MilanoFinanza - L` euro è di tutti, il libro di Roberto Sommella

di Guido Salerno Aletta
L’
America cambia strategia economica: non
può più mantenere
il ruolo di locomotiva globale crescendo
a debito verso l’estero. Nel corso
della presidenza Obama, è passato dai 2.627 miliardi di dollari del
2009 ai 7.281 miliardi del 2015.
La bilancia dei pagamenti, dopo
il picco negativo di -807 miliardi
di dollari del 2006 ed il miglioramento dovuto alla recessione,
è ritornata a peggiorare passando dai -366 miliardi del 2013 ai
-463 miliardi del 2015. Un rafforzamento del dollaro, per via
del ritorno alla normalità della politica monetaria, sarebbe
esiziale. Il riequilibrio nelle relazioni commerciali internazionali
non rinviabile: nei confronti della Germania, nel 2015 il passivo
è stato di 77 miliardi di dollari;
verso il Messico, di 58 miliardi.
Nulla a che vedere con quello
ciclopico verso la Cina, di 335 miliardi di dollari, cumulando 3.234
miliardi tra il 2003 e il 2015.
A quasi mezzo secolo dalla crisi valutaria del 1971 l’economia
reale torna al centro dell’azione
politica: senza produzione industriale non c’è benessere, né
occupazione. Gli equilibri sociali, economici e finanziari sono
precari. Quelli politici tradizionali sono stravolti.
Si riavvolge così il nastro della
desertificazione industriale americana, segnata da quattro ondate
di crisi. La prima risale all’aumento dei prezzi del petrolio, nel
’73: la modificazione radicale dei
rapporti di scambio tra manufatti e materie prime mise fine
MILANO FINANZA
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USA Arriva l’altro Jobs Act
Donald
Trump
al lungo ciclo espansivo iniziato con il secondo dopoguerra. Fu
poi la volta del rialzo dei tassi di
interesse, negli anni 80: gli Usa
aprirono le danze per combattere la stagflazione, mettendo
fuori combattimento migliaia di
imprese che prevedevano tassi
ben più contenuti. Tutti furono
colpiti, anche l’Italia. Gli accordi
sui cambi del Plaza e del Louvre
furono insufficienti. Fu così la
volta dell’abbandono della old
economy, il mantra degli anni
Novanta, che culminò con la bolla delle Dot-com, nel 2001: la new
economy non aveva mantenuto
nessuna delle sue mirabolanti
promesse. Gli anni Duemila si
aprirono con la fase più violenta
della globalizzazione, innescata
dall’ingresso della Cina nel Wto:
nulla fu più come prima. La competizione internazionale si basò
sempre di più sul basso costo del
lavoro e sulle minori tutele, nel
campo ambientale e del welfare.
La crescita americana fu alimentata dal debito delle famiglie, fino
allo scoppio della bolla immobiliare nel 2008: fu l’ennesima, e la
più devastante di tutte.
Occorre riallocare il lavoro sul
piano internazionale, riportare in equilibrio la bilancia dei
pagamenti correnti, facendo
coincidere i luoghi della produzione con quelli del consumo,
ridurre l’eccesso del risparmio
nei Paesi in avanzo strutturale e quello del debito nei Paesi
che macinano passivi. Solo così
ci può essere stabilità economica e finanziaria.
«Sarò il più grande creatore di
posti di lavoro che Dio abbia mai
mandato sulla Terra»: con queste
roboanti parole, il neo-presidente Donald Trump ha dato il via
alla nuova stagione americana,
la de-globalizzazione. Le imprese automobilistiche sono entrate
nel mirino: le vendite negli Usa,
nel caso di nuovi impianti in
Messico, saranno penalizzate con
una Border Tax: la sola minaccia
ha funzionato, ed in molte hanno
annunciato una diversa strategia di investimento.
Il mercato non può avere come
unica regola la massimizzazione dei profitti: deve rispettare
un vincolo più generale, di sostenibilità nel lungo periodo, che
non è solo sociale, ma soprattutto
economico e finanziario. I bilanci pubblici sono ormai impari
rispetto agli oneri determinati da i livelli di disoccupazione e
di sottooccupazione indotti dalla
globalizzazione della produzione
manifatturiera e dalla innovazione tecnologica nel settore dei
servizi. Anche in Europa è profonda la frustrazione che deriva
dal veder naufragare i tentativi
di ridare fiato all’economia reale
e all’occupazione. La Germania
fa eccezione, all’apparenza: la
sua economia, drogata dall’euro
debole, vive contraddizioni ancora più vistose. Le risposte alle
urne esprimono dappertutto un
grado crescente di insoddisfazione dei cittadini.
Mentre le politiche monetarie
accomodanti delle banche centrali sono in via di esaurimento,
gli Stati si trovano di fronte a
difficile la vita di una moneta senza Tesoro
cambiato. Se un’azienda italiana finisce nel- lari. Può sembrare un ragionamento terra in euro, non si distrugge, passa di mano.
le mire di una europea passa di mano senza terra, dopo aver parlato di Mediobanca, In molti credono che i dati appena elencolpo ferire, in virtù della libera circolazio- debito e globalizzazione, ma gli italiani va- cati, contrapposti alla discesa dei tassi
ne dei capitali, che quasi mai coincide con lutano l’Europa con il portafogli e non col d’interesse e all’indubbia maggior forza che
la difesa della ricchezza nazionale. È forse cuore, tanto che ormai uno su tre, secondo un’economia di 500 consumatori può avere
il dato più preoccupante di questi 15 an- un recente sondaggio condotto da Swg per in un mondo globalizzato, da soli dimostrini di Unione monetaria. Non ci sono state il Corriere della Sera, si dice favorevole a no che per l’Italia è meglio uscire dall’euro
porte girevoli negli investimenti tra Italia tornare a lira e confini. I motivi di questa per riacquisire la sovranità monetaria, la
ed estero, ma solo strade a senpenetrazione sui mercati e il potere
so unico.
