Privatizzazioni: dieci anni di speranze e di delusioni

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Privatizzazioni: dieci anni di speranze e di delusioni
Giuseppe Pennisi
Le speranze dell’inizio del Secolo
Quando nel 2000 venne redatto e pubblicato il primo Rapporto di Società Libera sul Processo di
Liberalizzazione della Società Italiana, si nutrivano serie speranze che privatizzazioni e
liberalizzazioni, pur se iniziate tardivamente rispetto al resto d’Europa (Reviglio, 2012), venissero
accelerate a cavallo tra la fine del Ventesimo Secolo e l’inizio del Ventunesimo.
Nel primo Rapporto, analizzati gli effetti del processo d’integrazione economica internazionale
nell’innescare le privatizzazioni alla fine degli Anni Ottanta, ci si soffermava sulle due fasi che
hanno marcato il processo negli Anni Novanta: quella dal 1992 al 1995 di approntamento degli
strumenti e quella dal 1996 al 2001 di realizzazione della riduzione del peso delle imprese a
controllo e partecipazione statale nell’economia. Si concludeva che a dieci anni circa dall’avvio del
programma molto restava ancora da cedere, in termini sia di partecipazioni di controllo, sia di
quote minoritarie. Lo Stato – si stimava - “potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi dalla vendita
delle quote ancora detenute in società solo in parte cedute, ed un ricavo nettamente più elevato
dalla cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre aziende, quali le imprese operanti nei
settori della cantieristica navale, navigazione e difesa, le Ferrovie, le Poste, e la Rai”. Naturalmente,
queste stime presupponevano che si fosse superata la fase di cedimento dei mercati azionari su
scala mondiale, allora in corso a ragione dell’implosione della bolla della “net economy”.
Nell’ipotesi in cui avesse portato a compimento la cessione delle attività produttive
commerciabili, lo Stato avrebbe potuto chiudere l’era delle partecipazioni statali con un guadagno
molto consistente, anche se calcolato al netto dell’indebitamento dalle stesse indotto. Inoltre,
avrebbe potuto disporre di mezzi per abbassare il debito pubblico in essere per un importo stimabile
attorno al 10 %, senza contare i proventi di un’eventuale vendita delle aziende per i servizi pubblici
locali. Ma perché ciò si realizzi – si sottolineava – sarebbe stata necessaria, a parte un
miglioramento delle condizioni di mercato, una forte determinazione a dismettere la proprietà e a
reinterpretare il ruolo dello Stato nell’economia. Per riprendere un verso cruciale tra i 12.000 di cui
si compone il Faust di Wolfgang Goethe Es irtt der Mensch/solang’ er strebt – l’uomo può
sbagliare nell’”impegno totale”, ma per raggiungere obiettivi concreti è essenziale tale impegno-.
Utile sottolineare che streben è un verbo per cui non esiste un equivalente italiano: vuole dire darsi
da fare con una tenacia che rasenta la cocciutaggine.
Allora il Governo in carica sembrava intenzionato ad andare avanti in queste direzioni : il Dpef
2001 -2003 prevedeva, infatti, di realizzare 120.000 miliardi di introiti nel corso del quinquennio
che stava per iniziare, un programma graduale giustificato alla luce degli obiettivi che si è posto di
“rafforzare gli assetti produttivi nazionali” e di realizzare guadagni di efficienza nelle società da
porre in vendita. “Un programma di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato – avvertiva
Società Libera - con un maggiore impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico
ed istituzionale emerse nel processo di privatizzazione”. Prima fra esse era la sperequazione
esistente in termini di assetto concorrenziale nei settori in cui le imprese pubbliche continuavano a
godere di un rilevante potere di mercato. Maggiori benefici per l’economia sarebbero potuti
derivare da una politica attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato e a
livellare le posizioni concorrenziali.
Altre carenze andavano sanate su tre fronti: contendibilità della proprietà delle società,
trasparenza dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti di minoranza.
Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso azionario, un’integrazione delle regole di
controllo societario al fine di ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione
diretta ai mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della Consob, inclusi alcuni poteri di
sanzione, apparivano passi necessari per elevare l’efficienza allocativa dei mercati. In questa azione
sarebbe auspicabile che si perseguisse l’allineamento delle regole interne alle best practices in
vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile sarebbe un approccio diretto a stabilire a livello
di area dell’euro un unico modello generale di corporate governance per le società. Verso le
imprese ancora da privatizzare si richiedeva, invece, un’azione più intensa volta a responsabilizzare
il management nel perseguimento dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività,
data la debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management, quando sono in mano
politica. Nel settore bancario, il problema di una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse
si intrecciava tra l’altro con il nodo del ruolo ancora preponderante delle fondazioni.
Allora non si avvertivano quelle barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli anni Novanta
hanno reso arduo e a tratti impervio il cammino verso le privatizzazioni. Ma stava anche venendo
meno la forte spinta esterna ad andare avanti. Rimaneva una pressione indiretta, meno evidente, che
derivava dall’inarrestabile processo di apertura dei nostri mercati, e che non necessariamente nel
breve periodo spingeva a ricercare maggiore efficienza e competitività a livello sia di impresa sia di
sistema. In questo contesto di pressioni latenti, “saprà il Paese- concludeva il Rapporto di dieci anni
fa- a trovare al suo interno la determinazione necessaria per completare in pochi anni entrambi,
privatizzazione e liberalizzazione?” Il verbo “streben”, richiamato da Faust.
Le due fasi del primo decennio del Ventunesimo Secolo
Il decennio appena concluso può essere diviso in due fasi. Nella prima, il Governo ed il resto
società hanno cercato di intraprendere quella che abbiamo chiamato “l’erta via delle
privatizzazioni” (Pennisi, Zecchini, 2003). Si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, si è
definito il nuovo regolamento delle fondazioni bancarie e soprattutto si è fatto ricorso a tecniche
innovative per predisporre la cessione a privati, anche in campi come la vendita di immobili di
proprietà pubblica ed ad utilizzare lo strumento dei fondi pensione (allora in via di costituzione e
regolamentazione) pure al fine di favorire le denazionalizzazioni. La strada sembrava, ed era, tutta
in salita ma era promettente anche in quanto il Dpef 2003-2006 indicava quattro precise direzioni di
marcia: a)vendita entro 18 mesi dell’insieme delle partecipazioni ritenute non strategiche; b)
cessione di una quota delle partecipazioni più importanti che non intacchi il controllo sulle imprese;
c) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio
periodo; d) interventi per promuovere e tutelare la concorrenza, specialmente nel settore dei servizi
di pubblica utilità. Ci sarebbe voluta tenacia e coraggio ( e cocciutaggine nei confronti di interessi
particolaristici costituiti) per portare avanti un programma di tale sorta. Ma, come si è detto, il verbo
streben non ha equivalenti in italiano.
Già nel Rapporto relativo alle privatizzazioni nel 2005 (Pennisi, 2006), analizzando le
privatizzazioni nella XIV Legislatura, si sottolineava come gli obiettivi dichiarati fossero tutt’altri
che chiari, come anche al solo scopo di “fare cassa” per ridurre il fardello del debito pubblico si
sarebbero potute utilizzare tecniche più efficienti e più efficaci, come poco si fosse fatto in materia
di liberalizzazioni, specialmente dei servizi pubblici locali e come metodo, procedure e tecniche per
la privatizzazione dell’Alitalia (allora in fase preliminare) sollevassero numerose perplessità.
