Grande successo per la prima regia italiana di Andrej Konchalovsky

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La bisbetica domata di Skakespeare al Teatro Argentina di Roma
Grande successo per la prima regia italiana di Andrej Konchalovsky
“Shakespeare è la vita stessa, una combinazione fantastica di terra e cielo, volgarità e poesia. I suoi personaggi sono più
grandi della vita e hanno quel tocco di follia e assurdità che li rende più interessanti.” parola del regista russo Andrej
Konchalovsky che per il suo esordio italiano a teatro ha scelto la commedia giovanile di Shakespeare La bisbetica
domata. Il regista, fratello di Nikita Mikhalkov, già sceneggiatore ed assistente di Tarkovskij (scrisse e interpretò
Andrej Rublëv), poi trasferitosi a Hollywood, ha diretto e adattato una Bisbetica andata in scena nell’edizione 2013 del
Napoli Teatro Festival Italia che ha ottenuto un grande successo. Stesso copione e stesso successo non poteva trovare
anche a Roma dove è in scena nel sontuoso Teatro Argentina. “Ho scelto La Bisbetica perché, per la mia prima regia
italiana, volevo un’opera italiana – dice Konchalovsky – Questa commedia rappresenta il vostro paese molto più di
Romeo e Giulietta. È ambientata a Padova, i personaggi sono tutti italiani, e c’è anche la commedia dell’arte, pur se
scritta da Shakespeare”. E in effetti il regista russo fra gli stucchi e i velluti delle poltrone ha messo in scena una
Bisbetica inaspettata, ma assolutamente frizzante e godibilissima che prende vita fra le scene mobili e proiettate
(realizzate stesso Konchalovsky) delle piazze metafisiche di De Chirico (e che risentono un po’ anche di Fellini).Fra
colori luminosi e abbaglianti, Konchalovsky ambienta la Bisbetica negli Anni Venti-Trenta durante il fascismo, fra
divise di gerarchi e gonne a pieghe, raffinata biancheria intima in seta, eleganti smoking (costumi di Zaira De
Vincentiis) grammofoni e pubblicità d’epoca e gioca con i simboli e l’estetica del cinema. Richiama le atmosfere e lo
stile del cinema dei telefoni bianchi (con tanto di Parlami d’amore Mariù cantata da un giovanissimo Vittorio De Sica in
chiusura, colonna sonora di Gli uomini che mascalzoni! Di Mario Camerini), strizza l’occhio alla scatenata slapstick
comedy americana con scivoloni e tonfi sonori, richiama ovviamente la commedia dell’arte italiana. E non è certo un
caso che la bisbetica e indemoniata Caterina, una formidabile e irriconoscibile Mascia Musy dai modi esasperati e dalla
voce rabbiosa, assomigli e non poco alla divina Louise Brooks, con tanto di caschetto e rossetto scuro. Perfetto nelle
schermaglie amorose con Caterina, è il Petruccio con la fisicità importante e i baffi di Federico Vanni, un po’
disincantato nella sua ironia, apparentemente bonario e astutamente falso prepotente. Di ottimo livello anche tutto il
resto del cast, Roberto Alinghieri, Giuseppe Bisogno, Adriano Braidotti, Vittorio Ciorcalo, Carlo Di Maio, Flavio
Furno, Selene Gandini, Antonio Gargiulo, Francesco Migliaccio, Giuseppe Rispoli, Roberto Serpi, Cecilia Vecchio.
Uno squisito e scatenato allestimento in cui il ritmo resta sempre altissimo e serrato (al di là delle scene madri con
Caterina e Petruccio) e che si conclude fra paillettes, lustrini e coriandoli e che non lascerà insoddisfatti i puristi di
Shakespeare perché diverte e coglie al meglio lo spirito intrinseco della commedia. In scena al Teatro Argentina di
Roma fino al 2 marzo.
Fabiana Raponi13/02/14
| 8:23 | 0
La bisbetica domata. Končalovskij miraggio italiano
DI MARIANNA MASSELLI 13 FEBBRAIO 2014 NO COMMENT
Per il suo primo allestimento teatrale in Italia Andrej Končalovskij sceglie Shakespeare. Noto fuori
patria per la direzione di pellicole cinematografiche come Zio Vanja o Tango & Cash e per le
sceneggiature di alcuni film di Andrej Tarkovskij, il russo ha in realtà nel suo paese già da tempo
iniziato a curare lavori per il palcoscenico. La bisbetica domata dopo il debutto in estate al Napoli
Teatro Festival, ha visto la prima romana al Teatro Argentina, dove rimarrà sino al 2 marzo.
