ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO IN LAUREA IN INFERMIERISTICA LA MUSICA E IL DOLORE: LA MUSICOTERAPIA APPLICATA AL PAZIENTE CON DOLORE CRONICO Tesi di laurea in Infermieristica Clinica 3 PRESENTATA DA RELATORE Corbelli Massimo Borghesi Massimo SESSIONE I ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007 -1- Indice generale Capitolo I: il dolore 1.1 Che cos’è il dolore 1.1.1 Che cos’è il dolore: il punto di vista filosofico 1.1.2 Che cos’è il dolore: il punto di vista medico 1.1.3 Che cos’è il dolore: il punto di vista psicologico 4 4 7 18 1.2 Il dolore cronico 21 Capitolo II: la musicoterapia Introduzione: che cos’è la musicoterapia 2a Il terapeutico in musicoterapia 2a.1 Insegnamenti, educazione in musicoterapia 2a.2 Riabilitazione e terapia 2a.2.1 La riabilitazione 2a.2.2 La terapia 2a.3 (Musico) terapeuti e terapisti 2b Fondamenti fisiopatologici per la musicoterapia 2b.1 Deficit ed handicap 2b.2 La struttura dell’handicap 2b.2.1 La struttura neurofisiologica di base 2b.2.2 L’apprendimento 2b.2.3 La reazione oggettuale 2b.2.4 La reazione sociale 2b.2.5 Le dinamiche di gruppo 2b.3 Prevenzione e complicanze dell’handicap 2b.4 La filosofia d’intervento 2b.4.1La teoria dell’armonizzazione del benessere 2b.4.2 La persona: mente-corpo-emozioni-relazioni 2b.4.3 La relazione Lo Mondo:apprendimento tra affettività e socialità 2b.4.4 Il suono per l’armonizzazione -2- 28 36 37 40 41 44 47 50 50 53 55 60 64 66 67 69 70 71 72 73 75 2c La tecnica musicoterapica 2c.1 Aspetti generali 2c.1.1 Il setting terapeutico 2c.1.2 Cogliere musicalità 2c.1.3 I contesti 76 77 82 93 95 Capitolo III: la musica e il dolore 3.1 La musicoterapia applicata al paziente con dolore cronico 97 Conclusioni 102 Bibliografia 103 -3- CAPITOLO 1: IL DOLORE 1.1 CHE COS’È IL DOLORE Che cos’è il dolore? La domanda sembra abbastanza scontata, ma non è così; ognuno di noi “ha sperimentato”, o meglio, ha provato sulla propria pelle il dolore, che sia di origine fisica, come una ferita o l’infiammazione di un nervo, oppure di origine psicologica-sentimentale, come la fine di un rapporto sentimentale o la morte di un partente; cercherò, quindi, di rispondere a questa domanda guardando il dolore sotto tre punti di vista; dal punto di vista filosofico citando il pensiero di alcuni filosofi, dal punto di vista medico annunciando tutti i processi che fanno nascere questo sentimento ed interpretandolo come segnale di allarme ed infine dal punto di vista psicologico interpretando il dolore come “danno” nella psiche umana. 1.1.1 CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA FILOSOFICO La filosofia considera il dolore come momento del più vasto problema del male. Gli antichi Greci pensavano che il dolore fosse un ostacolo alla felicità, e quindi uno stato della coscienza da eliminare, dato che consideravano la felicità come scopo della vita umana: naturalmente considerata la difficoltà di eliminare il dolore dalla vita fisica, pensavano che l’eliminazione di esso si potesse raggiungere sul piano della meditazione filosofica, e dal superamento delle passioni. Nell’antica Grecia si pensava che un dolore che affliggeva più persone, cessa di essere patimento, solo per il fatto di essere intersoggettivabile e comunicabile, trasformandosi in un qualcosa di molto simile al disagio o al malessere, ossia alla mezza contentezza. Un qualcosa di condivisibile con gli altri uomini, sia sul piano della cognizione e dell'esperienza che su quello della ragione, ci fa comprendere d'essere pezzi di qualcosa, di non essere delle isole ma parti di un continente, d'essere uomini che sanno di godere e di tribolare insieme. Un uomo, è vero, ha sempre la pretesa di patire di più di chiunque altro perché non partecipa con altri uomini di tale passione e quindi del suo dolore: questo, per il fatto d'essere unico ed irripetibile, sarà anche indefinibile e incomunicabile. Nella Grecia antica l'espressione Paqos è ogni affezione dell'anima che sia accompagnata dal piacere o dal dolore, dove il piacere e il dolore sono segno di una reazione immediata dell'essere vivente ad una situazione favorevole o sfavorevole tale che questi sia disposto ad affrontare la situazione con tutti i mezzi di cui sia in possesso. Epicureo1 (341-270 a.C.),noto filosofo greco, da cui prese il nome anche un movimento filosofico, ritiene che 1 negli uomini siano presenti www.forma-mentis.net/index.htm Epicuro data 09-04-2007 -4- due stati d'animo innegabili e originariamente irriducibili: il piacere e il dolore. Questi stati d'animo, che vengono chiamati da