Le “Filippiche di Demostene e quelle di Cicerone: inquadra sinteticamente i
diversi momenti storici in cui agiscono i due oratori e tenta un raffronto fra ciò che Filippo rappresentava per
Atene nell’ottica di Demostene, e ciò che Marco Antonio rappresentava per Roma nell’ottica di Cicerone.
Epoche diverse, uomini diversi.
Come esclamava a gran voce Eraclito, “Tutto scorre”, tutto si modifica, tutto è in funzione del divenire. Ma è
veramente così? O ci sono alcune eccezioni? Sicuramente il grande filosofo greco aveva visto giusto, si era reso
conto di quanto può cambiare un oggetto sia esso animato che non.
Tuttavia, a volte, questa filosofia di vita appare incompleta o comunque non prende ben in considerazione un
essere al di fuori della norma, quale l’essere umano. Costui, infatti, pur facendo tesoro delle sue esperienze di
vita, del mondo e dei cambiamenti che necessariamente devono avvenire e avvengono nel nostro ecosistema,
sembra irrimediabilmente intrappolato all’interno di un circolo vizioso. Infatti, come si può ben notare dalle
testimonianze storiche, molteplici sono le situazioni che si presentano all’uomo, identiche fra di loro, e che
automaticamente, nella maggior parte dei casi, egli risolve allo stesso modo, sia esso giusto o sbagliato.
Sembra quasi che non ci sia via di scampo, ogni cosa che facciamo sembra già essere stata fatta e non
acquisita, almeno per il momento, dal nostro “corredo genetico”. Naturalmente il contesto cambia, la società è in
movimento, le scoperte o rivoluzioni tecnologiche modificano ciò che già esiste, lo cambiano, a volte lo
migliorano. Tuttavia, seppur in contesti così tanto diversi, ecco che riaffiorano situazioni che hanno molteplici
aspetti in comune.
Non è un caso che spesso autori latini abbiano preso spunto nella composizione delle loro opere da autori greci,
e quanto finora detto n’è una testimonianza.
Pertanto non c’è da stupirci se scrittori, appartenenti a culture e secoli diversi, si trovino ad affrontare lo stesso
tema, lo stesso problema.
Quanto finora descritto, è solo un modesto modo per poter meglio comprendere quanto è avvenuto tra
Demostene, logografo e valente politico greco del IV secolo a.C., e Cicerone, personalità poliedrica del I secolo
a.C. Entrambi scrissero un’opera, le “Filippiche”, che si configurano come orazioni politiche, naturalmente
dedicate a personaggi diversi ma nello stesso tempo dai molteplici aspetti in comune.
Per quanto riguarda il clima politico, si può notare che Atene, città in cui esercitava la sua professione
Demostene, e così anche le altre città dell’Ellade erano minacciate dalla costante avanzata di Filippo di
Macedonia il cui intento era quello di conquistare tutte queste piccole autonome città e di unificarle sotto il
proprio regno.
Il logografo Demostene, che occupava anche onorevoli cariche pubbliche, da uomo perspicace quale era, si era
accorto di questo sublime progetto macedone e voleva ad ogni costo porvi rimedio. Per lui le “poleis” dovevano
restare indipendenti e mai nessuno straniero avrebbe mai dovuto avere il vanto di dettar legge in quelle che erano
state le città modello di democrazia. Costui sentiva fortissimo il dovere morale nei confronti della propria patria,
delle antiche istituzioni e soprattutto un forte senso e desiderio di libertà e autonomia. Era difficile e quasi
straziante per lui vedere il popolo ateniese non curarsi minimante di quanto stava accadendo pochi kilometri
distanti dal posto in cui risiedevano, e il proprio eccessivo zelo e amore lo portarono a comporre le “Filippiche”
che si configurano come delle orazioni politiche tese a svegliare e ad animare gli spiriti degli Ateniesi e nello
stesso tempo a giustificare, in alcuni casi, l’insuccesso in qualche scontro con l’esercito nemico.
Per esempio nel caso della “I Filippica”, la situazione preoccupante era questa: Filippo aveva occupato molte
posizione strategiche, grazie alla propria abilità e alla politica di non intervento degli Ateniesi. Quando egli
giunse fino all’Ellesponto, andando in parte ad influire sulle principali linee di commercio della città, Demostene
fu scandalizzato ed ecco la nascita della sua orazione. Voleva scuotere gli animi delle genti e i tre punti
fondamentali erano questi:

