Rinascita
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Categoria : Teatro
Shakespeare nella Padova di un secolo fa
Teatro Argentina - La Bisbetica Domata di Andrej Konchalovsky
<strong>La forza di un capolavoro è nella libertà intrinseca, così' che tutti possano
indiscriminatamente utilizzarlo. Se poi ci riferiamo a opere e personaggi di Shakespeare, il discorso
si amplia, perché oltre ai codici espressivi bisogna per forza fare entrare in campo per una corretta
valutazione tutte quelle componenti occulte e misteriose che rendono un testo universale. Allora
occorre chiamare in causa gli anacronismi, dagli archetipi fondamentali, alle evoluzioni sociali e
antropologiche, alle epoche storiche che da una parte sembravano apprezzare certi cliché, dall'altra
li additano come memorie di un passato obsoleto. E si giustificano elaborazioni che dal teatro
trasportano Caterina, la protagonista, nei palcoscenici di Broadway dove troneggia con il musical
"Kiss me Kate" o al cinema con l'indimenticabile versione che mette a confronto Elizabeth Taylor e
Richard Burton, per citarne solo alcune. Ma quale giudizio esprimere quando un capolavoro viene
rielaborato secondo lo stile del regista che lo mette in scena, pur con molto successo?</strong>
<strong>Nella sua Bisbetica Domata, oggi di scena al Teatro Argentina, Konchalovsky, prende in
mano il testo di Shakespeare nella traduzione di Masolino D'Amico, e si diverte a immaginare che i
fatti avvengano nella Padova dei primi trent'anni del Novecento dove una piazza metafisica che
ricorda De Chirico e suo fratello Savinio, si compone sotto gli occhi dello spettatore, cui con mosse
da prestidigitatore, far credere che un grosso dito indice disegnato possa spingere palazzi e rendere
persino tridimensionali oggetti che non lo sono affatto. Perché l'estraniamento funzioni ancor più
marcatamente un trenino con molti vagoni va soffiando nelle profondità del fondale tra disegni di
case lontane. E perché si connoti più chiaramente l'epoca, ecco pannelli girevoli a mo' di quinte
dove ti trovi scorci di arcate di antichi acquedotti romani e cartelloni pubblicitari del maestro
Dudovich che invitano a comprare i grammofoni Columbia o il Cordial Campari. Il tutto mentre in
scena le musiche dei "ruggenti" anni '20 ricordano al pubblico canzoncine deliziosamente sciocche,
come "Biagio, va' adagio" o melense offerte d'amore "Vieni, c'è una casa nel bosco". Siamo catturati
ormai nel mondo vagamente visionario, ironico, cinematografico di un regista di fama mondiale
come Andrej Konchalovsky, cui abbisognano per narrare visivamente gli elementi stessi dei cinemi:
cambi di scena velocissimi, con pochi spostamenti che lasciano il peso tutto all'immaginazione del
pubblico sollecitato da un tripudio di colori. Ma davvero quali colori? E' solo un inganno in più del
mago regista che conduce il gioco perché poi, ripensandoci, vedi i fantasiosi, eleganti costumi di
Zaira De Vincentiis, per lo più in b/n, con Caterina vestita in nero profilato di bianco e Bianca, per
fare onore al nome, con un vestito latteo e scarpe adeguate; vedi indiavolati movimenti dei
personaggi sullo stage, ritmi serrati, eclettismo attorale da parte di tutta la compagnia che sa di
virtuosismo teatrale in realtà sotto il severo e studiato tracciato delle eccellenti coreografie di
Ramune Chodorkaite, e quelle luci di Sandro Sussi che raccontano egregiamente tutto. E il tutto
da raccontare è un'Italia un po' oleografica, dove ai personaggi che sembrano tratti dalla Commedia
dell'Arte se ne uniscono altri che fanno parte di una nuova mitologia, quella fascista con il gerarca
che cammina composto tra una folla sempre in movimento, con uomini di tutte le età pronti a
sbavare per Bianca, una ragazzetta che ha le virtù segrete di un cinico coniglietto, cui basta
afferrare saldamente con i denti il primo sprovveduto e poi, fattone un marito, inquadrarlo quasi
militarmente, mentre fuggono spaventati da Caterina, applicandole l'etichetta di bisbetica perché lei
esercita una facoltà allora assai poco praticata: la voglia di verità, di annullare qualsiasi
compromesso, di potersi esprimere al grado massimo della sua intelligenza, Ma i tempi, ahi i tempi,
non consentono a tanto. Una società maschilista e misogina, perfettamente allineata all'ordine
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gerarchico che all'apice della piramide mette il maschio, di qualunque età, non può accettare una
ragazza scontrosa e maldisposta verso gli ordini tassativi che le impongono. Se pure il tema della
commedia, in fondo, è quello trito e vetusto che vuole la donna docile solo dopo essere stata
domata dal marito, assegnando a lui il compito di soddisfarla di voglie segrete che ne cambino la
natura, o che la facciano spasimare per fame di cibo, di bevande e di sesso, Caterina non
modificherà la sua natura che quando comprenderà che il "duro", inflessibile Petruccio, suo marito,
la famosa metà della mela, è in realtà un gattone cui va arruffato il pelo per ridurlo in una condizione
di sudditanza totale e irreversibile. La forza da esercitare con lui consiste nel non fargli capire la sua
autentica debolezza. Insomma: l'eterna lezione del potere femminile che si esercita con la piuma e
non con lo scudiscio, che risalendo per li rami collega Eva con tutte le sue figlie di ogni epoca. In
scena, archetipi del potere coniugale sono Mascia Musy(Caterina), attrice capace di autentico e
straordinario coinvolgimento, una vera signora del teatro, e Federico Vanni, variegato Petruccio,
che forse ha compreso la faccia segreta del potere della ragazza e si vanta, facendola agire come
una scimmietta ammaestrata, quando vuole farsi bello con gli amici dell'avvenuta doma. In realtà,
una certa sua eco di compiacimento e la reazione della moglie denotano la finzione. In pubblico
Caterina sarà una moglie obbediente anzi smaniosa di compiacerlo, ma in privato non è difficile
immaginarlo prono a farle da tappetino. Bravissimi tutti gli attori della compagnia che vanno
assolutamente citati, da Vittorio Ciorcalo a Selene Gardini, Peppe Bisogno, Roberto Serpi,
Giuseppe Rispoli, Carlo Di Maio, Flavio Furno, Roberto Alinghieri, Adriano Braidotti, scelti, con
accurata selezione tra Napoli e Genova, ognuno arricchisce con l'aggiunta della propria personalità,
con la sapienza mimica del corpo, con la propria personale "follia", che è innanzitutto ironia di sé
questo godibilissimo spettacolo, che lascia il palcoscenico sulle note maliose del "fine dicitore"
Vittorio De Sica e della sua "Parlami d'amore Mariù"</strong>
Franzina Ancona (2014-02-17 12:00:00)
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