Il titolo dell’opera è noto, la trama forse meno. Ambientata a Padova, la vicenda ha per protagonisti una
serie di personaggi che si districano in un frizzante crogiuolo di equivoci e travestimenti. Ben nota per il
suo carattere intrattabile, Caterina fatica a trovare pretendenti e quindi marito, a differenza della sorella
minore Bianca, apparentemente dolce e mansueta, bramata da Gremio e Ortensio. Il padre delle
ragazze, il nobile e avido Battista, decide dunque che nessun uomo avrà la più giovane finché la
primogenita non si sarà accasata. Così gli zelanti corteggiatori fanno combutta e convincono il
veronese Petruccio a chiedere in moglie Caterina incoraggiandolo con la prospettiva della dote. La
storia narra una serie di trattative al rialzo che dimostrano quanto il padre delle ragazze veda in loro
poco più che un fattore di guadagno.
Confrontarsi con un classico pone sempre la questione della sua contemporaneità. In questo caso più
ancora si può dire, considerando che il testo mostra di fatto una visione fortemente legata ad un’ottica
maschile in cui la donna trova realizzazione, assoluzione ai suoi traviamenti uterini nel matrimonio,
nell’auspicabile rettitudine di una devozione all’autorità del marito. È vero pure che la narrazione
beneficia di una serie di astuzie provenienti dai lasciti della Commedia dell’Arte, in grado di innescare
situazioni pungenti, vivaci ed esilaranti. Proprio su questo Končalovskij costruisce con intelligenza
l’adattamento e riduce a due atti l’originale struttura a cinque. Trasla la storia in un’Italia del Ventennio
in cui Ortensio indossa una divisa fascista, le racchette son di legno, la musica proviene dal
grammofono, i baffi lunghi dei signori si tendono orizzontali sotto i cilindri grigi di tight da cerimonia.
Suggestivi i costumi per nulla artificiali e sagace l’idea di inserire in due momenti – quello in cui
Petruccio arriva per il matrimonio e quello in cui il sarto porta l’abito fatto cucire dal consorte a Caterina
– abiti elisabettiani etichettati dai protagonisti come improponibili obbrobri fuori moda.
L’impianto scenografico vede i colori discreti delle vesti ascriversi alla cangianza dei toni forti negli
scorci dechirichiani. Ogni cosa avviene sotto i nostri occhi: il trucco e le uscite compressi nei due
camerini a vista organizzati ai lati delle quinte estreme, i cambi e gli spostamenti di scena con passaggi
continui di scope, mobili e oggetti nella totale abolizione del sipario. Le grandi proiezioni al fondo,
punteggiate a tratti da un paio di piccole animazioni, rivaleggiano con pannelli mobili che richiamano
alla mente gli screens progettati da Edward Gordon Craig nel 1912 per l’Amleto con Stanislavskij al
Teatro d’Arte di Mosca. Solo una suggestione probabilmente, ma ci piace pensare che non sia un caso
nel connubio fra la drammaturgia shakespeariana e un artista russo. Il pregio di questa messinscena, la
cui efficacia monta per la verità dalla seconda metà del primo tempo, è nella decisione con cui si spinge
sulla rilettura. Quella cui assistiamo è una rappresentazione dove l’impianto attorale è costruito
sulcarattere e ben padroneggiati appaiono ritmi e modi. Le caricature non temono l’affronto della
tradizione e in questo modo la riscoprono, vivificandola. Mascia Musy e, ancor più, Federico
Vanni convincono quasi sempre nei battibecchi forzando i toni, rendendoli volutamente incredibili così
come Adriano Braidotti sembra conservare la presenza di spirito che necessita a Tranio per aiutare il
suo padrone e all’attore per servire il personaggio. La concertazione degli interpreti tiene alta
l’attenzione dello spettatore con una certa costanza.
Abbiamo avuto prova di come la fedeltà risieda nella crepa tra conservazione mummificata e risveglio
dell’autonomia creativa. La storia è un input, la grandezza inarrivabile una leggenda e il teatro, invece,
è un miraggio di realtà.
Marianna Masselli
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