Epicuro "affezioni", sono i due sentimenti che muovono tutte le azioni degli uomini. Il piacere è quindi principio di bene, il dolore è invece sintomo di errore e quindi di male, queste sono verità originarie e di per sé evidenti che non hanno bisogno di essere provate. Il filosofo Platone2 dichiara , nel Filebo (17, 31 d, 32 a) , che il dolore si ha quando la proporzione delle parti che compongono l'essere vivente risulta predominata, compromessa o controllata di modo che manchi l'armonia, mentre si ha il piacere quando tale armonia venga ristabilita. Aristotele3 considera, invece, il piacere come un desiderio oppure uno stato naturale, mentre il dolore come il contrario di esso. Aggiunge poi che il piacere è definito e determinato dai movimenti dell’anima, dal ritorno totale e sensibile agli stati naturali ed è qualsiasi azione o fatto che non è forzato e non è contro la nostra volontà. Il dolore è tutto ciò che è forzato, che è contro natura; tutti gli affanni, gli sforzi ed i travagli sono considerati dolorosi e se sono imposti da necessità, se non ci si è abituati. Aristotele definisce anche la paura come dolore che proviene dalla proiezione di un male ipotetico ma che ci può colpire, portando con sé distruzione ed anche dolore; infatti ,specifica, che non si ha paura di tutti i mali ma solo di quelli che possono provocare gravi danni a noi stessi, ed inoltre questi mali non devono essere lontani da noi, ma molto prossimi. Infine il dolore, per Aristotele, è un indicatore di una situazione ostile, sfavorevole in cui l’essere vivente è “costretto” ha vivere mentre il piacere, o la gioia, come situazione favorevole. In Oriente, per il Buddha, il dolore venne assunto come elemento determinante e caratteristico della vita degli uomini, il quale additò proprio nella estinzione di esso il sommo della felicità, il raggiungimento della non sensibilità, il Nirvana. Per il Cristianesimo, invece, l’interpretazione del dolore mutò radicalmente, fino a diventare il mezzo di purificazione ed elevazione morale, trovandosi in Gesù Cristo l’esempio più alto della virtù redentrice del dolore. Infatti per la Chiesa l’espiazione dei peccati avviene solo attraverso il dolore, basta pensare alla crocifissione, Cristo per mezzo di quel dolore fisico riuscì a purificare se stesso e l’umanità dai peccati. Tutta l’ascetica cristiana è, di conseguenza, rivolta appunto all’enunciazione delle varie forme di riscatto dell’uomo attraverso la prova e la sofferenza. Secondo Schopenhauer4 (1788-1861), la vita è dolore per essenza poiché l’essere è la manifestazione della volontà infinita. 2 www.miti3000.it data 10-04-2007 vedi nota n°2 4 http://ainet.altervista.org/infoz/cult/Schopenhauer_Arthur.htm Schopenhauer Arthur data 09-04-2007 3 -5- L’uomo è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. La soddisfazione finale è solo apparente e dà presto luogo a un nuovo desiderio. Il godimento o la gioia è una cessazione di dolore, lo scarico da uno stato preesistente di tensione. Perché ci sia piacere bisogna per forza che ci sia stato dolore ma non è vero il contrario. Il dolore è un dato primario, il piacere è solo una funzione che deriva da esso. La noia subentra quando viene meno il desiderio. La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia. LA SOFFERENZA UNIVERSALE: Il dolore investe ogni creatura. L’uomo soffre di più perché sente di più la spinta della volontà. Il genio, avendo maggiore sensibilità, è votato ad una maggiore sofferenza >>> “Chi aumenta il sapere, moltiplica il dolore”. Il male sta nel Principio stesso da cui il mondo dipende. Dietro le meraviglie del creato, si cela, in realtà, un’arena di esseri tormentati ed angosciati, i quali esistono a patto di divorarsi l’un l’altro. L’individuo appare soltanto uno strumento per la specie, fuori dalla quale non ha valore. L’unico fine della natura è quello di perpetuare la vita e, quindi, il dolore. L’ILLUSIONE DELL’AMORE: L’amore si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane; è uno dei più forti stimoli dell’esistenza ma è solo uno strumento per perpetuare la vita della specie. Il suo fine è l’accoppiamento; non c’è amore senza sessualità. L’amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come peccato. Esso commette infatti il maggiore dei delitti: la perpetuazione di altre creature destinate a soffrire. L’unico amore positivo è quello disinteressato della pietà. Condanna del suicidio per due motivi: E’ un atto di forte affermazione della volontà stessa. Il suicida, anziché negare la volontà, nega la vita. Sopprime unicamente