Bisognava togliere a Filippo l’iniziativa politica e strategica, spostando le rappresaglie in terra
straniera

Allestire una flotta ed un esercito, possibilmente non di mercenari, poiché in questo caso gli stessi
cittadini ateniesi dovevano sentire la necessità di difendere il proprio territorio

Formulare un piano finanziario in grado di coprire e sostenere le spese necessarie per l’intervento
armato.
Furono queste, parole dissoltesi nell’aria. Intanto l’avanzata di Filippo si faceva
inarrestabile e anche il disinteresse ateniese non era da meno.
La “II Filippica” fu pronunciata per giustificare l’insuccesso della missione diplomatica ad Argo e Messene,
attribuendo la colpa all’ostinazione degli ateniesi nel voler mantenere relazioni amichevoli con Sparta, ostile agli
altri centri del Peloponneso.
Nella “III Filippica”, considerata la più veemente dei discorsi di Demostene, l’oratore riprendeva i temi
consueti dell’attacco contro il Macedone: la personalità di Filippo viene descritta come quella di un astuto
barbaro che, facendo finta di utilizzare dei mezzi legali, aspirava a riunire le città greche sotto il proprio dominio.
L’orazione coinvolse enormemente l’opinione pubblica ateniese tanto da indurla a preparare con tutte le risorse
disponibili una controffensiva.
Si ha infine, la “IV Filippica”, di attribuzione non certa, nella quale Demostene si compiace di aver finalmente
scosso gli animi dei suoi concittadini e vede ormai la fine dei Persiani.
Il clima romano, che induce Cicerone alla composizione delle “Philippicae” o “Antonianae”, è l’incertezza, la
smania di potere e la paura che vi era a Roma a seguito dell’uccisione di Cesare da parte dei congiurati. Le
personalità di spicco che andavano ad emergere erano Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. Cicerone provava una
sorta di fobia nei confronti di Antonio, nipote dell’imperatore, e riuscì a coalizzare contro di lui i cesaricidi e i
tirannicidi, contando anche sull’appoggio popolare e di Ottavio. L’intento di Cicerone era quello di far dichiarare
quest’uomo, pubblicamente, nemico della repubblica e perseguitarlo di conseguenza.. Tuttavia, a seguito della
sconfitta di Modena, Antonio riuscì a cambiare la situazione e stipulò un accordo con tutte le armate ex-cesariane
contro i conservatori. Pertanto, Ottaviano, Lepido e Antonio raggiunsero tale patto e uno tra i primi, nelle liste di
proscrizione, fu Cicerone che pagò con la propria morte gli ideali che lo avevano ispirato nel corso della vita e
carriera politica. Le “Philippicae” furono l’ultima opera di Cicerone e si configurano come orazioni politiche.
La figura di Antonio poteva essere, da parte di Cicerone, comparata a quella di Filippo. Infatti, entrambi si
presentavano come dei nemici della repubblica, dello Stato, andavano a minare quelle che erano le istituzioni e la
libertà di entrambi i popoli, solo per soddisfare la propria sete di potere e gloria. Demostene e Cicerone non
potevano permettere che questo accadesse e pertanto, usufruendo dei mezzi loro disponibili, quali, in ultima
analisi, le orazioni, occupavano gran parte del loro tempo ad analizzare, studiare i modi attraverso i quali
convincere i rispettivi organi di governo ad intentare un’azione armata contro tali usurpatori. L’unica differenza
che può esserci tra Antonio e Filippo è che, mentre il primo era un nemico “interno” dello Stato, nel senso che
era cittadino romano, il secondo era “esterno”, ossia proveniva dalla Macedonia, una zona sicuramente molto
vicina alle libere città greche, e tendeva ad unificarle sotto il proprio dominio.
Nell’ottica di Cicerone Filippo doveva rappresentare l’antieroe greco, colui che minaccia la libertà, e
intravedendo questa somiglianza con Antonio, ironicamente intitola la propria opera allo stesso modo.
Ma forse il nostro Kikero, si era dimenticato della conclusione della guerra contro i Macedoni e della fine
dell’oratore greco, o forse semplicemente voleva dare una svolta diversa alla sua opera. Fatto sta che, come già
detto, il corso della storia sembra quasi essere ciclico e poche erano le possibilità di vittoria per il conservatore
romano.
Non essere scaramantici denota un segno di maturità intellettuale e spirituale, ma casi come questi potrebbero
far sorgere qualche dubbio……….