Il 2007 sarebbe dovuto essere l’anno (ove non del completamento) quanto meno di un
considerevole progresso nel processo di privatizzazione iniziato negli Anni Novanta. E’ stato,
invece L’anno delle privatizzazioni mancate come indicato nel nostro Rapporto (Pennisi, 2008) a
ragione della crisi economica internazionale che, cominciata negli Stati Uniti, ha comportato un
ritorno alla grande dell’intervento pubblico, in una prima fase, nel settore bancario e,
successivamente, nel resto dell’economia. Non sono mancati spiragli (Pennisi, 2009) ed
opportunità nelle strategie di uscita dalla crisi economica (Pennisi, 2010), nonché suggerimenti e
proposte su come tornare a privatizzare (Pennisi 2011).
Si sono citati i Rapporti di Società Libera non solo per continuità e coerenza di analisi ma
soprattutto in quanto rappresentano uno strumento efficace per uno studio retrospettivo delle
aspettative con cui si è aperto il decennio e delle progressive delusioni. Non sono certo mancate
altre analisi, italiane e straniere; ad esempio, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha condotto
periodicamente studi di qualità in materia e, prima delle elezioni del 2008, l’Istituto Bruno Leoni ha
pubblicato un Manuale delle Riforme per la XVI Legislatura (Istituto Bruno Leoni, 2008) che
faceva perno su privatizzazioni e liberalizzazioni.
Tuttavia, le Relazioni annuali sulle privatizzazioni al Parlamento del Ministero dell’Economia e
delle Finanze, MEF; mostrano una tendenza marcatamente decrescente: la più recente (Ministero
dell’Economia e delle Finanza, MEF 2011) copre il periodo 2007-2010 riguarda principalmente
vendite di diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica, Enel,
Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti , e cessioni d parte del Gruppo
Fintecna per un totale di poco meno di un miliardo di euro nei quattro anni presi in considerazione –
appena 12 milioni circa nel 2010 (senza contare la cessione del 30% di Enel Green Power non
trattata nella Relazione in quanto non riguarda una privatizzazione in senso stretto). Nel 2011, nel
nostro Paese le privatizzazioni sono state insignificanti (Narduzzi, 2011): non si sono trovati
acquirenti per la Tirrenia e l’apertura al mercato del settore dei servizi pubblici locali è stata
bloccato da un referendum che ha lasciato il comparto in un guazzabuglio normativo.
E’ un fenomeno che corrisponde al tassello italiano di una tendenza mondiale? Non proprio, il
“Privatization Barometer Report 2010” pubblicato quasi simultaneamente alla Relazione del MEF
al Parlamento mostrava che nell’anno in cui in Italia avvenivano solo due privatizzazioni in senso
stretto per 12 milioni di euro, nel mondo se ne portavano a termine 500 per 160 miliardi di euro. In
effetti, come suggerito nel Rapporto di Società Libera per il 2010 molti Stati hanno trovato nelle
privatizzazioni la via d’uscita dalla crisi. Ma non l’Italia.
E' partita, secondo il “Privatization Barometer Report 2010”, una nuova grande ondata di
privatizzazioni. Dopo salvataggi nel settore finanziario (e non solo), gli Stati ricominciano a fare
marcia indietro, timorosi, a ragione, che la loro estensione tentacolare freni lo sviluppo ed aumenti
le diseguaglianze invece di diminuirle. Nel corso del 2010, a livello globale i governi hanno
incassato circa 160 miliardi di euro. Si tratta di uno dei valori più alti mai registrati nella storia,
secondi solo ai 184 miliardi di euro incassati nel 2009, un valore allora comunque drogato dal
riacquisto delle azioni da parte delle banche americane che da solo valeva 118 miliardi di euro. Nel
mondo intero, il 2010 è comunque l'anno dei record: la cessione del 15% di Petrobras, che ha
fruttato al governo brasiliano 52,4 miliardi di euro, è la più grande offerta pubblica di tutti i tempi,