l’individuo, lasciando intatta la cosa in sé, che rinasce in mille altri. La vera risposta al dolore del mondo consiste nella liberazione dalla stessa volontà di vivere, in tre momenti essenziali: l’arte, l’etica della pietà e l’ascesi. L’ARTE: Conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee. Il soggetto che contempla le idee non è più l’individuo naturale ma il puro soggetto del conoscere e il suo proprio patrimonio conoscitivo diventa il sole che gli rivela il mondo. -6- Grazie al suo carattere contemplativo e alla sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne, l’arte crea un appagamento immobile e compiuto. L’uomo, grazie ad essa si eleva al di sopra della volontà, del dolore e del tempo. La musica è l’immediata rivelazione della volontà a sé stessa, l’arte più profonda ed universale, capace di metterci in contatto con le radici stesse della vita e dell’essere. Ogni arte è quindi liberatrice poiché il piacere che essa procura è la cessazione del bisogno; ma essa è pur sempre temporanea e parziale, un conforto alla vita. L’ETICA DELLA PIETA’: Tentativo di superare l’egoismo e di vincere quella lotta incessante fra gli individui. Sgorga da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri. Nasce da un’esperienza vissuta. Bisogna sentire e realizzare questa verità nel profondo del nostro essere. E’ la moralità che produce la conoscenza. La morale si concretizza in due virtù: Giustizia: negativa poiché consiste nel non far male e nell’essere disposti a riconoscere agli altri solo ciò che vogliamo che ci sia riconosciuto. Carità: positiva perché è volontà attiva di fare il bene, è vero amore. Sebbene la morale della pietà implichi una vittoria sull’egoismo, essa rimane sempre all’interno della vita. L’ASCESI: L’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il desiderio di esistere, godere e volere. La soppressione della volontà di vivere, di cui l’ascesi rappresenta la tecnica, è l’unico vero atto di libertà che sia possibile all’uomo. Il cammino nella salvezza mette capo al nirvana buddista che è l’esperienza del nulla. Un nulla che non è il niente, ma un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del mondo stesso. 1.1.2 CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA MEDICO In medicina il dolore è la manifestazione di un danno che si sviluppa in un organo, tessuto o in una cellula. Il dolore, a sua volta, è scatenano da un processo che cerca di rimediare al danno iniziale e che ripristina la situazione prima del danneggiamento; questo processo prende il nome di infiammazione5. 5 Dispense di Patologia Generale Del Prof. Bolognesi Andrea -7- Il processo infiammatorio elimina, diluisce o contiene l’invasione degli agenti nocivi e prepara la via alla guarigione. La guarigione può avvenire con la rimozione dell’agente nocivo ed il ripristino delle situazione iniziale. Se vi sono state lesioni tissutali la guarigione avviene con la sostituzione del tessuto connettivo prodotto dai fibroblasti (cicatrizzazione). Il processo infiammatorio-riparativo contiene e neutralizza gli effetti delle lesione e tende a ricostruire la continuità morfologica dei tessuti, anche se a scapito del ripristino della funzione specializzata del tessuto od organo coinvolto ( perdita di parenchima, funzionale e accumulo di tessuto connettivo, non funzionale). L’infiammazione è fondamentalmente una risposta protettiva tesa ad eliminare la causa iniziale del danno cellulare e le sue conseguenze. Si deve tuttavia considerare che l’infiammazione e la riparazione che spesso ne consegue sono processi potenzialmente dannosi. L’infiammazione, o flogosi si divide in: infiammazione acuta, di breve durata, da pochi minuti a qualche giorno, dalla prevalenza dei fenomeni vascolari e dalla risposta stereotipata; infiammazione cronica, di lunga durata, d’alcune settimane fino a qualche mese, dalla presenza di fenomeni cellulari, dalla proliferazione di tessuto connettivo e dalla proliferazione di piccoli vasi sanguigni. L’infiammazione acuta. L’infiammazione acuta consiste nella reazione di un tessuto vascolarizzato ad uno stimolo dannoso o irritativo. L’infiammazione venne descritta in un papiro egizio già nel 3000 a.C., ma fu il medico romano Cornelio Celso nel 64 d.C. a descrivere per primo i quattro segni cardinali che caratterizzano la flogosi e sono: il rubor (rossore), il calor (calore), il tumor (tumefazione, rigonfiamento) e il dolor (dolore). Intorno al 1700 il patologo tedesco Virchow aggiunse un quinto segno clinico ossia la functio laesa che tradotta significa perdita di