ERACLITO Eraclito nasce ad Efeso, non lontano da Mileto, intorno al 535 a.C. da famiglia aristocratica e prestigiosa, probabilmente discendente da Androclo, il mitico fondatore della città. E tuttavia al giovane Eraclito poco importano fama e carriera, come dimostra la rinuncia al titolo di basileus, una carica militare molto ambita, in favore del fratello minore. Il futuro filosofo, destinato a segnare profondamente la storia della cultura occidentale, si mostra sin da giovane una persona schiva e solitaria. Ciononostante, la sua produzione letteraria conquisterà subito il grande pubblico e la sua fama varcherà rapidamente i confini della Lydia. Re ed imperatori si contenderanno il filosofo, ma inutilmente. Eraclito opta infatti per una vita d’eremita, isolandosi presso il tempio di Artemide, dove studia e scrive cibandosi solamente delle poche bacche ed erbacce che trova nei dintorni. Un isolamento che accentua il distacco dalla sua gente, dalla sua polis, dal suo tempo, fino a trasformarsi in aperta ostilità: Uno per me vale diecimila, se è il migliore Efeso, come già Mileto e gran parte dell’Asia Minore, sono roccaforti democratiche. Ed è stata proprio la democrazia a favorire lo sviluppo del pensiero filosofico. Ma per Eraclito si tratta di un sistema nefasto, in cui il numero, la quantità e la mediocrità prevalgono sull’individuo, sulla qualità e sul merito. Le masse, che la democrazia è riuscita a integrare nello Stato per la prima volta nella storia, per Eraclito sono poco più che bestie, che pensano soprattutto a soddisfare i bisogni primari: “se la felicità fosse nei piaceri del corpo, diremmo felici i buoi quando trovano da mangiare”. Ma l’orgoglio aristocratico di Eraclito non si concretizza in una attività politica in favore delle oligarchie, come invece avevano fatto i pitagorici. Egli non ripudia soltanto la democrazia ma anche la stessa politica, in quanto schiava del consenso, di quelle masse che non riescono a liberarsi dalla doxa. E la doxa si impone proprio in ragione della forza del numero: più persone la pensano allo stesso modo, più quel pensiero verrà ritenuto vero, divenendo senso comune. Contro tale posizione, Eraclito rivendica invece le ragioni Logos, di una verità ben più profonda, che solo in pochi possono cogliere. Ecco perché, a differenza di quanto facevano i filosofi di Mileto e, in parte, anche i pitagorici, non ha senso rimanere in città. Occorrono luoghi isolati, silenziosi, dove si possa pensare in pace e tranquillità, come il tempio di Artemide. E tuttavia Eraclito non è un dio. E così, quando si ammala gravemente, è costretto a scendere nuovamente negli inferi, la sua Efeso, per farsi curare. Ma i medici che lo curano non sono in grado di guarirlo e così Eraclito decide di fare da solo, cospargendosi di sterco nella convinzione di riuscire a fare evaporare il male. Il male però non evapora e lo sterco finisce per soffocarlo. Esiste anche una versione decisamente più macabra della sua morte, secondo la quale il cattivo odore dello sterco attira un branco di cani affamati che finiscono per sbranare il filosofo. Il filosofo del divenire La fama di Eraclito è legata al concetto del divenire. Detta così sembra un cosa piuttosto banale. È evidente a tutti, anche a quelle masse che Eraclito ha sempre odiato, che le cose mutano. E tuttavia la posizione del filosofo di Efeso è ben più complessa. Quello che appare come un vero e proprio slogan, Panta rei, “tutto scorre”, è in realtà una visione molto lontana dal senso comune: A chi discende nello stesso fiume, giungono acque sempre nuove. È impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Nulla rimane eguale a se stesso se non nell’attimo in cui si mostra ai nostri sensi. Ritorna qui l’antico significato di aletheia, impropriamente tradotto come “verità” e che in realtà significa “svelamento/nascondimento”, un qualcosa cioè che, nel momento stesso in cui si mostra, sparisce. E allora, se tutto si muove in continuazione, se tutto muta non sarà possibile cogliere alcunché di quanto ci