così come l'offerta pubblica iniziale di Agricultural Bank of China per 16,5 miliardi di euro. Il
collocamento da 15 miliardi di euro di General Motors, che ritorna sul mercato dopo la
nazionalizzazione del 2008, è la più grande IPO mai realizzata sulle borse americane. Se guardiamo
gli aggregati, in vetta alla classifica ci sono gli Stati Uniti, con quasi 36 miliardi di privatizzazioni,
ma davanti a tutti ci sono i BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), con 80 miliardi, la metà del totale
(Brown J.D., Earle J. Gehlbach , 2011). I paesi dell'UE hanno realizzato operazioni per 33,1
miliardi di euro, pari al 20,6% del totale. La Francia dei “campioni nazionali” è il paese europeo che
ha privatizzato di più; nel corso del 2010, con circa 10,5 miliardi di euro di cessioni, seguita dalla
Polonia e dal Regno Unito. L’unico operazione significativa su cui può contare l'Italia è la citata
cessione del 30% di Enel Green Power che con un controvalore di 2,6 miliardi di euro
E’ utile mettere in relazione il ritorno delle privatizzazioni nel mondo con le tendenze profonde
delle economie emergenti. I governi dei Paesi emergenti approfittano delle buone condizioni di
mercato e della forte crescita delle loro economie per valorizzare attraverso le privatizzazioni le loro
imprese pubbliche, aprendole ulteriormente al capitale privato nazionale e internazionale,
rendendole più solide finanziariamente e quindi più competitive. Le privatizzazioni dei paesi
avanzati sono invece legate alla debolezza della congiuntura e alle conseguenti condizioni critiche
della finanza pubblica (Cato, 2011). A fronte del rischio di insolvenza degli stati sovrani, i governi
occidentali rilanciano quindi le privatizzazioni, unica politica che consente di realizzare il
necessario deleveraging (riduzione dell’indebitamento) senza incidere sulla spesa pubblica e sul
welfare, fondamentale per la tenuta sociale in tempi di crisi.
“Un programma coerente di privatizzazioni – scrive Privatization Barometer Report 2010 - riduce
progressivamente l’ambito di discrezionalità della politica sulle imprese, aumenta la credibilità della
politica economica e quindi da ultimo migliora il rating di mercato dello Stato ,con ricadute positive
sugli spreads.” Non a caso, l’UE ha preteso dal Governo greco un ambizioso piano di
privatizzazioni per dare via libera alla nuova tranche di aiuti.
E l'Italia? Come spesso accade, l'Italia è un caso a sé stante. L'esito del cosiddetto referendum sulla
privatizzazione dell'acqua, nonostante gli ottimi risultati di gestione delle acque da parte di imprese
private nella vicina Francia (Hanke. Waltes , 2011) rende più difficile la riapertura del dossier
paradossalmente proprio nel momento,in cui un piano aggressivo di privatizzazioni dovrebbe essere
in cima alla lista per risolvere , o almeno alleviare, il nodo dello stock di debito pubblico e rimettere
in moto l’economia italiana.
Secondo stime della Fondazione Eni Enrico Mattei, gli asset pubblici da vendere non mancano:tra
partecipazioni, immobili, concessioni, crediti, servizi da mettere in outsourcing e molti altri cespiti,
nel 2004 i beni di proprietà dello Stato valevano 1340 miliardi di euro”, tralasciando le oltre 7000
aziende della galassia del capitalismo municipale (analizzato nei Rapporti precedenti di Società
Libera).
Ripianamento del debito pubblico e privatizzazioni
Nel dibattito sulle privatizzazioni, si perde di vista il nodo centrale: lo stock di debito pubblico
rispetto al Pil (ormai attorno al 120% in termini di titoli, di cui circa la metà in mano ad operatori
stranieri, senza includere pagamenti non effettuati ad impresi e privati, un altro 6% del Pil, ed il
debito previdenziale, variamente stimato tra il 150% ed il 200% del Pil ma parte del quale è incluso
nel debito pubblico in senso stretto).