d’acquisto perduto, ma non dicono
DEBITO/PIL
ITALIA
DEFICIT/PIL
ITALIA
Ma deve far riflettere anche il
come farlo. Tornare solo alle valute
Rapporto
debito/pil
6%
banco della spesa, quella mi- 140%
nazionali non è proponibile, perché
croeconomia che non trova
sarebbe come rimettere il denti5%
132,2%
130%
ascolto a Bruxelles e che rapfricio dentro il tubetto. Giuliano
4%
presenta il terzo elemento di 120%
Amato ha ammesso che è stata fat2,6%
ragionamento. Aggiornando i
ta «una moneta senza Stato; era
3%
dati di Federconsumatori, già 110%
davvero difficile che funzionasse».
2%
corredo de «L’euro è di tutti», e
Insomma, un Frankenstein valuta1%
confrontando i prezzi di prodot- 100%
rio. Un economista autorevole quale
ti di largo consumo nel 2002 con
Paolo Savona sembra aver trovato
2001
2015
2001
2015
quelli del 2016, c’è poco da gioire.
una soluzione che si avvicina molUn chilo di spaghetti ha subìto un aumento perdita di potere d’acquisto si possono rin- to a una riedizione dello Sme, il Sistema
del 47%, un chilo di riso si è impennato del venire in tre elementi: cambio sfavorevole Monetario Europeo, con bande di oscillazio58%, sei uova costano il 47% in più, carne (1936,27 lire per un euro), arrotondamento ne per ciascuna moneta nazionale rispetto
di vitello (+73%), sogliola (+69%), passa- prima del changeover, controllo inefficace all’euro, che resterebbe valuta comune di
ta di pomodoro (+55%) e persino il cibo un durante il periodo di doppia circolazione e riferimento stile Ecu. Un’alternativa più
tempo dei poveri come le patate (+80%) non conseguente speculazione. Dire che con l’eu- semplice è creare un Tesoro unico che emetsono stati da meno. Insomma, la dieta me- ro ci hanno perso tutti è quindi sbagliato - si ta debito da far comprare alla Bce. Intanto
diterranea con l’euro ci ha rimesso mentre pensi al boom immobiliare e al caro-affitti il tempo dei dibattiti accademici è scaduto.
i redditi dal 2002 a oggi ovviamente non - come sostenere che in borsa quando crolla- Tenere nascosto agli italiani che qualcosa è
sono cresciuti a doppia cifra. Per dirla con no gli indici si bruciano miliardi: c’è sempre andato storto è offendere la loro indubbia inCelentano, una grande Svalutation dei sa- qualcuno che ci guadagna. Il denaro, anche telligenza. (riproduzione riservata)
CONGIUNTURA
14 Gennaio 2017
uno scenario in cui si palesa la
insufficienza della strategia del
workfare perseguita finora: si
limitano ad assecondare il mercato, riducendo la tassazione e
le regole che disincentivano
gli investimenti, ivi comprese
le tutele sindacali, incaricandosi di redistribuire al meglio il
reddito tra i cittadini attraverso la leva fiscale. Provvedono
nelle più diverse forme, dalla
fornitura di un alloggio sociale
fino alle facilitazioni per accedere ai servizi di trasporto o
di comunicazione, a favore dei
disoccupati e di coloro che sono impiegati a tempo parziale
e nei settori a bassa produttività, venendo remunerati con
salari inferiori al livello di sussistenza. È questa la soluzione
adottata in Germania con le riforme Hartz, con oltre 7 milioni
di lavoratori che hanno solo mini-job. Negli Usa, che hanno
sperimentato per primi i Mcjob, il programma di assistenza
alimentare Snap è stato erogato
ad oltre 44 milioni di persone.
La Gran Bretagna si è opposta
alla libertà di circolazione delle
persone all’interno dell’Unione,
votando per la Brexit, per evitare di essere sommersa dai
disoccupati europei in cerca di
un welfare pubblico generoso,
pagato dai cittadini inglesi con
le loro tasse.
Non sembra più sostenibile il
paradigma in cui lo Stato è al
tempo stesso tanto astensionista
rispetto ai processi della produzione, quanto interventista nella
distribuzione del reddito. Il limite
sta nel peso crescente della tassazione e nella insoddisfazione
sia di coloro che pagano imposte esose sia di coloro che sono
disoccupati o sono remunerati a
un livello insufficiente. La alternativa sta nella redistribuzione
del lavoro: sul piano internazionale per evitare il mercantilismo
salariale, e sul piano interno con
la riduzione degli orari di lavoro
per rimediare alla disoccupazione tecnologica nei servizi.
L’epoca degli squilibri internazionali non è più sostenibile,
neppure dalla prima potenza
economica mondiale.
Siamo nuovamente in terre incognite, per una crisi politica
profonda all’interno degli Usa.
Trump intende imporre nuove regole al mercato globale, una sfida
molto più impegnativa e rischiosa di quella proclamata nel corso
della sua campagna elettorale:
«Make Politics Great Again!». (riproduzione riservata)
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