattutto i giovani in possesso di rilevanti curricula costretti in molti casi a ‘nascondere’ i propri titoli, pur di svolgere lavori sottopagati e privi di prospettive e adeguate garanzie. T ale triste scenario non fa altro che smentire le rassicuranti litanie sulla fine della lotta di classe nella società novecentesca avanzate dal sociologo Ralph Dahrendorf, il quale all’inizio degli anni Sessanta la riteneva un’anticaglia del passato da cui bisognava, prima o poi, liberarsi o dal filosofo Jürgen Habermas che, invece, alcuni decenni dopo, nel sottolineare, ancora una volta, che il superamento di tale conflitto era addirittura risalente agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale con l’avvento dello Stato sociale, ometteva un particolare non trascurabile, cioè le lotte che avevano contribuito all’edificazione di quest’ultimo. In realtà, già agli albori dell’Ottocento si era diffusa una corrente di pensiero che sosteneva, dopo il tramonto dell’Ancien Régime e l’avvento della società borghese, l’inesorabile tendenza verso il livellamento delle differenze e l’inutilità della lotta di classe. Ben lungi dall’aver eliminato i conflitti di classe come pensavano John Stuart Mill e Alexis de Tocqueville, la società borghese – come scrivono Marx ed Engels – in realtà non aveva fatto altro che riproporli in forme nuove, acuendo, sia a livello nazionale che internazionale, le diseguaglianze. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 La dura lezione che possiamo trarre da queste tragiche vicende, di cui Losurdo ripercorre sia i passaggi più conosciuti e studiati, sia quelli dimenticati e condannati all’oblio, in cui le innumerevoli lotte di classe, sviluppatesi a cavallo tra Otto e Novecento, assumono le sembianze più disparate (guerre di resistenza o di liberazione nazionale, insurrezioni o rivoluzioni anticoloniali) sta nel fatto che esse, al di là dei distinguo, sono accomunate dall’essere sempre state lotte nazionali e vanno condotte non solo sul piano politico ma soprattutto su quello economico. L’esempio paradigmatico, a cui ricorre più volte l’Autore, è quello della nascita di Haiti, a proposito della quale vengono rievocate le gesta di Touissant Louverture che capeggiò la rivoluzione degli schiavi avvenuta alla fine del Settecento a Santo Domingo e la cui eco andò ben oltre i confini del piccolo paese sud americano, innescando un processo a catena di abolizione della schiavitù. La grande vittoria politica ottenuta sconfiggendo uno degli eserciti più potenti del mondo come quello napoleonico è stata tutt’altro che duratura, poiché il sistematico isolamento diplomatico e la persistente offensiva economica da parte degli USA e degli altri paesi occidentali hanno provocato il collasso del paese sud americano. Forse per evitare che la storia si ripeta, Losurdo si concentra sul caso cinese e la sua ascesa nell’attuale scenario geopolitico globale che segna, per molti versi, il tramonto dell’epoca colombiana contrassegnata da secoli di dominio incontrastato dell’Occidente e la radicale messa in discussione della divisione internazionale del lavoro imposta dal capitalismo. Lo spettro della lotta di classe che il pensiero mainstream sembrava dunque aver esorcizzato definitivamente è nuovamente sotto gli occhi di tutti, come evocativamente afferma di recente il corrispondente da Pechino Michael Schuman sul Time, in un articolo intitolato Marx’s Revenge: How Class Struggle is Shaping the World[11], in cui, anche sulla base dei risultati di un accurato studio dell'Economic Policy Institute (EPI) di Washington, riconosce il ruolo profetico di Marx nella teorizzazione dei guasti del sistema capitalista: l’impoverimento crescente delle masse e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi genera conflitti sempre più stridenti tra le classi sociali. Aver narrato i fasti di questa tormentata storia, attraverso la proposta di un’altra narrazione alternativa a quella dominante, è l’indubbio merito di Losurdo, che coglie altresì nel segno quando invita provocatoriamente i magnati del capitale e della finanza a rileggersi, di prima o di seconda mano, Marx. Ma il suo limite sta nell’aver affrontato solo di sfuggita la questione ecologica che appare oggi un indispensabile terreno di confronto a sinistra, quantomeno se si vogliano, anche in questo caso, sviluppare criticamente le intuizioni di Marx ed Engels, riconoscendo accanto alla prima contraddizione (capitale/lavoro) anche la seconda (capitale/natura). Se tali idee sono ancora vive e feconde non è forse il caso di considerare le lotte ambientaliste intese lato sensu (ivi compresa quella per la tutela dei beni comuni) come l’ultima ed inedita frontiera della lotta di classe? NOTE [1] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013. [2] http://www.time.com/time/specials/packag... [3] http://www.economist.com/node/20019767 [4] http://www.guardian.co.uk/books/2008/oct... [5] http://www.reuters.com/article/2008/10/1... IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [6] R. Farahmandpur, Teaching against Consumer Capitalism in the Age of Commercialization and Corporatization of Public Education, in J.A. Sandlin, P. McLaren (a cura di), Critical Pedagogies of Consumption, Routledge, London-New York, 2010, pp. 58-66. [7] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013. [8] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012. [9] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 91. [10] Ivi, p. 12. [11] http://business.time.com/2013/03/25/marx... Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca con la cattedra di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi dottorale si è aggiudicata nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a Siracusa”. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno (Bonanno, 2007). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 In-canto. Omaggio a Luciano Berio di GIACOMO FRONZI * Lo scorso 27 maggio 2013 si sono celebrati i dieci anni dalla scomparsa di Luciano Berio, uno dei compositori (anzi, musicisti) più rappresentativi del panorama musicale contemporaneo. La complessità e l’articolazione di questa grande figura permettono di tornare a riflettere non solo sugli sviluppi della musica contemporanea, in particolare nel suo rapporto con i nuovi mezzi tecnologici, ma anche sulle potenzialità e sulle prerogative dell’arte aujourd’hui. I discorsi sulla musica non ci inquietano – se così fosse non saremmo qui – però sappiamo che la musica può renderci inquieti perché, quando è carica di senso, chiede comunque di essere parlata, interrogata e messa in relazione con un altrove sfuggente. Luciano Berio, "Un ricordo al futuro" La storia delle arti del Novecento si è caratterizzata fin dall’inizio come un territorio composito, attraversato da correnti, tendenze, forme espressive diverse, talvolta opposte. I complessi e contraddittori sviluppi del «secolo breve», la connotazione «debole» delle narrazioni del mondo di cui l’uomo novecentesco ha dovuto prendere atto, la ritrovata consapevolezza della tragicità dell’esistenza, ma anche l’inesauribile bisogno di sperare ancora, di credere nella possibilità di autorigenerazione dello spirito umano, innervano le arti del xx secolo. Esse si sono fatte carico strenuamente del tentativo, che solo l’artista può liberamente condurre, di gettare fasci di luce nei più reconditi e oscuri angoli dell’animo e della società contemporanea, ma anche di far emergere dalle profondità ambigue proprie dell’essere-umano e delle sue distintive caratteristiche un’inedita e inesplorata bellezza. Orientare la propria ricerca verso obiettivi di questo genere significa assegnare all’attività artistica un compito specifico, che è insieme conoscitivo e morale: contribuire a riflettere sull’uomo, sulle sue condizioni, sulle sue possibilità di rinnovamento, sulle strutture sociali, sul loro grado di costrizione e sul loro potenziale emancipativo. Queste funzioni, che sono al contempo sociali e civili, si possono esprimere al meglio se assumono le forme di un’evoluzione o, all’occorrenza, di una rivoluzione dei mezzi tecnici, del gusto, dell’atmosfera spirituale e sociale di cui l’arte, quindi anche la musica, è sia presentimento che riflesso. Nell’estrema varietà formale e poetica della musica del Novecento, la musica elettroacustica (che possiamo genericamente considerare come la musica prodotta, in studio o dal vivo, ricorrendo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 all’utilizzo di tecnologie elettriche, elettroniche e digitali) costituisce un fenomeno di grande interesse. Essa pone una serie notevole di questioni che coinvolgono lo storico della musica e il filosofo, giacché la sua storia e i suoi sviluppi rinviano anche ad alcune delle grandi questioni teoriche con le quali si è confrontato il pensiero del Novecento: il rapporto uomo-tecnica, le ricadute estetiche del progresso, il problematico dialogo tra artisti e pubblico, la reale capacità di incidenza dell’arte sulla società, e così via. In siffatto contesto, a metà del xx secolo sono emerse delle figure che più di altre, parafrasando Immanuel Kant, hanno dato la regola alla musica. Tra queste, spicca senza dubbio Luciano Berio (1925-2003), uno dei compositori che hanno fatto della libertà di pensiero e della fusione tra dimensione musicale, civile e morale il fulcro attorno al quale costruire nuovi percorsi sperimentali, e che hanno contribuito in maniera decisiva ad arricchire il panorama della musica contemporanea[1]. Lo scorso 27 maggio abbiamo celebrato i dieci anni dalla scomparsa del Maestro ligure e questo contributo intende inserirsi proprio nel solco di quelle celebrazioni. Una delle questioni che Berio spesso affrontava era quella relativa alla possibilità di ricondurre la musica contemporanea a una qualche forma di unitarietà. Proprio come si diceva in apertura, il carattere esplosivo e rivoluzionario delle avanguardie e delle neoavanguardie ha dato vita a un panorama tutt’altro che uniforme. Secondo Fedele D’Amico, la crisi sociale è tale «nel senso che rompe la concordia, dissocia le forze, apre contrasti terribilmente complessi, comunque irriducibili al semplicistico scontro fra vecchio e nuovo»[2], e dinanzi al disordine generale le reazioni e le soluzioni sono innumerevoli, e non tutte spiegabili e comprensibili ricorrendo a schemi evoluzionistici del linguaggio musicale. È il caso, ad esempio, della tonalità, vale a dire del linguaggio che la cultura occidentale si è data per produrre musica per quattro secoli, la cui messa sotto scacco non era legata al fatto che essa non aveva più qualcosa da dire, ma al fatto che essa ha continuato a dire proprio quel che ha sempre detto, a significare quel che ha sempre significato: qualcosa che non ha più trovato giusta corrispondenza nelle lacerazioni e nei drammi della società contemporanea. «La “nuova musica” non nasce da fatalità interne all’evolversi del linguaggio, ma da una scelta morale. Una crisi della tonalità non esiste che per metafora, esiste solo una crisi dell’uomo; di fronte alla quale si possono prendere varie posizioni»[3]. Da qui discende l’estrema differenziazione delle risposte che hanno offerto i compositori, nel corso del Novecento, rispetto a questa crisi globale dell’uomo, spirituale, artistica, morale, culturale in senso ampio. Anche Berio, nel 1993, manifestava dei dubbi circa la possibilità di esprimere una visione che potesse essere unitaria rispetto sia al prodotto musicale che al pensiero musicale. E probabilmente avrebbe anche poco senso, dal punto di vista di Berio, impegnarsi nella ricerca di un filo d’Arianna che possa aiutare a orientarsi nel «caleidoscopio musicale» del secondo Novecento, così come poco senso potrebbe avere ipotizzare una tassonomia o una definizione dei tanti e differenti modi di fare, di fruire e di pensare la musica oggi[4]. Non è un caso che abbia assunto questa posizione proprio un compositore il cui contributo ha segnato un’epoca, una visione della musica e, perché no, una Weltanschauung. Berio, grazie anche a una particolarissima vocazione a vivere i fatti sonori, è emerso subito come una delle punte di diamante della scuola musicale italiana del secondo dopoguerra. Scriveva Mario Bortolotto: «Berio si avvale di un mestiere agguerritissimo: conoscenza eccellente della musica tradizionale, da consentirgli i più divertenti rifacimenti o pastiches; inesauribile passione per lo strumentalismo e anzi il virtuosismo, sì da volgersi con piacere a indagini su ardimentose possibilità tecniche, che è venuto svolgendo specie nella serie delle Sequenze; curiosità artigianale, che spazia con imperturbabile calma e indifferenza olimpica, o quasi, dalla musica d’intrattenimento o di consumo (anche nelle forme più corrive) alle proposte acustiche d’uno studio di fonologia; gusto, soprattutto, da vero amatore di musica per qualsivoglia espressione dell’arte sua»[5]. E uno dei contesti IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 all’interno dei quali Berio ha potuto esprimere al meglio «l’arte sua» è stato senza dubbio lo Studio di Fonologia della Rai di Milano[6]. Lo Studio, che resterà in funzione dal 1955 al 1983, è il frutto dell’attività e dell’impegno di Luciano Berio e Bruno Maderna, nonché della partecipazione di intellettuali e musicologi come Luigi Rognoni o Piero Santi. Lo Studio, però, non nasce direttamente come centro di produzione musicale, ma come laboratorio per esperimenti elettroacustici di carattere generale, nel quale si realizzavano, ad esempio, radiocommedie e radiocronache. La spinta propulsiva iniziale la imprime proprio Berio. Egli aveva ben compreso – anche ascoltando i primi lavori elettronici realizzati a Colonia – che il suono elettronico sarebbe potuto essere una risorsa interessante, un mezzo estremamente utile per la creazione artistica[7]. Come accaduto a Parigi, Colonia o Tokyo, anche a Milano il nucleo originario della ricerca sperimentale elettronica si situa quindi inevitabilmente nel solco della radiofonia e nasce con l’intento di dare vita a un’arte musicale radiofonica ed elettroacustica. Ne è un esempio Ritratto di città (1955-56)[8], frutto di un lavoro guidato da Bruno Maderna a cui collaborano Berio e Roberto Leydi. Lo studio milanese, pur intrattenendo rapporti con gli altri due centri europei già citati, se ne differenzia quasi subito. La «scuola milanese» tenta il superamento della dualità tra musica concreta e musica elettronica pura[9], prendendo una terza strada, alternativa, che, per un verso, punta a una maggiore emancipazione tecnologica della musica, per altro verso, si avvale di un prezioso «atteggiamento speculativo sul materiale sonoro, che però si sottrae al rigore parascientifico praticato dalla scuola tedesca, o alla “semplificazione costruttiva” della prima musique concrète, per muovere con decisione nella scoperta e sperimentazione di nuovi significati e intrecci musicali e di comunicazione»[10]. Berio si inserisce nel dibattito che si era aperto nel contesto milanese relativamente alla questione della ricerca di un linguaggio che si potesse articolare e che potesse prendere forma a partire dagli oggetti e dai soggetti della comunicazione. Francesco Giomi, Damiano Meacci e Kilian Schwoon hanno giustamente scritto che ciò che veramente interessava Berio erano le relazioni che si stabiliscono tra la mobilità fisico-acustica del suono e l’effettiva mobilità del pensiero musicale. Un altro aspetto fondamentale relativo poi all’uso della tecnologia applicata alla musica è legato alle modalità e alle procedure con cui il pensiero musicale riesce ad adattarsi a spazi e situazioni d’ascolto diverse. Le tecnologie informatiche e quelle di diffusione sonora, allora, offrono al compositore la possibilità di abitare spazi acustici nuovi e non convenzionali, ma permettono anche di rendere flessibili spazi tradizionalmente chiusi o, quanto meno, legati a una precisa e consolidata tipologia di fruizione musicale[11]. Al centro del dibattito vi era quindi il problema del giusto equilibrio tra sperimentazione, invenzione semantica e artificio sonoro, il tutto sostenuto da un’idea, da un progetto, per così dire, non strettamente musicale, ma teorico-concettuale, da un pensiero musicale rinnovato. In particolare, Berio intendeva la tecnologia non semplicemente come “strumento” in senso tecnico, ma anche come strumento di pensiero che (in questa doppia accezione) agisce direttamente nel processo creativo[12]. La disponibilità delle risorse tecnologiche è perciò del tutto funzionale a un’idea, a una concezione della musica tecnologica sostanzialmente etica, umana, che si realizza in una forma critica della ricerca e della sperimentazione. La musica – come ha poi sostenuto Luigi Nono – deve quindi saper intervenire nella situazione contemporanea, nella storia, nel mondo, nella vita reale, producendo nuovi contenuti e nuovi significati, istituendo nuovi rapporti con il contesto, con il pubblico, con la comunità. Il campo d’azione della musica, in quest’ottica, risulta ampliato e diversificato. Tale ampliamento poteva IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 scaturire solo da un’intensa attività di ricerca, di investigazione, di indagine. Questa tendenza, nella prassi praticata da Berio, «conduce sempre a ricercare sviluppi musicali dove l’aspetto semanticocomunicativo prevale sulla ricerca dell’effetto fine a se stesso»[13]. Uno dei tratti distintivi della musica di Berio è allora da ricondurre, come accade sempre per i grandi artisti, esattamente alla funzione che il compositore attribuisce alla musica. Ciò che viene privilegiato non è il sofisticato, ma il complesso, vissuto e rivissuto in chiave comunicativa. In questo quadro, la prassi elettroacustica finisce col diventare una via di emancipazione e di progettazione ulteriore dei campi sonori, ricorrendo anche a contaminazioni prodotte dall’intreccio di mezzi e di sistemi espressivi diversi. Questo accade, ad esempio, in Laborintus II (1965), lavoro costruito su testi originali di Edoardo Sanguineti e da lui interpretati, in cui emerge chiaramente il «raggiungimento di questa condizione multipolare che nell’uso della citazione di episodi della letteratura, nell’uso di lingue antiche e contemporanee, o di sketches sonoro-musicali, spazialmente e temporalmente separati, è capace di sollecitare un’ampia gestualità drammaturgica»[14]. Il mezzo elettronico viene utilizzato da Berio come strategia volta alla concatenazione di fatti sonori e di livelli diversi, come strumento per realizzare un complesso polimorfico. Ulteriore esempio di questa tendenza concettuale e compositiva è – secondo Mario Bortolotto – «la più riuscita delle sue composizioni elettroniche»[15], Thema (Omaggio a Joyce), elaborazione elettroacustica della voce di Cathy Berberian su nastro magnetico con testo di James Joyce, lavoro realizzato nel 1958. Thema, brano per quattro canali (quindi, quattro altoparlanti) della durata di poco più di 6 minuti, è una pietra miliare nella storia della musica elettroacustica ed è anche un’opera rappresentativa di un particolare modo – italiano – di prendere parte alla ventata elettroacustica dell’avanguardia musicale degli anni Cinquanta. Con Thema, dopo l’esperienza fatta da Stockhausen con il suo Gesang der Jünglinge (1955-56), Berio, attraverso il lavoro su contaminazioni prodotte dall’intreccio di mezzi e di sistemi espressivi diversi, rimette al centro il rapporto tra parola e suono, tra linguaggio narrativo e linguaggio musicale, senza utilizzare alcun suono propriamente elettronico, ma elaborando segnali vocali registrati, frasi, parole e fonemi isolati. Thema quindi è tutto giocato sul rapporto tra suono e parola e risponde a una precisa tendenza: «esplorare e assorbire musicalmente l’intera faccia del linguaggio»[16]. Berio ha ammesso di essere stato sempre «molto sensibile, forse troppo, all’eccesso di connotazioni che la voce, qualsiasi cosa faccia, porta con sé. La voce, dal rumore più insolente al canto più squisito, significa sempre qualcosa, rimanda sempre ad altro da sé e crea una gamma molto vasta di associazioni: culturali, musicali, quotidiane, emotive, fisiologiche, ecc.»[17]. E il fascino, l’incanto della voce di cui Berio è vittima, emerge con chiarezza in lavori successivi a Thema, come l’“acusmatico” Visage (1961), ma anche Epifanie, Circles, Passaggio (1961-62), Folksongs e Sequenza III (1965-66). Ma torniamo alla storia di Thema. Tra il 1958 e il 1959, mentre Berio era impegnato nelle sue ricerche sul suono, Umberto Eco – due piani sotto lo Studio di fonologia – lavorava su Joyce e spesso passava la sera a casa Berio, con Luciano e Cathy (mezzosoprano, compositrice e, in quegli anni, moglie di Berio), leggendo pagine dello scrittore irlandese. Di lì «è nato un esperimento sonoro il cui titolo originale era Omaggio a Joyce, una sorta di trasmissione radiofonica di quaranta minuti in cui si iniziava leggendo il capitolo 11 dello Ulysses (quello detto delle Sirene, un’orgia di onomatopee e allitterazioni), in tre lingue, in inglese, nella versione francese e in quella italiana; ma poi, siccome Joyce stesso aveva detto che struttura del capitolo era la fuga per canonem, Berio iniziava a sovrapporre i testi a modo di fuga, prima l’inglese sull’inglese, poi l’inglese sul francese e così via […]»[18]. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Omaggio a Joyce: documenti sulla qualità e onomatopeica del linguaggio poetico sarebbe dovuta essere una trasmissione radiofonica – mai andata in onda – di circa quaranta minuti, nella quale si iniziava leggendo il capitolo xi dello Ulysses (1922) di Joyce, un capitolo che – come ha dichiarato lo stesso autore – ha la struttura della fuga per canonem. E questo ha molto interessato Berio che ha iniziato così a pensare a come poter combinare la lettura del capitolo, che si sarebbe dovuta svolgere utilizzando tre versioni: inglese, francese (nella traduzione di Joyce e Valery Larbaud) e italiana (nella traduzione di Eugenio Montale). Bisognava però gradualmente allontanarsi dalla espressione enunciativa, lineare del testo, dalla sua condizione significativa, considerando gli aspetti fonetici e come questi potevano essere trasformati elettroacusticamente. In definitiva: su una struttura intrinsecamente musicale si inserisce il genio di Berio, che ha iniziato a sovrapporre i testi, a modo di fuga. Abbiamo già detto come il testo di Joyce fosse intrinsecamente musicale. Ma c’è anche dell’altro. Gli sviluppi della poesia tra Ottocento e Novecento sembrano, agli occhi di Berio, condividere alcuni aspetti con gli sviluppi della musica. Sia l’una che l’altra sono meno circoscritte nei loro mezzi e meno caratterizzate dai propri rispettivi procedimenti. Non riconosciamo “poesia” solo nel procedimento della versificazione così come non riconosciamo “musica” esclusivamente all’interno di parametri prestabiliti da una qualsiasi cultura musicale. All’emancipazione e isolamento della parola corrisponde, in musica, l’emancipazione e l’isolamento del suono. Vi è inoltre, nei due ambiti, un’analoga nuova sensibilità verso lo spazio, capace di offrire inedite aperture espressive. Per quanto possa sembrare esagerato, scrive Berio, si è avuto un progressivo avvicinamento del «lettore di versi» all’«interprete di musica», quanto meno rispetto al fatto che «ambedue, per realizzare uno dei numerosi risultati possibili, sono obbligati ad una adesione totale, di coscienza, all’opera»[19]. Oltre a queste analogie, a questa prossimità, vi è un altro elemento d’interesse. La poesia è anche un «messaggio verbale distribuito nel tempo» e, rispetto a questa definizione e alle proprietà che le pertengono, la registrazione e i mezzi della musica elettronica possono offrirne un’idea più reale e concreta di quanto possa fare una pubblica e teatrale lettura di versi. Partendo da queste premesse, Berio ha tentato «di verificare sperimentalmente una nuova possibilità di incontro tra la lettura di un testo poetico e la musica, senza per questo che l’unione debba necessariamente risolversi a beneficio di uno dei due sistemi espressivi: tentando, piuttosto, di rendere la parola capace di assimilare e di condizionare completamente il fatto musicale»[20]. Nel periodo in cui Berio ipotizzava e lavorava su questo progetto, si poteva solo immaginare che un giorno si sarebbe potuto arrivare, lungo questo percorso, alla realizzazione dell’ormai mitico “spettacolo totale”, nel quale forme espressive diverse potessero annullare ogni gerarchia e si attivassero e combinassero reciprocamente in un unico e unitario sviluppo. Non si trattava di una fusione, giacché qui la musica e la lettura «dànno un risultato che par irripetibile, e non apre certo alcuna strada alla questione vessata del rapporto col testo nella Nuova Musica»[21]. Alla luce di queste considerazioni, si comprende come la registrazione e i mezzi della musica elettronica potevano essere strumenti efficaci per offrire un’idea più reale e concreta di quanto possa fare ad esempio una lettura di versi pubblica. Inizia così l’esperienza di Thema. Ma quali sono state le operazioni compiute da Berio? Egli ha utilizzato inizialmente una voce femminile per il testo in inglese e due voci maschili per i testi in francese e in italiano. Seguendo l’andamento del testo di Joyce, ha sovrapposto per tre volte la lettura in inglese a se stessa, iniziando però a introdurre il riverbero, ma anche apportando delle prime modifiche sui rapporti di tempo e dinamici, in maniera continua, come in un moto pendolare. Al testo in francese ha aggiunto una seconda lettura, utilizzando però una voce femminile che andava a sovrapporsi a quella IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 maschile, a sua volta già sovrapposta a se stessa. Ultimo passaggio di questa prima fase di montaggio è stata la sovrapposizione della lettura del testo in italiano, utilizzando due voci maschili e una femminile (le voci erano quelle della Berberian, di Eco, Nicoletta Rizzi Marise Flach, Ruggero De Daninos e Furio Colombo). Era fondamentale per Berio andare oltre la semplice dizione dei versi, così da liberare la polifonia latente del testo. Il procedimento utilizzato è stato una combinazione delle tre lingue piuttosto semplice, che prevedeva il loro scambio in punti ben precisi, individuati con criteri di somiglianza o di contrasto. Questo passaggio da una lingua all’altra avviene in maniera più o meno rapida, a seconda della lunghezza dei segmenti di testo utilizzati. L’aspetto interessante è che, una volta che il meccanismo di passaggio si è stabilizzato, questo passaggio non viene più percepito dall’ascoltatore come una transizione da un contesto a un altro, ma come un’unica funzione musicale. E così – come ha scritto Berio nelle note all’opera – accade che «attraverso una selezione e una riorganizzazione degli elementi fonetici e semantici del testo di Joyce, la giornata di Mr. Bloom a Dublino (sono le quattro del pomeriggio, all’Ormond Bar) prende una direzione diversa in cui non è più possibile distinguere tra parola e suono, tra suono e rumore, tra poesia e musica, ma dove ancora una volta diveniamo consapevoli della natura relativa di queste distinzioni e dei caratteri espressivi delle loro cangianti funzioni». Quello che percepiamo all’ascolto, ovviamente, è il risultato di una serie di operazioni tecniche, che non possono essere colte dall’orecchio, per quanto esperto. Ho accennato alle prime e cioè alla sovrapposizione e alla combinazione delle letture nelle tre lingue. Ma a Berio interessava «moltiplicare e accrescere la trasformazione dei colori vocali proposti da una sola voce, scomporre le parole e riordinare con criteri differenti il materiale vocale risultante», procedendo con un’ulteriore selezione del materiale musicale. Viene ripresa la registrazione del testo inglese, in particolare vengono riprese quasi tutte le parole, che vengono ora classificate e unite in accordi secondo una sorta di serie, che Berio definisce «scala di colori vocali», che va dalla A alla U, dittonghi compresi. Attraverso una costante variazione di velocità, Berio ha cercato di accentuare la continuità di questa scala, senza però mai snaturare i singoli caratteri vocali. Il risultato dell’elaborazione è stato un forte allontanamento dal meccanismo naturale della produzione vocale, creando così degli accostamenti di consonanti, ad esempio, che il nostro apparato vocale avvicina con notevole difficoltà (b-p, t-d, t-b, ch-g). Un altro intervento ancora è stato di tipo ritmico. Nella discontinuità ritmica complessiva, Berio ha introdotto degli elementi periodici tratti dal testo francese, ma anche la “r” italiana della frase “morbida parola”. Attraverso l’utilizzo di questi elementi, Berio riesce a rendere più fluida la transizione tra vocali e consonanti, superando così ogni frattura e distinzione tra suono e rumore. Berio ha lavorato anche sulle variazioni di durata e di frequenza. L’obiettivo era quello di far venire fuori nuovi rapporti all’interno del materiale e avvicinarsi il più possibile alla trasformazione naturale dei suoni vocali, ad esempio il passaggio dalla S (che è un po’ il colore di fondo di tutto il pezzo e che si percepisce chiaramente in diversi punti del brano[22]) alla F, dalla F alla V e così via. L’obiettivo di Berio non era quello di mescolare due diversi sistemi espressivi, quanto quello di creare un rapporto di continuità tale che si potesse rendere possibile «il passaggio da uno all’altro senza darlo ad intendere, senza rendere palesi le differenze tra una condotta percettiva di tipo logico-semantico (quello che si adotta di fronte ad un linguaggio parlato) e una condotta percettiva di tipo musicale, cioè trascendente e opposta alla precedente sia sul piano del contenuto che sul piano sonoro»[23]. Secondo Chadabe, «Thema è rilevante in quanto la miriade di suoni dettagliati presenti sono derivati dal testo. Infatti, la trama di Thema, il suo ritmo e il suo trattamento dei suoni IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 e dei significati delle parole e dei fonemi, procede in parallelo ed estende la musicalità del testo di Joyce»[24]. Come rileva Enrico Fubini, in riferimento al rapporto tra poesia e musica nel Novecento, l’attenzione al testo, da parte dei compositori, diviene direttamente proporzionale al suo essere totalmente assorbito e disciolto nel suono e come suono[25]. Le intenzioni di Berio erano tutt’altro che semplici da realizzare, tanto più che nella resa concreta del rapporto di continuità, del passaggio tra i due sistemi espressivi senza darlo a vedere, si correrà sempre il rischio di privilegiare una dimensione rispetto all’altra. «Evidentemente la “trasfusione” – come dice Boulez – da poesia a musica si opera a vari livelli del linguaggio e del significato; il risultato è pur sempre una sintesi o un tentativo di sintesi anche se […] sbilanciata in una o nell’altra direzione»[26]. Berio era convinto che vi fosse comunque un’insuperabile divergenza tra musica e poesia. Perfino in casi di eccezionale conformità, come nei Lieder tedeschi, quando ci troviamo di fronte a un miracolo di accordo quasi spontaneo fra struttura musicale e struttura poetica, rimaniamo consapevoli delle divergenze, di un disaccordo espressivo tra il disegno musicale e il disegno poetico, tra strofe musicali e strofe poetiche, tra metro e rima, tra modi musicali e stati d’animo poetici[27]. L’esperimento di Berio sembra voler rimodulare il rapporto tra musica e parola poetica, immaginando tale rapporto come un procedimento maieutico, dal quale possa scaturire la spontanea musicalità e polifonia della materia poetica (nella quale tutto è già implicito) e la nuova poeticità che i mezzi elettroacustici possono far emergere. Detto questo, va però anche tenuto presente che gli esiti “teatrali” di questo filone della ricerca contemporanea hanno assunto una connotazione nostalgica rispetto agli elementi di ritualizzazione e, al contempo, di desemantizzazione, come nel caso di Stockhausen. Se questo è lo schema e il contesto concettuale all’interno del quale prende forma Thema. Omaggio a Joyce, vorrei concludere sottolineando un ultimo importante aspetto. Credo che questo lavoro di Berio, come egli stesso, in fondo, ha tenuto a rilevare, rappresenti un po’ il manifesto di una poetica e di una visione della musica e della sua funzione. Thema, ha dichiarato Berio, «è stata un’esperienza fondamentale che