Le analisi più recenti (Hoogduin L, Oztturk B., Wierts P.,2011; Legrenzi G:D, Milas C.,2011)
affermano che, data la nostra struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l’85%
del Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l’un per cento l’anno sulla crescita. Il tasso di
crescita 'potenziale' del Paese è stimato tra l’1,5 ed il 2,5 % l’anno: ci si condanna alla stagnazione
qualsiasi altra misura si applichi in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni.
Ridurre gradualmente il fardello con un 'avanzo primario' (entrate superiori alle spese pubbliche al
netto del servizio del debito) tale da portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal 'patto euro-plus' e
dall’”accordo” sull’Unione Fiscale in corso di negoziazione) implica una manovra di 35-50 miliardi
di euro l’anno per i prossimi 20 anni – ossia condannare almeno una generazione alla recessione.
Quella dell’Italia pare una malattia congenita che ha le sue radici in determinanti storicosociologiche di lungo periodo: in 150 anni di Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha
superato il 60% del Pil1.
Al fine di ridurre il debito, il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentato
dal Governo Monti in carica da metà novembre è il fondo immobiliare che ha presto acquisito ,
sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito” In breve , l’obiettivo è “creare
ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata a 1815 miliardi, pari quasi allo stock di debito
pubblico).In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio
immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato ed alle pubbliche amministrazioni in
generale) e diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40
miliardi; dalla seconda altri 10.
In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona
idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’ idea abbia questa volta modalità di applicazione che la
rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve Alcune sono riassunte in un
articolo di Paolo Savona (Savona, 2011). Altre sono state pubblicate su vari numeri del settimanale
Milano Finanza da Andrea Monorchio e da Guido Salerno Aletta (per una sintesi della proposta e
del dibattito da essa innescato Sommella, 2011) Altre ancora sono apparse su riviste specializzate.
In breve, si è finalmente diffusa la convinzione che il debito pubblico è ormai un freno tale alla
crescita che occorre pensare ad un’operazione straordinaria (nel senso etimologico di “fuori
dall’ordinario”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per
un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere,
vendere, vendere” . Date le dimensioni del problema, il fondo ora delineato dal Governo può essere
visto come una prima “tranche” di un’operazione ventennale.
1
Nella teoria economica tradizionali, ci sono principalmente tre modi per curarla (in via temporanea o
permanente):
a)
ristrutturazione e consolidamento. È la strada seguita più frequentemente dai 'sovrani' non solo per la
componente estera ma per il totale. La storia è costellata da consolidamenti di successo da quella di Nerone
nel 64 d.C. a quella di De Gaulle nel 1958 a quella di Gorbaciov nel 1987. Tutte e tre sono state
accompagnate da forti programmi di liberalizzazione all’interno e sull’estero. In Italia, i mercati hanno
esplicitamente chiesto un consolidamento nell’estate 1992. Non la attuammo per non urtare il «popolo dei
Bot»; il 17 settembre 1992 la lira venne deprezzata del 30%, urtando i «Bot people» e tutti gli altri. Saremmo
entrati nell’unione monetaria con uno stock di debito più sostenibile. La storia economica non ricorda
consolidamenti/ ristrutturazioni di debito pubblico da parte di un solo Stato all’interno di un’unione
monetaria: quando ciò venne tentato (in unione monetarie dell’Africa orientale e dell’Estremo Oriente in
tempi relativamente recente) saltarono monete uniche e i loro annessi e connessi.
b)
Maxi-inflazione. Altra via frequentemente battuta. In Italia la perseguì il liberale Einaudi, portando,
nel lasso di pochi anni, lo stock di debito pubblico dal 120% al 24% ed aprendo la porta a un quarto di secolo
di sviluppo. Lo stesso Einaudi scrisse, con il senno del poi, che sarebbe stato «più equo» attuare una manovra
di «finanza straordinaria» (ad esempio, un’imposta patrimoniale). Adesso, la maxi-inflazione non ci è
permessa dagli statuti Bce e il solo sentore di una patrimoniale non tanto darebbe la esca a fughe di capitali
ma verrebbe letta dai mercati come il preludio di una bancarotta (vedi Islanda ed Irlanda).