circonda, se non per un brevissimo istante. Dire che “a=b” ha senso solo nell’attimo in cui tale equazione si è mostrata, non un attimo prima e non un attimo dopo. Dunque, si tratta di una affermazione priva di senso. Così come privo di senso sarebbe chiamare l’oggetto che ho in mano come “penna”, perché un istante dopo non è più l’oggetto che ho nominato con quel nome. Dunque le parole non servono a nulla: se la loro funzione è quella di custodire l’oggetto a cui fa riferimento assegnandogli un significato, in un universo in continuo mutamento, quel significato sarà valido solo per un istante, ma non per tutta la vita di quell’oggetto, a meno di non descriverlo ad ogni istante della sua esistenza, il che è impossibile. Ma le parole sono la voce del nostro pensiero, il quale si ritrova così sotto scacco, incapace di pensare quanto gli accade attorno, perché tutto mutua in continuazione e con una velocità impressionante. Nel momento stesso in cui mi immergo nel fiume per attraversarlo, quello non è più lo stesso fiume. Ma sto mutando anch’io e una volta raggiunta la riva non sarò più quello che ha abbandonato la sponda opposta. Come si può vedere, il senso comune, pur cogliendo il divenire, è ben lontano dalla visione eraclitea. Ma quanto Eraclito sta descrivendo non è che una parte di quella verità che gli uomini non vogliono vedere: per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima, così profondo è il suo logos Ecco la parola chiave di tutta la filosofia eraclitea: Logos. Ma che cosa significa? Solitamente lo si definisce o come ragione oppure come discorso o parola o tutte queste cose (ed altre ancora) insieme. Ma per Eraclito il Logos rappresenta qualcosa di più grande e più profondo al tempo stesso: la ragione universale. Il divenire non è caos, al contrario obbedisce a precise regole, quelle del logos: “Tutto avviene secondo logos e necessità”, scrive il filosofo. Si tratta quindi di stabilire che cosa sia questo logos. Polemos è padre di tutte le cose, di tutte il re Questo frammento di Eraclito è di straordinaria importanza per capire il suo pensiero. Polemos è infatti il dio della guerra, della discordia. Dunque per Eraclito non l’amore bensì la guerra è alla base della vita. La lotta tra gli opposti – già presente nella filosofia di Anassimadro – è dunque il logos universale. Ma i contrar, pur lottando gli uni contro gli altri, non possono stare gli uni senza gli altri. Se, per esempio, l’amore trionfasse sull’odio, la vita cesserebbe e cesserebbe anche l’amore, il cui significato è strettamente legato al suo opposto, l’odio. Dunque, al di là dell’apparente caos che sta dietro il divenire, vi è una logica, quella di una guerra che garantisce l’esistenza delle cose. La lotta dei contrari è il seme della vita. Questo il significato del Logos per Eraclito. Non è un caso che il filosofo scelga come simbolo di questo principio il Fuoco, in quanto genera e distrugge al tempo stesso ed è sempre in movimento. Al divenire e alla legge del logos non sfugge nemmeno la divinità, che è “giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame” e muta proprio “come il fuoco quando si mescola ai profumi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi”. Scrive Eraclito: Quest'ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né gli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne. Il Logos è dunque un “ordine” che vale per tutte le cose: è un principio universale. Tale principio non lo ha creato “nessuno degli Dei né gli uomini”, ma “era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo”. Questo il significato di quella “verità che dimora nel profondo delle cose” e che i più non sono in grado di cogliere: il Logos, appunto. Il tempo Come già per Anassimandro e la maggior parte dei filosofi dell’epoca, Eraclito sostiene la ciclicità del tempo, l’eterno ritorno dell’eguale, come lo definirà, secoli dopo, il filosofo tedesco Nietzsche. Il greco antico vive in stretto rapporto con una natura che si presenta ai suoi occhi attraverso l’alternarsi delle