conteneva i semi di molti altri sviluppi. In realtà, dopo essermi occupato di Joyce, di questo specifico lavoro, mi sono interessato molto di più alle miracolose relazioni tra suono e significato. Il mio successivo lavoro per nastro, Visage, composto nel 1961, approfondisce questi significati, collegando alcuni aspetti del linguaggio (stereotipi, gesti e materiale non verbale) con la musica elettronica»[28]. Ma non è tutti qui. Il Maestro Berio, anche attraverso quest’opera, ha comunicato un’intenzione forte, vale a dire il superamento del rapporto conflittuale tra suono naturale e suono sintetico, richiamando la necessità di «purificare i nostri costumi musicali da ogni residuo dualistico». Ma perché ciò possa avvenire, è necessario che ogni esperienza che coinvolge compositore, interprete e ascoltatore (sempre più partecipante) passi attraverso un contatto vivo e permanente con la materia sonora e «non attraverso le sue suggestioni superficiali o attraverso le divagazioni schematiche di qualche malinteso pseudoseriale: di per sé i procedimenti seriali non garantiscono assolutamente nulla: è sempre possibile serializzare delle pessime idee come è anche possibile versificare pensieri stupidi»[29]. Per ottenere ciò, però, occorre appunto superare la frattura tra suono sintetico e suono strumentale. È molto chiara, in Berio, l’intenzione di rifiutare la contrapposizione tra musica elettronica e musica strumentale. E non si tratta di un rifiuto che rinvia a questioni tecniche, quanto a valutazioni di ordine concettuale. Nel mantenimento di questa divaricazione, nel pervicace impegno a restare legati a siffatta dicotomia, Berio intravedeva un grave rischio, quello della separazione di musica e pensiero, di musica e significato. Da ciò deriva la necessità di riflettere (e far riflettere) con maggiore lucidità e distacco sulle ricadute concettuali, culturali, estetiche della nuove tecnologie IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 sulla vita musicale. Esse consentono un inaspettato ampliamento del «vocabolario acustico», che però deve essere preceduto e sostenuto da un pensiero musicale capace di renderlo nuovo[30]. E allora Thema lo possiamo intendere come un manifesto, sì, ma anche come un appello: alla fine degli anni Cinquanta del xx secolo, Berio – il cui pensare in musica era «costituzionalmente differente»[31] – invita i compositori ad allargare i propri mezzi musicali, senza distruggere nulla, facendo sì, anzi, che le scelte personali dei compositori possano continuare a fare da ponte tra una forma e una materia sempre nuove. Ma a un tale rinnovamento – prosegue Berio – si legano anche i nostri problemi spirituali, se è vero che esso è (e deve essere) il segno di un rinnovamento della coscienza, non solamente musicale, degli individui[32]. Torna, ciclicamente e quasi ossessivamente, una tensione etica, una spinta propulsiva verso l’umano che senza soluzione di continuità segna in modo inequivocabile l’opera e, forse ancor di più e principalmente, il pensiero musicale di Berio. Non si tratta di moralismo, di pedante tentativo di assegnare all’arte e alla musica un ruolo e un compito che non possono avere nell’immediato. Esse riescono però a educare l’uomo (anche in senso schilleriano, se vogliamo), allo scopo di trasformarlo da individuo isolato in essere sociale, ponendolo in condizione di sviluppare la propria esistenza in rapporto e in collaborazione con lo sviluppo di quella altrui. Le arti possono contribuire in maniera decisiva ad affermare il primato di valori non negoziabili: libertà, dignità umana, eguaglianza dei diritti, giustizia. Questo però a patto che – richiamando Theodor W. Adorno – la cultura abbandoni il carattere quasi religioso di cui spesso si è ammantata, un carattere falsamente e inutilmente consolatorio e, per ciò stesso, ideologico. Si tratta sì di una «promesse du bonheur», ma pur sempre di una promessa che non può e non deve essere mantenuta. Le celebrazioni per i dieci anni dalla scomparsa di Luciano Berio, uno dei protagonisti principali e indiscussi della storia della musica e della cultura contemporanee, offrono perciò la possibilità di riproporre e ricostruire alcuni degli aspetti che ne hanno contraddistinto in maniera unica il percorso di ricerca e la poetica, ma consentono anche di ripensare alcune questioni relative alla capacità che la musica e la cultura hanno di dire qualcosa all’uomo contemporaneo su se stesso, sul proprio passato e, soprattutto, sul proprio futuro. * Per alcune parti di questo contributo, ho avuto come riferimenti i contenuti della lezione di musica dedicata a Thema. Omaggio a Joyce da me tenuta per il programma di Radio3 «Lezioni di musica» (a cura della redazione di Radio3 Suite), andata in onda il 26 maggio scorso, e il mio volume Electrosound. Storia ed estetica della musica elettroacustica, EDT, Torino 2013. Ringrazio, inoltre, la compositrice Alba Francesca Battista, con la quale ho a lungo e proficuamente discusso su questo “tema”. NOTE [1] Sulla figura e l’opera di Luciano Berio vi è un’ampia letteratura. Oltre ai riferimenti presenti in queste pagine, mi limito a segnalare D. Cohen-Lavinas, Omaggio a Luciano Berio, avec le soutien de l’Ensemble Itinéraire, l’Hartmann, Paris 2006; G. Morelli, Luciano Berio, in «Belfagor», vol. lxiv/2, 2009, pp. 122-146; C. Di Luzio, Vielstimmigkeit und Bedeutungsvielfalt im Musiktheater von Luciano Berio, Schott, Mainz 2010. Di recente, poi, è stato pubblicato un volume che si pone come un preziosissimo strumento di conoscenza e di approfondimento dell’attività e del pensiero musicale di Berio, articolato in sei aree tematiche: il modo di intendere il concetto di musica; le prospettive sul processo compositivo; la concezione della forma; l’interazione tra voce, parola e gesto; il rapporto tra pensiero elettronico e strumentale; il dialogo con le altre culture musicali: A.I. De Benedictis, Luciano Berio. Nuove prospettive – Luciano Berio. New Perspectives, Atti IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 dell’omonimo convegno, Siena, Accademia Chigiana (28-31 ottobre 2008), in «Chigiana», vol. xlviii, Leo S. Olschki, Firenze 2012. [2] F. D’Amico, La musica contemporanea non è una, in Id., I casi della musica, il Saggiatore, Milano 1962, pp. 507-13: 508. [3] Ivi, pp. 511-2. [4] Cfr. L. Berio, Un ricordo al futuro. Lezioni americane (2006), a cura di T. Pecker Berio, Einaudi, Torino 2006, p. 5. [5] M. Bortolotto, «Luciano Berio, o dei piaceri», in Id., Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica (1969), Einaudi, Torino 1976, pp. 128-48: 128. [6] Scrive Joel Chadabe: «rispetto all’approccio rigoroso della musique concrète dello studio di Parigi e alla rigorosa filosofia serialista degli inizi dello studio di Colonia, lo studio di Milano non era vincolato ad alcuna particolare ideologia o metodo. [...] Allo stesso tempo, le idee musicali di Berio oltre ad aver rappresentato un riferimento iniziale per il suo successivo lavoro hanno fornito una sorta di personalità, si potrebbe dire, per lo studio in generale» (J. Chadabe, Electric Sound. The Past and Promise of Electronic Music, Prentice Hall, Upper Saddle River 1997, p. 48; trad. it. mia). [7] Cfr. F.K. Prieberg, Musica ex machina (1960), trad. it. di P. Tonini, Einaudi, Torino 1963, p. 147. [8] Si tratta di un ritratto sonoro della città di Milano dal mattino a tarda notte, uno «schizzo sonoro», come l’ha definito Fred Prieberg, costituito essenzialmente da suoni sinusoidali, brevi rumori e una voce recitante, a cui si alternavano improvvise impennate rumoristiche. «Complessi elettronici, rumori di ogni giorno in forma denaturata copiati dalla vita, suoni filtrati e il testo del recitante si mescolavano in un originale e sempre efficace reportage che spesso raggiunge la qualità lirica della vera poesia» (ivi, p. 155). Era, tuttavia, un lavoro d’esordio, per certi aspetti debole e con qualche squilibrio. [9] Va comunque detto che questa dualità è stata meno netta rispetto a quanto viene generalmente sostenuto. La superficialità della contrapposizione tra l’elettronica pura di ascendenza stockhauseniana e la musica concreta francese di derivazione schaefferiana (fatte salve certe evidenti differenze) è confermata dallo stesso Stockhausen, il quale si è rivelato, in fondo, un compositore concreto, elettronico e acusmatico insieme (cfr. K. Stockhausen, J. Kohl, Electroacoustic Performance Practice, in «Perspectives of New Music», Vol. 34, No. 1, Winter, 1996, pp. 74-105.) [10] F. Galante, N. Sani, Musica espansa. Percorsi elettroacustici di fine millennio, Ricordi-Lim, Milano 2000, p. 75. [11] Cfr. F. Giomi, D. Meacci, K. Schwoon, Live Electronics in Luciano Berio’s Music, «Computer Music Journal», Vol. 27, No. 2 (Summer, 2003), pp. 30-46: 30. [12] Cfr. A. Cremaschi, F. Giomi, “Parrrole”: Berio’s Words on Music Technology, in «Computer Music Journal», Vol. 28, No. 1 (Spring, 2004), pp. 26-36: 33. [13] F. Galante, N. Sani, Musica espansa, cit., p. 82. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [14] Ivi, p. 83. [15] M. Bortolotto, «Luciano Berio, o dei piaceri», cit., pp. 140-1. [16] L. Berio, Un ricordo al futuro, cit., p. 41. [17] L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Editori Laterza, Roma-Bari 20113, p. 102. [18] U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (1962), Bompiani, Milano 2004, p. v; il corsivo è nel testo. Come ha dichiarato lo stesso Berio, egli era «affascinato dall’intenso e ricco intreccio di significati presenti in quel capitolo e dalla relazione tra l’esposizione e il loro pieno sviluppo» (L. Berio, Interview with Luciano Berio. Thema: Omaggio a Joyce, in B. Schrader, Introduction to Electro-Acoustic Music, Prentice Hall, New Jersey 1982, pp. 179-83: 179). [19] L. Berio, Poesia e musica - un’esperienza, in H. Pousseur (a cura di), La musica elettronica, trad. it. di R. Bianchini e L. Lombardi, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 124-35: 125. [20] Ibid. [21] M. Bortolotto, «Luciano Berio, o dei piaceri», cit., p. 141. [22] Questo accade all’inizio, durante, ma soprattutto alla fine del lavoro, nei 16-17 secondi conclusivi. [23] L. Berio, Poesia e musica - un’esperienza, cit., pp. 125-6. [24] J. Chadabe, Electric sound, cit., p. 50. [25] E. Fubini, «Da Wagner a Stockhausen: musica e parola, evoluzione di un problematico incontro», in Id., Il pensiero musicale del Novecento, ETS, Pisa 2007, p. 71. [26] Ibid. [27] Cfr. L. Berio, Un ricordo al futuro, cit., p. 39. [28] L. Berio, Interview with Luciano Berio, cit., p. 182. [29] L. Berio, Poesia e musica - un’esperienza, cit., p. 134. [30] Su questo, cfr. A. Cremaschi, F. Giomi, “Parrrole”: Berio’s Words on Music Technology, cit., p. 29. [31] M. Bortolotto, «Luciano Berio, o dei piaceri», cit., p. 132. [32] L. Berio, Poesia e musica - un’esperienza, cit., p. 135. Giacomo Fronzi (1981), laureato in Filosofia (Lecce) e in Musicologia (Venezia), dottore di ricerca, diplomato in pianoforte, svolge attività di ricerca presso la cattedra di Estetica dell’Università del Salento. Tra le sue ultime pubblicazioni: Theodor W. Adorno. Pensiero IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 critico e musica (Mimesis 2011), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni (Mimesis 2012), Electrosound. Storia ed estetica della musica elettroacustica (EDT 2013). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Le promesse della Costituzione di LUIGI PANNARALE Le costituzioni sono la soluzione del grande paradosso che caratterizza il diritto dell’età moderna, che consiste nel rendere possibile l’esercizio della libertà come delimitazione che continuamente riapre possibilità di azione. Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. La nostra Costituzione sembra, tuttavia, afflitta da uno strano destino: per molto tempo è stata considerata troppo proiettata verso il futuro e di difficile attuazione, per essere poi troppo presto considerata invecchiata a differenza di altre costituzioni che, invece, sembrano sopportare con disinvoltura il trascorrere dei secoli. 1. Ambivalenza delle costituzioni Il concetto di costituzione contiene in sé un’ambivalenza, in quanto appartiene contemporaneamente al linguaggio della politica ed a quello del diritto. La nascita delle moderne costituzioni è strettamente connesso con il processo di positivizzazione e di secolarizzazione del diritto e, in tale processo, trova la sua principale giustificazione. Il diritto deve, infatti, cercare nuovi fondamenti alla propria legittimazione, che d’ora innanzi si caratterizzerà come auto-legittimazione. Attraverso il concetto di costituzione sistema politico e sistema giuridico cercano risposte adeguate a problemi equivalenti. Per la politica l’affermazione che lo Stato è il creatore del diritto e che il diritto trova il suo fondamento nello Stato, implica inevitabilmente la necessità di spiegare perché le decisioni dello Stato abbiano il carattere della vincolatività, in che cosa consista questa vincolatività, quali siano i suoi destinatari e se, fra essi, sia ricompreso lo Stato medesimo. Per il diritto, che segue una via opposta ma simmetrica, il problema è quello di spiegare perché lo Stato abbia la potestà di comandare ed i sudditi abbiano il dovere di obbedire, ovvero perché e come possa esistere una norma che attribuisce allo Stato una simile potestà e fa gravare sui sudditi un siffatto dovere[1]. La costituzione non è, dunque, un meccanismo che esaurisce nella sfera politica il proprio ambito d’azione. Attraverso la costituzione diviene pensabile un controllo giuridico della politica: il giudizio di costituzionalità sulle leggi trasferisce dalla sfera politica alla sfera giuridica il potere di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 controllo del sistema politico e risolve il problema di un tale controllo attraverso il diritto. Il riferimento alla costituzione consente di comunicare giuridicamente sull’attività politica, distinguendo tra lecito e illecito, tra diritto e non-diritto. Non basta più assicurarsi un più o meno largo consenso nei confronti delle decisioni, perché vi sono dei limiti esterni alla potestà politica di decidere ed essa può essere illegittima, ancorché suffragata da un ampio consenso popolare. Vero è che anche la costituzione può essere cambiata, ma soprattutto le costituzioni rigide prevedono delle procedure di revisione tali da non consentire che i cambiamenti avvengano in modo troppo disinvolto e sulla base di emozioni momentanee; inoltre tra gli stessi costituzionalisti si discute molto circa l’individuabilità di un nucleo ristretto di norme, che si sottraggano ad ogni procedura di revisione, perché il loro cambiamento modificherebbe così radicalmente la natura stessa dello Stato, da dover essere considerato un atto rivoluzionario più che di semplice modifica della costituzione. Considerazioni analoghe valgono anche in riferimento alla funzione che la costituzione ha per lo stesso sistema giuridico. La positivizzazione consente di mettere in dubbio il potere vincolante del diritto o, quanto meno, di porsi il problema del fondamento di legittimazione di quel potere e dell’uso della forza che lo sostiene. Nella tradizione liberale lo Stato di diritto ha il compito di filtrare le azioni precarie della politica (relative agli interessi) attraverso il diritto. Lo Stato di diritto costituisce la formula attraverso la quale il sistema giuridico osserva il sistema politico e cerca di controllare le modalità secondo cui quest’ultimo costruisce una relazione con il suo ambiente sociale. Da tale prospettiva il carattere distintivo dell’ordinamento statuale, rispetto ad ogni altra forma di ordinamento, consisterebbe nella sua positività. Il punto di osservazione del sistema giuridico non è, tuttavia, l’unico dal quale sia possibile osservare il processo di positivizzazione del diritto. Se si assume la prospettiva del sistema politico, la giuridificazione costituisce allo stesso tempo una restrizione ed un potenziamento delle decisioni politiche: il diritto si presta ad essere strumentalizzato dalla politica, ma allo stesso tempo restringe l’ambito delle possibilità e degli strumenti che la politica può utilizzare di volta in volta per il raggiungimento dei propri scopi. Inoltre, come è stato teorizzato dalle teorie dell’implementazione, il sistema giuridico si assume il rischio di scegliere strumenti giuridici non idonei al raggiungimento dei propri scopi. Non è un caso, quindi, che la semantica della decisione abbia avuto bisogno di una giustificazione per legittimare un atto di volontà troppo semplificato rispetto alla complessità del codice politico (soggetti, interessi, obbedienza-resistenza-comando). La costituzione può, dunque, essere considerata la forma più diffusa e abituale di reazione del sistema giuridico alla propria autonomia, attraverso la quale esso cerca di rimpiazzare quei sostegni esterni che erano stati postulati dal giusnaturalismo. La costituzione è in grado di stabilire una gerarchia delle norme giuridiche, di sancire le condizioni della sua mutabilità e persino della sua immutabilità, ma soprattutto consente un’applicazione riflessiva della differenza tra legittimo e illegittimo al diritto stesso, poiché anche le norme giuridiche possono essere (costituzionalmente) legittime o illegittime. Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria è possibile interrompere la regressio ad infinitum per la ricerca di un fondamento esterno, il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. Tuttavia tale asimmetria può reggersi a condizione che ne sia occultato il carattere autologico: “il codice diritto – non diritto genera la costituzione, perché la costituzione generi il codice diritto – non diritto”[2]. La soluzione del problema ha un carattere meramente operativo e le sue giustificazioni teoriche non possono che costituire il tentativo di descrivere come necessario (o naturale), ciò che è contingente (o artificiale). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 2. Il futuro passato della Costituzione italiana Rispetto a questo quadro generale, la nostra Costituzione presenta alcune specificità, sia perché essa è una costituzione scritta alla metà del XX secolo, sia e soprattutto perché essa pone fine alla tragica esperienza del fascismo e sancisce il ripristino della democrazia. Subito dopo la sua promulgazione si pose, infatti, il problema di quali conseguenze essa avrebbe dovuto avere sulla normativa previgente, soprattutto su quella del periodo fascista. A tale riguardo un ruolo determinante fu svolto dalla Corte di cassazione, che da un lato ribadì l’antico principio secondo cui il giudice non ha la potestà di disapplicare la legge sotto pretesto della sua incostituzionalità, dall’altro operò la nota distinzione tra norme “precettizie” (a loro volta complete o incomplete) e norme “programmatiche”, attraverso la quale poteva rinviare sine die l’effettività di una buona parte delle norme costituzionali[3]. Questa scelta interpretativa, però, non fu soltanto il frutto di un’ideologia di stampo conservatore, ma anche la conseguenza della novità costituita dall’introduzione dei “diritti sociali” accanto ai più tradizionali diritti di libertà. La Costituzione, infatti, non si è limitata a restaurare i diritti liberali, ma si è spinta a realizzare un’idea di cittadinanza, in cui il cittadino è visto in rapporto ai suoi legami sociali, in cui si fa strada il dovere di solidarietà: i diritti sono stati liberati dal sospetto del privilegio. La Costituzione non rappresenta più la garanzia di un ordine dato, ma il punto di partenza di un processo continuo, di un programma da realizzare, che è immerso esso stesso nelle contraddizioni della società e corre continuamente il rischio del fallimento. Tanto più che tra i classici diritti di libertà e i diritti sociali vi è pure una differenza non trascurabile sotto il profilo economico: mentre la soddisfazione dei primi normalmente non costa nulla allo Stato, la soddisfazione dei secondi non è soltanto una questione politica, ma anche una questione finanziaria. Lo stesso Calamandrei evidenziò questa differenza, già alla vigilia della Costituente: “quando avremo consacrato in lapidari articoli, come programma minimo di civile convivenza democratica, quei ‘diritti sociali’ senza i quali tutti siamo convinti che non può esistere per il cittadino vera ed effettiva libertà politica, avremo il dovere di domandarci sinceramente quale potrà essere il significato pratico di quella proclamazione; quali mezzi avrà la nuova democrazia per tradurla in realtà; quali speranze non illusorie potrà il povero fondare su quelle solenni promesse di redenzione sociale […]. Quando ci accingeremo a risolvere il problema della giustizia sociale, forse dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porgere alcune premesse: formulare in articoli promesse consolatrici, segnare mete che servano di faro al cammino dei figli e dei nipoti; e intanto limitarci ai primi passi, a chiedere a chi soffre di continuare, chissà per quanto, a soffrire”[4]. Incominciare a prendere sul serio i principi costituzionali fu, perciò, lo strumento attraverso il quale, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, parte della magistratura e del ceto dei giuristi incominciarono a porsi il problema di un uso alternativo del diritto, che mettesse in discussione il vecchio formalismo e individuasse nuovi modelli interpretativi più attenti all’evoluzione della realtà sociale ed ai conflitti in atto nella stessa. La riformulazione del principio di legalità attraverso l’individuazione di una norma gerarchicamente sovraordinata introduce, però, anche la possibilità di operazioni di tipo riflessivo: la distinzione tra diritto e non diritto può essere applicata al diritto stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui la clausola che regola gli emendamenti costituzionali venga usata per emendare se stessa, ovvero al dibattito sulle possibili modifiche alla Costituzione e al tentativo di immunizzare almeno una parte delle norme costituzionali dalla possibilità di venire modificate, introducendo un ulteriore gerarchizzazione tra norme costituzionali pure e semplici e principi fondamentali o “diritti IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 supercostituzionali”, i quali come tali devono essere rispettati dallo stesso potere costituente e salvaguardati anche contro gli attentati provenienti da esso. La crisi dello Stato di diritto di stampo ottocentesco e il passaggio allo Stato costituzionale segna contemporaneamente il passaggio dal principio di legalità al principio di legalità costituzionale, che pone al di sopra della legge, appunto, la Costituzione, destinata ad essere rigida, alla quale viene attribuito il compito di sottrarre alla decisione politica e all’onnipotenza dei soggetti rappresentativi aspetti quali la configurazione del potere pubblico, la sua organizzazione interna, la struttura dei suoi organi e ogni tipo di rapporto tra governanti e governati. Sulla base di questa distinzione di compiti le leggi ordinarie sono quelle che servono a regolare i rapporti tra i cittadini nella loro quotidianità: quelle che servono a governare secondo legalità la concreta vita sociale. Ma queste leggi ordinarie presuppongono l’esistenza e il funzionamento di organi di governo, che non solo le applichino, ma via via le modifichino e le rinnovino secondo il continuo rinnovarsi delle esigenze pubbliche; a loro volta questi organi di governo presuppongono l’esistenza di leggi, che abbiano fissato in anticipo la loro struttura e il loro modo di funzionare e abbiano distribuito tra essi l’esercizio della sovranità: queste ultime leggi si dicono appunto “costituzionali”. 3. La Costituzione tra stabilità e mutamento Solo che anche questo modello si è presto mostrato insufficiente, poiché l’agognata unità del sistema è continuamente rimessa in discussione dal carattere positivo delle stesse norme costituzionali. Se la Costituzione deve servire a garantire l’unità del sistema[5], essa non può ignorare e, anzi, deve presupporre le sue divisioni e le sue incoerenze. Proprio per questo le costituzioni moderne non si presentano più semplicemente come l’insieme delle regole sui poteri o la definizione dei diritti fondamentali, ma sono utilizzate e comunicate come simboli: la Costituzione italiana, ad esempio, è il simbolo del patto antifascista, però – come tutti i simboli – rischia continuamente di diventare fragile ed invisibile. L’improbabile unità dei sistemi giuridici, nonostante il ricorso alla differenziazione tra norme ordinarie e norme costituzionali, trova una plausibile spiegazione nel fatto che, nelle società pluralistiche, non è dato riscontrare la preventiva coagulazione di un ampio consenso sui cosiddetti “valori fondamentali”. Le moderne costituzioni non sono più il frutto di un processo deliberativo aperto, pienamente dispiegato, che coinvolga i principali gruppi, corpi costituiti e rappresentanti e che implichi la disponibilità di ognuno a modificare la propria opinione iniziale alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti e delle nuove informazioni raccolte; il caso più frequente è, invece, quello della semplice accettazione del dissenso, senza alcun tentativo di mediare le opinioni contrapposte[6]; non importa, infatti, che esse siano tra loro incompatibili, l’importante che siano almeno ragionevoli[7]. Stanti l’incapacità di ciascun partecipante di imporre il proprio punto di vista come egemonico e l’indisponibilità ad accettare come tale quello degli altri, appaiono più probabili incontri di tipo tattico, che non strategico. È noto il giudizio di Calamandrei sull’assetto di valori consacrato nella nostra Carta costituzionale: “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”[8]. Il risultato compromissorio, che se ne deduce, evidenzia che l’ambiguità è un carattere essenziale della democrazia del nostro tempo; esso accresce, anziché limitare gli spazi di creatività della legge ordinaria, dal momento che sono sempre possibili combinazioni diverse dei principi costituzionali e l’accordo sulla priorità di un determinato valore, raggiunto secondo il principio di maggioranza per l’approvazione di una determinata legge, non è detto che valga anche per le leggi successive[9]. La Costituzione, nonostante sia stata impostata come costituzione rigida, è allo stesso tempo una costituzione dinamica, nella quale vi sono norme che, pur carenti di precettività, hanno IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 “un’efficacia educativa e quasi si direbbe pedagogica”, “un carattere puramente tendenziale”; si tratta di una “costituzione che, se il popolo saprà civilmente volere, potrà accompagnarlo, senza rinunciare a libertà, verso la giustizia sociale”[10]. Forse anche per questo accanto alla distinzione tra legge e costituzione, la dottrina costituzionalistica ne individua operativamente un’altra, almeno in parte sovrapponibile, tra regole e principi[11]. Mediante il riferimento ad una pluralità di principi, privi di una gerarchia formalmente determinata, si cerca, allo stesso tempo, di concepire un diritto che sia più idoneo a garantire la sopravvivenza di una società pluralista, la cui condizione è il continuo riequilibrio attraverso transazioni di valore. Solo la virtù etica, infatti, è assoluta; tra i valori, invece, che sono semplicemente ciò che è desiderabile, si può venire a patti. Il diritto per principi di valore consente una relativizzazione dell’etica; e relativizzare un’etica non significa rinunziare ad avere una propria visione del mondo, significa piuttosto avere la consapevolezza che la sopravvivenza del mondo è la prima indispensabile condizione per realizzare qualsiasi progetto etico[12]. Parafrasando Elster, si può dire che, se i delegati della Convenzione federale di Filadelfia avevano avuto come principale preoccupazione quella dell’avidità e dell’egoismo dei legislatori futuri e i delegati dell’Assemblea costituente di Parigi si erano preoccupati soprattutto della loro vanità e superbia, la Costituente italiana individuò nel dogmatismo arrogante e nello scetticismo opportunista il motivo prevalente delle proprie scelte[13]. La soluzione di questo problema si è configurata come una continua oscillazione tra sostanzialismo e proceduralizzazione (sia pure nella sua forma più moderna della legalità costituzionale), già visibile nella concezione giuridico-politica della democrazia di Kelsen. È vero che, al contrario dello Stato etico, lo Stato di diritto non impone alcun consenso ed anzi legittima il dissenso; ma anch’esso non può non prevedere almeno un’eccezione, costituita dai diritti fondamentali, i quali sono sottratti alla legalità procedurale e alla decisione del politico. Il problema è che anche lo Stato di diritto è così costretto a presupporre condizioni forse possibili, ma altamente improbabili: prime fra tutte la revocabilità e la prevedibilità di ogni decisione. Sembra, perciò, tornare di attualità l’insegnamento di Constant e quella che è stata definita la “teoria delusa” della costituzione: una carta costituzionale non è un patto progettuale per il futuro in una società che ha deciso di emendarsi dalle oscurità del proprio passato, ma è una secolarizzazione in termini giuridici dei meccanismi sociali dell’obbligazione politica; una secolarizzazione giuridicamente pregnante ma politicamente debole, che contraddice clamorosamente la pretesa dell’ordinamento giuridico alla stabilità, alla continuità o, comunque, ad un mutamento entro limiti e secondo procedure prestabiliti. A partire da questa consapevolezza, i principi di diritto costituzionale non possono più essere considerati principi di giustizia eterni ed immutabili, che si affermano in forza della loro intrinseca eccellenza. “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” (art. 28 della Dichiarazione dei diritti del 1793). Unico principio, al quale è possibile riconoscere una priorità in virtù del suo carattere più universalistico, è il principio democratico: è questo principio, per i moderni Stati costituzionali, il valore dei valori; l’unico valore assoluto che essi riconoscono e che rende, quindi, tutti gli altri valori sempre contingenti e potenzialmente disponibili da parte della comunità democratica. “La certezza ricade nella speranza; la legge che aveva la pretesa di decidere ‘il caso’ si scopre ‘caso’, a sua volta di un’altra legge”[14]. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Solo che una tale consapevolezza, a mio avviso, è tutt’altro che “deludente”, perché ci conferma che la lotta per i diritti non termina con la proclamazione di una costituzione, ma ha bisogno di un impegno costante e quotidiano, perché quei diritti, una volta conquistati, siano anche difesi dai continui attacchi di quanti vorrebbero imporre altre regole ed altre logiche alla nostra convivenza. La presenza della Costituzione, per quanto rigida essa sia, non può rassicurarci una volta per tutte, ma è piuttosto un punto costante di riferimento per un impegno sociale e politico che deve rinnovarsi e arricchirsi di nuovi contenuti e di nuove motivazioni e che ci sprona ad essere parte attiva nella attuazione di quei diritti, piuttosto che semplici eredi di quel patrimonio. Si tratta di una sfida difficile, ma anche molto esaltante. NOTE [1] Luhmann N., Il diritto della società, Giappichelli, Torino 2012. [2] Ivi, p. 474. [3] Una critica di questa distinzione si trova in S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in “Rivista del diritto commerciale”, LXV (1967), pp. 83-125. [4] P. Calamandrei, Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 108-111, [5] G. Zagrebelski, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp. 2 sgg. [6] A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991, p. 171. [7] J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. [8] P. Calamandrei, Questa nostra Costituzione, Bompiani, Milano 1995, p. 8. [9] G. Zagrebelski, Diritto costituzionale. I. Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1997, p. 61. [10] P. Calamandrei, Costruire la democrazia, cit., p. 7 sgg. [11] V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952. [12] G. Zagrebelski, Il diritto mite, cit., p. 171. [13] J. Elster, Argomentare e negoziare, Anabasi, Milano 1993, p. 8 e 66 sgg. [14] E. Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 92-93. Luigi Pannarale è avvocato e professore ordinario di Sociologia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari “A. Moro”. È componente del Consiglio Scientifico della Società Italiana di Filosofia del Diritto, vicepresidente della Associazione di Studi “Diritto e Società”, componente del direttivo dell’Italian Society for Law and Literature, direttore scientifico del Centro Studi dell’Apulia Film Commission. Fa parte della Direzione scientifica della Rivista “Sociologia del diritto” e del comitato scientifico di riviste nazionali e internazionali. Autore di saggi e monografie, tra cui Il diritto che guarda (Franco Angeli 2012), Lezioni sui diritti IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 (Multipensa, 2010), Giustiziabilità dei diritti (Franco Angeli 2007). Ha tradotto e curato l’edizione italiana di N. Luhmann, Diritti fondamentali come istituzione (Dedalo, 2002). Partecipa al progetto "filosofia in movimento". IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Olismo o individualismo in Marx? Sull’ultimo libro di Ernesto Screpanti, "Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843)" di LUCA BASSO Nei testi fra il 1841 e il 1843 Marx comincia a elaborare una forma molto sofisticata di individualismo, definibile come “istituzionale”. A torto, perciò, gli si continua ad attribuire un’adesione al paradigma olistico ed hegeliano. Questa è la consapevolezza raggiunta nella sua ricerca critica da Ernesto Screpanti, il quale si viene così avvicinando ad alcune delle più sollecitanti traiettorie teoriche del post-althusserismo. In passato, anche sulla base di un “cortocircuito” fra valutazione del marxismo e critica dell’esperienza storica del socialismo reale, troppo spesso si è interpretato il senso complessivo del discorso marxiano all’insegna di una sorta di olismo, a scapito del riconoscimento delle capacità e delle facoltà individuali. Dall’altro lato, in particolare negli anni ’80, il marxismo analitico (Elster, Roemer…) ha fortemente valorizzato l’approccio dell’individualismo metodologico – seppur mitigato da politiche di redistribuzione sociale –, sottolineandone una potenziale compatibilità con la prospettiva delineata da Marx, e nello stesso tempo mettendo in luce, di quest’ultima, una serie di limiti e di possibili “cadute” olistiche. L’impostazione del marxismo analitico si rivela compatibile, per molti versi, con una pratica “riformista”, volta ad attutire le diseguaglianze prodotte dal sistema capitalistico, ma senza mettere in discussione in modo radicale quest’ultimo: così viene fortemente ridotto, se non annullato, l’elemento della lotta di classe, e quindi il carattere politicamente dirompente dell’orizzonte marxiano. Il libro di Ernesto Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843) (Petite Plaisance, Pistoia 2013), presenta, in primo luogo, il merito di sottoporre a critica qualsiasi interpretazione olistica del percorso marxiano, senza però con questo aderire a una visione che in qualche modo legittimi l’individualismo capitalistico, per quanto mitigato da una serie di misure sociali. A differenza che nei teorici del marxismo analitico, non ci si trova di fronte a un marxismo senza comunismo: il termine “comunismo” non viene bandito dal ragionamento, ma piuttosto rideclinato secondo una piegatura libertaria, come emergeva anche da un suo precedente lavoro, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione (il manifestolibri, Roma 2007, trad. ingl., Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007). In secondo luogo, l’aspetto interessante del libro è fornito dal fatto che tale critica all’olismo viene calata in un’analisi specifica di una fase del percorso marxiano, dal 1841 al 1843, che non è stata sufficientemente approfondita dagli interpreti: qui iniziano a emergere alcuni elementi significativi, che, seppur in modo non lineare, risulteranno gravidi di sviluppi ulteriori. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Prima di spiegare in che senso, secondo Screpanti, l’itinerario marxiano si contraddistingua, anche se con contraddizioni e ambiguità interne, per una forma di individualismo, e non di olismo, occorre chiarire in che modo vengano declinate le categorie in questione: “L’olismo ontologico è basato su un assioma secondo cui esistono agenti collettivi emergenti rispetto ai loro componenti individuali, tali cioè che il loro agire non è determinato interamente dall’agire dei componenti individuali e dalle relazioni tra essi esistenti. Questo assioma può essere trasposto in un postulato di olismo metodologico, secondo il quale per spiegare l’azione di un agente collettivo non è sufficiente conoscere i comportamenti e le relazioni dei suoi componenti” (p. 155). Contrapposto all’approccio olistico, si trova “un postulato di individualismo metodologico, il quale asserisce che per conoscere il comportamento di un ente collettivo è sufficiente conoscere il comportamento dei suoi componenti individuali e le relazioni tra essi esistenti […] La definizione della sufficienza piuttosto che della necessità della riduzione individualistica serve per formulare una definizione generale […] la rilevanza del postulato d’individualismo metodologico si coglie proprio nell’ambito dell’ontologia. Infatti esso nega validità al postulato di olismo metodologico […]” (pp. 156-157). Si rivela necessario precisare che la modalità di individualismo che qui viene delineata non è l’individualismo “possessivo” moderno, e meno che mai l’individualismo sotteso al neoliberalismo odierno. In termini generali, il riferimento non è certo a un individuo isolato, a un individuo-atomo, svincolato dalle condizioni, dalle relazioni e dai contesti in cui opera. Non a caso, viene adoperata al riguardo la categoria di individualismo istituzionale: “Un tipo particolare di individualismo metodologico è denominato individualismo istituzionale. Asserisce che i comportamenti individuali di un aggregato sociale devono essere studiati con riferimento alle istituzioni storicamente determinate in cui si trovano immersi […] L’individualismo istituzionale […] nega che i componenti di un ente collettivo possano essere identificati negli individui astratti a cui rinvia gran parte del pensiero contrattualista e utilitarista“ (pp. 159-160). Secondo Screpanti tale teorizzazione dell’individualismo istituzionale non costituisce una sorta di “terza via” fra individualismo e olismo: comunque sia, si distanzia in modo netto da ogni modalità liberale di individualismo e presenta caratteristiche peculiari, a tal punto da renderlo compatibile, in una sua accezione machiavellicamente “tumultuaria”, con l’elemento del comunismo marxiano. Ma occorre esaminare come questa impostazione generale venga calata in un’analisi specifica dei primi testi marxiani. Il libro è incentrato sui testi dal 1841 al 1843, con particolare rilievo agli scritti inediti rispetto a quelli editi, e con particolare interesse per gli estratti da testi e autori classici della storia della filosofia. Sulla base di questa interpretazione interna delle prime opere marxiane, si articola in sei capitoli (e in due appendici), in cui estremamente rilevante risulta il “corpo a corpo” con Leibniz, Spinoza, Rousseau, Machiavelli (oltre che, in misura minore, con Montesquieu, Hume e Hamilton), ai quali Marx ha dedicato specifici estratti. Screpanti sottolinea, da un lato, che l’attraversamento dei testi dei filosofi indicati si rivela cruciale per la comprensione del percorso marxiano successivo, e, dall’altro, che ci si trova di fronte a una trascrizione, seppur “orientata”, di opere, e non a un’elaborazione compiuta. “E’ proprio questo il periodo in cui si compie la conversione dall’idealismo e dal democraticismo radicale al materialismo e al comunismo […] il passaggio di Marx al comunismo alla fine del 1843 rimarrebbe un perfetto mistero se non si tenesse conto dei Quaderni di Kreuznach […] i Quaderni di Kreuznach e la Kritik del 1843 rimarrebbero a loro volta un perfetto mistero se non si tenesse conto dei Quaderni di Berlino, con cui inizia il percorso di ricerca che a quegli scritti approda” (p. 6). Nel secondo dopoguerra un forte stimolo alla valorizzazione delle opere giovanili marxiane è stato rappresentato dalla riflessione di Galvano Della Volpe, che ha colto nuclei teorici molto rilevanti, e che nello stesso tempo ha interpretato tali testi in modo acritico, concependoli sic et simpliciter come una compiuta prefigurazione del Marx “maturo”. Una sorta di contraltare rispetto a tale valorizzazione del giovane Marx è fornita dalla tematizzazione di Louis Althusser, fortemente critica nei confronti dell’umanismo e del (presunto o reale) essenzialismo di tale concezione. Secondo Screpanti, la “rottura epistemologica” marxiana si sarebbe verificata prima del 1844-1845: il presente libro si propone proprio di far emergere la IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 vitalità, seppur con ambivalenze, degli scritti marxiani antecedenti al 1844, sulla base di un’instabilità interna, di un’oscillazione “tra romanticismo e illuminismo, tra idealismo e scienza” (p. 12). Questo approccio permette di mettere in discussione, o perlomeno di problematizzare la questione, per così dire, dei “due” Marx, del “giovane” Marx e del Marx “maturo”: infatti, nella storia del marxismo troppo frequentemente si è insistito sulla valorizzazione o del “giovane” Marx o del Marx “maturo”, operando contrapposizioni discutibili sul piano filologico e sulla base di opzioni teorico-politiche oggi per lo più datate. Inoltre, anche soffermandosi sul cosiddetto “giovane” Marx, occorre rilevare che non ci si trova di fronte a un corpus perfettamente compatto e sistematicamente delineato: all’interno del ragionamento esistono tensioni contrastanti, non sempre risolte in modo chiaro, e quindi anche ambiguità. Ma queste ultime non vengono a configurare un compiuto organicismo, al contrario di quanto spesso è stato sottolineato. Tra i Quaderni di Berlino, significativo è quello dedicato a Leibniz, di cui vengono valorizzati in primis il metodo scientifico e la concezione dell’individualità. Per quanto concerne quest’ultima, “l’individualità in quanto singolarità irriducibile costituisce il fondamento ontologico della realtà sociale […]” (p. 18): “Togliendo Dio dal discorso di Leibniz, Marx approda a una ontologia sociale per la quale gli agenti individuali sono condizionati dalle relazioni sociali e dalle azioni e reazioni reciproche […] Ciò accade perché gli individui sono incapaci di rappresentarsi l’universo se non a partire da punti di vista particolari e parziali” (p. 27). Secondo Screpanti è in questi termini che comincia a prendere corpo la concezione marxiana del soggetto umano quale ‘uomo sociale’. Sempre all’interno dei Quaderni di Berlino, particolarmente interessanti sono gli estratti dal Trattato teologico-politico: si tratta di “una ricostruzione intenzionata della teoria politica spinoziana” (p. 31). Il centro dell’interesse marxiano consiste nella trattazione della democrazia, che costituisce una sorta di prefigurazione del comunismo. Seppur con una serie di difficoltà interne, il Marx lettore di Spinoza tenta di dare vita a una concezione realistica della democrazia: “[Marx] tende a vedere nella democrazia, intesa come autogoverno razionale della moltitudine, una possibilità storica reale, anzi, quasi una necessità dello sviluppo storico” (pp. 33-34). Qui viene introdotto il concetto di moltitudine, presente anche nel titolo del libro, nella sua irriducibilità a popolo compatto e omogeneo, a totalità. Alla base di tale “democrazia” della moltitudine stanno soggetti individuali. Tale visione non si configura quindi come negazione dell’individualismo: “Un processo politico realmente democratico deve essere fondato su un postulato d’individualismo etico, mentre una teoria libertaria della democrazia e della rivoluzione deve essere costruita nel rispetto del postulato d’individualismo metodologico. Soggetti ultimi dei processi politici sono gli individui concreti […]” (pp. 35-36). L’attraversamento dei testi leibniziani e spinoziani, seppur sulla base di percorsi differenziati e complessi, ha permesso di far emergere con sempre maggior forza il ruolo degli individui, che nel caso di Spinoza vengono a formare una moltitudine insorgente. Si rivela però necessario esaminare gli elementi idealistici, secondo Screpanti con la loro problematicità, in particolare attraverso la mediazione di Bruno Bauer e di Ludwig Feuerbach. In realtà Screpanti opera una precisa differenziazione fra le due influenze indicate: “Tutti gli studi degli anni 1838-1841, dalla tesi di laurea ai Quaderni di Berlino sono svolti sotto l’egida della filosofia dell’autocoscienza di Bruno Bauer […]” (p. 41). Dal 1843, e ancor più nel 1844, la figura di riferimento diventa Feuerbach: ciò si configura come “una condizione di regresso verso posizioni essenzialiste e olistiche“ (p. 44). Lo stesso concetto di Gattung, presente nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico ma con una funzione non decisiva, col passare del tempo, e in particolare nel 1844 diventa cruciale, e la sua rilevanza si attenua fortemente solo con le Tesi su Feuerbach e soprattutto con L’ideologia tedesca. In ogni caso, nel periodo indicato rimane un’”ombra” hegeliana, con la sua ambivalenza: “[…] Marx stesso ricade talora nell’olismo. Lo fa ipostatizzando a sua volta un ente collettivo come il popolo […] L’influenza hegeliana sulla formazione della componente olistica del pensiero di Marx è piuttosto forte, ed è disastrosa. Ciò nondimeno un’influenza hegeliana si fa sentire anche sulla sua presa di distanza dall’individualismo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 astratto del contrattualismo liberale, e in questo caso è benefica” (p. 50). Infatti, nell’intera produzione marxiana costante è la critica, con la sua chiara ascendenza hegeliana, al contrattualismo: si pensi al passo folgorante sulle “Robinsonaden” contenuto nella Einleitung del ’57. Ma tale approccio non implica la presenza di una posizione organicistica e anti-individualistica: d’altronde, come dimostra la teorizzazione marxiana successiva, dall’Ideologia tedesca ai Grundrisse, centrale è il riferimento alla libera individualità, possibile solo a partire dai presupposti forniti dal sistema capitalistico. Il richiamo all’aristotelico zoon politikon deve quindi essere inteso nei suoi giusti confini: “La distanza tra Aristotele e Marx nella definizione della socialità umana è notevole: lì abbiamo l’idea di una natura umana che è essenzialmente socievole […], qui l’antinaturalistica definizione di una plurale soggettività sociale come realtà empirica storicamente situata […]” (p. 53). E’ importante rimarcare la “carica” antinaturalistica del discorso marxiano, e quindi la sua irriducibilità non a ogni antropologia, ma a ogni antropologia astratta, essenzialistica (pur esistendo ambiguità in tal senso, soprattutto nei primi testi). E’ a partire dalle considerazioni svolte, che mettono in luce la permanenza di moduli idealistici e insieme l’affacciarsi di elementi che vanno in una direzione diversa, che occorre interpretare un testo come la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, “fondamentale per la costruzione della teoria politica del comunismo” (p. 58): “Marx usa la critica individualista all’olismo ontologico di Hegel per decostruire la sua concezione dello Stato come realtà che si autolegittima spiritualmente […]“ (pp. 64-65). Marx non si limita a polemizzare contro l’“olismo ontologico di Hegel”, ma articola una posizione individualistica, radicata però nella concretezza delle sfere sociali e politiche. Al riguardo è necessario riprendere la differenziazione precedentemente compiuta fra individualismo metodologico e individualismo istituzionale. Quest’ultimo permette di cogliere il richiamo agli individui all’interno dei contesti e dei rapporti specifici in cui si trovano ad operare: “L’individualismo metodologico di Marx assume qui chiaramente la forma di un individualismo istituzionale, e gli serve per mostrare le modalità con cui i soggetti concreti della storia, cioè gli individui empirici che compongono una certa società, arrivano a lottare per costituirsi in comunità politica autogovernata […] Questa ‘formazione’ della costituzione e dello Stato, in quanto espressione della volontà dei cittadini, è per Marx un processo rivoluzionario; non un presupposto formale della democrazia ma la realizzazione pratica, entro una precisa situazione storica, di un movimento in cui si esprime la volontà politica del popolo […]” (pp. 67-68). Ci si trova però di fronte a una modalità del tutto peculiare di individualismo istituzionale, che prevede non solo il radicamento nelle condizioni materiali ma anche la destrutturazione di esse, sulla base di un rapporto “esplosivo” fra teoria e prassi, come emergeva già dalle Tesi su Feuerbach, con il rilievo sulla valenza rivoluzionaria della filosofia. All’interno di questo dispositivo teorico “inaudito”, l’elemento della democrazia viene articolato in termini dinamici, e sulla base di un continuo, “agitatorio” richiamo alla Rivoluzione francese, modello di tutte le rivoluzioni. Nella Kritik la “vera democrazia” viene intesa come democrazia reale piuttosto che solo formale, in direzione di un’”estinzione” dello Stato. A testimonianza della forte connessione tra la democrazia, così delineata, e ciò che successivamente verrà indicato con “comunismo”, Screpanti sottolinea che “Marx non abbandonerà mai questa teoria. Nell’opera politica più importante della maturità, La guerra civile in Francia, non farà altro che articolarla e approfondirla come studio di un reale processo rivoluzionario di costruzione della democrazia comunista“ (p. 74). Ai fini dell’approfondimento del rapporto, sotteso alla prospettiva qui articolata, fra dimensione individuale e dimensione collettiva, significativo è il riferimento agli estratti marxiani, anche se si tratta solo di una trascrizione, selezionata, di testi. Tra i Quaderni di Kreuznach particolarmente rilevante è quello relativo a Rousseau: “Ci si accorgerà che, nel lavoro di copia-e-incolla, i tagli sono significativi quanto i plagi e che, come fa con Spinoza, Marx cerca di costruire un suo proprio discorso modificando i connettivi logici di quello di Rousseau. Ci si renderà conto però che c’è una grande differenza fra gli appunti su Spinoza e quelli su Rousseau: mentre col filosofo olandese IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Marx costruisce un discorso personale che è diverso ma sostanzialmente non divergente dalla fonte, con lo svizzero viene alla luce un rapporto più complesso che è nello stesso tempo di assimilazione e di critica” (p. 85). Da vari punti di vista, decisamente critica è la posizione marxiana nei confronti di Rousseau. Appare necessario rimarcare questo aspetto, in quanto sia in Francia sia in Italia (in particolare, con Della Volpe e Colletti) spesso si è operata una forte connessione, ai limiti dell’identificazione, fra i due filosofi in questione. D’altronde, al di là di altri elementi (basti pensare, ad esempio, alla giustificazione rousseuaiana della proprietà privata nel Contratto sociale, da Marx ovviamente criticata), emerge un punto cruciale su cui Marx si distanzia, vale a dire l’organicismo rousseauiano, l’assorbimento individuale nella comunità. In questo senso, se si vuole sostenere la tesi del Marx individualista, seppur con tutte le precisazioni del caso, Rousseau non può che costituire un referente polemico. Nonostante ciò, ci si trova di fronte a un atteggiamento ambivalente nei confronti di Rousseau: “Da una parte Marx sviluppa una critica esplicita a Hegel e una implicita a Rousseau per la loro tendenza a definire l’essere sociale in termini olistici […] Dall’altra, nello studio dei processi che portano all’instaurazione della ‘vera democrazia’ e nella spiegazione dello stesso significato della democrazia, Marx tende a identificare in un ente collettivo, che sia il Popolo o il Genere Umano, il Soggetto capace di dar vita e senso alla comunità. Proprio nella teoria della ‘vera democrazia’ si può cogliere al meglio la schizofrenia filosofica di Marx” (pp. 123-125). In ogni caso, seppur con oscillazioni, viene riarticolata la nozione di volontà generale: “[…] Marx […] tende a far coincidere la volontà generale con la ‘volontà di tutti’: è generale perché tutti hanno contribuito alla sua formazione, non perché è intrinseca alla natura del bene comune” (p. 95). Se Rousseau attua una forte divaricazione fra volontà generale e volontà di tutti, Marx invece cerca di far coincidere i due elementi. Come Screpanti mette in luce anche nella prima delle due appendici, “Da Rousseau a Hegel”, pur assumendo alcuni elementi rousseauiani, Marx concepisce la relazione fra il soggetto individuale e il soggetto collettivo in termini sostanzialmente differenti rispetto a Rousseau. Ritorna qui l’idea di un collettivo non come totalità, ma come moltitudine di singolarità nella loro differenziazione. A partire dalle coordinate indicate viene articolato l’elemento del comunismo: “E’ un’idea a cui Marx terrà fermo per il resto della vita: che il comunismo è un’organizzazione sociale che esalta lo sviluppo delle forze produttive estendendo la cooperazione e l’organizzazione del lavoro, e con ciò espande le libertà individuali” (p. 97). Un “filo rosso” dell’intera produzione marxiana, dai primi agli ultimi scritti, è costituito dall’idea secondo cui il comunismo non si configura come negazione delle singolarità, ma al contrario come loro realizzazione. Nello stesso tempo, però, Marx riprende un aspetto cruciale del discorso rousseuaiano: “Ciò che Rousseau cerca di dire è che i delegati del popolo […] non sono i depositari di una volontà a cui il popolo ha rinunciato con la delega, sono solo dei mandatari dei cittadini. Su quest’idea Marx lo segue in pieno […] In seguito approfondirà l’idea che il vincolo di mandato, per essere efficace, deve essere associato a un diritto di revoca“ (pp. 99-101). In Marx ci si trova di fronte alla critica alla rappresentanza e, conseguentemente, alla delineazione di una sorta di mandato imperativo, con diritto di revoca, come emerge in modo icastico negli scritti sulla Comune. D’altronde, già nella Kritik erano presenti elementi di democrazia radicale, anche se con un “rischio” olistico molto forte. Ma, in conclusione, “il Quaderno Rousseau segna un passo avanti rispetto alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Sebbene sembri permanere qualche residuo di olismo etico anche qui, ora Marx mostra di aver capito che il popolo non è quel tutto mistico esaltato da Rousseau […] La tendenza a ridurre la volontà generale alla volontà di tutti è il segno di quanto ora Marx sia andato avanti nel riconoscimento del popolo come moltitudine priva di sostanza etica. Il passo definitivo lo farà mettendosi a lezione da Machiavelli” (p. 103). Ritorna qui il tentativo di declinare la dimensione collettiva non sulla base di una sorta di misticismo olistico, ma a partire dall’esigenza della realizzazione delle singolarità nella loro irriducibilità a uno schema onnicomprensivo. In questo senso risulta cruciale il concetto di moltitudine, con le sue ascendenze IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 spinoziane e machiavelliane, in quanto permette di tenere aperto, in termini dinamici e anche conflittuali, il rapporto fra dimensione individuale e dimensione collettiva. Si arriva così al Quaderno di Kreuznach dedicato a Machiavelli, più scarno di quelli precedentemente esaminati. In primo luogo centrale è il riferimento a Machiavelli in merito all’antropologia: “Intorno al problema della definizione della natura umana c’è una forte affinità tra la concezione realista di Machiavelli e quella di Marx anti-hegeliano […] è solo con la lettura di Machiavelli che viene fatto un salto decisivo oltre l’idealismo umanista […]” (p. 106). Si assiste alla destrutturazione di ogni idea astratta di natura umana, e invece a un’indagine specifica di soggetti concreti, nel loro radicamento in una situazione concreta. D’altronde, successivamente, nell’Ideologia tedesca si insiste continuamente sull’elemento della determinazione specifica per connotare la dimensione dell’individualità. E, anche nell’articolare la questione del rapporto fra soggetto individuale e soggetto collettivo, il richiamo al segretario fiorentino si rivela decisivo: in Machiavelli non emerge un’idea compatta, olistica di popolo, dal momento che quest’ultimo viene concepito come “un insieme di agenti, individuali e sociali” (p. 106). Tale considerazione sul carattere articolato del popolo non presenta alcuna connotazione irenica: ci si trova di fronte a una “disunione”, a una lacerazione (ad esempio, fra i “Grandi” e il popolo), con la produttività politica di questo elemento. Inoltre Marx assume la centralità machiavelliana del conflitto, seppur sulla base di una dislocazione rispetto a Machiavelli, nel senso che sempre più rilevante diventa la sfera economica. In ogni caso, Marx, più in generale a livello di metodo, assimila da Machiavelli (e anche da Montesquieu) un approccio materialista e relativista alle questioni etiche. Screpanti polemizza contro l’idea, presente in vari esponenti del marxismo analitico, di un impianto “morale” della critica al capitalismo: al contrario, valorizza, di Machiavelli, l’analisi disincantata della religione, in quanto instrumentum regni, e, ancor di più, dello Stato, di cui viene rifiutata ogni fondazione teologica ed etica. In ogni caso, come ha rimarcato con forza Louis Althusser in Machiavelli e noi, il riferimento cruciale, per Machiavelli, è alla “verità effettuale della cosa” nella sua singolarità e non sulla base di schemi generalizzanti. Machiavelli permette a Marx di pervenire a “una concezione non idealista della prassi, una concezione per cui la prassi è vista non come la realizzazione del Concetto nell’azione del Soggetto della storia, bensì come l’azione di particolari soggetti concreti che usano la teoria per definire e realizzare i propri interessi materiali” (p. 115). Seppur sulla base di differenze significative (ad esempio, in Machiavelli manca l’elemento della rivoluzione come abolizione delle classi), la lettura marxiana dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio rappresenta una sorta di coronamento del percorso di ricerca iniziato nel 1841, e, anche nei testi successivi, Hobbes e Spinoza vengono ricondotti a Machiavelli a partire dall’idea secondo cui il potere si configura come fondamento del diritto. Anche se il marxismo italiano (basti pensare, ad esempio, a Gramsci e a Labriola) ha insistito sul rapporto Marx-Machiavelli, “nessun filosofo ha colto tutta l’estensione dell’affinità di pensiero tra Marx e Machiavelli”, e la rilevanza di tale elemento per la comprensione della “rottura epistemologica” marxiana (p. 121). Sulla base del percorso indicato, anche attraverso un’analisi minuziosa degli estratti, Screpanti arriva alla seguente conclusione, con il titolo di “Dr. Marx e Mr. Karl”: “[…] esistono due Marx. C’è un Dr. Marx dotato di un’anima idealista, in cui prevale un’impostazione di olismo ontologico e una visione deterministica della storia, e un Mr. Karl con un’anima realista, che adotta un metodo d’individualismo istituzionale e un approccio scientifico all’indagine sociale. La ricerca del Moro oscilla continuamente e non arriverà mai a una ‘rottura epistemologica’ definitiva, anche se non c’è dubbio che gli scritti del 1845-46 marcano un passaggio cruciale […] Ma quella rottura è stata preceduta da profonde incrinature emerse nel 1841 e nel 1843” (p. 128). Questo approccio possiede il merito di valorizzare le opere precedenti al 1845-1846, ma facendo riferimento a testi meno celebrati e meno conosciuti rispetto a La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione e ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e meno “marcati” dal modello feuerbachiano, sulla cui rilevanza spesso si è insistito in modo eccessivo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 nell’interpretazione della fase indicata. Il richiamo a Feuerbach permette di problematizzare il tema, fortemente connesso a quello della presunta dicotomia fra il “giovane” Marx e il Marx “maturo”, dell’umanismo e dell’antiumanismo. Tale contrapposizione, che ha trovato una ragion d’essere in particolare negli anni Sessanta e Settanta, nello scenario odierno si rivela improduttiva: se si vogliono cogliere le potenzialità dei soggetti concreti, non si tratta di ipostatizzare né l’approccio umanistico, con il suo “rischio” essenzialistico (come in Feuerbach), né quello antiumanistico, che incontra grandi difficoltà nell’articolazione teorica dell’elemento della soggettività. In ogni caso, lo scopo complessivo del libro di Screpanti, ribadito anche nella seconda appendice, “Individualismo e olismo”, consiste nel mettere in discussione quell’olismo ontologico che è presente anche in alcune impostazioni hegelo-marxiste. Al riguardo appare adeguata la categoria di individualismo istituzionale: non si tratta di “un compromesso o una via di mezzo tra olismo e individualismo: è una forma realistica d’individualismo in cui le relazioni che collegano gli agenti possono essere definite in termini di strutture organizzative, istituzioni normative e abitudini comportamentali. Ebbene questa concezione era stata intuita da Marx già nel 1841 e imbastita nel 1843. Gli individui sono studiati in quanto uomini concreti influenzati dalle relazioni […] in cui si trovano immersi […]” (pp. 160-161). All’interno di tale scenario possono venir ammessi solamente elementi intersoggettivi, che risentono dei comportamenti individuali e delle interazioni sociali, e che comunque trovano alla propria base situazioni concrete. Arrivati a questa acquisizione, il riferimento finale è alla trattazione di Althusser: rispetto ad essa, Screpanti, pur condividendo la critica all’essenzialismo, rileva alcuni aspetti problematici, in particolare in merito ”all’illegittimo disconoscimento del ruolo della soggettività nei processi politici” (p. 170). Occorre evitare sia l’individualismo astratto, sia l’”olismo del logos della struttura sociale” (presente anche in Althusser), in cui gli individui vengono ridotti a funzioni. Emerge una “visione della storia come processo aperto risultante dall’azione autoliberatoria dei soggetti concreti” (p. 171). Tale concezione individualistica presenta però caratteristiche peculiari, del tutto differenti non solo dall’individualismo liberale ma anche da un individualismo come quello sotteso al cosiddetto marxismo analitico: pur non configurandosi come una “terza via” fra individualismo e olismo, erode qualsiasi idea astratta di individualità, in qualche modo funzionale allo scenario capitalistico. Sarebbe interessante confrontare tale accezione di individualismo istituzionale con un approccio come quello di Etienne Balibar, fondato sull’idea secondo cui l’intero itinerario marxiano si configuri come tentativo di destrutturare la contrapposizione fra individualismo e olismo, dando vita a una sorta di ”ontologia della relazione”. Non a caso, in una celebre Tesi su Feuerbach, si fa riferimento non a un olistico “Ganze”, a un Tutto, ma a un ensemble dei rapporti sociali. Inoltre, come emerge con forza anche da un passo dei Grundrisse, la società consiste prima di relazioni di individui, che di individui. “Né la ‘monade’ di Hobbes e di Bentham, né il ‘grande essere’ di Augusto Comte […] Non ciò che è idealmente ‘in’ ogni individuo (come una forma o una sostanza), o ciò che servirebbe, dall’esterno, a classificarlo, ma ciò che esiste tra gli individui, per le loro molteplici interazioni” (E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. il manifestolibri, Roma 1994, p. 36). “Transindividuale, infatti, è prima di tutto questa reciprocità che si instaura tra l’individuo e il collettivo nel movimento dell’insurrezione liberatrice ed egualitaria” (ivi, p. 129). La prospettiva di Balibar, rispetto all’interpretazione di Screpanti, attribuisce un maggior peso alla dimensione della relazione, e intende in modo diverso l’individualismo, legando quest’ultimo unicamente alla sua accezione liberale. Nonostante tali differenze, emerge un elemento comune, ovvero la tensione verso la valorizzazione delle singolarità nella loro diversificazione, non in distonia con la dimensione collettiva, concepita a partire dalla pratica politica. Riarticolare quel “sogno di una cosa” che è il comunismo marxiano, significa attraversare la reciprocità instabile fra l’’individuale’ e il ‘collettivo’, sulla base di coordinate che non possono essere definite una volta per tutte e che sono continuamente aperte alla rettifica del proprio percorso. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Luca Basso è Ricercatore di Filosofia politica presso l’Università di Padova. È autore di molti articoli e di tre monografie: Individuo e comunità nella filosofia politica di Leibniz (Rubbettino, 2005), Socialità e isolamento: la singolarità in Marx (Carocci, 2008; trad. inglese Brill, 2012), e Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx (Ombre Corte, 2012). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Arthur Coleman Danto. Filosofia Arte Bellezza di GIACOMO FRONZI Nonostante la sua centralità nel contesto filosofico internazionale da mezzo secolo a questa parte, Arthur Coleman Danto è entrato nel dibattito culturale italiano solo da pochi anni. La sua improvvisa scomparsa – il 25 ottobre scorso – ci offre l’opportunità di ripercorrere alcuni motivi di un pensiero tra i più lucidi e originali dell’orizzonte filosofico degli ultimi decenni. […] quel che è interessante ed essenziale nell’arte è la capacità spontanea che ha l’artista di permetterci di vedere il suo modo di vedere il mondo – non semplicemente il mondo, come se un dipinto fosse una finestra, ma il mondo nel modo in cui lui ce lo offre. A.C. Danto, La trasfigurazione del banale Spesso accade che per poter sentire parlare di alcuni intellettuali, occorre aspettare di vederli abbandonare il proscenio della vita. A volte la notorietà (che Andy Warhol – figura chiave delle tesi centrali del filosofo di cui ora parleremo – considerava un destino comune a tutti, benché racchiuso in appena un quarto d’ora) non giunge se non con notevolissimo ritardo. Altre volte, invece, essa sembra accompagnare – seppur in circuiti ristretti – l’attività di certi studiosi. Credo di poter dire che – nel contesto internazionale e, solo negli ultimi anni, anche in quello italiano – è questo il caso del filosofo americano Arthur Coleman Danto, scomparso il 25 ottobre scorso, nel suo appartamento di Manhattan, dove viveva con la seconda moglie, l’artista Barbara Westman. Danto – che avrebbe compiuto novant’anni il prossimo 1° gennaio – nasce ad Ann Arbor (Michigan) e cresce a Detroit. Prima di andare studiare Arte e Storia presso la Wayne State University (che allora si chiamava Wayne University e dove si laurea nel 1948), trascorre un paio d’anni nell’esercito statunitense. Danto, che da giovane sognava di diventare pittore, nel 1949 consegue un Master in Filosofia alla Columbia University di New York, dove studia con Ernest Nagel, Suzanne K. Langer e Justus Buchler. Nello stesso anno, va a studiare all’Università di Parigi, grazie a una borsa di studio annuale Fulbright. Nel 1950 diviene “instructor of philosophy” all’Università del Colorado e l’anno successivo accetta una posizione simile alla Columbia, dove consegue il dottorato nel 1952, discutendo una tesi di filosofia della storia. Viene promosso ad “assistant professor” nel 1954, “associate professor” nel 1959 e “full professor” nel 1966, sempre alla Columbia. Nel 1975 diviene Johnsonian Professor of Philosophy e, dopo essersi pensionato (nel 1992), è stato nominato Johnsonian Professor Emeritus of Philosophy. Un’attività importante che IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 ha caratterizzato il percorso di Danto, difficilmente separabile da quella di docente e di saggista, è stata poi quella di critico d’arte, attività che si è espressa al meglio nella scrittura di articoli sulla famosa rivista «The Nation», per la quale il filosofo americano, dal 1984 al 2009, ha curato una rubrica ereditata dal pontifex maximus della critica d’arte statunitense, Clement Greenberg. Sullo sviluppo del pensiero di Danto hanno influito fortemente due elementi: il contesto artistico newyorkese dagli anni Cinquanta in poi e l’ambiente “analitico” che si raccoglieva attorno al Dipartimento di filosofia della Columbia University. Sebbene i suoi scritti più discussi e diffusi siano quelli di filosofia dell’arte, l’itinerario speculativo di Danto non parte da essa, ma vi giunge[1]. La piattaforma iniziale è, infatti, quella tipica del filosofo analitico (che, per la verità, non nascondeva un certo interesse anche per la filosofia continentale[2]), alla quale resta fedele nei decenni, ma nella quale si innesta un evento che indirizzerà la riflessione di Danto verso la teoria dell’arte. L’anno in cui scrive il saggio The Artworld (1965)[3], Danto visita una mostra presso la Stable Gallery di New York, nella quale Andy Warhol espone la sua celebre opera intitolata Brillo Box, costituita da una serie di scatole contenenti spugnette abrasive utilizzate per pulire le pentole. La visione di qualcosa che era pressoché identica a ciò che si poteva trovare in un comune supermercato porta Danto a porsi una domanda capitale: perché le scatole esposte da Warhol sono opere d’arte e quelle esposte in un supermercato non lo sono?[4] Prima di fornire la risposta formulata dal filosofo americano, occorre, però, fare un passo indietro, giacché il superamento dello steccato tra oggetto d’uso comune e opera d’arte era già avvenuto mezzo secolo prima. Nel 1913, com’è noto, Marcel Duchamp prende una banale ruota di bicicletta, infilata al contrario in uno sgabello, e la presenta come opera d’arte. Nel 1917, all’esposizione della Society of Independent Artists, Duchamp presenta Fountain: un orinatoio diventa opera d’arte. Cosa significa tutto ciò? Semplice. R. Mutt (lo pseudonimo con il quale Duchamp firma Fountain) – come lo stesso autore riferisce in un’intervista alla rivista «The Blind Man» – ha scelto l’opera, non l’ha creata. I gesti provocatori di Duchamp piombano così come un macigno sull’intero sistema dell’arte, mettendo in crisi profonde e consolidate certezze. Quella scelta, quanto mai imprevedibile, spazza via in un sol colpo i tradizionali confini tra artistico ed extrartistico, tra estetico ed extraestetico. La rivoluzione realizzata da Duchamp, oltre che imprimere una svolta radicale negli sviluppi della pratica artistica e dell’esperienza estetica, pone alla riflessione teorica delle questioni del tutto nuove e, nella maggior parte dei casi, irresolubili, introducendo una concezione procedurale dell’arte: «l’arte non è più sostanziale ma procedurale: non dipende più dall’essenza ma dalle procedure che la determinano»[5]. Dopo questa bizzarra e dissacratoria operazione nulla sarebbe più potuto restare come prima; il fare artistico, le modalità espressive, le stesse definizioni di arte e di artista non sarebbero potute rimanere inalterate. Ma cosa ha rappresentato quel gesto? E quali conseguenze ha prodotto? La soluzione con cui Duchamp rivoluziona il modo di concepire l’opera d’arte e la sua realizzazione avrà innumerevoli e inattese conseguenze, tanto nell’ambito della pratica artistica quanto in quello della riflessione filosofica, all’interno della quale si colloca Danto. Al di là della valutazione estremamente controversa relativa all’attribuzione del carattere di “arte” a questo nuovo mezzo espressivo («Artistica, geniale, liberatoria, sovversiva, fu l’idea, e questo basterebbe, e bastò, a farlo diventare arte»[6]), il readymade consente a Duchamp di condurre il fruitore verso la scoperta di un senso ulteriore delle cose, della loro “indifferente” bellezza (così la definisce lo stesso Duchamp). È così che l’artista francese porta a compimento un duplice riscatto: quello dell’arte e quello del quotidiano, esprimendo la straniante potenza del fatto artistico e la altrettanto stupefacente, inaspettata potenza dell’oggetto banale, realizzando opere che si presentano come «dimostrazioni pratiche che una qualche bellezza può essere trovata nei luoghi più inaspettati»[7]. Potenza che, però, non significa immediatamente senso. Anzi, la vacuità e la vanità del banale se, per un verso, libera una possibile esperienza del sublime (per via del suo essere perturbante), per altro verso potrebbe spingere verso l’accettazione dell’insensatezza del tutto (tipicamente dadaista). Insensatezza, non mancanza di senso. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Un’attitudine di questo tipo possiamo ritrovarla anche in un artista che è passato alla storia come il massimo esponente della Pop Art americana, Andy Warhol, con la cui arte Danto entra in contatto, come abbiamo detto, alla Stable Gallery. È lo stesso filosofo americano a chiarire la portata dell’opera di Warhol: «Se il modernismo è finito con Pollock e con l’Espressionismo Astratto, quale poteva essere il futuro dell’arte? È Warhol a farsi carico della questione: le sue opere rendevano impossibile una linea di demarcazione tra arte e realtà (tra le scatole Brillo del supermercato e la sua Brillo Box). Perciò, a partire dagli anni Sessanta, il futuro dell’arte coincideva con il superamento di quel confine che ne determinava il distacco dalla vita comune»[8]. Danto inizia così a interrogarsi circa le domande fondamentali dell’arte, ma anche circa quegli aspetti che caratterizzano l’arte contemporanea, in particolare la Pop Art americana. L’esperienza delle avanguardie e delle neoavanguardie, caratterizzata dalla rottura con gli stili, le tecniche e le concezioni artistiche a essa precedenti, dal ripudio della bellezza e della forma, dalla critica tanto interna al sistema dell’arte quanto sociale, è stata decisiva per l’elaborazione teorica dei filosofi analitici. Non è un caso che tra i nodi problematici da loro maggiormente trattati troviamo il rifiuto della nozione di gusto e del connesso giudizio estetico, la dichiarata impossibilità di definire le proprietà estetiche, in particolar modo la bellezza, e il problema (destinato a rimanere insoluto) di carattere ontologico, relativo alla definizione di arte. Danto – partendo dalla premessa per la quale l’essere umano è un «ente rappresentante»[9] – si è impegnato, nell’arco di diversi decenni, a elaborare una filosofia dell’arte di tipo essenzialista, intesa, cioè, come l’esplicitazione delle condizioni necessarie e sufficienti per le quali un’opera d’arte può essere considerata tale o, ancora meglio, può essere riconosciuta come tale. A tal riguardo, le tesi di Danto sembrano essere la premessa per la teoria istituzionale dell’arte elaborata nel 1969 da George Dickie e successivamente riformulata e approfondita nel volume Art and the Aesthetic: An Institutional Analysis (1974)[10]. Con la sua teoria, Dickie intendeva porre l’accento sulla trama sociale e istituzionale nella quale si trova invischiata un’opera d’arte, la quale ottiene il riconoscimento dello status di opera d’arte da parte del cosiddetto «mondo dell’arte» (Artworld), vale a dire critici, galleristi, curatori, ecc. In verità, Danto terrà a precisare una differenza tra la teoria di Dickie e la propria: «Dickie pensò che la risposta alla domanda “Che cos’è l’arte?” dovesse consistere in una definizione dell’arte e quindi formulò la sua teoria sostenendo che è arte qualunque cosa il mondo dell’arte dichiari tale. Ora, il mondo dell’arte è un’istituzione, che comprende critici, collezionisti, curatori, artisti, storici dell’arte, e via dicendo, e dal momento che ho ritenuto che non c’è arte senza un mondo dell’arte, è ovvio che l’arte deve essere qualcosa di istituzionale. Il problema è capire su che cosa basi le proprie decisioni il mondo dell’arte. Oppure esso dichiara arte una tela squarciata e basta, come in preda a una specie di impeto? Credo che, se esistono delle ragioni, allora queste ragioni sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per definire l’arte. […] È sempre necessaria una spiegazione. In questo senso la mia è una teoria “cognitiva”»[11]. Al di là di questi aspetti, vi è una questione che risulta del tutto centrale e che, in un certo senso, rende quella di Danto una filosofia dell’arte che potremmo definire di tipo relazionale. La relazione, in campo estetico[12], può essere considerata sotto diverse prospettive: 1. come rapporto ricettivo tra opera e soggetto fruitore; 2. come risultato dell’azione “pubblica” ed etica dell’artista; 3. come rapporto sensibile e piacevole tra un soggetto e un oggetto estetico. A queste accezioni occorre aggiungerne una ulteriore, relativa alla trattazione teorica della relazione rispetto all’opera d’arte e connessa alle proprietà a cui, secondo il punto di vista analitico, è necessario riferirsi per poter distinguere un’opera d’arte da un oggetto d’uso comune, sebbene questi siano percettivamente indiscernibili. Torniamo così alle domande iniziali: come rilevare, affidandosi esclusivamente a ciò che viene attestato dai nostri sensi, la differenza tra un banale scolabottiglie e il Porte-bouteilles (1914) di Duchamp? o tra una normalissima scatola di succo di pomodoro Campbell e la Tomato Juice Box (1964) di Warhol? IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Danto, partendo dalla critica a quelle tesi di ascendenza wittgensteiniana secondo le quali l’arte e le opere d’arte sono qualcosa che non può essere definito (è il caso, ad esempio, delle teorie di Morris Weitz), tenta di percorrere e proporre una via per giungere all’essenza dell’arte, ponendosi questa domanda: come possono due oggetti percettivamente indiscernibili[13], del tutto identici, possedere uno statuto ontologico diverso, tale per cui uno diviene opera d’arte e l’altro rimane oggetto d’uso comune?[14] Prendendo le mosse da questo problema, Danto tenta di risolvere l’enigma non a partire dalle differenze di natura ‘estetica’ (alias sensoriale), dal momento che non ve ne sono, bensì a partire dalle proprietà relazionali che legano l’oggetto in questione con elementi esterni a esso, non percettivamente rilevabili. È grazie all’individuazione delle proprietà relazionali che legano un’opera d’arte a tutto ciò che l’occhio o i sensi non possono attestare che si rende possibile l’interpretazione (l’esse dell’opera d’arte non è berkeleyanamente percipi bensì interpretari) e, conseguentemente, la comprensione di quell’opera. Il tema delle relazioni (o delle «classi di famiglia») – rilanciato da Danto – ha avuto un certo rilievo nell’ambito dell’estetica analitica[15] fin dalla metà degli anni Cinquanta. Con The Role of Theory in Aesthetics (1956), Weitz dà l’avvio a un fitto dibattito sul problema della definizione dell’arte e dell’individuazione dell’essenza dell’artisticità, dibattito all’interno del quale è emersa la questione relazionale nell’arte. A partire dalle riflessioni di Weitz, la discussione ha visto coinvolti filosofi come Mandelbaum, Dickie, Wollheim, Levinson, Beardsley, fino a Danto, la cui proposta, come accennavamo, è centrata sull’individuazione di quelle proprietà relazionali che consentono a un’opera d’arte di potersi presentare come tale[16]. L’arte, secondo Danto, solleva primariamente il problema relativo alla propria essenza e può essere definita sulla base delle relazioni che essa istituisce. Il percorso che egli segue per venire a capo dell’enigma per il quale due oggetti percettivamente indiscernibili hanno uno statuto ontologico diverso si basa su questo ragionamento: se a livello percettivo, sensibile, tra le due ‘cose’ non vi è alcuna differenza, ma l’una è un’opera d’arte e l’altra non lo è, allora tale differenza deve essere ricondotta a qualcosa di slegato dalla dimensione percettiva. Non si tratta, pertanto, di una proprietà che colpisce l’occhio o qualche altro organo di senso, ma di una proprietà indifferente alla percezione, quale è una proprietà relazionale, irrilevabile dai sensi e stabilita, invece, dal «mondo dell’arte». All’opera d’arte, dunque, non viene attribuita alcuna proprietà rilevabile attraverso l’esperienza sensibile. Rispetto a questa impostazione generale, viene allora da domandarsi, che fine fa la bellezza? Possiamo dire che essa, nel corso del xx secolo, è andata incontro a un doppio destino: per un verso, verrà rifiutata come categoria centrale nell’arte, la quale sarà letta a partire da un’altra categoria, ugualmente centrale nell’orizzonte teorico dell’estetica, dalle caratteristiche molto diverse: il sublime; per altro verso, una volta esautorata dall’arte, vivrà un processo, non privo di contraddizioni, di trasfigurazione e rinascita, informando di sé ogni aspetto dell’esistenza[17]. La riflessione di Danto non poteva che imbattersi anche in questo tema, rispetto al quale il filosofo americano sembra prendere una particolare posizione. «Bello!», sostiene Danto, è ormai un’espressione di approvazione generica, non descrive nulla, è “come un fischio davanti a qualcosa che entusiasma”. L’idea di bellezza, dunque, viene liquidata come mero «significato emotivo», in quanto priva di spessore cognitivo. Dalle argomentazioni di Danto emergono due punti fermi: a) la netta separazione dell’estetica kantiana e del presunto concetto-chiave, la bellezza, dalla filosofia dell’arte; b) una forte influenza di spunti e temi hegeliani, che, tra l’altro, segnalano una bizzarra contaminazione tra i presupposti idealistici della prospettiva hegeliana e l’impostazione di tipo analitico. Da Hegel Danto sembra recuperare per un verso l’idea della distinzione tra bello naturale e bello artistico, per altro verso la superiorità di quest’ultima rispetto alla bellezza naturale (essendo, la bellezza artistica, «nata e rinata dallo spirito»). Questo significa che la bellezza artistica non è un prodotto naturale, ma intellettuale. Il che vuol dire che occuparsi della bellezza è possibile, per il filosofo, nella misura in cui essa rappresenta una delle «tante qualità estetiche» (e non la sola, com’era per l’estetica tradizionale). Però, allo stesso tempo, Danto sostiene l’unicità della bellezza intesa come «valore»: essa non è un valore tra gli altri, per mezzo dei quali viviamo, ma è uno dei IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 valori che definiscono la vita umana nella sua completezza. Esiste, dunque, una bellezza che può essere rilevante, che rompe con il tabù dell’insignificanza in cui l’aveva confinata il neopositivismo. Si tratta di una «bellezza interna», in quanto distinta da una «bellezza esterna» ai significati dell’opera. Danto procede, pertanto, a un recupero della bellezza, seppure non in termini estetici, ma all’interno di una prospettiva antropologica: la bellezza, inutile come categoria estetica, viene innalzata a valore per l’uomo e per il mondo della vita[18]. Epperò, se l’estetica sposta lo sguardo sul mondo della vita, che la società contemporanea tende a rendere sempre più bello, vuol dire che la bellezza resta una categoria estetica centrale, sebbene non più riferibile al mondo dell’arte. Espressione (per quanto “aperta”) della filosofia analitica statunitense, cultore appassionato ed esperto di arte contemporanea, saggista raffinato, critico d’arte erudito e – per alcuni – sofisticato, Arthur Coleman Danto, per certi aspetti, racchiude in sé alcuni dei tratti tipici della cultura del secondo Novecento. Nella sua produzione circolano temi e questioni (lo statuto dell’opera d’arte, il rapporto tra arte e realtà, il senso e la definizione della bellezza oggi, la differenza tra estetica e filosofia dell’arte, il ruolo della critica d’arte, e così via) che hanno acceso il dibattito filosofico, estetologico e artistico degli ultimi decenni, periodo in cui le rivoluzioni del pensiero e quelle artistiche hanno alimentato prospettive interpretative finanche antitetiche, oscillanti tra la certificazione del tramonto definitivo di un mondo e l’apertura alla speranza. Giacomo Fronzi (1981), laureato in Filosofia (Lecce) e in Musicologia (Venezia), dottore di ricerca, diplomato in pianoforte, svolge attività di ricerca presso la cattedra di Estetica dell’Università del Salento. Tra le sue ultime pubblicazioni: Theodor W. Adorno. Pensiero critico e musica (Mimesis 2011), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni (Mimesis 2012), Electrosound. Storia ed estetica della musica elettroacustica (EDT 2013). [1] Dell’ampio catalogo degli scritti di Danto, vanno ricordati almeno Analytical Philosophy of History, Cambridge University Press, New York 1965 (trad. it. di P.A. Rovatti, Filosofia analitica della storia, il mulino, Bologna 1971); Analytical Philosophy of Knowledge, Cambridge University Press, London 1968; What philosophy is: A guide to the elements, Penguin books, Hermondsworth 1971; Analytical Philosophy of Action, Cambridge University Press, London 1973; The Transfiguration of the Commonplace: A Philosophy of Art, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1981 (trad. it., introd. e cura di S. Velotti, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2008); The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, New York 1986 (trad. it. di C. Barbero, La destituzione filosofica dell’arte, a cura di T. Andina, appendice bibliografica di A. Lancieri, Aesthetica Edizioni, Palermo 2008); Beyond the Brillo Box: The Visual Arts in Post-historical Perspective, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1992 (trad. it. e cura di M. Rotili, Oltre il Brillo Box. Il mondo dell’arte dopo la fine della storia, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010); After the End of Art: Contemporary Art and the Pale of History, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1997 (trad. it. e cura di N. Poo, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008); The Abuse of Beauty: Aesthetics and the Concept of Art, Carus Publishing Company, Chicago 2003 (trad. it. di C. Italia, L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo box, introd. di M. Senaldi, Postmedia Books, Milano 2008); What Art Is, Yale University Press, London 2013. [2] Basti pensare a lavori come Nietzsche as Philosopher, Columbia University Press, New York 1965 e Jean-Paul Sartre, Viking Press, New York 1975. [3] A.C. Danto, The Artworld, in «Journal of Philosophy», lxi, 19, 1964, pp. 571-84; trad. it. Il mondo dell’arte, in Estetica analitica, num. mon. di «Studi di estetica», n.s., a. xxxi, n. 27, 2007, pp. 65-86. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [4] Su Andy Warhol, Danto scriverà una monografia, intitolata Andy Warhol, Yale University Press, London 2010 (trad. it. di P. Carmagnani, Andy Warhol, Einaudi, Torino 2010). [5] Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica (2003), trad. it. di L. Schettino, Edizioni Idea, Roma 2007, p. 35. [6] F. Bonami, Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano 2007, p. 13. [7] A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. xxiv. [8] A.C. Danto, Una conversazione (post-storica), con Manrica Rotili, in A.C. Danto, Oltre il Brillo Box, cit., pp. v-ix: vi. In queste stesse righe, Danto spiega come l’opera di Warhol l’abbia portato a pensare di trovarsi di fronte alla «fine dell’arte», intesa come la fine della possibilità di una «narrazione evolutiva», espressione di una nuova era, quella «post-storica». È evidente il riferimento a Hegel, per il quale il superamento dell’arte, nel mondo moderno, vive una fase di «dissoluzione» (Auflösung), in relazione alla quale prende forma la nozione di «morte dell’arte». Questa celebre espressione, che non è hegeliana, al di là di ciò che erroneamente si è talvolta pensato, sta a indicare non una generale, completa ed effettiva scomparsa del fenomeno artistico, quanto il fatto che l’arte si esaurisce nel suo essere mezzo per esprimere compiutamente il vero in forma sensibile. Ripartendo da Hegel, Danto scrive: «Io sono per una fine della storia dell’arte, non per la fine dell’arte. Non credo che tutto sia già stato fatto e che quindi non possiamo aspettarci più nulla di sconvolgente dal mondo dell’arte. D’altronde […] l’idea di un futuro dell’arte non storico fa del presente qualcosa di completamente aperto. Tutto è possibile» (ivi, pp. vi-vii). [9] Dichiara Danto: «A un certo punto del mio percorso mi venne in chiaro come la totalità della filosofia fosse in qualche modo connessa con la nozione di rappresentazione […] come le nostre storie individuali non siano che le storie delle nostre rappresentazioni e del loro mutare nel corso delle nostre vite; come le rappresentazioni formino sistemi che, a loro volta, costituiscono una immagine del mondo; come la storia umana sia la storia del modo in cui tale sistema di rappresentazione cambia attraverso il tempo; come il mondo e il nostro sistema di rappresentazioni siano interdipendenti, nel senso che talvolta cambiamo il mondo perché si conformi alle nostre rappresentazioni e tal’altra cambiamo le nostre rappresentazioni affinché si conformino al mondo» (A.C. Danto, Lectio magistralis, cit. in S. Velotti, Presentazione di A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, cit., p. 11). [10] Cfr. G. Dickie, Art and the Aesthetic. An institutional analysis, Ithaca, London 1974; Id., «The New Institutional Theory of Art», proceedings of the 8th Wittgenstein Symposium, 10 (1983), pp. 57-64. [11] A.C. Danto, Una conversazione (post-storica), cit., p. vii. [12] Su questi aspetti, mi sia consentito rinviare a G. Fronzi, Etica ed estetica della relazione, Mimesis, Milano 2010. [13] Ricordiamo che la questione degli indiscernibili era stata affrontata in particolare da Gottfried Wilhelm Leibniz. [14] Angela Vettese contesta il fatto che le diverse versioni di Brillo Box possano essere considerate identiche. Prendendo in considerazione le scatole originali disegnate dal grafico Steve Harvey negli anni Trenta, quelle presentate da Warhol nel 1964 e quelle di Mike Bidlo del 1991, IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 intitolate Not-Warhol (Brillo Boxes 1969), perché mai dovremmo considerarli oggetti indiscernibili? «Le scatole di Harvey sono di cartone; quelle di Warhol le riproducono in legno; quelle di Bidlo, pure di legno, non sono fatte con lo stesso sistema di serigrafia usato da Warhol e presentano meno imperfezioni e sgocciolature volute. Le prime servivano a contenere merci, le seconde a portare sul piano dell’arte la grafica nata in ambito commerciale, le terze a mostrare come si possa diventare una grande della storia dell’arte non inventando un’immagine, ma trasportandola dalla cultura comune a quella alta […]». In definitiva, «siamo di fronte a oggetti di cui ciascuno è matrice del secondo, eppure sono dissimili per funzione, per senso storico e anche per costituzione materiale» (A. Vettese, «Presentare al posto di rappresentare», in Id., Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 48-9). [15] Sull’estetica di stampo analitico e sul pensiero di Danto, cfr. F. D’Agostini, N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002; Estetica analitica, 2 voll., numero monografico di «Studi di Estetica», s. 3, a. xxxi, 27-28, 2003; S. Chiodo (a cura di), Che cos’è l’arte. La filosofia analitica e l’estetica, Utet, Torino 2007; T. Andina, A. Lancieri (a cura di), Artworld & Artwork. Arthur C. Danto e l’ontologia dell’arte, in «Rivista di Estetica», n.s., a. xlvii, 35, 2/2007; T. Andina, P. Kobau (a cura di), Il futuro dell’estetica, in «Rivista di Estetica», n.s., a. xlviii, 38, 2/2008; P. D’Angelo (a cura di), Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma-Bari 2008; P. Pellegrino, La bellezza tra arte e tradizione, Congedo Editore, Galatina 2008, in particolare i capp. «La scomparsa della bellezza nell’estetica analitica» e «Analitici e continentali: il tema della bellezza e il ruolo dell’estetica» (pp. 104-130); S. Velotti, Estetica analitica. Un breviario critico, in «Aesthetica Preprint», n. 84, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2008; L. Marchetti, Oggetti semi-opachi. Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto, Albo Versorio, Milano 2009; T. Andina, Arthur Danto. Un filosofo pop, Carocci, Roma 2010. [16] Sul tema della relazione nell’ambito dell’estetica analitica cfr. M. Weitz, The Role of Theory in Aesthetics, in «Journal of Aesthetics and Art Criticism», xv, 1956 (trad. di A. Ottobre, Il ruolo della teoria in estetica, in P. Kobau, G. Matteucci, S. Velotti, Estetica e filosofia analitica, il mulino, Bologna 2007, pp. 13-27); A.C. Danto, The Artworld, cit.; Id., Artworks and Real Things, in «Theoria», 39, 1973; M. Mandelbaum, Family Resemblances and Generalizations concerning the Arts, in «American Philosophical Quarterly», ii, 1965, pp. 219-228 (poi in G. Dickie, R.J. Sclafani [a cura di], Aesthetics. A Critical Antology, St. Martin’s Press, New York 1977); G. Dickie, Defining Art, in «American Philosophical Quarterly», vi, 1969; Id., Art and the Aesthetic. An institutional analysis, Ithaca, London 1974; J. Levinson, Defining Art Historically, in «British Journal of Aesthetics», xix, 1979; M.C. Beardsley, Aesthetics. Problems in the Philosophy of Criticism, Hackett Publishing, Indianapolis 1981. [17] Per un’analisi delle vicende della bellezza nella storia dell’occidente, cfr., fra i tanti volumi disponibili, R. Bodei, Le forme del bello, il Mulino, Bologna 1995; G. Carchia, Arte e bellezza, il Mulino, Bologna 1995; H.-G. Gadamer, L’attualità del bello (1977), trad. it. di R. Dottori e L. Bottani, Marietti, Genova 1986; A. Marwick, Storia sociale della bellezza. Dal Cinquecento ai giorni nostri, trad. it. di A.L. Zazo, Leonardo, Milano 1991; F. Rella, L’enigma della bellezza, Feltrinelli, Milano 1991; G. Santayana, Il senso della bellezza (1896), a cura di G. Patella, Aesthetica Edizioni, Palermo 1997; S. Zecchi, La bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 1990; Id., L’artista armato. Contro i crimini della modernità, Mondadori, Milano 1998; U. Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, Milano 2004; E. Matassi, W. Pedullà, F. Pratesi, La Bellezza, a cura e con un saggio introduttivo di R. Gaetano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; P. Pellegrino, La bellezza tra arte e tradizione, cit.; F. Vercellone, Oltre la bellezza, il mulino, Bologna 2008; R. Scruton, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica (2009), trad. it. di L. Majocchi, Vita & Pensiero, Milano 2011; N. Zangwill, La metafisica della bellezza (2001), trad. it. e cura di M. Di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Monte, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011; W. Menninghaus, La promessa della bellezza (2003), trad. it. di D. Di Maio, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2013. [18] Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso, cit., p. 35. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Niente di nuovo, niente di realistico, niente di filosofico di FRANCA D’AGOSTINI È in libreria un nuovo libro di Franca D’Agostini: "Realismo? Una questione non controversa", Bollati Boringhieri: un percorso nei dibattiti filosofici contemporanei sul tema del realismo, dal postmodernismo a oggi. L’autrice discute, tra l’altro, il new realism di cui si è parlato e si parla molto, specie in Italia. Qui pubblichiamo un ulteriore intervento di D'Agostini sul tema. 1. Nuoveau realistes Quando (intorno all’anno 1978) apparve il fenomeno mass mediatico ed editoriale dei «nouveaux philosophes», chiesero a Gilles Deleuze «che cosa pensi dei nuovi filosofi?» e il filosofo francese, maestro dei «maestri di Parigi» (perché da lui provenne il meglio del post-strutturalismo) rispose: «niente». In effetti, era difficile dire che cosa ci fosse propriamente “da pensare” nell’operazione di Bernard Henry Lévy, André Glucksmann e compagni. Non si trattava di filosofia ma di una minestra molto riscaldata di tesi diventate quasi ovvie (per esempio l’affinità tra il totalitarismo comunista e quelli nazista e fascista), rovesciate nella zuppiera della casa editrice per cui Lévy lavorava, e di vari giornali e televisioni, e offerta da personaggi in camicia bianca e capelli scompigliati ad arte, a una cena i cui invitati erano per lo più politici di sinistra preoccupati del declino del comunismo, e con amicizie segrete per la destra. Qualcosa di molto simile sta succedendo, mi sembra, con il «nuovo realismo», il «movimento filosofico» di cui si insiste a dare notizia da circa due anni, su Repubblica (l’ultimo annuncio è del 25/10) e in vari altri luoghi. Ma in modo ancora più triste e confuso. Anzitutto perché nel caso dei nouveaux philosophes era la prima volta che veniva promosso, come si disse, il «supermarket filosofico», ossia il vero e conclamato ingresso della filosofia nel territorio fangoso dei media e della comunicazione di massa. Dunque almeno la forma del fenomeno (la zuppiera, per così dire) era nuova. Poi perché Glucksmann, Lévy e compagni si avvalevano (pur non riconoscendolo) di un vero movimento di idee nuove che si era prodotto in Francia tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, il cosiddetto poststrutturalismo o neostrutturalismo. Invece il nuovo realismo tenta di trasformare in movimento lo sfondo tutt’altro che movimentista della filosofia contemporanea. Perché da tempo in ciò che chiamiamo “filosofia” non c’è più (e per fortuna, io credo) lo strife of systems, la lotta dei sistemi, ma ci sono invece diverse discipline specializzate che operano parallelamente, e che oggi (a quel che so) stanno cercando un quadro di riferimento IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 comune, una “filosofia prima”, direbbe Aristotele. (Io credo anzi che questa filosofia prima si stia di fatto delineando. Ma un conto è cercare e descrivere una nuova filosofia prima, un altro conto è produrre “movimenti”.) In generale, non c’è mai male nel far circolare parvenze di idee filosofiche, o anche solo i nomi filosofici tradizionali, come “realtà”, “verità” o anche “filosofia”. Perlomeno, si attira l’attenzione sul fatto che esistono problemi relativi a questi nomi, e vale la pena che tutti ne tengano conto. Però c’è sempre un rischio, che non va sottovalutato, ed è il rischio che il risultato ultimo della procedura sia un annientamento dei contenuti sostanziali che la procedura stessa nominalmente promuove. Più banalmente: ciò che ne fa le spese, nel «nuovo realismo», secondo me è precisamente il nuovo realismo, vale a dire: la nuova consapevolezza collettiva che sta affiorando nella vita pubblica circa i concetti di verità e realtà – e affiora per ragioni molto semplici, di cui in molti hanno parlato ripetutamente (io stessa): per l’avanzare mondiale della democrazia. E ovviamente ne fanno le spese anche le novità importanti che la filosofia recente ha prodotto proprio riguardo ai “superconcetti” filosofici di realtà e verità. In altre parole: ciò che ne fa le spese è il nuovo paradigma di filosofia prima che si sta faticosamente cercando e di fatto forse trovando. Esattamente nello stesso modo, la nouvelle philosophie azzerò, e rese definitivamente stupida, quell’ipotesi di nuova filosofia (nuovo marxismo, nuova sinistra) che si stava annunciando in quegli anni. 2. Stultificazione È il fenomeno che chiamo stultificazione, dal verbo inglese to stultify, che significa contraddire, annientare dal punto di vista intellettuale, ma anche rendere irrilevante, stupido. Ed è un fenomeno abbastanza frequente, in filosofia. In una certa misura è quasi inevitabile, quando avviene il contatto tra filosofia e mass media. Però, ripeto: credo che tale contatto sia una buona cosa, e anzi sia in una qualche misura necessario. Non sempre inoltre ha esiti stultificanti. Ma il disastro è assicurato quando nell’ambiente stesso in cui si effettua l’operazione non si ha la minima idea di che cosa sia la filosofia, come funzioni, e perché abbia senso occuparsene, ma circola la confusa percezione che in ciò che si chiama “filosofia” sia in gioco qualcosa di prestigioso, e importante per tutti. Avviene allora che niente di nuovo, niente di realistico, e soprattutto niente di filosofico venga presentato come espressione di un nuovo realismo filosofico, e sia in qualche modo quasi autorizzato a presentarsi per tale. È quanto accade di fatto con il new realism descritto e propagato da Ferraris, con ostinato e pervasivo metodo di sfruttamento di tutti gli spazi disponibili, e sistematica cancellazione o elusione delle voci dei contrari o dei perplessi (che non siano troppo illustri o potenti per poter essere liquidati o ignorati, nel qual caso dovranno essere rabboniti). Se cercate in effetti che cosa realmente dicano i nuovi realisti di nuovo e di realistico la risposta di Deleuze è inevitabile: non trovate niente. I due più “movimentisti” del gruppo sono Markus Gabriel e ovviamente Maurizio Ferraris. Il primo è molto giovane, ed è stato ingaggiato in un’impresa da cui era meglio dispensarlo. Il secondo sta da tempo presentando come filosofia una produzione di stile tipicamente postmoderno, fatta di tesi molto vaghe e oscillanti (scienza no, scienza sì, verità no, ma anche sì, documenti ovunque ma non proprio ovunque, testualismo sì, ma debole, costruzionismo sì, ma solo in parte, ermeneutica no, però anche sì …), e quando non vaghe e oscillanti, polemicamente rivolte contro un antirealismo metafisico (effettiva scomparsa dei fatti, annientati dalle interpretazioni) che nessuno ha mai realmente sostenuto, e che ripetono l’antica polemica di Sokal e Brickmont e di altri contro il postmodernismo. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Gli altri sono vecchi filosofi che non hanno più molto da dire, come Putnam o Searle, e i cui “realismi” (ma discuterei l’uso di questa espressione a loro riguardo) non hanno nulla ma proprio nulla a che fare con i realismi realmente nuovi di cui oggi possiamo parlare. Oppure persone che visibilmente non hanno alcuna vera competenza sul tema del realismo perché non si occupano di metafisica, ma di altro (filosofia del linguaggio, letteratura, architettura, ecc.). Un autore ufficialmente “nuovo-realista” che sembra avere una certa competenza sull’argomento è Mario De Caro. Se però leggete ciò che De Caro dice (per esempio nel suo intervento in Bentornata realtà, il libro da lui curato con Ferraris: Einaudi, 2012), scoprite con sorpresa che non si dichiara affatto realista, e sembra nutrire anche qualche dubbio sulla stessa locuzione, di per sé considerata. De Caro dice che in filosofia non si tratta di realismo e antirealismo, ma piuttosto di “gradi” dell’uno dell’altro; e quanto a lui non si colloca in nessun punto della scala. Si limita invece a dar conto del fatto che nella metafisica analitica le posizioni realistiche sono diventate più importanti, ma – circostanza per me incomprensibile – evita apertamente di dar conto dell’unico nuovo realismo oggi circolante, quello cosiddetto «australiano» (che peraltro conosce benissimo). 3. Un caso italiano È mai possibile che il gran clamore suscitato da Ferraris corrisponda davvero a questa esiguità e vaghezza di contenuti? Sì è possibile. E la ragione è molto semplice: perché ci sono altre due importanti differenze da considerare tra i nouveaux philosophes e i nuovorealisti. La prima è che la nouvelle philosophie emergeva in un’epoca in cui esistevano di fatto ancora “voci” filosofiche autorevoli, che potevano contrastarla, o comunque costituire un’alternativa. In altri termini c’era uno sfondo autentico di filosofia pubblica, entro il quale i nuovi filosofi si rivelavano abbastanza chiaramente per quel che erano. Ed esistevano ancora, come ho detto, e avevano senso, “movimenti” filosofici. Tanto è vero che la nouvelle philosophie fu presto sopraffatta dall’emergere ben più potente e devastante del postmodernismo (creatura principalmente americana). Invece il nuovo realismo emerge in un’epoca in cui non c’è niente di tutto questo, e forse non ci può essere, e forse è bene che non ci sia. Dunque è abbastanza naturale che la stultificazione nuovorealista e la simulazione di movimento che essa produce operino con efficacia, avanzando nel vuoto, e non trovando reali e seri antagonisti. La seconda è che i nuoveaux philosophes erano francesi, e i nuovorealisti sono (principalmente) italiani: il che vuol dire molto. Vuol dire, per esempio, che il nuovorealismo di Ferraris è piombato in una comunità scientifica particolarmente dissestata da povertà di mezzi e corruzione, e dai frutti naturali dell’una e dell’altra: il declino inevitabile della qualità intellettuale e morale. Oggi molti contrastano questo andamento nazionale, e la generazione degli studiosi più brillanti e onesti non si trova solo all’estero: anche nell’università italiana ne incontriamo molti. Ma proprio qui incomincia il rischio: che il “movimento” di costoro (che ovviamente non è filosofico, né ideologico, e meno che mai metafisico ma semplicemente politico-morale) risulti stultificato e annullato da qualcosa che gli assomiglia, ma non è affatto la stessa cosa. Perché in molti sappiamo che c’è qualcosa di nuovo in filosofia, e anche nel pensiero comune; ma non sembra essere quello che con gran clamore ci viene detto essere. Insomma, il nuovorealismo nella versione ferrarisiana finisce per lasciar passare e incoraggiare il vecchio frenando le effettive novità che stanno emergendo: un’operazione che in Italia conosciamo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 bene, visto che (così si dice) far mostra di cambiare le cose perché le cose non cambino affatto contraddistingue lo stile nazionale, da Tomasi di Lampedusa a Silvio Berlusconi. Che fare? Non ho le idee chiare. Lamentarsi del degrado del linguaggio pubblico non ha il minimo senso: personalmente, apprezzo la democrazia, e penso che i suoi limiti e le sue crisi di crescita non vadano condannate, ma se mai curate. Non condivido i lamenti neo-francofortesi contro la civiltà dei consumi, la follia e la degrazione della comunicazione nella Rete, e così via. In generale non condivido i lamenti e le denuncie che si presentano senza offrire soluzioni. Forse la soluzione però ci sarebbe: bisognerebbe riconoscere che operazioni come quella di Ferraris, e dei suoi modelli (il postmodernismo, il pensiero debole, i nuovi filosofi francesi, e il movimentismo filosofico di Nietzsche), sono oggi inutili tergiversazioni, perché c’è grande lavoro da fare, di altro tipo. In altri termini, bisognerebbe porre fine a quello stile di filosofia pubblica tipicamente tardo-sofista, che solleva gran clamore intorno al niente, allo scopo non lodevole di fare delle debolezze della filosofia, dell’università, della vita pubblica democratica, una ragione di forza e di vantaggio personale. Nata a Torino l’11 settembre del 1952, Franca D'Agostini dopo il liceo classico studia filosofia nella sua città, dove si laurea nel 1976 con una tesi su “La filosofia della scena di Antonin Artaud”. Consegue poi il dottorato in filosofia (sempre all’Università di Torino). Autrice di quindici libri e di saggi e articoli in varie lingue su riviste e volumi collettanei, collaboratrice dei quotidiani la Stampa, la Repubblica, il Manifesto, ha svolto lezioni e conferenze in varie Università europee e americane, e ha insegnato a contratto (Teoretica e Filosofia della Scienza) in varie Università italiane. Dal 2000 insegna Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino e dal 2010 Logic and Epistemology of the Social Sciences alla Graduate School of Economic, Politic and Social Sciences dell’Università Statale di Milano (Scienze Politiche). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 La metamorfosi del signor P(otere) di PAOLO ERCOLANI Parafrasando un celebre frammento di Eraclito, in cui il grande filosofo antico si riferiva alla natura, potremmo dire che l’epoca della società in rete, o della globalizzazione, è quella in cui il Potere ha subito una trasformazione tanto poco percettibile quanto sostanziale e profonda: siamo infatti passati dal Potere che nasconde, censura, manipola o coarta il flusso delle informazioni (o disinformazioni), a quello che ama nascondersi, trasfigurare i propri meccanismi di funzionamento e influenza, mascherare i luoghi del proprio abitare e operare. Lo scopo è sempre lo stesso, la perpetuazione del Potere stesso, ma le modalità mutate debbono indurre a più di una riflessione. 1. Luci e ombre Il Potere che ama nascondersi è quello a cui non importa più se e quanto la popolazione possa o debba sapere, perché il suo essere nascosto, tale per cui non si sa bene chi lo detiene, da dove e con quali modalità di esercizio, gli consente comunque di attuare un dominio sulla pubblica opinione (nonché sulle menti e sui corpi degli individui), ancora più capzioso perché in grado di inserirsi nei meandri della mente collettiva e assurgere al rango di senso comune consolidato, pensiero unico difficilmente smentibile se non al prezzo di essere tacciati di follia o paranoia. A un livello squisitamente tecnico la questione non deve sorprendere più di tanto, se è vero che già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause: «il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce»[1]. Tanto l’oscurità più totale, quanto un eccesso di luce producono degli esseri umani incapaci di pervenire alla distinzione chiara delle cose e quindi alla conoscenza, limitandoli bene che vada a una pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. E qui entra in gioco la Rete, onnipotente e generosissima dispensatrice di informazioni infinite e di ogni genere, in cui è possibile rintracciare l’avallo a qualsiasi ipotesi anche strampalata e al suo contrario. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Il risultato, ovviamente, è quello di una impossibilità di approssimarsi a delle verità nitide, abbagliati dalla troppa luce dell’«opulenza informativa» e dimentichi che il tutto confina paurosamente con il nulla. Entriamo così nel nerbo di quel «cambiamento radicale» nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere di cui ci parlava Maldonado: «Nel passato, anche quello più recente tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, ora invece è l’opulenza informativa che viene privilegiata»[2]. Siamo perfettamente all’interno dell’intuizione di Platone, ripresa efficacemente da Günther Anders quando nel 1980 descriveva il «metodo odierno» del potere, che impedisce la comprensione non più fornendo poche notizie ai cittadini, ma fin troppe, mettendoci in una condizione per cui «veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta», e impedendoci quella «visione d’insieme» delle cose che per Hegel rappresentava una dote imprescindibile nel cammino della conoscenza[3]. 2. L’èra post-democratica Che non si sta parlando di questioni minimali, è un fatto agevolmente riscontrabile non appena ci si riferisca ai grandi padri del liberalismo contemporaneo, concordi nell’affermare che il cammino della democrazia, per quanto imperfetto e irto di contraddizioni, avanza inesorabile soltanto laddove vi siano cittadini informati e critici, disposti a impegnarsi nelle faccende della società civile in seguito all’acquisizione di una conoscenza che si traduce in costruzione del bene comune. Informazione e autonomia critica sono le doti fondamentali dei cittadini di una democrazia, quelle che permettono di esercitare il «controllo pubblico del potere», «tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, e praticamente illimitato»[4]. Insomma, se una delle essenze dell’essere umano è quella di configurarsi come homo politicus, nella misura in cui si serve della propria ragione e delle conoscenze a disposizione per contribuire al progresso della società, questa facoltà va potenziata e resa possibile dalla «pianificazione» di un consorzio sociale in cui siano ampiamente garantite le libertà degli individui, a partire da quelle «istituzioni sociali che proteggano la libertà di critica e di pensiero» e impediscano di votarsi a platoniche «autorità pseudo-razionali»[5]. L’autorità più razionale che ha reso possibile il progredire delle società occidentali è lo Stato, inteso come res publica e quindi luogo in cui l’individuo è cittadino in quanto caratterizzato da diritti e doveri universalmente riconosciuti (almeno in linea teorica), a cominciare dal diritto-dovere per antonomasia: l’espressione di un consenso politico ed elettorale informato e maturo, volto alla formazione di quel potere legislativo in vista del bene comune. Naturalmente, il potere dello Stato, esposto alle degenerazioni e agli abusi propri di ogni condizione di supremazia, oltre che a livello costituzionale e di equilibrio dei poteri, dovrebbe essere controllato dai cittadini stessi, la cui vigilanza interessata alla tutela dei propri diritti porta a un controllo efficace degli stessi governanti, secondo quanto sanzionato dalla stessa Corte di giustizia dell’Unione europea[6]. Si tratta di quella «democrazia di sorveglianza»[7] di cui parla Pierre Rosanvallon, che oggi viene minata dal forte indebolimento dei due pilastri su cui essa ha trovato fondamento e determinatezza IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 pratica e concettuale: da una parte lo Stato, ormai «incapace di controllare le reti globali della ricchezza, del potere e delle informazioni»[8]; dall’altra l’opinione pubblica, uniformata, indebolita e alla fine resa passiva da un sistema di vecchi e nuovi media fondato su quella che Pasolini chiamava «misologia», cioè da un’operazione meticolosa e sistematica di distruzione del libero pensiero, dell’autonomia critica e dell’impegno politico e culturale, al punto da qualificare la nostra come l’epoca della «mediacrazia»[9]. 3. L’impero invisibile Sulle macerie dello Stato e di un’opinione pubblica informata e critica si è determinato un Potere nuovo, che trova nell’economia e nella tecnica i pilastri su cui fondarsi. Un Potere sovranazionale e ramificato ben oltre i confini statuali, capace di essere al tempo stesso in tutti i luoghi e in nessuno. Che alla ricerca del bene comune sociale ha sostituito il perseguimento del profitto economico, mentre alle dinamiche istituzionali fondate sul consenso e sul pronunciamento democratico dei cittadini oppone sempre più la platea virtuale, indistinta e quindi sterile della popolazione in Rete. Quello che Daniel Estulin ha chiamato «potere invisibile», perfettamente in grado di sostituirsi al vecchio Stato, esattamente come l’idea di «Paese» viene soppiantata da quella di «Impresa mondiale Spa» e il «popolo» stesso perde di rilevanza a favore dei più impersonali «interessi»[10]. Lo sappiamo bene noi in Italia, del resto, che per un anno abbiamo avuto un governo, quello presieduto dai cosiddetti «professori», capitanato da un Presidente del Consiglio (Mario Monti) che non si faceva alcuno scrupolo a dichiarare che il suo obiettivo non era il benessere dei cittadini e della loro qualità della vita, bensì il soddisfacimento degli asettici e impersonali diktat numerici imposti dai famigerati mercati. Un potere invisibile e apparentemente impersonale, quindi, di cui è arduo scorgere la localizzazione precisa e anche gli individui che la compongono, ma che vede delimitata con certezza la sua piattaforma ideologica e programmatica: il neo-liberismo più spinto e incurante delle istanze politiche e di giustizia sociale, la ricerca spasmodica ed esclusiva del profitto, in nome del quale tutti gli stati sono chiamati non solo a sottomettersi ai diktat dei mercati, delle agenzie di rating e dell’FMI, ma a riconfigurarsi del tutto fino ad assumere la nuova identità di stati-mercato o stati imprese. In cui evidentemente gli abitanti non sono più cittadini depositari di diritti politici e sociali, ma soggetti consumanti e pedine di un ingranaggio i cui fini non hanno a che fare con il benessere diretto della popolazione. Si tratta di un meccanismo tanto efficace quanto pervasivo e globale, che ha condotto lo studioso finlandese di politica internazionale Heikki Patomäki a esprimersi in termini di «sistema panottico»[11], quindi capace di vedere tutto e tenere sotto controllo ogni cosa, senza però lasciarsi scorgere a sua volta con chiarezza da chi non vi è dentro. Un potere del genere è perfettamente in grado di influenzare e perfino determinare le politiche degli stati, fino proprio a sostituirvisi del tutto, perché opera in un contesto, quello della globalizzazione e dei network, che sembra aver realizzato il sogno secolare dei liberisti di ogni tempo: un campo di azione dove non vi sono regole che intralciano il libero gioco della concorrenza, dove non vi sono limiti etici o persino morali imposti dai governi, dove insomma non ci sono le leggi né lo Stato, e persino a livello diplomatico sono le negoziazioni fra grandi imprese a contare nei rapporti di forza internazionali, ben più di quanto possano incidere gli attori istituzionali e governativi[12]. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Si tratta di una regressione rispetto alla grande conquista politica acquisita dal genere umano con la modernità: se allora si costruirono i grandi stati seguendo l’imperativo per cui «bisogna uscire dallo stato di natura», oggigiorno siamo tornati a un terreno di libertà talmente assoluta (per i soggetti economici e tecnocrati più forti e influenti) da configurarsi come anarchia, quella dimensione in cui l’unico criterio in vigore è la legge del più forte. 4. Homo sapiens/homo videns, homo politicus/homo religiosus Come è fisiologico e perfino necessario che accada, il terreno su cui è avvenuta questa mutazione strutturale del potere, è stato sapientemente preparato da quella che possiamo definire una vera e propria «riconfigurazione dell’essere umano». Insomma, da una vera e propria riconfigurazione delle menti di coloro che formano l’opinione pubblica, dei cittadini destinatari dei messaggi e della propaganda che il potere vuole (e ha interesse di) diffondere. Si tratta di ricostruire in maniera sintetica, e quindi inevitabilmente schematica, un percorso lineare. Il primo stadio è avvenuto quando, con l’esplodere del mezzo televisivo, le nostre società hanno gradualmente introiettato la dimensione in cui si rivela «la centralità dello schermo e la nascita di una cultura delle immagini»[13]. Ciò aveva condotto, per esempio secondo il politologo italiano Giovanni Sartori, a quella che lui definiva una regressione dall’homo sapiens all’homo videns, regressione prodotta da un mezzo, quello televisivo, «che inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere» da cui risulta atrofizzata tutta la nostra capacità astraente, di elaborazione cognitiva di ciò che guardiamo e, con essa, «di tutta la nostra capacità di capire». Il secondo stadio è quello per cui è avvenuta la trasformazione dall’homo politicus all’homo religiosus, ossia da un uomo che si fa carico kantianamente delle proprie responsabilità esistenziali e sociali, utilizzando la propria ragione per migliorare il consorzio umano senza la presunzione di risultati ottimali e definitivi, a un uomo che, per dirla con Freud, sacrifica volentieri buona parte della propria autonomia e libertà per sottomettersi a degli ordini superiori da cui aspettarsi un risultato ottimale e definitivo. Forze trascendenti o trascendentali che, alla stregua di un dio, come potrebbero essere la Rete o il Mercato, garantiscano all’uomo di potersi occupare esclusivamente dei propri scopi individuali ed egoistici perché tanto v’è una mano invisibile, un ordine spontaneo, o un’armonia prestabilita a garanzia comunque del progresso e della prosperità della società intera[14]. Si tratta di un passaggio epocale che non ha segnato soltanto il trapasso dalla società industriale a quella in Rete, ma anche e soprattutto la fine di una certa forma mentis illuministica, in cui prevaleva il sapere aude di kantiana memoria, a favore di un ritorno al noli altum sapere sed time che San Paolo aveva lanciato come monito all’uomo cristiano. Oggigiorno non ci viene più richiesto di votarci alla forza trascendente di un dio, sottomettendoci al quale otterremo la salvezza eterna, bensì di affidarci anima e corpo alle virtù salvifiche del dio Mercato, i cui effetti benefici dobbiamo aver fede che saranno garantiti malgrado per ottenere il risultato sarà necessario un certo numero di vittime. Una forma di escatologia terrena che abbiamo già visto nel corso della storia, per la quale si doveva essere disposti a tollerare sacrifici e vittime nell’immediato in vista del bene supremo finale garantito. 5. Dalla società dell’informazione a quella della formazione Molte di queste riflessioni e considerazioni si sono sviluppate attraverso la lettura di due volumi recentemente usciti nel nostro Paese. Apparentemente diversi, negli argomenti trattati come nella IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 biografia degli autori (uno degli storici più importanti al mondo da una parte, e quello che forse è il massimo esperto di televisione in Italia dall’altra), ma in realtà legati da un filo rosso quanto mai importante, che può essere espresso in questi termini: si tratta di due volumi la cui lettura consente di comprendere come si sono trasformate le società occidentali nel passaggio epocale dalla società industriale, o dal vecchio mondo pre-Ottantanove, all’epoca della globalizzazione e dei network. Carlo Freccero, nel suo Televisione (Bollati Boringhieri 2013), riesce perfettamente, attraverso appunto l’analisi dell’old media più famoso, a delineare tanto i connotati delle società europee (tradizionalmente costruite sugli ideali del servizio pubblico, della giustizia sociale e, più in generale, di una concezione del consorzio umano in cui il profitto non ricopre un ruolo determinante), quanto i fondamenti culturali della società americana (Stato minimo, competizione sociale, massima centralità del profitto come ideale regolativo). La seconda è quella che ha prevalso con l’affermazione del mondo globalizzato, attraverso un passaggio storico culturale che Freccero sintetizza in una pagina che vale la pena di riportare: «Il Novecento come teatro delle grandi ideologie politiche finisce simbolicamente con la caduta del muro di Berlino. Cade il muro dell’ideologia, cade il muro del comunismo […] Ma il crollo di un muro non significa necessariamente il raggiungimento della libertà. E’ un lieto fine, come nelle favole. Ma se nelle favole c’è il lieto fine è perché la narrazione si interrompe nel momento migliore […] Il crollo del muro di Berlino, così come è stato immortalato dai filmati e dalle fotografie, è diventato un icona di libertà. Ma celebra semplicemente la sostituzione di un ordine con un altro ordine, di un muro con un altro muro: annunciava l’uscita dal comunismo, ma, allo stesso tempo, affermava la vittoria di quel liberismo duro e puro, dei cui eccessi paghiamo oggi le spese dopo il crollo, altrettanto simbolico, del mercato di Wall Street» (C. Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 125-126). Dall’altra parte troviamo lo straordinariamente ricco volume in cui Antonio Carioti intervista, con domande mai banali né comode, lo storico Luciano Canfora praticamente su duemila anni di storia del mondo (Intervista sul potere, Laterza, Roma-Bari 2013). Ed è proprio da questa notevole ricostruzione di lungo periodo (resa possibile dalla cultura storica sterminata di Canfora), in cui la storia antica si intreccia con quella moderna e contemporanea attraverso accostamenti e similitudini suggestivi, che si aprono degli squarci illuminanti di riflessione sul cambiamento epocale dei nostri tempi. Tempi per i quali Canfora arriva a parlare di «post-democrazia», poiché «siamo entrati in una fase in cui la democrazia politica è quasi completamente archiviata: ormai il potere è in gran parte delegato a soggetti non elettivi, di carattere tecnico, magari anche ragguardevoli, che si impongono attraverso strumenti sempre più sofisticati» (p. 28). Di fronte a un Occidente in piena implosione («la catastrofe è sotto gli occhi di tutti», p. 255), in cui il potere è esclusivamente potere economico, mentre la cultura e il consenso democratico devono sottomettersi alle logiche quantitative e strutturalmente inique di un capitalismo a cui è venuto a mancare il suo contraltare (quel comunismo rispetto al quale Canfora, comunque, non nega un bilancio storico anche fallimentare), lo storico non si tira indietro e formula una proposta costruttiva che, ci piace pensare, deriva proprio dal concetto di historia magistra di ciceroniana memoria: «Io mi limito ad avanzare un’ideuzza, che spesso ripeto. A mio parere, il luogo dove le tendenze oligarchiche dominanti possono e devono essere messe in discussione è il laboratorio immenso costituito dal mondo della formazione e della scuola. Per quanto ammaccato in mille modi, nei nostri paesi avanzati resta una struttura che tocca e pervade l’intera società. E’ lì che l’educazione anti-oligarchica, su base critica, può farsi strada. Ecco perché, facendo un bilancio di quanto mi è accaduto di pensare nel corso di questi anni, ritengo che deprezzare e dequalificare il mondo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 dell’insegnamento, tanto nella scuola quanto nell’Università, sia un gesto suicida» (L. Canfora, Intervista sul potere, a cura di A. Carioti, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 264). In effetti, da queste parole del grande storico italiano si può evincere quello che è probabilmente il tratto saliente della società emersa dalla fine del Novecento: una società dell’«informazione» in cui il Potere ha visto bene di mortificare e marginalizzare al massimo grado il momento della «formazione», storicamente necessario alla costituzione di un’opinione pubblica critica e impegnata sul versante della res publica. Né del resto ci si può più nascondere dietro a presunte teorie del complotto o della cospirazione, tendenti a dileggiare e smentire coloro che parlano di poteri forti e invisibili perfettamente in grado di controllare la vita pubblica e, soprattutto, quella privata di milioni di cittadini grazie al monitoraggio segreto delle telecomunicazioni. Le recenti rivelazioni fornite al grande pubblico dall’ex tecnico della Central Intelligence Service Edward Snowden, infatti, dimostrano in maniera inoppugnabile come, per esempio la National Security Agency del governo americano, ha escogitato un sofisticato sistema tecnologico per monitorare tutto il traffico pubblico e privato di Internet e non solo, consentendo di ascoltare, leggere e decrittare e-mail, telefonate e navigazione in Rete dei privati cittadini. Il New York Times è arrivato a scrivere senza mezze misure che i documenti svelati da Snowden «rendono manifesto che la Nsa considera la propria abilità di decrittare informazioni una facoltà di vitale importanza, in cui essa compete con la Russia, la Cina ed altre agenzie di intelligence»[15]. Non ci possiamo permettere la visione idilliaca di un mondo, per dirla con le parole del poeta Tadeus Borowski, governato dalla giustizia e dalla moralità, perché in realtà la condizione umana è quella in cui «il delitto non viene punito, né la virtù premiata», ma soprattutto dobbiamo essere consapevoli che «il mondo è governato dal potere»[16], un potere che è tanto fisiologico che esista quanto necessario che lo si conosca e lo si tenga quanto più possibile in una posizione trasparente e al servizio del bene della comunità. Abdicare rispetto a questo compito, significa rinunciare alla possibilità più essenziale di cui disponiamo in quanto abitanti di questo pianeta: quella di essere (ragionevolmente) liberi. NOTE [1] Platone, Repubblica: VII, 518a, testo greco in Platonis Opera-The Works of Plato, a cura di J. Burnet, 5 voll., Clarendon Press, Oxford 1901-1907. [2] T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 89-91. [3] G. Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 234. [4] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 19. [5] K. Popper, The Open Society and Its Enemies, 2 voll., Routledge & Kegan Paul, London 1973, v. II, pp. 238-9. [6] Cfr. L. Dubouis – C. Gueydan, Les Grands Textes du droit de l’Union Européenne, Dalloz, Paris 2002, t. I, pp. 440-2. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [7] P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006, cap. I. [8] M. Castells, Communication Power, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 296. [9] Cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 139 per il concetto di «misologia»; e P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti, pp. 186 sgg. per la teoria della «mediacrazia». [10] D. Estulin, El imperio invisible, Bronce, Barcelona 2011, epílogo. [11] H. Patomäki, Democratizing Globalization, Zeld, London 2001, p. 101. [12] Cfr. S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), pp. 64 sgg.. [13] J. Van Dijk, The Network Society. Social Aspects of New Media, Sage, London 2006, p. 213. [14] Per una disamina più approfondita e dettagliata di questo passaggio, mi permetto di rinviare al mio L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti, Dedalo, Bari 2012, in particolare il cap. I («L’innocenza del divenire»). [15] Cfr. N.S.A. Able to Foil Basic Safeguards of Privacy on Web, The New York Times del 6 settembre 2013, p. A1. [16] Cit. in J. Hillman, Kinds of Power. A Guide to Its Intelligent Uses, Doubleday, New York 1995 p. 244. Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Perché l’individualismo istituzionale non funziona: ancora sul libro di E. Screpanti, "Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843)" di STEFANO BREDA Ernesto Screpanti sostiene che una teoria marxista della società, per dirsi scientifica, debba assumere l’individualismo istituzionale quale criterio metodologico. In questo modo si corre tuttavia il rischio di non riuscire a spiegare fenomeni complessi in società, come quelle capitalistiche, in cui la riproduzione della struttura sociale avviene attraverso meccanismi di dominio impersonale. Il 14 Ottobre è stata pubblicata su “Il rasoio di Occam” la recensione, scritta da Luca Basso, del libro di Ernesto Screpanti Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843). Per un sunto delle tesi contenute nel libro rimando senz’altro all’ottima ed esauriente recensione. In questa sede vorrei proporre alcune riflessioni critiche a partire dall’analisi di Screpanti. Il testo ruota intorno a categorie filosofiche e politiche di estrema attualità. Basti pensare ad alcune misure proposte dal giovane Marx per una riforma della democrazia rappresentativa: introduzione del vincolo di mandato; introduzione del diritto di revoca del mandato; abolizione del ceto politico quale classe professionale (cfr. pp. 73-117)[1]. Tali misure sono oggi al centro di un vivo dibattito in Italia, il quale si sviluppa per lo più sulla base di un diffuso discorso di stampo olistico, che, cancellando ogni contrapposizione di classe e ogni conflitto interno alla società, fa della “società civile” un corpo omogeneo, spesso caratterizzato come un soggetto agente. Il conflitto viene traslato verso un altro corpo sociale omogeneo, esterno alla società civile, la “casta”, ovvero il ceto politico, il quale persegue il proprio vantaggio a discapito dell’interesse generale. Le proposte del giovane Marx vengono in questo modo sussunte entro un ambito che politologicamente si definisce “populista”, “di destra”. Screpanti mette in evidenza come Marx arrivi a proporre la sua terapia sulla base di una diagnosi diametralmente opposta. Come si spiega la coincidenza di terapie a fronte di diagnosi divergenti? La rappresentazione olistica della società civile impedisce la comprensione della struttura della società, ovvero esclude a priori dalla visuale la considerazione di quei fattori in grado di spiegare perché il ceto politico si comporti nei fatti come se fosse un soggetto unico, perché agisca compattamente in un’unica direzione, indifferente alle richieste “popolari”, svuotando così la forma IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 democratica di ogni significato materiale. Sulla base di una rappresentazione mistificante della società, si fornisce al fenomeno una soluzione fittizia, salvaguardando così dalla critica le cause del fenomeno stesso. Il fatto è che nemmeno Marx, tra il 1841 e il 1843, era in possesso di quegli strumenti teorici in grado di consentirgli la comprensione della struttura delle società capitaliste. Anche eliminando dal discorso del giovane Marx ogni traccia di olismo e portando a coerenza il suo individualismo, si ottiene una rappresentazione della società di gran lunga insufficiente a comprendere le cause del carattere fittizio della democrazia rappresentativa liberale.[2] Olismo e individualismo non sembrano quindi le categorie centrali con cui comprendere l’evoluzione successiva del pensiero di Marx. Se così stanno le cose occorre però problematizzare gli aspetti del testo di Screpanti che vanno oltre la ricostruzione filologica, assolutamente fondata, degli studi tra il 1841 e il 1843. In generale vorrei mettere in discussione l’assunto per cui attraverso l’individualismo metodologico, sia pure nella sua variante “istituzionale”, sarebbe possibile spiegare i fenomeni sociali in una società basata sul modo di produzione capitalistico. Più in particolare mi sembra che dal punto di vista dell’individualismo istituzionale quella specifica impresa scientifica che è la critica dell’economia politica di Marx perda significato, e che quindi l’evoluzione del pensiero di Marx successivo al 1846 non possa essere completamente ricondotta nei binari di una dicotomia tra olismo e individualismo. La critica dell’economia politica[3] di Marx non è una particolare teoria accanto ad altre, ma è una critica delle categorie stesse dell’economia politica, dove “critica” non ha un valore morale, ma designa il disvelamento degli specifici rapporti sociali che devono sussistere tra gli individui perché essi si comportino in modo tale da dare senso a quelle categorie. Il procedimento è definibile, in relazione al problema qui in oggetto, come ricostruzione a posteriori dell’a priori dell’agire individuale in un contesto caratterizzato dal modo di produzione capitalistico. Marx parte dall’analisi della categoria pratica “merce”: un prodotto è merce solo in quanto gli individui vi si rapportano praticamente in una determinata maniera, ovvero quando è inserito in un sistema di scambio generalizzato, mediato dal denaro. Marx mostra che perché questo sia possibile è necessario che gli individui si rapportino al prodotto come valore, e che perché ciò sia possibile è necessario che essi facciano astrazione dal contenuto determinato dei diversi lavori concreti. Il lavoro di ogni individuo deve essere commensurabile ad ogni altro, deve valere come astratto lavoro umano, quota parte del lavoro svolto da tutti gli individui nella società. Tale commensurabilità non ha niente di naturale o di materiale, è un’astrazione (cfr. MEW 25, p. 823)[4] che ha realtà in quanto tutti agiscono come se il suo contenuto fosse reale. Con questa operazione iniziale Marx non si è limitato a ripetere ciò che già gli economisti classici avevano sostenuto, e cioè che il lavoro è la sostanza del valore, al contrario ha dimostrato che il valore è l’astrazione, socialmente praticata, dalla sostanza materiale del lavoro. Ha cioè negato la concezione sostanzialista del valore-lavoro. L’astrazione in cui consiste la forma-merce dei prodotti del lavoro è socialmente valida, dunque ha effetti concreti sulla realtà (in questo senso si parla di astrazione reale) in quanto è praticata da ogni individuo. Questo non significa che gli individui effettuino consapevolmente, né tantomeno intenzionalmente, tale astrazione: non è perché essi si rapportano ai prodotti del lavoro secondo la categoria del valore che prendono parte ai rapporti sociali dominanti, al contrario: gli individui non possono che prendere parte ai rapporti sociali in cui si trovano immersi, e quindi si rapportano ai prodotti del lavoro come a valori. L’astrazione esiste solo perché viene praticata da ogni individuo, ma al contempo, in una società capitalistica data[5], l’astrazione agisce a priori sull’agire dell’individuo. Ogni individuo è obbligato a riprodurre la validità dell’astrazione, poiché essa è sempre già socialmente praticata nel momento in cui l’individuo agisce. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 È sulla base di questi assunti iniziali - che Screpanti bolla un po’ frettolosamente come «speculazioni» (p. 143) che ci saremmo risparmiati se Marx avesse voluto seguire a pieno la sua vena individualista - che è possibile leggere in maniera non deterministica il seguito dello sviluppo della critica dell’economia politica, ed è ancora su questa base che è possibile comprendere in che senso, in una società dove regni il modo di produzione capitalistico, l’indipendenza personale si risolva in rapporti di dipendenza materiale, impersonale (cfr. p.es. MEGA II.1.1, pp. 90-91). Nella critica dell’economia politica si indaga ciò che è specificamente capitalistico nei rapporti sociali capitalistici. In tale contesto deve assumersi l’indipendenza di scelta e d’azione dell’individuo come libera da rapporti di dominio personali: la libertà formale dell’individuo è dimostrata come condizione del darsi del rapporto di lavoro salariato. Tale libertà formale si traduce però in dipendenza materiale, ovvero l’individuo è libero di agire in un contesto di dominio impersonale. L’oggetto di studio della critica dell’economia politica non è il comportamento individuale, bensì la specifica logica di comportamento, alla quale, dati i rapporti sociali capitalistici, l’individuo deve aderire per non soccombere. Sebbene l’astrazione della forma-valore dei prodotti, ovvero la loro forma-merce, effettivamente dipenda dall’agire degli «unici soggetti capaci di porre dei motivi d’azione», ovvero gli «irriducibili individui semplici» (cfr. p. 40), tale astrazione agisce a priori sul loro agire, determinando il contenuto oggettivo che il loro agire deve avere se essi vogliono raggiungere i loro scopi soggettivi (a partire dal più banale: la sopravvivenza fisica). Marx sviluppa progressivamente tale contenuto oggettivo fino a definire le leggi oggettive che regolano l’agire individuale in una società capitalistica. Queste assumono l’effettività di leggi oggettive nei confronti dell’individuo proprio in quanto ne determinano l’agire, stabiliscono per così dire le “regole del gioco”, sebbene non siano che il risultato delle azioni individuali. È per questo che Marx può parlare di feticismo[6] in riferimento a tali leggi: esse vengono vissute dall’individuo e teorizzate dall’economia politica classica come leggi naturali dell’agire umano, proprio perché agiscono a monte dell’azione individuale, mentre qui si rivelano come socialmente prodotte. La critica dell’economia politica individua queste leggi, e non le spiega a partire dall’agire individuale, bensì dall’agire sociale, spiega le azioni degli individui e le relazioni tra di essi come determinati da quelle leggi e individua i meccanismi (la concorrenza) attraverso cui quelle leggi, proprio determinando l’agire individuale, si riproducono. In una parola, la critica dell’economia politica studia la struttura sociale delle società capitalistiche. La domanda che si pone è se sia possibile ricondurre univocamente tale metodo d’indagine ad una delle categorie metodologiche indicate da Screpanti: olismo metodologico o individualismo istituzionale. Il punto centrale è che, nello schema abbozzato, non si dà semplicemente la possibilità che l’agire dell’individuo sia «influenzato dal contesto istituzionale» (p. 19) in cui agisce, bensì viene considerato esclusivamente in quanto è determinato dalla struttura sociale. Tutto ciò che nell’agire individuale può essere emergente rispetto alla struttura sociale viene escluso dalla trattazione, poiché l’oggetto di studio è solo ciò che è specifico di tale struttura specifica. La polemica di Screpanti nei confronti di Althusser, secondo il quale «gli individui sarebbero nient’altro che “portatori” delle relazioni sociali» (p. 32), è ad un tempo giustificata ed ingiustificata: è giustificata se stiamo parlando del “pensiero di Marx” in generale, espressione che però si riduce ad indicare una generica “visione del mondo”, che è per il Marx maturo «meno di ogni altra cosa» (A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1969, p. 52); è ingiustificata se stiamo parlando della critica dell’economia politica, dove gli individui vengono presi in considerazione esclusivamente in quanto «portatori» di relazioni sociali (cfr. MEW 23, p. 167 e MEW 25, pp. 826-827), non perché Marx risolva ontologicamente l’individuo nella struttura, ma perché quello è, metodologicamente, IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 l’unico aspetto dell’individuo da prendere in considerazione per gli scopi scientifici che si pone Marx in quel contesto. La critica dell’economia politica non può quindi essere letta come descrizione sociologica di una società capitalistica, o di determinati concreti fenomeni sociali aventi luogo in una determinata società capitalistica; essa descrive unicamente ciò che deve darsi, a priori, in qualsiasi società storicamente e geograficamente determinata, perché essa sia definibile come capitalistica. È dunque forse poco sensato tentare di coglierne il metodo attraverso categorie metodologiche valide per lo studio empirico dei fenomeni sociali nella loro concretezza. Ci è quindi inutile la critica dell’economia politica nell’analisi e nella spiegazione di determinati fenomeni sociali, storicamente e geograficamente determinati? No. Essa ci indica proprio ciò di cui non possiamo non tenere conto nello spiegare perché si dia un determinato fenomeno, e che non potremmo ricavare dagli interessi, dalle motivazioni, dalle credenze e convinzioni degli specifici agenti coinvolti, né dalle specifiche relazioni che sussistono tra di essi: i meccanismi di dominio impersonale, i quali attengono alla struttura sociale nella quale gli individui agiscono e nella quale hanno luogo le relazioni tra di essi. Riprendiamo un esempio dello stesso Screpanti, anche per render chiaro che non si tratta di «civetterie dialettiche» (p. 143)[7]: Una grave crisi è predisposta da vari fattori, tra cui gli effetti dell’accumulazione capitalistica sulla tendenza del saggio di profitto a cadere. Questi effetti sarebbero il risultato non intenzionale delle antecedenti decisioni d’investimento dei capitalisti: ognuno di essi, introducendo innovazioni che fanno aumentare il proprio saggio di profitto, contribuisce a creare condizioni di progresso tecnico che alla lunga farebbero diminuire il saggio di profitto generale e darebbero origine a crisi sempre più gravi. Si noti che il progresso tecnico è spiegato non con un’argomentazione di tipo funzionale riferita ad un soggetto collettivo (ad esempio: l’innovazione si verifica in virtù di una “logica del capitale”), bensì con una spiegazione causale dei comportamenti individuali e dei loro effetti aggregati: il singolo capitalista in un dato momento introduce un’innovazione per aumentare il proprio guadagno, e in tal modo genererebbe un effetto negativo sul saggio medio di profitto in un tempo successivo (p. 22). Screpanti qui prende ad esempio un caso di caduta del saggio del profitto conseguente all’aumento della composizione organica del capitale. Screpanti sottolinea che Marx era convinto che si trattasse di una legge tendenziale valida in generale (cfr. MEW 25, p. 221), mentre è stato dimostrato che non è così (cfr. p.es. T. Sablowski, Krisentendenzen der Kapitalakkumulation, in: “Das Argument” 251, 2003), dunque Marx non avrebbe dovuto neanche prendere in considerazione questo meccanismo nella critica dell’economia politica. Ma Screpanti può ben farlo, perché sta parlando di un ipotetico caso specifico, storicamente e geograficamente qualificabile, e, a determinate condizioni, il meccanismo funziona proprio come descritto da Marx. Trattandosi di un caso specifico, che quindi esula dalla critica dell’economia politica, non possiamo spiegarlo senza fare ricorso alle motivazioni che spingono gli agenti coinvolti ad agire in un determinato modo. Questo significa che possiamo spiegare il fenomeno solo sulla base delle motivazioni individuali? Non ci serve a nulla l’indagine strutturale di cui si è parlato poco sopra? Screpanti spiega il fenomeno della caduta del saggio medio di profitto come effetto aggregato dell’introduzione di innovazioni tecnologiche da parte dei capitalisti, individuabili in linea di principio in un determinato gruppo di singoli individui. L’introduzione di innovazioni tecnologiche è a sua volta spiegata sulla base dell’interesse, da parte di ogni singolo capitalista, ad aumentare il proprio saggio di profitto. È una spiegazione sufficiente? Poniamoci la domanda: perché il singolo capitalista vuole aumentare il proprio saggio di profitto? La risposta, banale e ancora interna alla sfera delle motivazioni individuali, è: per soddisfare la propria sete di ricchezza. Per IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 l’individualismo istituzionale non è un problema ammettere che tale sete di ricchezza è influenzata socialmente: è il risultato della cultura in cui si è formato individuo capitalista e delle istituzioni, degli specifici rapporti in cui è inserito, ma dopotutto si tratta comunque di una motivazione individuale, che può anche essere presa semplicemente come data nell’analisi del fenomeno “caduta del saggio di profitto”. Ma è a questo punto che si pone la domanda alla quale la ricostruzione di Screpanti non fornisce risposta: perché, per soddisfare la propria sete di ricchezza, il singolo capitalista deve aumentare il saggio di profitto? Non potrebbe arricchirsi anche mediante un saggio del profitto costante? La risposta va cercata proprio nel meccanismo che Screpanti esclude dalla sua ricostruzione, perché non si risolve né nelle motivazioni individuali del capitalista né negli specifici rapporti che egli intrattiene con gli altri singoli capitalisti; si tratta di un meccanismo di dominio impersonale: la concorrenza. Se non aumenta il proprio saggio di profitto il singolo capitalista non solo non si arricchisce in maniera costante, ma viene rapidamente espulso dal mercato, finisce in bancarotta. Attraverso il meccanismo della concorrenza, una determinata logica di azione si impone ad ogni singolo capitalista (cfr. MEGA II.1.2, p.625 / MEW 42, p.644). Non si tratta di una fumosa «logica del capitale», come soggetto olistico che teleologicamente impone il proprio volere agli individui, si tratta del fatto che, dati i presupposti su cui si basa il modo di socializzazione specificamente capitalistico, il contenuto oggettivo dell’azione specifica di un individuo non è determinato unicamente dal suo scopo soggettivo. Facciamo un altro esempio. Una rappresentazione plastica del dominio impersonale è fornita dal funzionamento dei mercati finanziari e da quella che lo stesso Screpanti, nel libro L’imperialismo globale e la grande crisi, chiama «disciplina del credito». Stiamo parlando, detta in breve, del meccanismo per cui le politiche economiche degli stati vengono “dettate” dai mercati finanziari. La disciplina del credito è una trappola inesorabile che è regolata dalla pura e semplice logica di mercato. Non c’è bisogno di un tiranno imperiale per attivarla e farla funzionare a dovere. Bastano gli speculatori, oltre che i ragionieri delle banche e delle organizzazioni internazionali. (E. Screpanti, L’imperialismo globale e la grande crisi, DEPS, Siena 2013, p. 95) Qui Screpanti avanza prima una spiegazione di tipo olistico (la logica di mercato), poi, giustamente, riconduce il soggetto olistico, il mercato, alle azioni degli individui che lo compongono (speculatori, ragionieri etc.). Infatti: Non c’è una mente perversa che pianifica tutto. La speculazione non la comanda nessuno. La reazione è organica, spontanea. Ed è una reazione complessa in cui moltissimi soggetti decisionali agiscono autonomamente perseguendo finalità eterogenee, contribuendo però a innescare processi che si risolvono oggettivamente, “naturalmente”, in un’azione punitiva. (ivi, p. 100) A questo punto però, per spiegare ad esempio il fenomeno “mancata approvazione di misure volte a ridurre la disoccupazione da parte del Governo italiano”, non ci si può limitare a dare la colpa al soggetto olistico “mercato”, ma neanche semplicemente agli “speculatori”. Occorre quantomeno spiegare perché gli speculatori abbiano agito in un modo anziché in un altro. Qui un individualismo metodologico puro avrebbe poco da dire, ma l’individualismo istituzionale può fare riferimento alle «istituzioni normative» e alle «abitudini comportamentali» (p. 20) in cui sono immersi gli individui nel momento storico preciso: attraverso «l’ideologia, l’educazione, la propaganda» (p. 21) gli investitori hanno sviluppato l’idea, che le politiche contro la disoccupazione non possano che nuocere all’economia di un Paese, e che dunque convenga disinvestire non appena tali politiche vengano ventilate: Ora, mettete queste “idee” in testa agli speculatori. Se un governo vuole fare politica economica per curare la disoccupazione […] non può che produrre disastri […]. Appena i “mercati” finanziari IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 cominciano a sospettare una tale scivolata verso il socialismo scatterà la disciplina finanziaria. Spesso non ci sarà neanche bisogno che il governo avvii quelle perverse politiche, basta che le annunci. La speculazione sulla moneta o il debito sovrano di quel paese le renderà impotenti prima ancora che si verifichino le condizioni strutturali che tutti paventano. Così il governo apprenderà la dura lezione. In altri termini, o il governo si comporta liberamente come vogliono i “mercati” o i “mercati” lo costringono a comportarsi come vogliono loro. (E. Screpanti, L’imperialismo globale e la grande crisi, p. 106 - 107) L’unico argomento debole, in questa ricostruzione, è proprio quello che spiega la decisione del singolo investitore con le sue convinzioni personali, per quanto condizionate socialmente e storicamente (cfr. p. 20). Nei fatti non v’è alcun bisogno che l’investitore sia ideologicamente condizionato perché egli sia necessitato ad agire così come agisce se non vuole cadere sul lastrico. Potenzialmente ognuno degli investitori esistenti potrebbe essere, come individuo, convinto del fatto che una politica contro la disoccupazione non possa che giovare ad una economia. Il fatto è che l’investitore non prende decisioni sulla base delle sue convinzioni personali circa gli effetti della politica in questione, ma sulla base di quella che è lecito aspettarsi sarà la reazione prevalente tra gli investitori[8], perché sarà quello a determinare effettivamente l’andamento della valuta o dei titoli di Stato. Il paradosso è che ognuno degli investitori dovrà fare questo calcolo, ed è proprio così che si formerà la “reazione prevalente”. «Questo comportamento non è il risultato di una propensione perversa. È un inevitabile prodotto di un mercato degli investimenti organizzato secondo le linee descritte» (J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Atlantic, New Dehli 2006, p. 139). Dunque nella nostra spiegazione abbiamo dovuto, da un lato, considerare gli individui con le loro posizioni di scopo (ottenere un vantaggio economico o almeno non ricevere uno svantaggio), dall’altro, per spiegare perché, per raggiungere quello scopo, ogni individuo ha dovuto agire in un determinato modo (si badi: non ha deciso di agire, ma ha dovuto: in caso contrario avrebbe effettivamente mancato il suo scopo), abbiamo dovuto considerare qualcosa che va al di là della sfera individuale, per quanto socialmente condizionata: la struttura del mercato. Ora potremmo cercare di spiegare anche questa tramite l’individualismo istituzionale, finendo in una sorta di regressus ad infinitum che ci riporterebbe probabilmente a dinamiche proprie della sfera dell’esempio precedente. Lasciando aperta la questione, mi chiedo se è davvero possibile risalire, nel caso in oggetto, a responsabilità individuali (non parlo di responsabilità morali, ma causali), cosa che dovrebbe essere in linea di principio possibile, nell’ottica dell’individualismo istituzionale (cfr. p. 21), e che però presuppone la libertà d’azione degli individui. Insomma, in quanto “istituzionale”, l’individualismo istituzionale accetta il fatto che «la costituzione dei soggetti è condizionata storicamente e socialmente» (p. 20), ma in quanto individualismo non può mettere in discussione l’assunto di base dell’individualismo metodologico, e cioè che «le strutture sociali, i comportamenti collettivi e il cambiamento storico sono l’explanandum; le azioni, gli interessi, le coscienze e le motivazioni degli individui sono l’explanans», (p. 21). La critica dell’economia politica ci fa notare però che, in una società caratterizzata da rapporti di dominio impersonali, come una qualsiasi società in cui il modo di produzione e quindi di socializzazione sia capitalistico, se non abbiamo già capito la struttura sociale, non possiamo prendere come explanans l’azione individuale, in quanto questa non è mai interamente causa sui ed è bisognosa anch’essa di spiegazione[9], proprio sulla base della struttura, la quale invece, una volta data, come prodotto dell’azione, può essere presa, metodologicamente, come causa sui: è struttura perché viene riprodotta costantemente dall’azione. Si noti che questa affermazione non costituisce un principio scientifico assoluto: è relativa ad un oggetto di studio delimitato, i cui limiti definiscono anche i limiti di validità dell’affermazione, la quale non si basa su, né implica, alcun asserto ontologico. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 In chiusura non si può non fare brevemente riferimento ad un altro punto critico dell’individualismo: il problema di come si affronta la situazione presente, nella quale la libertà formale dell’individuo si risolve nel suo asservimento materiale, ovvero come se ne esce e per raggiungere cosa. Non è un caso che negli ultimi anni si siano diffuse metafore di tipo religioso/olistico per spiegare in senso critico la sottomissione del ceto politico ai mercati finanziari: il neoliberismo come culto pagano del “dio mercato”. Queste metafore esprimono in ultima analisi quello che Marx chiamava feticismo: ciò che è nei fatti un insieme determinato di rapporti sociali, dunque dipendente dall’azione degli individui, viene vissuto come una “cosa” indipendente dall’azione stessa e che anzi la domina. Ma con la critica dell’economia politica Marx non si è limitato a denunciare questo feticismo come “falsa coscienza”. Al contrario, il suo intento era precisamente quello di identificare la radice reale, assolutamente concreta di tale feticismo nelle caratteristiche strutturali di quella specifica forma di rapporto sociale. Marx nega che si tratti di una mistificazione, conscia o inconscia, che operi nella coscienza dell’individuo e in questo senso usa l’espressione «mistificazione reale» (MEW 13, p. 34-35). Da questo punto di vista assistiamo oggi ad un sostanziale passo indietro da parte delle teorie critiche della società: si moltiplicano teorie (e movimenti sociali) che riducono il problema ad una mistificazione pura e semplice: gli individui sarebbero dominati da un’idea mistificante, ad esempio quella dell’economia (Serge Latouche[10]), o del lavoro (Robert Kurz e il gruppo Krisis[11]), o del valore (Wertkritik in generale) o ancora lo sviluppo e via di seguito. La liberazione, essendo il problema reale considerato per lo più come già auto-soppressosi[12], consisterebbe in una auto-liberazione da tale mistificazione, un “aprire gli occhi”, una sorta di “rivoluzione dell’autocoscienza”: si torna in qualche modo a Bruno Bauer. Ma cos’ha a che fare l’individualismo istituzionale con Bauer e con le teorie critiche citate, accomunate per il resto solo dall’abbandono di un’ottica di classe? Paradossalmente, nel momento in cui si afferma che le strutture sociali, i rapporti di produzione e le forme di socializzazione vanno spiegati sulla base delle azioni individuali e che queste a loro volta dipendono da «gli interessi, le coscienze e le motivazioni degli individui», per quanto condizionati, il rischio di ricadere dal materialismo complesso dell’ultimo Marx in qualche forma di idealismo è forte. Screpanti sottolinea il peso avuto da Bauer nel mantenere il giovane Marx ancorato all’idealismo (pp. 57-58), ma mette in luce anche il suo ruolo nell’evoluzione di Marx dall’olismo all’individualismo, dalla totalità alla moltitudine: C’è però una ricaduta positiva di questo idealismo della coscienza. In Bauer l’autocoscienza si esprime nelle capacità critiche degli individui, non nell’azione delle collettività; la stessa conquista della libertà si ottiene con l’azione dei singoli, mentre le collettività sono predisposte a subire l’assoggettamento universale del potere statale. (p. 58) L’idea della “rivoluzione dell’autocoscienza” si può considerare come una trasposizione sul piano sociale della dialettica servo-padrone di Hegel (cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, pp. 283-291): il servo è dominato fintantoché non prenda coscienza del fatto che è ciò che lo domina, il padrone, a dipendere dal suo agire. Ora, se l’unico ente capace d’azione, dove “azione” definisce un «cambiamento mosso da fini» (p. 41), è l’individuo, e l’azione collettiva non è comprensibile che come aggregato di azioni individuali eterogenee, e se la struttura sociale è il risultato di questo aggregato di azioni individuali eterogenee, allora il mantenimento o la dissoluzione della struttura sociale esistente diventa una questione meramente quantitativa: dipende da quanti individui prenderanno coscienza del fatto che è il loro agire a determinare la struttura e cominceranno ad agire in maniera differente; se il risultato aggregato di queste azioni individuali sarà sufficiente, la struttura sociale non potrà che cambiare. Questo è il modo d’agire della IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 moltitudine, anche secondo le teorie che si rifanno a Toni Negri: non si tratta di costruire le condizioni per un agire differente ma di agire la differenza, praticarla direttamente. In tutto ciò scompare però il fatto che l’individuo in quanto individuo non può agire in maniera radicalmente differente finché non sia cambiata la struttura sociale: se lo fa, soccombe. Questo è messo in luce dalla critica dell’economia politica di Marx. L’unica possibilità, da questo punto di vista, risiede nell’azione collettiva, conseguente ad una posizione collettiva di scopo, posizione collettiva in senso forte, non come aleatorio incontrarsi di scopi individuali autonomamente formatisi, ma come costruzione collettiva di uno scopo, il cambiamento (inevitabilmente conflittuale) della struttura sociale, il cui raggiungimento consenta poi un’agire differente. Si tratta allora prima di tutto di superare il punto di vista teleologico individuale, il che è proprio ciò che il punto di vista della moltitudine esclude. In Negri la questione è contraddittoria, perché se da un lato la moltitudine è rappresentata come «molteplicità incommensurabile» e «singolare» (T. Negri, Per una definizione ontologica della moltitudine, Moltitudes Web, 2002, p. 2) in opposizione ad ogni unità collettiva di stampo olistico totale (il «popolo») o parziale (la «classe operaia»), dall’altro è a sua volta ipostatizzata come soggetto di una «prassi collettiva» (ivi, p. 3). Tale contraddittorietà appare come un tentativo di uscire dall’impasse pratica di cui sopra. In Screpanti tale contraddittorietà non c’è: l’esistenza di qualsiasi soggetto collettivo, di qualsiasi ente collettivo che agisca altrimenti che sotto l’impulso di scopi individuali o loro aggregati aleatori, è coerentemente esclusa, ma non si capisce allora come sia pensabile uscire dall’impasse, se si accettano gli assunti basilari della critica dell’economia politica di Marx. Screpanti afferma che l’individualismo istituzionale è fondamentale per una teoria della rivoluzione, perché «attribuisce all’azione umana attitudine all’autoliberazione, ovvero la capacità di modificare intenzionalmente la struttura sociale» (p. 21). Questo è valido anche per un’ottica non individualista come quella derivante dalla critica dell’economia politica: la struttura sociale dipende dall’azione umana e quindi può essere dall’azione umana modificata, ma non dall’azione individuale, né singolare né aggregata, questo almeno per quanto riguarda la specifica struttura sociale capitalistica. Con il riferimento alla posizione collettiva di scopo il problema è comunque tutt’altro che risolto, anzi, la questione è appena aperta e richiederebbe la trattazione dei problemi relativi alla teoria delle classi e della lotta di classe, e un confronto in tal senso con la prospettiva dell’individualismo istituzionale, cosa che per ragioni di spazio non sarà possibile fare in questa sede. Tutte le questioni toccate meriterebbero ben altro livello di approfondimento, ma già sulla base di quanto detto mi sembra si possa mettere in dubbio che “olismo” e “individualismo”, categorie metodologiche che Screpanti dimostra adattissime a comprendere l’evoluzione di Marx negli anni ’40, siano altrettanto adeguate a caratterizzare il modo di procedere di Marx nei confronti della specifica problematica posta con la critica dell’economia politica. Ugualmente dubitabile mi sembra il fatto che ricorrendo alla categoria “moltitudine” si possa evitare di scontrarsi col problema del rapporto tra agire individuale e struttura sociale. D’altra parte, appunto perché convinto che la problematica sollevata dalla critica dell’economia politica non possa essere evitata da una teoria critica della società che si ponga in un’ottica di emancipazione (sia che la si intenda come emancipazione degli individui, sia come emancipazione della classe lavoratrice), dubito che una o l’altra delle categorie suddette possa costituire la cifra di una tale teoria. NOTE [1] Laddove si riporti solo il numero delle pagine il riferimento è sempre a E. Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843), DEPS, Siena 2011. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [2] Da ciò non si deve trarre automaticamente la conclusione che le misure di riforma elettorale suddette non possano essere oggi auspicabili, altrimenti si peccherebbe di intellettualismo. Si tratta però innanzitutto di definire i limiti di tali proposte. Sulla base delle idee del Marx maturo, nessuna riforma elettorale può portare ad una “vera democrazia”. [3] Con “critica dell’economia politica” si intenderà qui sempre l’intero corpus di scritti ad essa relativi, compresi i lavori preparatori del Capitale e i manoscritti non pubblicati. Per quanto riguarda le tematiche qui in oggetto, considerare il Capitale come un’opera in sé conchiusa è un errore dal punto di vista filologico. Va sottolineato che la critica dell’economia politica è stata letta, e viene ancora letta, nelle maniere più disparate. Le ambivalenze innegabilmente presenti nei testi rendono necessario scegliere la lettura che appare più fondata e più fruttuosa. [4] I testi di Marx saranno citati con riferimento all’edizione (MEW o MEGA), il numero della sezione (nel caso della MEGA), il numero di volume e quello di pagina. [5] Per questo la ricostruzione dell’a priori avviene a posteriori: perché avviene sulla base dell’osservazione dei comportamenti in una società già dominata dai rapporti sociali capitalistici, e non sulla base di una ricostruzione storica della produzione pratica di quei rapporti. Vengono indagati i meccanismi di riproduzione di rapporti sociali specifici, non la loro produzione. Naturalmente la lettura storicamente egemonica nel marxismo è stata un’altra, a partire dalla teoria di Engels sulla produzione semplice di merci fino alle posizioni di W.F. Haug. [6] La categoria del feticismo non si limita all’analisi della forma-merce, ma attraversa l’intera struttura del Capitale. [7] Così definisce Screpanti l’impostazione filosofica del Capitale, in opposizione a quella dei Grundrisse, rovesciando e rivisitando in chiave kuhniana la teoria della “popolarizzazione progressiva” da molti sostenuta, a partire da Backhaus, cfr. H.G. Backhaus, Zur Dialektik der Wertform, in: A. Schmidt, (a cura di), Beiträge zur marxistischen Erkenntnistheorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt/M 1971. Va sottolineato che quanto sostenuto in merito al rapporto tra individuo e struttura emerge dai Grundrisse quanto dal Capitale. Più in generale, mi sembra che la tesi dell’oscillazione di Marx tra rivoluzione scientifica e normal science sia sostenibile, ma vada piuttosto riferita all’intero corpus della critica dell’economia politica. Cfr. M. Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert. Die Marxsche Kritik der politischen Ökonomie zwischen wissenschaftlicher Revolution und klassischer Tradition, Westfälisches Dampfboot, Münster 2011. [8] Cfr. p.es. P. Windolf, Was ist Finanzmarktkapitalismus?, in: P. Windolf (Ed.), FinanzmarktKapitalismus, VS Verlag, Wiesbaden 2005, p. 26. [9] Cfr. M. Heinrich, Über „Praxeologie“, „Ableitungen aus dem Begriff“ und die Lektüre von Texten, in: „Das Argument“ 254, 2004. [10] Cfr. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010. [11] Cfr. Gruppe Krisis, Manifest gegen die Arbeit, in: “Krisis”, giugno 1999. [12] Un discorso simile vale anche per il Toni Negri teorizzatore della “moltitudine” e del “comune”, ma la questione in questo caso è più complessa. Stefano Breda è dottorando alla Freie Universität di Berlino con un progetto su Capitale fittizio e riproduzione dei rapporti sociali capitalistici. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Moltitudine, classi e azione sociale: risposta a Stefano Breda di ERNESTO SCREPANTI Breda crede di poter rigettare l’individualismo istituzionale sulla base di una ricostruzione hegeliana della teoria marxiana del capitalismo, ma produce un cortocircuito tra la descrizione della struttura di un modello astratto e la spiegazione nomologico-causale dei processi reali. Una volta tradotta quella descrizione in un linguaggio comprensibile a tutti si scopre che, proprio perché la struttura è posta assiomaticamente come “causa sui”, non può sostituirsi a spiegazioni basate sul metodo dell’individualismo istituzionale. Voglio subito dire che l’articolo di Stefano Breda mi è piaciuto, nonostante abbia di primo acchito trovato sconcertanti alcune sue proposizioni. Alla fine ho capito che dice sostanzialmente le stesse cose che dico io, seppur in un linguaggio diverso. “Dominio impersonale” è un bell’ossimoro che esprime poeticamente il senso di oppressione che tutti noi proviamo di fronte a mostri totalizzanti come il “capitale multinazionale”, la “speculazione internazionale”, il “mercato sovrano”, o anche soltanto “l’Europa che ce lo chiede”, e giù giù fino alla classe politica costituitasi in “casta”. Ma dal punto di vista scientifico è un non senso. “Dominio”, “Potere”, “Dipendenza”, sono concetti che definiscono una relazione tra agenti sociali. Ci deve essere qualcuno (individuo o gruppo) che domina e qualcuno che è dominato. Non possono essere usati quali definizioni di agenti sociali, come talvolta Breda sembra fare. Può una relazione essere un soggetto? Se interpretate in quest’ultimo senso alcune affermazioni di Breda paiono sbalorditive. Cosa sono “le leggi oggettive… che regolano l’azione degli individui e… ne determinano l’agire”? Le leggi pongono dei vincoli alle azioni, non le determinano. Le azioni sono determinate da decisioni degli agenti, non dal contesto in cui queste vengono prese. Se il codice della strada mi proibisce di andare a più di 130 l’ora, sono comunque io che decido di compiere l’azione di andare a 100, o anche a 140 (essendo disposto a rischiare una multa). E cosa può mai voler dire l’affermazione “ogni individuo ha dovuto agire in un determinato modo (si badi: non ha deciso, ma ha dovuto)”? Un operaio che esegue i comandi del padrone deve svolgere certe operazioni lavorative, ma non agisce, in quanto concretizza una decisione del soggetto che lo domina: il suo apparente agire non è altro che l’agire del padrone – direbbe Hegel. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Si faccia attenzione, però. Breda non sta dicendo quello che sembra dire. Sta dicendo una cosa molto più semplice. Sta dicendo che in un modello di società capitalistica gli agenti sociali intrattengono certe relazioni e, per la logica del modello, si devono comportare in un certo modo. La tipizzazione è parte essenziale delle pratiche scientifiche. Un modello definisce una struttura assiomatica di relazioni e di dinamiche comportamentali stabili, tali cioè da riprodurre la struttura stessa. Nel modello di Marx esistono relazioni di sfruttamento e oppressione tra la classe dei lavoratori e quella dei capitalisti. La dinamica funziona in modo tale che come classe i lavoratori non possono sottrarsi a quella relazione, in quanto la “legge generale dell’accumulazione capitalistica” spinge il salario a un livello così basso da costringere i lavoratori stessi, per sopravvivere, ad accettare il contratto di lavoro. Condivido in pieno quest’argomentazione. E spero che Breda mi perdonerà se ho cercato di tradurre le sue tesi in un linguaggio terra terra. Credo di aver fatto un favore a lui e al lettore, il quale, se non ha conoscenze teologiche, avrà difficoltà a capire cos’è una “Struttura” che è “causa sui”. In altri termini Breda svolge la sua argomentazione articolandola su due livelli di discorso. Quello della modellistica astratta e quello dell’analisi dei processi reali. Io condivido la sua ricostruzione del modello di Marx e lui sembra condividere la mia analisi volgarmente “empirica” dei comportamenti effettivi (in L’imperialismo globale e la grande crisi). A volte però quei due livelli di discorso fanno corto circuito e generano confusione invece che chiarezza, come ad esempio quando dice che “l’astrazione della forma-valore… agisce a priori sul loro [degli individui] agire, determinando il contenuto oggettivo che il loro agire deve avere se essi vogliono raggiungere i loro scopi soggettivi”. Il lettore non versato nella metafisica hegeliana si domanderà come sia possibile che una forma possa agire e determinare il contenuto soggettivo di un’azione. Non si agiti: Breda sta semplicemente dicendo che nel modello marxiano di capitalismo le leggi oggettive del mercato implicano che l’impresa, per sopravvivere, deve ricercare il profitto e il lavoratore, per sopravvivere, deve ricercare il salario. È una proposizione condivisibile, anche se forse chi è interessato alla rozza ricerca “empirica” la troverà poco utile. Ma che c’entra tutto ciò con il metodo dell’individualismo istituzionale? È una critica? Sembrerebbe esserlo, se Breda intendesse dire che esiste un agente collettivo, ad esempio il mercato sovrano, ovvero la “forma-merce”, che determina concretamente l’agire degli individui, delle classi, dei governi, delle imprese, dei sindacati. In tal caso la critica si risolverebbe banalmente nel contrapporre una pseudo-spiegazione olistica a un’analisi concreta dei processi decisionali in un contesto di competizione oligopolistica globale. Come dire che, se Marchionne costringe gli operai a votare democraticamente un aumento del loro sfruttamento e una riduzione dei loro diritti, sotto la minaccia della delocalizzazione, l’azione non è attribuibile all’AD Fiat-Chrysler, ma alle leggi naturali di mercato. Il metodo dell’individualismo istituzionale invece c’indurrebbe a dire che le azioni di Marchionne e di milioni di altri capitalisti mirano a massimizzare i profitti, e quindi lo sfruttamento; che la possibilità di delocalizzare gli investimenti, cioè di decidere dove investire, li mette in condizioni di ricattare lavoratori e governi; che, siccome così fan tutti, quelli che non lo fanno alla lunga vengono espulsi dal mercato (e.g. la Chrysler viene assorbita dalla Fiat), che di conseguenza il mercato funziona in base a certe leggi “naturali” che nessuno ha programmato, ma che emergono come risultante delle azioni di tutti quei capitalisti. Che si diano risultati inintenzionali emergenti delle azioni individuali intenzionali è un principio pienamente accettato dagli scienziati sociali, compresi i primi teorici dell’individualismo metodologico (Menger, Schumpeter). Che poi quei risultati condizionino l’agire degli individui e delle classi è un tema ampiamente sviluppato dai teorici dell’individualismo istituzionale, così come lo è la convinzione che molti comportamenti individuali sono non intenzionali e non razionali (Agassi, Jervie). Alcuni usano le espressioni “individualismo sociale” o “individualismo strutturale” per definire lo stesso metodo. S’intende che l’individuo non è semplicemente influenzato dal IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 contesto istituzionale, come giustamente osserva Breda, ma ne è costituito. L’uomo è un essere sociale in quanto la sua personalità, la cultura, le aspirazioni etc. sono condizionate dal contesto sociale in cui si è formato e agisce. In questo particolare senso Breda mi dà ragione quando osserva, seppur con un’infelice espressione, che l’agire dell’individuo “è determinato dalla struttura sociale”. Chiaramente non può voler dire che le decisioni sono prese dalla struttura, né che l’individuo è un un’ape incapace di agire liberamente. In un approccio marxista resta fondamentale il principio che l’individuo è capace di azione intenzionale autonoma, altrimenti come si fa a ipotizzare che la struttura sociale può essere modificata con la rivoluzione? Certo, la rivoluzione la fanno le classi con l’azione collettiva. Ma non ci sarebbe bisogno della politica, della propaganda, dell’organizzazione, dei programmi di partito, se l’azione collettiva rivoluzionaria fosse un’epifania dell’ente generico. In realtà è un difficile processo di convergenza delle decisioni dei molti ed eterogenei individui che compongono le classi. Per questo il metodo dell’individualismo istituzionale è necessario non soltanto allo scienziato sociale ma anche al politico rivoluzionario. C’è di peggio: di fronte alla complessità dei processi sociali e delle azioni collettive, e nell’impossibilità di raccogliere tutte le informazioni micro-sociali necessarie per una completa riduzione individualistica delle spiegazioni, gli scienziati e i rivoluzionari fanno spesso ricorso a concetti riferiti ad aggregati sociali (le classi, le nazioni, il capitale etc.) e addirittura cercano di individuare leggi empiriche che ne regolano la dinamica. È una pratica teorica che nel mio libro ho definito “olismo euristico”, spiegando come non sia in contrasto col metodo dell’individualismo istituzionale. Marx indulge spesso in questa pratica, ad esempio quando elabora le sue “leggi di movimento”, e spessissimo usa concetti riferiti a entità sociali collettive. Gli si fa un pessimo servizio se s’interpretano quei concetti in termini olistici, anche se è vero che talvolta lui stesso viene mal servizio dal linguaggio hegeliano su cui si era formato. Bisogna essere indulgenti. Non si può pretendere che fosse a conoscenza del Methodenstreit aperto dagli economisti austriaci di fine Ottocento. Breda pare ossessionato dalla dialettica hegeliana. Ma anche qui bisogna riconoscere che forse lo è meno di quanto sembra. A un certo punto cita una mia facezia sulle “civetterie dialettiche”. Il lettore sprovveduto potrebbe prenderla per una bocciatura sarcastica. Però Breda è troppo ben ferrato in marxologia per non sapere che quella facezia è un richiamo alla battuta che Marx fece nel poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, quando, dopo aver ricordato la propria “critica del lato mistificatore della dialettica hegeliana”, affermò di aver “civettato qua e là, nel capitolo sul valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare”. C’è da supporre che dopotutto quella citazione di Breda abbia voluto essere autoironica. Applicando al suo scritto il metodo dell’individualismo istituzionale si potrebbe dire che qui siamo in presenza di un’azione preterintenzionale deformata dal contesto filosofico idealista in cui Breda si muove. A conferma della sensazione che il mio stroncatore, più di quanto lui stresso creda, si trova in buona sintonia con le opinioni che intenderebbe criticare, vorrei richiamare alcune sue osservazioni che ho trovato illuminanti. Innanzitutto ha capito che la mia ricostruzione della teoria della “vera democrazia” del giovane Marx non è allineata con l’andazzo di riprovazione olistica della “casta” e della falsa democrazia oggi imperante in Italia. Il discorso di Marx, proprio in quanto basato su una critica individualista e materialista dell’olismo hegeliano, decostruisce i concetti di “interesse nazionale”, “popolo”, “stato”, “classe universale”. Li decostruisce portando alla luce l’eterogeneità degli interessi della “moltitudine”, cioè degli individui e delle classi sociali, e mettendo in chiaro che sono le azioni di questi che determinano l’esistenza di quegli apparenti soggetti collettivi, e non viceversa. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 È illuminante anche il modo in cui Breda mostra la contraddittorietà del concetto di “moltitudine” quando è postulato “in opposizione ad ogni entità collettiva” come il “popolo” o la “classe operaia” e poi ipostatizzato “come soggetto di una prassi collettiva”. In Marx non era così. La sua moltitudine è un insieme di agenti socialmente caratterizzati (le “classi sociali”, già nel 1842-3) e capaci di azione collettiva emancipatoria. Breda spiega al lettore che nella mia ricostruzione del pensiero del giovane Marx ho mirato anche a chiarire quest’argomento. Infine emerge il problema dei problemi: “La struttura sociale dipende dall’azione umana e quindi può essere dall’azione umana modificata, ma non dall’azione individuale… Con riferimento alla Posizione collettiva di scopo il problema è comunque tutt’altro che risolto, anzi, la questione è appena aperta e richiederebbe la trattazione dei problemi relativi alla teoria delle classi e della lotta di classe”. Ben detto. Peccato sia una “cosa che per ragioni di spazio non sarà possibile fare in questa sede”. In chiusura vorrei informare il lettore che Breda cita dalla prima edizione (2011) del mio libro, ormai irreperibile. Ne è appena uscita una seconda edizione riveduta e ampliata: Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843), Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2013. Ernesto Screpanti insegna Economia della Globalizzazione e Storia del Pensiero Economico all’Università di Siena. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Le conseguenze del formalismo: la ‘politica della logica’ di Paul Livingston di MARCO PIASENTIER In linea con il proposito della presente rubrica, in questo numero di Knots si analizza un libro che definisce un itinerario filosofico in cui si intrecciano filosofia politica di matrice continentale e riflessione analitica sui paradossi semantici e matematici. Paul Livingston è professore di filosofia presso l’Università del Nuovo Messico; il suo libro, ‘La politica della logica: Badiou, Wittgenstein e le conseguenze del formalismo’,[1] è stato recentemente pubblicato per la collana ‘Routledge Studies in Contemporary Philosophy’. Il testo si propone di articolare la relazione tra logos e bìos, ovvero di rispondere alla domanda su come il linguaggio – in quanto forma trascendentale – definisca e plasmi la vita umana. Non si tratta di proporre una ‘logic of politics’, una ‘logica della politica’, ovvero di forzare il pensiero politico entro un formalismo logico ad esso estraneo, ma di portare alla luce la dimensione intrinsecamente politica della logica. Scopo di Livingston è la definizione di una ‘politics of logic’, ‘politica della logica’, secondo la quale l’indagine sul logos è ‘simultaneamente sia logica che politica’ (p. 60): La questione ultima di questa indagine […] è lo sviluppo di una “politica della logica” che tenti di comprendere il logos stesso – ciò che Eraclito ha definito tempo addietro come il ‘comune’ – come ciò che è l’immediata e necessaria forma di ogni esistenza linguistica (p. 8 ) Questa politica della logica permette di aggiornare e trasformare la classica questione teoretica del bios politikon grazie ad un’indagine (meta-)formale riguardo l’esistenza e l’efficacia di forme e formalismi atti a plasmare e determinare la vita collettiva. (p. 281) Il libro si divide in tre parti. Nella prima - ‘Introduzione: un’indagine sulle forme di vita’ Livingston ne propone le linee guida per definire come la vita collettiva rifletta precise strutture formali. Vengono individuati quattro diversi orientamenti di pensiero. I primi due – trascendentale e costruttivo - sono ripresi dalla filosofia di Alain Badiou e il terzo analizza il pensiero del filosofo francese stesso. Il quarto orientamento intreccia logica paraconsistente - in particolare il dialeteismo del filosofo Graham Priest [2] - e filosofia poststrutturalista[3]. L’incontro tra questi due rami del pensiero contemporaneo è incarnato dalla filosofia di Wittgenstein (post Tractatus). La seconda e la terza parte del libro – ‘Criticismo-paradossale’ e ‘Badiou e la posta in gioco nel formalismo’ - sono rispettivamente dedicate alla trattazione dell’orientamento wittgensteinano-poststrutturalista e IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 dell’orientamento generico, il sistema filosofico di Badiou. L’approccio non è compilativo, ma volto a far emergere punti di somiglianza e differenza tra i due e, in un’ultima analisi, a dimostrare la preferibilità di quello critico-paradossale su quello generico. L’indagine sulla nozione di forma di vita fa da filo conduttore all’intero progetto: a partire da essa, Livingston definisce il rapporto tra linguaggio, politica e vita. Contro due delle interpretazioni ad oggi più diffuse – l’una che fissa la nozione di forma di vita entro una matrice puramente antropologica, ed una che la definisce in termini puramente biologici – l’autore propone una terza interpretazione. Il rifiuto sia del convenzionalismo intrinseco all’analisi antropologica, che del riduzionismo biologista, conduce Livingston a sostenere che: il problema sollevato da Wittgenstein nell’invocare la nozione di forme di vita non va analizzato semplicemente rispondendo alla questione della natura della vita né tanto meno a quella della sua forma, ma piuttosto in ciò che risiede tra questi due termini; ovvero cosa significhi per una forma essere una forma di vita, cosa significa che qualcosa come una forma plasmi una vita (umana). (p.3) Se il logos è ciò che plasma, dà forma, alla vita, questo atto non può che essere considerato come un atto politico. Come scrive già Agamben in ‘Homo sacer’: La domanda: “in che modo il vivente ha il linguaggio?” corrisponde esattamente a quella: “in che modo la nuda vita abita la polis?” […] La politica si presenta allora come la struttura in senso proprio fondamentale della metafisica occidentale, in quanto occupa la soglia in cui si esprime l’articolazione fra il vivente e il logos[4] È proprio a partire dalla nozione di forma di vita - come intreccio inscindibile tra politica, linguaggio e vita - che Livingston propone un collegamento tra tradizione continentale ed analitica: Uno degli obiettivi principali del presente lavoro è, quindi, sostenere che questi due vettori di riflessione sul linguaggio – l’analisi metalogica da parte “analitica” e il post-strutturalismo nella sua forma decostruttiva dal lato “continentale” – posso essere allineati ed essere considerati entrambi utili fonti per una riflessione critica sulle implicazioni politiche del formalismo in quanto tale. Il loro intreccio può produrre, in particolare, una comprensione formalmente chiara della costruzione e della struttura delle comunità politiche, come del resto, delle loro possibilità di alterazione e delle loro dinamiche interne di cambiamento (p.8) La possibilità e, forse, la necessità di questa operazione risiedono nella centralità che il poststrutturalismo ed alcuni orientamenti della logica contemporanea attribuiscono alla nozione di aporia. In logica, il dialeteismo assume l’esistenza di enunciati sia veri che falsi, mettendo così in discussione il principio di non contraddizione, pilastro portante del pensiero logico classico, definito dallo stesso Aristotele come ‘il principio più saldo di tutti’. Il termine di-aletheia è stato coniato proprio per rimarcare l’idea che vi siano enunciati dalla doppia verità. Il risultato aporetico a cui giunge il dialeteismo è per molti versi equiparabile all’esito aporetico della filosofia francese che, nel ventesimo secolo, elabora un pensiero fondato sull’intrinseca paradossalità del linguaggio. Si consideri, ad esempio, la celebre frase di Derrida ‘non c’è un fuori dal linguaggio’. La paradossalità di tale enunciato è evidente: nel linguaggio si afferma qualcosa sul linguaggio. Questa affermazione solleva un problema topologico che può essere identificato con la seguente domanda: da dove parli? Domanda che rappresenta forse uno dei fili conduttori più interessanti per ricostruire la storia di buona parte della recente filosofia francese e italiana. È precisamente questa la domanda rivolta da Derrida a Foucault, che sarà poi posta a Derrida da Vattimo e, prima ancora da Foucault stesso. Per Livingston l’esito più significativo del poststrutturalismo è rappresentato da quelle forme di pensiero che non neutralizzano la paradossalità di simili interrogativi, ma la assumano come IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 imprescindibile. Il pensiero aporetico diventa quindi il presupposto per definire la libertà, ovvero quell’eccesso di soggettività che non si lascia imbrigliare completamente entro le maglie di un dato sistema sociale, ma è in grado in occupare una posizione paradossale, di essere sia dentro che fuori il sistema stesso. Pensare questo movimento oscillatorio è possibile proprio a partire da un’indagine formale sul linguaggio. Stabilire cosa sia il linguaggio sembra richiedere un metalinguaggio dal quale offrire una risposta. La conseguenza è un regresso all’infinito di metalinguaggi, ciascuno atto a definire le condizioni di esistenza del precedente. Così facendo, non solo si evita di rispondere alla domanda inerente il linguaggio in quanto tale, ma si reifica anche la risposta alla questione topologica. L’orientamento critico-paradossale prede una strada diversa ed afferma che il linguaggio è un’entità completa, ma paradossale; quindi ogni risposta sul linguaggio viene sempre data nel linguaggio stesso, non in un metalinguaggio. La risposta alla questione topologica è la dialetheia, ovvero il trovarsi nell’oscillazione tra un dentro ed un fuori. L’esito paradossale a cui si giunge non è da considerarsi né il segno di un errore logico, né l’abisso di un caos che forza al mutismo dell’indicibile. L’aporeticità del linguaggio è, invece, un inizio attorno al quale un altro pensiero può, forse deve, mettersi al lavoro. Questo pensiero è il punto di contatto che Livingston individua tra poststrutturalismo, Wittgenstein e Priest. All’orientamento critico-paradossale viene contrapposto quello generico. Livingston individua in Badiou la manifestazione più sofisticata di quel pensiero che egli stesso prende a modello per il suo lavoro, ovvero una filosofia in cui logica e politica sono tra loro da sempre intrecciate. In un’intervista rilasciata nel 2007[5], il filosofo francese sostiene che ogni ‘pensiero creativo’ è in realtà l’invenzione di un nuovo modo di formalizzazione, quindi il ‘pensare è l’invenzione di una forma’. Platone, per primo, affermò che ‘il pensare è pensare forme’. Il paradigma per questo pensiero è la matematica. L’intervista continua così: Rimango fedele a questa idea, ma allo stesso tempo, il cuore dell’esperienza più radicale è la politica. La politica stessa, in un senso, è anche pensare attraverso forme. Non è il pensare accordi, contratti o la vita buona. No, è il pensare forme. (p. 9) Nonostante il merito per aver proposto quella che ad oggi è la più completa formulazione della politica della logica, Livingston critica Badiou in quanto ‘il suo modo di intendere il formalismo comporta, in diversi punti, scelte teoreticamente fondamentali, che spesso vengono lasciate implicite’ (p. 10). Il punto di frattura riguarda il giudizio sulla svolta linguistica, che Badiou considera un sofismo postmoderno in cui, alla ricerca filosofica della verità, si sostituisce uno spurio gioco retorico. Il recupero di un pensiero della forma - in quanto formalismo matematico extra-linguistico e capace di cogliere l’essere in quanto essere - è chiaramente in linea con il giudizio che Badiou dà della filosofia postmoderna. A differenza di Platone, però, Badiou individua nell’incompletezza l’esito necessario di questo formalismo e - a partire dall’incompletezza teorizza l’evento, ovvero la possibilità di vero cambiamento. In altre parole, ‘la matematica è ontologia’, ontologia del molteplice: da qui l’idea di un progetto filosofico che si definisce come ‘Platonismo del molteplice’.[6] Lo scarto che Livingston rintraccia tra l’orientamento generico e quello critico-paradossale può esser definito nel modo seguente. In primo luogo, l’orientamento critico-paradossale propone una ‘formalizzazione matematica del linguaggio’, mentre quello di Badiou una ‘posizione formale extra-linguistica della matematica’(p. 190). In secondo luogo, tra questi due orientamenti vi è una frattura nell’interpretazione del paradosso dell’autoreferenzialità. Mettendo in relazione, con dovizia e inventiva, la storia della logica moderna e quella della filosofia continentale, Livingston dimostra che questi due orientamenti partono da uno stesso punto: i paradossi IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 dell’autoreferenzialità. A venir messo in discussione attraverso questi paradossi è la possibilità che un sistema che soddisfi contemporaneamente le proprietà di coerenza e completezza. Riconosciuto il presupposto che nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza, secondo Livingston: la differenza fondamentale tra l’orientamento generico di Badiou e quello critico-paradossale è la seguente: a partire dalla scelta a cui forzano i paradossi, dove l’orientamento generico di Badiou opta per la coerenza e contro la completezza, l’orientamento critico-paradossale si fonda sulla decisione della completezza contro la coerenza (p.56) Se quindi Badiou rimane fedele al progetto filosofico di un pensiero della coerenza, l’orientamento critico-paradossale afferma la completezza, riconoscendo che tale scelta inevitabilmente conduce ad un esito paradossale. Per l’orientamento critico-paradossale, il linguaggio costituisce un sistema completo e quindi non c’è nulla che in esso non possa essere articolato. La matematica è quindi una tecnica linguistica e non un formalismo extra-linguistico attraverso cui sancirne l’incompletezza. Proprio questo assunto conduce ad affermare l’inconsistenza come caratteristica strutturale ed inevitabile del linguaggio stesso: se nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza e non si dà la possibilità di un metalinguaggio da cui stabilire la coerenza del linguaggio, allora il linguaggio, inteso come totalità, deve essere inconsistente. Al contrario, Badiou propone l’incompletezza di ogni linguaggio esistente, in nome della coerenza logicomatematica. La nozione di incompletezza chiama in causa il pensiero di uno dei matematici più influenti della storia della moderna: Kurt Gödel. Pur non essendo possibile in queste poche pagine rendere giustizia dell’accurata analisi svolta da Livingston sui teoremi del matematico austriaco, è comunque importante sottolineare, almeno brevemente, la relazione tra gli esiti dei teoremi dell’incompletezza e il pensiero di Badiou. Riconoscere un collegamento tra la filosofia di Badiou e la nozione di incompletezza di Gödel permette di individuare quale sia il dubbio sollevato da Livingston in merito all’orientamento. Non va dimenticato, infatti, che l’obiettivo filosofico di Gödel era quello di sostenere una forma di realismo di matrice platonica. La mossa matematica che gli permise di supportare la sua teoria filosofica era lo scarto tra la nozione di dimostrabilità e di verità. Incompletezza significa che ogni sistema formale coerente non può dimostrare la sua stessa coerenza, per farlo deve necessariamente ricorre ad un metasistema. Affermare l’incompletezza significa che il linguaggio, in ultima analisi, non è in grado di dire tutta la verità su se stesso. Già Wittgenstein, commentando i risultati del teorema di Gödel,[7] riconobbe la problematicità di una tale conclusione: la matematica non può essere incompleta; come un senso non può essere incompleto. Quello che posso comprendere devo comprenderlo interamente[8] Se quindi la prospettiva di Badiou sembra portare con sé lo spettro di un resto metafisico, nemmeno la prospettiva critico-paradossale appare scevra da problemi. Dal momento che Wittgenstein, Derrida, Agamben, Deleuze, Lacan e Priest portano la contraddizione alle sue massime conseguenze - negando la possibilità di una metateoria che sia esonerata da questa stessa contraddizione - rimane in parte aperta la questione su come questa scelta non conduca ad una forma di trivialismo[9]. In altre parole, negare che il principio di non contraddizione possa non valere in alcune situazioni, comporta il rischio di non avere più un terreno sul quale affermare la validità della propria posizione rispetto alle altre. Se politica e logica sono tra loro legate, la conseguenza è proprio che una logica ed una politica aporetica finiscano per non consentire una reale possibilità di scelta e quindi di cambiamento.