Bambini soldato

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Bambini soldato
Parlare dei bambini soldato non è solo parlare di un doloroso fenomeno che
affligge molti Paesi del mondo ma è interrogarsi soprattutto sulle cause che
lo determinano. Nell’accezione comune, per bambino soldato si intende un
minore di età compresa generalmente tra i 10 ed i 15 anni circa impiegato in
azioni di guerra o guerriglia al servizio di gruppi armati. Per
sensibilizzare l’opinione pubblica su questo problema, il 12 febbraio di ogni
anno viene celebrata la Giornata Mondiale contro l’impiego dei minori nei
conflitti armati. La scelta di questo giorno è legata all’entrata in vigore,
il 12 febbraio 2002, del Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento
dei bambini nei conflitti armati, di cui parlerò più avanti, adottato
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 maggio 2000.
Il tema è stata affrontato per la prima volta, seppur in maniera marginale,
nel Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949
relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali
(Protocollo I) adottato a Ginevra l’8 giugno 1977 e ratificato dall’Italia
con legge 11 dicembre 1985, n. 762. Il Protocollo, all’articolo 77, prevede
che le Parti in conflitto adottino tutte le misure possibili affinché i
fanciulli con meno di 15 anni di età non partecipino direttamente alle
ostilità e, in primo luogo, non vengano arruolati. Inoltre, per le persone
arruolate aventi più di 15 ma meno di 18 anni «le Parti in conflitto
procureranno dare la precedenza a quelle di maggiore età». Ciò significa che
i bambini con meno di 15 anni di età, di cui il Protocollo non vieta
l’arruolamento volontario, possono essere impiegati indirettamente nei
conflitti, opzione quest’ultima non meno pericolosa e rischiosa della
partecipazione diretta. Una formula, dunque, ambigua che lascia un ampio
margine di discrezionalità agli Stati firmatari.
Ma è con la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza,
Convenzione di riferimento per tutta la normativa sovranazionale e nazionale,
approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989,
che il fanciullo diventa a pieno titolo soggetto giuridico titolare di
diritti umani inalienabili come l’adulto. Il limite d’età che divide la
condizione di bambino/ragazzo da quella di adulto è stabilito a 18 anni. Per
quanto riguarda l’impiego dei bambini nei conflitti, argomento trattato
all’articolo 38, la Convenzione vincola gli Stati parti, non i gruppi armati,
a non arruolare nelle rispettive forze armate ed a non impiegare direttamente
nelle ostilità persone di età inferiore a 15 anni, analogamente a quanto
previsto dal citato I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del
12 agosto 1949. A supporto della Convenzione sono stati introdotti tre
Protocolli: sui bambini in guerra, di cui ho fatto un breve accenno, sullo
sfruttamento sessuale e sulla procedura per i reclami. Di particolare
importanza per il nostro tema è il primo: il Protocollo opzionale concernente
il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati approvato dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite nel 2000, insieme al secondo; il terzo è stato
approvato nel 2011. Il Protocollo estende gli obblighi, che la Convenzione
prevede solo per le forze armate regolari, anche ai gruppi armati impegnando
sia gli uni che gli altri a non arruolare obbligatoriamente ed impiegare
direttamente nelle ostilità effettivi di età inferiore a 18 anni. Questo
Protocollo, pur rafforzando ulteriormente i diritti dei fanciulli
riconosciuti nella Convenzione, non proibisce però l’arruolamento volontario,
previo consenso dei genitori o dei tutori legali, dei giovani aventi meno di
18 anni e la loro partecipazione indiretta alle ostilità.
Un ulteriore passo in avanti nella tutela dei diritti dei bambini è stato
fatto con l’approvazione nel 2002 dello Statuto della Corte Penale
Internazionale, che considera (art. 8) come crimine di guerra l’arruolamento
obbligatorio e/o volontario dei minori di età inferiore a 15 anni e la loro
partecipazione attiva (diretta e/o indiretta) alle ostilità,
indipendentemente che essi vengano impiegati da eserciti regolari o da
milizie armate.
Il tema del bambino soldato è stato affrontato, seppur indirettamente, anche
dal diritto internazionale del lavoro, in particolare dalla “Convenzione n.
182 sulla proibizione e l’azione immediata per l’eliminazione delle Peggiori
Forme di Lavoro Minorile”, adottata dall’Organizzazione Internazionale del
Lavoro – ILO (International Labour Organization) il 17 giugno 1999 ed entrata
in vigore il 19 novembre 2000. Questa normativa impegna (art. 1) gli Stati
membri a prendere immediate ed effettive misure per proibire ed eliminare le
«peggiori forme di lavoro minorile e di considerare la questione
prioritaria». Inoltre, specifica (art. 2) che il termine “minore”, utilizzato
nel testo della Convenzione, si riferisce ad ogni individuo di età inferiore
a 18 anni e puntualizza (art. 3, comma a) che l’espressione forme peggiori di
lavoro minorile «include tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla
schiavitù, quali la vendita o la tratta di minori, la servitù per debiti e
l’asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento
forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impiego nei conflitti
armati».