stagioni, i cicli delle maree, i movimenti regolari delle stelle e via dicendo. Anche gli uomini seguono la stessa strada: nascono, vivono e muoiono. E così tutta la vita viene scandita da questo gigantesco orologio naturale. Dunque, se è vero che tutto muta, panta rei, è vero però che tale mutamento avviene attraverso l’ordine del tempo (come già sostenuto, ancora una volta, da Anassimandro). Il divenire è sempre un passaggio dal nulla all’essere: prima di nascere eravamo nulla e nulla saremo una volta morti. La sfida di Eraclito La visione eraclitea suscita dubbi, sconcerto, paura: in un mondo dove tutto muta non è possibile alcuna certezza. E sarà proprio questo mondo ad affascinare, nel tardo XIX secolo, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Egli, di fronte alla crisi della cultura occidentale che si determina sul finire dell’Ottocento, ritiene giunto il momento di tornare proprio a quella antica filosofia, di Eraclito, di Anassimandro, di Anassimene eccetera, che verrà successivamente cancellata da Socrate, da Platone e dal Cristianesimo. La visione di Nietzsche aiuta a comprendere quale fosse la visione del mondo non solo di Eraclito, ma anche di molti uomini della Grecia antica. Secondo il filosofo tedesco, Eraclito – così come altri filosofi o personaggi storici del tempo – rappresenterebbe l’emblema di una “morale cavalleresca” che esprime i supremi valori vitali e naturali. Il “cavaliere” esalta il rapporto con la physis ed accetta la tragicità di una vita dominata dall’eterno ritorno (la circolarità del tempo). Egli è animato da uno “spirito dionisiaco”, che lo porta a godere di quanto la natura medesima gli offre, dei beni corporali. I “baccanali” in onore del dio Dioniso sono presenti un po’ ovunque nella Grecia di allora e in quelle occasioni il vino scorre a litri e il sesso la fa da padrona. In simile contesto, chi è “naturalmente” più debole (non solo fisicamente) è destinato a soccombere, a lasciare il passo ai “cavalieri”, ai “più forti”. La natura, infatti, è spietata ed opera una vera e propria selezione, che se non elimina direttamente gli uomini come avviene nel mondo animale, quanto meno li relega in posizioni subordinate. Ma a partire da Socrate e Platone e poi in maniera via via più accentuata con il Cristianesimo, i deboli, che sono in numero nettamente superiore, si affermano con una morale ben differente, quella dei “sacerdoti”. Si tratta – sempre secondo Nietzsche – di un vero e proprio “rovesciamento dei valori”: il corpo, il vigore fisico, la bellezza, il sesso diventano delle colpe, che il forte deve scontare attraverso il pentimento e l’aiuto nei confronti dei più deboli. Una vera e propria “morale degli schiavi” che cancella quella cavalleresca della Grecia antica. Da qui quell’inizio della “tragedia” del mondo occidentale che troverà compimento alla fine del XIX, secondo Nietzsche, e dalla quale è possibile fuggire tornando proprio alla Grecia più antica, alla morale cavalleresca ed allo spirito dionisiaco. La visione nietzschiana è piuttosto radicale e decisamente forzata in rapporto ai primi filosofi, nei quali non si trova traccia della battaglia tra le due morali e i due spiriti di cui parla l’autore tedesco. E tuttavia l’orgoglio tutto aristocratico di Eraclito ben si addice alla visione del “Superuomo” o meglio “Oltreuomo” di Nietzsche, in grado di elevarsi al di sopra delle masse, di accettare anche le verità più tragiche della natura. Ma nell’immediato, la visione di Eraclito suscita stupore e timore non solo nel grande pubblico, ma anche tra gli intellettuali. I primi a reagire sono i filosofi di Elea, i quali negheranno con decisione le fondamenta stessa del divenire. Lo scontro tra sostenitori dell’essere (che non diviene) e del divenire (dell’essere) sarà lungo e travagliato e si potrà dire risolto solamente con Aristotele. È a partire da Eraclito, dunque, che i filosofi cominciano a dibattere tra di loro, magari a distanza di anni, citandosi reciprocamente e dando a noi la possibilità di conoscerli tutti meglio.