[10] Nonostante i dubbi sollevati dall’orientamento critico-paradossale, come scrive Livingston, esso sembra essere l’unico in grado IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 di render giustizia ‘al modo in cui ciò che possono sembrare le infinite possibilità del senso umano sono destinate a vivere il vincolo della loro espressione in forme finite del linguaggio’(p. 233). NOTE [1] P. Livingston, The Politics of Logic: Badiou, Wittgenstein, and the Consequences of Formalism, Routledge, 2012. [2] Per una presentazione in lingua italiana del pensiero di Priest si veda F. Berto, Teorie dell'assurdo. I rivali del principio di non-contraddizione, Carocci, 2009. [3] Per una introduzione chiara e competa al poststrutturalismo ed alle sue affinità con la filosofia italiana si veda D. Tarizzo, Il Pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina Editore, 2003. [4] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995, p. 11. [5] Intervista con Tzuchien Tho. The concept of Model, Forty Years later: An interview with Alain Badiou. In The Concept of Model. Trans. By Tzuchien Tho e Zachary Luke Fraser. Victoria, Australia: re.press, p. 102-3. [6] A questo riguardo si veda A. Badiou, Manifesto per la filosofia, trad. it di F. Elefante, Cronopio, 2008. [7] A tal riguardo si veda, ad esempio, F. Berto, Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza, Laterza, 2008. In particolar modo l’ultimo capitolo: Gödel contro Wittgenstein e l’interpretazione paraconsistente, pp. 223-251. [8] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, Einaudi, 1976, p. 111. [9] Trivialismo è la teoria per cui ogni proposizione è vera. Se tutte le affermazioni sono vere, allora, lo sono anche tutte le contraddzioni della forma ‘p e non p’. Si veda, ad esempio, Paraconstency and Dialetheism, In D. Gabbay, , j. Woods, The Many Valued and Nonmonotonic Turn in Logic. Elsevier. p. 131; F. Berto, Teorie dell’assurdo, I rivali del principio di noncontraddizione, Carocci, 2009, p. 235. [10] Per una trattazione dei recenti approcci logici al principio di non contraddizione si veda a cura di G. Priest, JC. Bell e B. Armour-Garb, The Law of Non-Contradiction. New Philosophical Essays, Oxford University Press, 2004. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Ius sanguinis o ius soli? Riflessioni sulla storia politica della cittadinanza in Italia di VITO FRANCESCO GIRONDA Quali sono le ragioni che hanno sempre condotto in Italia a privilegiare lo ius sanguinis allo ius soli? Per rispondere a questa domanda bisogna risalire alle origini dello Stato unitario. In questa fase lo ius sanguinis è servito a procurare agli italiani un senso di appartenenza “nazionale”, capace di superare le varie frammentazioni territoriali e di guadagnare il consenso e l’inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Ma il venir meno di queste esigenze dovrebbe condurre oggi a elaborare una nuova concezione della cittadinanza. L’attuale dibattito politico sulla riforma della cittadinanza risente di una forte impostazione emotiva e di un principio di presunzione d’appartenenza, una concezione particolaristica dell’individuo e delle sue relazioni sociali quale risorsa culturale da spendere sul terreno della comunicazione politica.[1] Eppure, guardare alla storia politica dell’istituto giuridico della cittadinanza significa, storicamente, interrogarsi sulle trasformazioni della moderna statualità otto e novecentesca.[2] In primo luogo, sul terreno della cittadinanza formale si è giocata una partita fondamentale dei processi di nation-bulding: chi e attraverso quali criteri identificativi può considerarsi membro di diritto della comunità politica e, poste determinate condizioni di status economico e di capitale culturale, esercitare i diritti connessi alla qualità di cittadino? In questo caso, la nazione più che essere “immaginata” (Benedict Anderson) diventa un fatto reale che ha immediate ripercussioni sulla vita di ogni singolo individuo e gruppo sociale.[3] In secondo luogo, la cittadinanza rappresenta una spia importante per analizzare le forme, i contenuti e i limiti della credenza utopica della modernità attorno all’idea di una società di cittadini. Infine, riflettere sulle modalità di sviluppo e di codificazione del diritto di cittadinanza permette, più in generale, di ragionare in ordine alle culture politiche di volta in volta dominanti. Certo, non si può prescindere da un’attenta valutazione del significato culturale dello ius sanguinis e dello ius soli nel quadro della moderna statualità nazionale.[4] Un tale approccio culturalista rischia, però, di semplificare la complessità storica dei modelli idealtipici di costruzione della cittadinanza moderna come risultato di un processo discorsivo di natura prettamente simbolica che investirebbe immagini e concezioni della politica dell’identità. Al contrario, ritengo che ogni formazione discorsiva sottostia a delle condizioni strutturali e processuali. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Per questa ragione, la continuità secolare del primato dello ius sanguinis nella legislazione italiana, ossia una concezione etnoculturale della cittadinanza in base alla quale per essere membro di una comunità politica bisogna essere membri di fatto di una comunità prepolitica determinata da fattori culturali, linguistici e antropologici, piuttosto che un indicatore di un diffuso discorso biologistico nella storia italiana – eccezione il ventennio fascista – dovrebbe essere interpretato nella sua plurifunzionalità politica. Lo ius sanguinis è passato dalla tradizione ancora confessionalista del Regno di Sardegna allo Stato liberale a quello fascista per giungere indisturbato anche allo Stato democratico repubblicano. La questione fondamentale è chiedersi il perché? Perché nel lungo periodo le varie legislazioni statali connesse a diversi sistemi politici hanno fatto riferimento al primato dello ius sangunis? La risposta sta nella singolare funzione del diritto di cittadinanza quale forma di political governance rispetto alle trasformazioni istituzionali, sociali ed economiche che hanno investito il paese nel corso degli ultimi due secoli. Da qui anche il carattere prettamente politico dell’istituto giuridico della cittadinanza. Andiamo per ordine. Lo Stato unitario eredita per lunghi tratti il modello di appartenenza formale allo stato del Codice Albertino del 1837 in base al quale la sudditanza subalpina era stata codificata attorno al principio della patrilinearità.[5] Lo status di suddito, che oramai coincideva con l’esercizio di alcuni diritti civili, era una diretta emanazione della discendenza da un suddito subalpino. Le capacità giuridiche dei singoli venivano, però, legate all’appartenenza alla confessione cattolica (art. 18). La cittadinanza-sudditanza subalpina diventava uno strumento di chiusura sociale nei confronti delle minoranze religiose dei valdesi e degli ebrei. In questo modo si voleva testimoniare che il modello di riferimento comunitario subalpino consisteva, dopo la breve parentesi napoleonica, nel riaffermare il sano sodalizio tra altare e trono.[6] Il Codice civile italiano del 1865 fa suo il principio della patrilinearità, si svincola dal confessionalismo sabaudo e riafferma con forza il modello classico di disuguaglianza di genere partorito dal Codice napoleonico del 1804, secondo la quale la donna sposata seguiva la condizione giuridica del marito. Nella normativa sulla cittadinanza italiana entrava di prepotenza il canone tardo-illuministico dell’unità organica della famiglia.[7] Vittorio Polacco aveva poi giustificato sulle pagine dell’Archivio giuridico i principi ispiratori del Codice civile italiano del 1865 in rapporto ad una presunta legge naturale della “associazione domestica”, secondo la quale “un individuo prima di appartenere a una nazione è membro di una famiglia (...) e per questa ragione è cittadino di uno Stato nel quale la famiglia e non l’individuo costituisce la cellula elementare”.[8] Come dire, la donna sposata e i suoi figli possedevano secondo la giuspubblicistica italiana una sorta di cittadinanza necessaria, tanto che un altro giurista del tempo, Antonio Ricci, affermò che esiste una nazionalità della famiglia il cui “destino” dipende dalla condizione del pater familias nel senso che ogni modificazione del suo status comporta una modificazione dello status familiare.[9] Tradotto poi in termini di disposizione di diritto, per il Codice civile significava che la donna straniera acquisiva attraverso il matrimonio con un “nazionale” automaticamente la cittadinanza del marito, mentre una donna italiana perdeva la cittadinanza nazionale attraverso il matrimonio con uno straniero. Fin qui i tratti del dettato normativo, ma la questione resta sempre aperta: perché lo ius sanguinis reggeva l’impalcatura codicistica italiana del 1865? La risposta in questa prima fase della storia unitaria italiana deve essere ricondotta, molto probabilmente, alla valenza comunicativa dello ius sanguinis nel rendere fruibile di comprensione un processo di associazione di tipo comunitario, l’“accomunamento politico” (politische Vergemeinschaftung) di weberiana memoria, il quale trova una sua ragione d’essere in un senso di appartenenza dei partecipanti in senso affettivo e tradizionale. Rispetto a che cosa? Sicuramente rispetto alle varie frammentazioni territoriali, alle crisi di legittimità, alla ricerca del consenso e inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Il Risorgimento italiano più che essere interpretato attraverso il primato dell’idea IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 di nazione dovrebbe essere riletto come dissenso e in alcuni casi “ribellione” politica delle élites notabilari locali nei confronti delle procedure burocratico-esecutive delle diverse monarchie amministrative degli Stati territoriali preunitari.[10] Il municipalismo e il localismo rappresentano i due assi centrali per comprendere la storia politica italiana della prima metà del XIX secolo. Il successo del costituirsi del paese Italia in nazione dipendeva dalla ricerca di un equilibrio contrattuale tra gli interessi delle rappresentanze (possidenti, proprietari, burocrazie locali) delle società locali, tradizionalmente refrattarie nei confronti delle prassi di centralizzazione del potere politico e lo Stato. Tutto questo fondamentalmente voleva dire rispettare il dominante canone risorgimentale del municipio quale associazione privatistica e patrimoniale, lasciare un’ampia autonomia finanziaria alle élites locali nella gestione degli “affari” comunali così come istituire dei meccanismi di rappresentanza in grado di allargare la visibilità istituzionale alle formazioni sociali dei possidenti e dei proprietari e, in alcuni casi, alla nascente borghesia acculturata.[11] Come è noto, in relazione a quest’ultima questione essa sarà, poi, egregiamente svolta dal Parlamento nazionale quale garante del raccordo al centro degli interessi particolaristici delle società locali. In un tale contesto, marcato da una debolissima identificazione nazionale, il liberalismo governamentale si premurò fin da subito di presentare alle periferie nazionali l’unificazione giuridica ed amministrativa non solo nella sua dimensione tecnica di essere neutrale ed oggettiva, ma nella costruzione di un nuovo spazio di diritto nazionale cercò di riformulare la relazione tra stato e società sulla base di un’idea di comunità nazionale i cui membri erano tenuti insieme da legami culturali e da valori ascrittivi, da una appartenenza naturale, organica e olistica alla nazione. In altre parole, si assiste a una fondamentale traslazione concettuale dal sostantivo “ordine” all’aggettivo nazionale. Nei primi anni sessanta del XIX secolo si trattava, dunque, di rappresentare la nazione nella sua dimensione normativa e su questo terreno lo ius sanguinis era diventato uno strumento comunicativo spendile.[12] La prima legge organica sulla cittadinanza italiana si ha agli inizi del XX secolo con la riforma del 1912. Codesta riforma dovrebbe essere letta nel quadro più generale dell’intensa attività riformistica d’inizio Novecento, i cui intenti modernizzatori sono stati “frenati” da specifiche cautele conservatrici volte ad adeguare l’assento istituzionale alle trasformazioni in atto nella società italiana senza procedere a radicali modifiche. L’industrializzazione, l’inserimento dell’Italia in un mercato del lavoro già tendenzialmente globale, la regolamentazione statale in materia di acquisto e perdita della cittadinanza tra paesi di immigrazione e quelli di emigrazione e non, non da ultimo, l’emergere di una specifica concezione di politica espansionistica verso l’America meridionale, furono tutti fattori che condussero ad una politicizzazione della cittadinanza nazionale. All’interno della modernizzazione difensiva d’inizio XX secolo, la riforma del 1912 rappresenta una legal regulation (Verrechtlichung) rispetto ai temi sopra citati. Toccata solo marginalmente dai flussi di migrazione continentale – secondo il censimento italiano del 1910 gli stranieri residenti erano meno di ottantamila – la politicizzazione della cittadinanza ruotava attorno all’emigrazione di massa verso il Brasile e l’Argentina, paesi dove vigeva un principio territoriale puro (ius soli). Oltre che essere motivo di scontro tra lo Stato italiano e i governi argentini e brasiliani in materia di acquisto e perdita della cittadinanza, lo status giuridico degli emigranti transoceanici fu al centro del coagularsi di un’ampia convergenza d’interessi in relazione all’idea di una politica espansionistica nazionale costruita attorno alla metafora della colonia libera. In diversi ambienti economici, governativi e culturali l’emigrazione era considerata uno strumento di espansione economica, una specifica via di colonizzazione e al tempo stesso, come scrisse Francesco Saverio Nitti sulla pagine della “Riforma sociale”, “una potente valvola di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 sicurezza sociale contro gli odi di classe e l’unica salvezza di un paese privo di risorse e pieno di uomini”.[13] Al trauma di Adua, al fallimento del colonialismo diretto, si rispondeva attraverso un’idea di espansionismo “pacifico” a cui sottostava l’idea di una “italianizzazione” dei territori di emigrazione attraverso la salvaguardia della fisionomia nazionale degli emigranti italiani. In altre parole, la locuzione di colonia libera era diventata nell’Italia di fine XIX secolo sinonimo d’italianità organizzata all’estero. Se si voleva tramutare l’emigrazione in un fattore di potenza era necessario, così gli umori politici del tempo, adoperarsi a far diventare gli emigranti in Sud America più “italiani” e, contemporaneamente, bisognava incoraggiare l’emigrante italiano a partecipare alla vita politica ed amministrativa nei paesi dell’America meridionale e dunque ottenere il diritto di cittadinanza in questi paesi: Dobbiamo facilitare ai nostri emigranti l’acquisto della cittadinanza locale. Solo così si potrà ottenere di rialzare laggiù la dignità dei nostri emigranti. Essi non si sentiranno più come oggi ripudiati dalla madrepatria e disprezzati dal paese che li alberga. I figli loro, che oggi si vergognano della loro discendenza, sentiranno simpatia per il paese dei loro padri, che continueranno a considerarsi come sangue suo, che tende loro le braccia, e non considerarli come rinnegati e cani renitenti.[14] Sul terreno giuridico istituzionale l’ostacolo principale per questi propositi espansionistici e nazionalistici era rappresentato dalle disposizioni contenute all’articolo 11 del Codice civile del 1865 che prevedevano la perdita automatica della cittadinanza italiana al momento della naturalizzazione in un paese straniero. Fautori e promotori della campagna politica per una revisione della suddetta norma furono le rappresentante degli interessi economici italiani all’estero legati alle Camere di Commercio e ai vari Comitati degli italiani all’estero.[15] Codeste rappresentanze si fecero interpreti dell’utilità politica ed economica da parte dello Stato italiano di riconoscere una doppia cittadinanza di diritto, ossia di riconoscimento da parte dello stato sia di origine sia di residenza della contemporanea appartenenza politica dell’individuo emigrato a entrambe le entità statuali. Tali richieste trovarono, poi, una forte eco tanto nei gruppi di pressione imprenditoriali vicini al blocco protezionista quando in quelli con una più spiccata visione liberista. Tutte e due i fronti, pur partendo da presupposti differenti, erano interessati a politicizzare la questione della condizione giuridica degli italiani nell’America latina sul fronte di rinnovato programma di politica economica nazionale. Essi guardavano all’emigrazione transoceanica come opportunità per costruire un mercato nazionale all’estero in risposta ad un mercato interno al limite della saturazione ed in crisi per la concorrenza internazionale e, d’altra parte, intravedevano una possibile compensazione rispetto all’incerta soluzione dei rinnovi dei trattati commerciali con i paesi dell’Europa continentale. In questa prospettiva l’emigrazione risultava complementare all’espansione solo se l’emigrante fosse stato in grado di tenere solidi contatti con la madrepatria. Compito dello Stato era allora quello di agevolare l’acquisizione della cittadinanza nei paesi d’immigrazione senza che ciò comportasse una perdita della cittadinanza d’origine. La revisione dell’articolo 11 del Codice civile poneva dunque la classe politica liberale di fronte al problema di ricercare una convergenza tra un’autocomprensione etnoculturale dell’appartenenza nazionale e la legittimità di nuove forme di politiche espansionistiche. Tanto per riportare le parole dell’onorevole Grippo in sede del dibattito parlamentare del 1911, “noi ci troviamo in una situazione contradittoria, perché mentre diciamo che bisogna facilitare agli italiani che risiedono negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, la partecipazione alla vita politica e amministrativa, dall’altra parte vogliamo mantenere il sentimento d’italianità, vogliamo cercare di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 non perdere questa grande massa di italiani che vanno nell’America del Sud”.[16] In definitiva si trattava di risolvere la questione, come scrisse un commentatore politico del tempo, circa la “compatibilità tra la nuova cittadinanza acquistata dall’emigrante all’estero e la durevolezza della sua appartenenza alla nazione, la permanenza di certi vincoli etnologici con l’Italia.”[17] Nelle diverse sedi di dibattito politico (Commissione di riforma, Ufficio centrale del Sanato, Parlamento) il fronte contro la doppia cittadinanza di diritto fu molto grande. La proposta della doppia cittadinanza fu considerata una sorta di mostro giuridico, un nuovo Giano bifronte perché essa non era assolutamente compatibile con i fondamenti costitutivi della stessa cittadinanza. Tanto per riportare le parole di Vittorio Scialoja relatore in Commissione senatoriale: Elemento materiale costitutivo dello Stato è il territorio, elemento personale costitutivo dello Stato è il popolo; chi del popolo fa parte è cittadino e come tale appartiene allo Stato; in questo è membro e sta quindi con lo Stato un collegamento organico; dato ciò, è un assurdo giuridico l’ammettere la possibilità che uno stesso membro a due diversi organismi possa appartenere: il collegamento dell’individuo a uno Stato importa necessariamente l’esclusione di un altro uguale collegamento a un altro Stato.[18] Ora, l’aspetto fondamentale che emerge da queste affermazioni è la dominanza nella cultura politica del liberalismo del paradigma dello stato-persona, dell’idea dello Stato come organismo. Si ricorre al paradigma organicistico per legittimare il rifiuto della proposta della doppia cittadinanza. Proprio qui sta la fondamentale logica di affermazione politica e non culturale dello ius sangiunis. Lo ius sanguinis va visto come un elemento costitutivo dentro il più ampio paradigma della concezione dello Stato-organico. Per questa ragione bisogna considerare la generale valenza politica di quest’ultimo nella storia politica dello Stato liberale. La storiografia giuridica italiana ha osservato che per la giuspubblicistica liberale far quadrato attorno alla metafora organicistica aveva significato rappresentare in termini esclusivamente giuridici l’apparato normativo e organizzativo dello stato di diritto liberale.[19] L’ordine giuridico si identifica con lo Stato e, come giustamente sottolinea Pietro Costa, per questa via si procedeva indicando le fondamenta dello Stato sulla base di un procedimento ad escludendum. La cultura giuridica liberale escludeva a priori un’idea contrattualistica dello Stato, in quanto essa sarebbe viziata dal cosiddetto “atomismo” di derivazione francese che proietterebbe sullo Stato l’ombra della instabilità (Pietro Costa). Una tale elaborazione concettuale si proponeva come risposta prettamente politica rispetto ai crescenti processi di differenziazione del sociale e di mobilitazione politica tra Ottocento e Novecento, essa era diventata il mantra della modernizzazione difensiva. Infatti, vedendo nello Stato un’unità organica naturale ovviamente la stessa legittimazione statale era posta oltre la sfera di giustificazione politica. Secondariamente, era proprio questo che permetteva di sottrarre la concezione della Stato dai conflitti del sociale, neutralizzando anche per questa via una possibile dimensione politica espressa dalle rappresentanze degli interessi plurali delle diverse formazioni sociali. Ebbene, a me sembra che il paradigma dello Stato-organico abbia rappresentato nei circuiti legislativi il sostrato culturale di quelle politiche di governance nel primo decennio del XX secolo hanno avviato il processo di nazionalizzazione delle masse attraverso una graduale estensione formale dei diritti di cittadinanza. Basti pensare alla strutturazione normativa delle relazioni centro-periferia (legge sulle municipalizzazioni del 1903) tesa a depoliticizzare le politiche di city government di matrice socialista e cattolica;[20] oppure, nel modo in cui si affronterà la questione sociale e il tema del suffragio universale. Sia le politiche di welfare liberale che attraverso il canale amministrativo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 proveranno a istituzionalizzare i conflitti in base a programmi sociali politico-clientelari da una parte, e sia l’avvento del suffragio universale concesso in virtù di una concezione del voto come funzione pubblica rappresentarono due tappe importanti nel processo di integrazione delle masse e in quello di rafforzamento delle istituzioni sociali, senza tuttavia che l’estensione formale dei diritti di cittadinanza fosse accompagnata da un’effettiva cultura egualitaria dei diritti. [21] Durante il ventennio fascista lo ius sanguinis assumerà la connotazione di un atto performativo volto a determinare lo spazio di appartenenza e di esclusione del nuovo razzismo di Stato.[22] In questo processo la dimensione politica, quella di potenza così come le disposizioni normative discriminatorie costituivano un continuum, sono state il risultato di uno specifico dispositivo ideologico. Si è trattato di un dispositivo che per un verso ha avuto una connotazione di tipo inclusivo perché funzionale alla continuità di una certa idea di politica estera ed espansionistica giocata attorno al ruolo attivo degli emigranti. A partire dal 1927 la politica migratoria fascista sarà tutta tesa a preservare l’italianità all’estero, il principio del cosiddetto carattere indelebilis della cittadinanza. Allo stesso tempo, la nuova stagione del razzismo di Stato poggiava sul principio di “naturalità” negativa dei gruppi sociali che di volta in volta poteva essere definita su basi culturali, religiose, politiche o economiche. Lo sarà in riferimento alla produzione normativa di tipo pervasivo del dominio coloniale fascista, ma anche con le Leggi razziali del 1938 e i vari provvedimenti amministrativi e legislativi in materia. Anzi, la definizione normativa di “persona appartenente alla razza ebraica” sintetizzatava tragicamente il trionfo del razzismo biologico fascista. Allora, a questo punto la questione finale alla quale bisognerebbe provare a rispondere è perché l’idea di cittadinanza “nazionale” risultata, storicamente, dal prefigurarsi da una valenza politica pluriforme dello ius sanguinis si sia conservata anche nell’Italia repubblicana? Credo che la risposta vada trovata nelle modalità del processo di transizione verso una democrazia costituzionale che in Italia si avvalsa d’immagini storiche e autorappresentazione collettive volte a rendere fruibili di comprensione l’idea secondo la quale è l’appartenenza allo Stato, determinata dalla nascita, che da fondamento di partecipazione alla grammatica dei diritti democratici. Non diversamente dalla transizione democratica tedesca anche in Italia si afferma una concezione di democrazia omogenea.[23] Allo stesso tempo, la persistenza dello ius sanguinis nella nostra legislazione dimostra che la territorialità (Charles Maier), intesa come organizzazione spaziale dai confini culturali e politici netti imperniata sullo stato-nazione continui ad essere un progetto onnicomprensivo, un lunghissimo Novecento che non vuole finire.[24] Ora, rispetto alle nuove condizioni di un paese di fatto d’immigrazione, la questione politica rimane: con la rottura di un’omogeneità culturale via ius soli, la cittadinanza in pieno senso democratico come strumento d’aspettative di partecipazione ne uscirebbe indebolita o rafforzata? Su questo terreno la politica è chiamata a dare delle risposte, urgenti, però. NOTE [1] Per una discussione sul dibattito politico italiano mi permetto di rimandare ai miei interventi Vito Francesco Gironda, La cittadinanza controversa, ovvero il problema di un paese al bivio (appunti sulla democrazia), in: Critica Liberale 13.05.2013; Riforma della cittadinanza per gli immigrati. E poi?, in: Politica e Società 17.02.2012; Caro Ministro Riccardi, cos’è lo ius culturae?, in: sbilanciamoci.info 30.03.2012. [2] Su tali questioni rimando al mio lavoro Vito Francesco Gironda, Die Politik der Staatsbürgerschaft. Italien und Deutschland im Vergleich 1800-1914, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2010; Andreas Fahrmeir: Citizenship. The Rise and Fall of a Modern Concept, New IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 Haven / London, Yale University Press, 2007; Thomas Faist/ Peter Kivisto, Citizenship: Discourse, Theory and Transnational Prospects, Oxford, Blackwell, 2007. [3] B. Anderson, Comunità immaginate: origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1996 (ed. orig. Imagined Communities, London-New York, Verso, 1982). [4] A insistere su questa questione è stato soprattutto Rogers Brubaker, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Bologna, Il Mulino, 1997 (ed. orig. Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, Harvard University Press, 1992) [5] Carlo Bersani, Modelli di appartenenza e diritto di cittadinanza in Italia dai codici preunitari all’Unità, in Rivista di Storia del diritto italiano, LXX, 1997, pp. 277-344. [6] Daniele Menozzi, Tra riforma e restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al mito della cristianità medievale (1758-1848), in: Chittolini, G./Miccoli, G. (a cura di), Storia d’Italia, Annale IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, G. Enaudi, 1986, pp. 753-789. [7] In generale si veda Geneviève Fraisse, Les deux gouvernements: la famille et la cité, Gallimard, Paris, 2001; Jennifer Ngaire Heuer, The Family and the Nation: Gender and Citizenship in Revolutionary France, 1789-18 30, Ithaca, Cornell University Press, 2005. Sul caso italiano si vedano le lucidissime osservazioni di Chiara Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica, in: Barbagli, M./ Kartzer, D.I. (a cura di), Storia della famiglia italiana 17501950, Bologna, Il Mulino, 1992, pp.103-127; Raffaele Romanelli, Individuo, famiglia e collettività nel codice civile della borghesia italiana, in: Gherardi, R./Gozzi, G. (a cura di), Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, Bologna, IL Mulino, 1995, pp. 351-399. [8] Vittorio Polacco, La famiglia del naturalizzato secondo il codice civile, in: Archivio Giuridico, 1882, 29, pp. 366-388, citazione p. 379. [9] Antonio Ricci, Il principio dell’unità della famiglia nell’acquisto della cittadinanza, in: Rivista italiana di scienze giuridiche, 1891, XIII, pp. 24-53. [10] Per una panoramica d’insieme si rimanda a Marco Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002; Luca Mannori, La crisi dell’ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in: Giornale di storia costituzionale”, 6, 2003, pp. 243-271. [11] Fondamentale resta il lavoro di Raffaele Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988. [12] Sulla tradizione di una narravita risorgimentale attorno all’idea dell’Italia come comunità geoparentale e naturale si rimanda a Alberto. B. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Enaudi, 2000. [13] Francesco Saverio Nitti, La nuova fase dell’emigrazione italiana, in: Riforma sociale, 1896, 3, pp.13-28, citazione a p. 21. [14] Sidney Sonnino, Relazione al Senato, stato dell’emigrazione, Archivio storico della Camera dei Deputati, protocollo n. 13427. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 4 – dicembre 2013 [15] Si vedano gli Atti del I e II Congresso degli Italiani all’estero, a cura dell’Istituto Coloniale, Roma 1909-11. [16] L’intervento dell’onorevole Grippo si trova in “Atti Parlamentari“, Roma, 1912, p. 2296. [17] Giulio Cesare Buzzati, Questioni sulla cittadinanza degli Italiani emigrati in America, in: Rivista di diritto civile, 1909, 2, pp. 445-476, citazione a p. 432. [18] Vittorio Scaloja, Relazione riforma istituto della cittadinanza, Atti del Senato, Roma 1911, p. 432. [19] Su tali questioni si rimanda a Pietro Costa, Lo stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986; Luigi Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; Maurizio Fioravanti, La scienza del diritto pubbblico. Dottrine dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè. 2001. [20] Sulla valenza politica del concetto di comune come ente autarchico si rimanda a Fabio Rugge, Trasformazioni delle funzioni dell’amministrazione e cultura delle municipalizzazioni, in: L’amministrazione nella storia moderna, Archivio Isap 3, Milano, 1985, pp. 1233-1288. [21] Si vedano Giovanni Gozzini, Povertà e stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in: Zamagni, V. (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2000, pp-578-610; Paolo Pombeni, La rappresentanza politica, in: Romanelli, R. (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp.73-125. [22] Per le considerazioni a seguire si rimanda ai contributi in Nel nome della razza. Il razzismo della storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, Bologna, Il Mulino, 2000; Antisemitismo in Europa negli anni trenta: legislazioni a confronto, a cura di A. Cappelli/R. Broggini, Milano, Franco Angeli, 2001; Giulia Barrera, Mussolini’s colonial race laws and the state-settler relations in Africa Orientale Italiana, in: Journal of Modern Italian Studies, 2003, 8, pp. 425-443. [23] Sul caso tedesco si veda Gustavo Gozzi, Democrazia e diritti. Germania: dallo Stato di diritto alla democrazia costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 1999. [24] Charles S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in: Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997, pp. 45-78. * Vito Francesco Gironda insegna storia delle moderne società presso l’Università di Bielefeld (Germania). Tra le recenti pubblicazioni si segnalano una storia comparata della politica della cittadinanza in Italia e in Germania, libro uscito in tedesco (V. F. Gironda, Die Politik der Staatsbürgerschaft. Italien und Deutschland im Vergleich 1800-1914, Vandenhoeck § Ruprecht, Göttingen 2010) e insieme a Michele Nani e Stefano Petrungaro, Imperi coloniali. Italia, Germania e la costruzione del “mondo coloniale”, Ancora del Mediterraneo, Napoli 2009 Membro dell’Osservatorio Filosofico partecipa al progetto culturale di www.filosofiainmovimento.it