Purtroppo, seppure in presenza di ottime norme legislative internazionali a
favore del fanciullo, l’impiego di bambini in combattimento negli ultimi
decenni ha assunto dimensioni sempre più rilevanti radicandosi in modo
significativo in alcune aree del mondo a partire dalla fine della Guerra
Fredda con il moltiplicarsi di conflitti cosiddetti asimmetrici.
La maggior parte dei Paesi afflitti da questa piaga si trova in Africa,
America Latina ma anche in Asia e nel vicino Oriente dove la Siria, oggi in
preda ad una terribile guerra totale, è un esempio classico di laboratorio di
bambini soldato, l’habitat ottimale ove attingere minorenni da impiegare
direttamente o indirettamente nel conflitto. Una crisi interna degenerata in
guerra civile a partire dal 2011che ha causato fino ad oggi centinaia di
migliaia di morti ed oltre 4 milioni di profughi.
Casi di bambini soldato ci sono stati, seppure di dimensioni ridotte, anche
in Paesi europei. Ad esempio, nel corso della guerra che ha insanguinato l’ex
Jugoslavia sono stati impiegati nelle ostilità, direttamente ed
indirettamente, migliaia di minori. Ma anche Paesi non in guerra hanno
impiegato soldati con meno di 18 anni in combattimenti (è noto il caso
britannico, anche se certamente non paragonabile con i bambini soldato delle
milizie armate, di quindici giovani militari inviati a combattere in Iraq nel
2013, in violazione appunto al Protocollo opzionale sui bambini in guerra).
Nel corso della Conferenza Internazionale dell’UNICEF tenutasi nel 2015 a
Parigi, è emerso che sono circa 250 mila (una stima che andrebbe rivista
verso l’alto) i minorenni utilizzati da milizie ed eserciti nei vari Paesi
del mondo; l’Africa occupa il primo posto di questa classifica. Nel
continente africano, negli ultimi tempi, il fenomeno è stato particolarmente
evidente nella Repubblica Centrafricana, in cui nel 2013 è riesplosa la
guerra civile; nel Mali, già attraversato da una profonda crisi politica
accentuatasi alla fine del 2011 in concomitanza del rientro nel Paese delle
milizie Tuareg che avevano combattuto in Libia in difesa di Gheddafi; nella
stessa Libia e nel Sud Sudan, giovanissimo Stato dell’Africa Sub-Sahariana
nato nel 2011 e dalla fine del 2013 sconvolto da una feroce guerra civile tra
le fazioni dinka e nuer, la prima facente capo al presidente Salva Kiir la
seconda al vice Riek Machar.
Il problema dei bambini soldato non può essere estrapolato dal contesto più
generale in cui questo fenomeno nasce e si sviluppa. Un contesto che ha due
aspetti: uno di carattere sociale e l’altro di natura geopolitica.
Per quanto attiene a quello sociale, è di tutta evidenza che i Paesi più
colpiti dal fenomeno sono quelli in cui la maggior parte della popolazione
vive in uno stato di povertà e le istituzioni scolastiche sono precarie se
non assenti. I bambini delle famiglie povere, senza un’adeguata educazione
scolastica, non hanno alcun futuro lavorativo dignitoso, rimangono ai margini
della società diventando facili prede delle milizie armate. Queste ultime
attingono a piene mani le loro giovani reclute non solo tra le famiglie
disagiate o sfollate ma, soprattutto, tra i cosiddetti bambini di strada
ossia quei milioni di minori che hanno perso i genitori a causa di guerre,
carestie, epidemie e sono costretti a lavorare e vivere per strada, appunto.
Le istituzioni scolastiche, laddove esistono, vengono colpite senza una
apparente logica, come è successo nell’aprile 2015 in Kenya. Qui i miliziani
islamisti somali di Al Shabaab hanno attaccato, facendo una strage, un campus
universitario dove studiavano e studiano in pace fra loro studenti cristiani
e musulmani. Queste violenze ingiustificate e, apparentemente, senza senso
inaspriscono i rapporti tra le comunità religiose e/o etniche, creano
fratture laddove prima c’era pacifica convivenza, creano sospetti,
insicurezza sociale, inutile odio a vantaggio di oscuri gruppi di potere i
quali possono, in questi contesti, giustificare le spese per l’acquisto di
nuovi armamenti specialmente armi leggere, fabbricate nel Nord del mondo, ed
equipaggiamenti di supporto ai combattenti.
Ma il fenomeno bambini soldato è figlio anche delle situazioni geopolitiche.
