La Repubblica 18 dicembre 2007
Un soldato sleale
di GIUSEPPE D'AVANZO
CHE il generale Roberto Speciale fosse un soldato sleale, s'era avuto già modo di apprezzarlo. Che
un militare che giura fedeltà alla Repubblica e all'osservanza della Costituzione potesse spingersi
fino a un gesto eversivo di insubordinazione allo Stato democratico, anche il più severo dei suoi
critici non avrebbe potuto immaginarlo.
Invece, è accaduto, accade - ed è la vera questione da affrontare - nell'indifferenza di istituzioni
distratte o intimidite, nel silenzio di una politica incapace di guardare oltre la propria mediocre
convenienza del momento. Come se in questa storia non fossero in gioco le ragioni prime di una
democrazia: la legittimità di un governo eletto dal Parlamento; le sue prerogative di organo
costituzionale chiamato ad assolvere il compito di direzione politica del Paese.
E' questa legittimità costituzionale che il generale Speciale, con la sua grottesca lettera di dimissioni,
nega, rifiuta, disprezza, umilia. E' alquanto minimalista - quasi gregario - definire soltanto
"irrituale" quella lettera, come capita a Romano Prodi. Assai poco convenzionale è per il Quirinale
dichiarare - nei fatti - ricevibile quella missiva offensiva per il governo, per poi trasmetterla a
Palazzo Chigi.
L'iniziativa di Speciale è davvero soltanto irrituale e il destinatario della lettera può essere
correttamente il capo dello Stato? E' difficile sostenerlo e pare grave accettarlo senza batter ciglio.
Il generale infedele sostiene di avere conquistato "il diritto" ad essere comandante della Guardia di
Finanza: "gli spetta", dice. E' un diritto che nessuno gli ha riconosciuto. Non glielo riconoscono a
parole nemmeno i suoi avvocati, figurarsi se poteva riconoscerglielo con una sentenza la
magistratura amministrativa.
Non è, infatti, nella disponibilità di un tribunale amministrativo il rapporto fiduciario del governo,
di cui il capo di un corpo militare deve godere. Questa fiducia, al di là delle leggerezze
amministrative commesse dallo staff di Tommaso Padoa-Schioppa, Roberto Speciale non ce l'ha,
l'ha irrimediabilmente perduta. Tanto basta per dire che mai il generale sarebbe ritornato al
comando della Finanza, come conferma anche il ministro dell'Economia.
Al contrario, autoproclamatosi "di diritto" comandante - manco fossimo in una Repubblica delle
Banane - il generale, bontà sua, decide di dimettersi. La grammatica istituzionale, nelle sue mosse,
degrada a boutade.
Prendiamolo sul serio soltanto per un momento. Ritiene di essere ancora il comandante generale
della Guardia di Finanza. Vuole abbandonare, offeso nella sua dignità di soldato. Nelle mani di chi
deve farlo, di chi ha il dovere di farlo? La legge è lì per essere rispettata. Articolo 1 della legge 23
aprile 1959, n. 159: "Il Corpo della Guardia di Finanza dipende direttamente e a tutti gli effetti dal
ministro della Finanze".
Un principio ordinamentale così netto ed esplicito (inconsueto in un sistema giuridico che ama
l'indeterminatezza) avrebbe dovuto imporre al generale Speciale di rimettere il mandato - che si è
caricaturalmente assegnato - nelle mani del ministro dell'Economia. Non lo fa perché "non vuole
collaborare con questo governo", scrive. Poco male, il governo potrà soltanto guadagnarci.
La faccenda si potrebbe liquidare così soltanto se non fosse assai sinistro che un generale, al
comando di 59.874 militari in armi, non accetta di essere alle "dirette dipendenze" di un governo
che gode della piena fiducia del Parlamento. Roberto Speciale non ne riconosce il potere, la
legittimità, il dovere costituzionale di decidere dell'indirizzo politico e amministrativo del Paese e
quindi anche di scegliere chi deve essere o non deve essere alla guida di un corpo, "parte integrante
delle Forze Armate dello Stato e della forza pubblica".
Scrive al presidente della Repubblica, perché "è al di sopra di tutto, anche della politica, anche del
governo". E' uno schiaffo all'Esecutivo, che non sorprende in un soldato infedele. Stupisce che il
Quirinale accetti di ricevere la lettera del generale. Che, implicitamente, acconsenta che Speciale
possa dimettersi da una responsabilità che non ha più e che nessuno - tanto meno il governo - gli ha
riconosciuto.
Meraviglia che il presidente della Repubblica acconsenta che un generale non si dimetta nelle mani
dell'autorità politica a cui è sottordinato, di cui è dipendente. Confonde che il capo dello Stato
accetti di svolgere il ruolo del tutto improprio di destinatario di una lettera che abusivamente gli è
stata consegnata, chiudendo gli occhi sul disprezzo che il generale assegna al governo per di più
prendendo per buono un presunto "spirito di servizio verso le istituzioni".
E' un pericoloso, e inedito, precedente nella storia della Repubblica. Dovremo presto attenderci che
il capo della polizia rifiuti di dimettersi nelle mani del ministro dell'Interno o che il capo di Stato
maggiore della Difesa non consegni il suo addio al ministro della Difesa, tanto del governo si può
fare a meno?
La sensazione è che questo "caso Speciale", nato dalla debolezza del governo e dalla volontà di
compromesso con un minaccioso network spionistico e illegale, di cui il generale è stato attore di
prima fila, moltiplicherà le sue muffe, se non affrontato con energia. Di compromesso in
compromesso, di timidezza in timidezza, siamo arrivati alla delegittimazione dei poteri del governo.
Considerare quel soldato sleale e infedele, come pare fare oggi la maggioranza, soltanto un
dissipatore di risorse pubbliche per qualche viaggio a sbafo in elicottero non è una buona strada.
Meglio sarebbe ricordare la proposta del generale "tutto d'un pezzo" di violare i segreti d'ufficio
avanzata al vice-ministro Visco (e rifiutata). O tenere a mente quando, con il governo di centrodestra, i segreti della Guardia di Finanza diventavano pubblici per essere utilizzati, in piena
campagna elettorale, da Silvio Berlusconi con denunce alla magistratura. Pensare di lisciare il pelo a
quel soldato e ai soldati come lui, è peggio di una cattiva idea. E' un errore politico e istituzionale.
(18 dicembre 2007)