c)
Forte crescita economica. È il percorso perseguito con successo dai governi (sia tory sia laburisti) dal
1945 al 1955: la loro moneta, però, era il fulcro dell’area della sterlina (e la Bank of England non doveva
condividere con l’ottantina di altri soci dell’area le proprie strategie), la forza lavoro era giovane, la
popolazione entusiasta per la vittoria. In Italia, il debito frena il Pil, la denatalità ha causato un profilo
demografico anziano, le imprese faticano sui mercati mondiali e non si respira entusiasmo.
A mio avviso, si dovrebbe essere molto più ambiziosi. Lo è, senza dubbio, lo schema messo
appunto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta che è anche corredato da una bozza di
proposta di legge d’iniziativa popolare. Tale schema fa leva non sul patrimonio pubblico ma su
quello dell’edilizia privata. In breve i proprietari di casa verrebbero messi di fronte ad
un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure fare sì che un decimo del loro
patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio
a) la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future e b) un interesse al tasso di sconto presso
la Bce ed un ammortamento ventennale. In tal modo – tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali
molto ingegnosi- lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche
di crescita. Un’alternativa del programma, prevede obbligazioni a cedola zero (garantite
dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti
per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti od amici. Sono ambiziose, in
vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative ad un’imposta patrimoniale)
Vale , però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi Monorchio –Salerno e
La Malfa-Savona – la proposta Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in
maschera al fine di costituire un “fondo taglia-debito”.
Credo occorra partire dalla premesse che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di
famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno) si debba
chiedere allo Stato di fare altrettanto. Destinare a tale fine una piccola parte del patrimonio
immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2, è
limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater)
non sono certo gioielli di famiglia.
Soprattutto, dato come non possiamo utilizzare le strade maestre per ridurre il debito pubblico –
consolidamento, maxi-inflazione, super-crescita- occorre guardare a esperienze innovative di
riscatto quali quelle attuate da alcuni Paesi dell’America Latina (Nellis, 2007) e dalla Germania. In
America Latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno (abbastanza
contenuto a differenza di quello sull’estero) ma di affrontare il peso di un insostenibile debito
previdenziale. In Germania, il problema era come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione
del debito dei Länder orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati istituiti fondi specifici
quali il Treuhandanstalt (THA) tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e
privata (Bo,s, 2006; Sinn, 2001.)
In Italia sono stati fatti tentativi in parte in tal senso quali quelli di un migliore valorizzazione del
patrimonio pubblico (Patrimonio SpA e i vari Scip) hanno dato risultati modesti poiché troppo
timidi. Le proposte di Giuseppe Guarino, Giorgio La Malfa, Andrea Monorchio, Paolo Savona,
Guido Salerno ed altri sono un segnale importante: persone di culture differenti stanno
metabolizzando l’idea del riscatto, nonostante non abbiamo dimestichezza con le esperienze
dell’America Latina e della Germania. Numerose proposte guardano solo o principalmente alla
ricchezza immobiliare privata (l’Italia ha la più alta percentuale al mondo – l’80%- di residenti che
abitano in case di loro proprietà). Ciò sarebbe un’imposta patrimoniale in maschera (e verrebbe letta
dai mercati come l’anticamera della bancarotta). Chiedere ai privati di “dare oro alla Patria”
utilizzando i propri gioielli di famiglia è arduo se lo Stato non è disposto a fare passi analoghi.
Destinare a tale fine la parte meno redditizia del patrimonio immobiliare pubblico (come in una
delle proposte del Governo nella lettere d’intenti all’Ue) non avrebbe esiti concreti: parte di tale
patrimonio immobiliare (ad esempio, la case popolari Ater) ha costi di gestione superiori agli
ipotizzabili ricavi.