L’innalzamento del livello di crisi politica all’interno di uno Stato o tra
Stati confinanti inevitabilmente sfocia in guerre le quali portano prima
all’indebolimento poi al crollo delle istituzioni statuali. In queste
condizioni, dove non esiste più un’autorità costituita, i gruppi armati
ribelli o filogovernativi che siano non hanno alcuna difficoltà a rapire od a
indurre i bambini più fragili ed indifesi ad arruolarsi nei propri ranghi. Le
guerre, sia quelle civili che nascono dalla disgregazione politico-sociale di
uno Stato sia quelle fra Stati che scaturiscono dalla incapacità o mancanza
di volontà da parte delle classi dirigenti di risolvere i contenziosi a
livello politico-diplomatico, portano inevitabilmente alla formazione di
milioni di profughi (oltre 65 milioni nel mondo, secondo dati dell’Agenzia
dell’Onu per i Rifugiati, di cui il 51% è costituito da bambini), serbatoio
ideale ove reclutare minori da parte dei gruppi di guerriglia. Unicef e Oxfam
hanno reso noto che «ogni quattro secondi una persona è costretta a fuggire,
abbandonando la propria casa, tutta la propria vita a causa della violenza,
delle guerre o della miseria. Sono oltre ventimila ogni giorno».
Dobbiamo indagare ed intervenire su quei fenomeni di natura umana che
precedono e concorrono allo scoppio delle guerre o delle crisi sociali, a
cominciare dal lessico dei politici e dei mass media, spesso minaccioso ed
impregnato di odio verso la parte contrapposta, in grado di far salire la
tensione a livello internazionale ed accendere insensata violenza nelle
persone più deboli emotivamente, meno dotate di senso critico, in sostanza
meno istruite.
Prendiamo per esempio un fenomeno, di cui si parla poco, portatore di gravi
squilibri sociali e concorrente, insieme ad altri, alla formazione del
bambino soldato: il cosiddetto Land Grabbing. Le popolazioni che vivono da
generazioni nelle terre oggetto di accaparramento da parte di Stati esteri o
delle multinazionali nella maggioranza dei casi vengono allontanate senza
alcun risarcimento, andando ad aggiungersi alle moltitudini di rifugiati che
fuggono dai conflitti, dalle ricorrenti carestie e dalle epidemie, ultima
ebola.
La maggior parte dei bambini soldato muore, se non in combattimento, di fame,
di stenti, di malattie anche dopo la fine delle guerre. Quelli che, invece,
riescono ad uscire da questa esperienza devastante si presentano in gravi
condizioni di salute sia dal punto di vista fisico che psichico. Moltissimi,
in quest’ultimo caso, sono affetti dalla sindrome Post Traumatica da Stress
(Post Traumatic Stress Disorder – PTSD) ed il loro reinserimento nel tessuto
sociale è ancora più difficile, nonostante i validi programmi di recupero
psicologico posti in atto dalle varie organizzazioni umanitarie.
In questo dramma c’è un aspetto ancora più straziante e penoso: quello delle
bambine, coinvolte sempre più frequentemente nei conflitti armati. Queste
ragazze non vanno considerate solo come partner sessuali dei guerriglieri in
quanto ricoprono più ruoli all’interno dei gruppi armati partecipando anche
ai combattimenti. Purtroppo, nei programmi di disarmo, smobilitazione e
riabilitazione posti in essere a favore dei minori, risulta che le ragazze,
pur avendo maggior bisogno di cure e protezione rispetto ai maschi, sono
presenti in ridottissime percentuali perché si vergognano a presentarsi
presso i centri di riabilitazione. Queste ragazze, salvo pochi casi, appaiono
pertanto destinate a sopravvivere con il loro pesante fardello senza la
possibilità di ricevere il conforto, l’aiuto psicologico e materiale degli
operatori umanitari.
Fortunatamente, in uno scenario planetario sempre più percorso da venti di
guerra, dal Sud America ci arrivano atti concreti di buona politica che
lasciano ben sperare per il futuro di quel continente. In Colombia, a seguito
dell’accordo di pace tra il governo e il gruppo delle Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglato a novembre 2016, le forze della
guerriglia hanno iniziato a rilasciare decine di minori i quali vengono
accolti in campi di transizione dell’UNICEF ed aiutati a reinserirsi nella
società civile.
In conclusione, il fenomeno dei bambini soldato con tutte le implicazioni
collaterali che ne conseguono è figlio di un sistema internazionale di far
politica basato, prima ancora che sulla inutile ed inconcludente forza dello
strumento militare come ormai ampiamente dimostrato sul campo negli ultimi
decenni, sull’imposizione tout court di determinati modelli economici e
socio-politici facendo ricorso continuamente ad un lessico da Guerra Fredda
che ricerca la sfida, lo scontro piuttosto che l’incontro, il dialogo.
Fintantoché non saranno affrontate le cause che precedono, stimolano ed
accompagnano le crisi di qualsiasi genere, gli interventi umanitari posti in
atto con tanta generosità e competenza dalle varie organizzazioni
internazionali di volontariato per aiutare questi bambini rischieranno di
essere solo interventi palliativi e superficiali.
Foto: Terzo Binario News
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