Un fondo per il riscatto del debito pubblico dovrebbe basarsi su tre pilastri (il suo “sottostante”
nel lessico finanziario): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico; b) parte del patrimonio
immobiliare privato su base volontaria ed in cambio di un’esenzione permanente da eventuali
imposte patrimoniali; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste
Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri ed
altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché sono fardelli da rimettere in sesto o
da liquidare. Con un tale “sottostante” in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a lungo termine
ed a tassi allineati su quelli di riferimento della Bce per riscattare il debito pubblico e , in via
subordinata, finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo attualmente accantonati a
ragione delle ristrettezze di bilancio. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare
le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”.
Perché l’operazione funzioni il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con una
cartolarizzazione) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di
costituire una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensione per dare corpo ad
una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del
loro numero da 700 ad una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con
le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va comunque fatto se non si vuole che
la previdenza integrativa resti una chimera.
Il Governo Monti sta lavorando su progetti in questa direzione. Occorre dire che la proposta
delineate in queste pagine portata in discussione in seno al Consiglio Nazionale dell’Economia e del
Lavoro ha incontrato la netta opposizione della Confederazione Generale dell’Industria Italiana. Da
quando la FIAT ha lasciato la Confederazione i suoi principali associati sono le holding un tempo
appartenenti alle partecipazioni statali.
Le due anime di Faust
Abbiamo iniziato con un richiamo al Faust di Goethe le cui implicazioni di politica economica sono
state esaminate da economisti italiani (Carli, 1995; Poggiali, 2010). Per Carli Faust ha “due anime”:
una rivolta alla modernizzazione , ed un’altra rivolta alla difesa dell’esistente ove non al ritorno al
passato. Le “due anime di Faust”, nella visione dell’ex Ministro del Tesoro, sintetizzano l’ambiguità
del “principe” dirigista che ama blandire il liberismo, ma, al tempo stesso, statalista che ama
blandire i privati. L’ambiguità che ha caratterizzato una classe dirigente per un cinquantennio ed a
cui Carli in persona, negli scritti citati, reagiva con un auto-assolutorio: Siamo tutti coinvolti.
Poggiali sottolinea , invece, come la redenzione di Faust avvenga tramite l’impegno incessante e
richiama il verso imperniato sul verbo streben. In un lavoro recente (Pennisi, 2012) ho esaminato
come le “due anime di Faust” siano lo specchio delle “due anime” di Mefistofele”.
Tutto ciò può sembrare distante dal tema di questo Rapporto. E’ invece di grande rilievo. Il
Governo ha annunciato un programma di dismissioni di immobili ed ha delineato possibili
liberalizzazioni ma è stato piuttosto riservato in materia di privatizzazioni. Eppure saranno proprio
le privatizzazioni a fare la differenza. Le “due anime” di Faust platonicamente lo tirano in due
direzioni opposte e non conciliabili: da un lato, la modernizzazione, l’apertura internazionale, il
mercato, il confronto con le armi dell’intelligenza e della competenza e, dall’altro, una pulsione
indirizzata alla protezione, al corporativismo, all’arbitrio interno, alla chiusura. Analogamente
quelle di Mefistofele lo inducono, da un lato, a tentare il più saggio degli uomini ed a corrompere la
più casta delle donne e, dall’altro, a punirli perché sono caduti in tentazione e corruzione. Le “due
anime” di Mefistofele sono meno dilanianti di quelle di Faust , il corpo viene strappato, nel quinto
atto della seconda parte della tragedia di Goethe, perché due gruppi di lemuri vogliono portagli
l’anima in direzioni opposte.
Se Faust non sceglie tra le due strade e non impegna davvero, non può che vincere l’ambiguità di
Mefistofele . E la conseguente stagnazione.
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Giuseppe Pennisi è docente di politica economica internazionale all’Università Europea di Roma
(Unier), Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti e dell’Unier,
Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Economia della Cultura e componente del Consiglio
Superiore del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Collabora frequentemente a quotidiani e
periodici.
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