funzione dell’organo colpito. L’eziologia dell’infiammazione possono essere raggruppate in tre grandi famiglie: cause fisiche, che comprendono traumi, radiazioni, ustioni, congelamento e corpi estranei; cause chimiche, ossia tossine e sostanze caustiche (acidi o basi forti) e cause biologiche e vengono considerati infezioni, infestazioni, tessuti necrotici e reazioni immunitarie. Nella patogenesi la maggior parte delle risposte vascolari e cellulari dell’infiammazione acuta sono determinate dalla liberazione di mediatori chimici. Questi mediatori chimici scatenano due tipi di fenomeni: fenomeni vascolari e fenomeni cellulari. Fenomeni vascolari. Immediatamente dopo la lesione possiamo osservare una seria di reazioni vascolari. -8- La prima reazione è una vasocostrizione delle arteriole, su base nervosa (arco riflesso), della durata di pochi secondi; successivamente si ha una vasodilatazione delle arteriole, per azione di mediatori chimici ed apertura di nuovi letti capillari nell’area infiammata ( fase di iperemia attiva). L’iperemia attiva provoca l’arrossamento (rubor) ed il riscaldamento (calor) della zona infiammata. La vasodilatazione provoca un aumento del flusso ematico con conseguente aumento della pressione idrostatica a livello dei capillari e delle venule. L’aumento della pressione idrostatica provoca una iniziale formazione di trasudato (liquido a basso contenuto proteico, derivato dal plasma per ultrafiltrazione attraverso l’endotelio vascolare, con permeabilità endoteliale normale). Dopo questa fase si ha un aumento della permeabilità vascolare del microcircolo, con fuoriuscita dai capillari ed accumulo nei tessuti di un essudato (liquido extra-vascolare di origine flogistica ad alto peso specifico che può contenere proteine ed leucociti usciti dai vasi). All’inizio la vasodilatazione provoca solamente l’aumento della pressione idrostatica e la formazione del trasudato, questo però viene lentamente sostituito dall’essudato quando si altera la normale permeabilità vasale del microcircolo e incominciano ad uscire anche le proteine plasmatiche. La presenza nell’interstizio di proteine plasmatiche altera la normale pressione colloido-osmtica interstiziale aumentandola, in tal modo aumente ulteriormente il richiamo di liquido verso l’interstizio. Tale fenomeno è ancor più accentuato grazie alle presenza di enzimi proteoilitici nell’interstizio, che tagliando le proteine in più punti fanno aumentare l’osmolarità interstiziale. La fuoriuscita di tale liquido dai vasi provoca un aumento della viscosità del sangue (inspissatio sanguinis) ed un conseguente rallentamento del flusso (fase di iperemia passiva), che può essere anche di notevole entità, fino ad arrivare alla stasi. Il rallentamento del flusso avviene anche per una maggior compressione dell’interstizio edematoso più sulla debole parete venulare che su quella arteriolare. Le funzioni dell’essudato sono principalmente quattro: diluizione delle sostanze tossiche, difesa meccanica contro la diffusione dei batteri (fibrina), difesa immunologia (anticorpi), pH acido sfavorevole per la proliferazione della maggior parte dei batteri. Fenomeni cellulari. Una funzione fondamentale dell’infiammazione è di permettere ai leucociti di giungere nella sede del danno. I leucociti, in particolare i granulociti neutrofili e i monociti, si accumulano nello spazio interstiziale del tessuto infiammato. Queste cellule sono in grado di inglobare gli agenti lesivi, uccidere i batteri ed altri microrganismi, degradare i tessuti necrotici e fibrina e, in collaborazione con il sistema immunitario, eliminare agenti estranei. Anche i granulociti eosinofili e basofili e i linfociti possono essere coinvolti nei processi infiammatori. -9- Durante l’infiammazione possiamo assistere a sette diversi fenomeni cellulari: 1. Marginazione 2. Rotolamento 3. Adesione 4. Diapedesi 5. Chemiotassi 6. Fagocitosi e degradazione intracellulare 7. Liberazione di sostanze flogogene ed istolesive 1. Marginazione Gli elementi cellulari del sangue, a causa del rallentamento del flusso ematico, lasciano la colonna assiale tipica del flusso laminare, per mettersi in cotanto con l’endotelio. 2. Rotolamento Successivamente inizia la fase di rotolamento dei leucociti sulla superficie endoteliale. Questa fase coinvolge un legame dei leucociti all’entotelio vascolare mediato da glicoproteine di superficie. In particolare si ha il legame delle selectine con i rispettivi recettori. Questo legame non è in grado di ancorare le cellule in presenza del flusso ematico: le cellule quindi rotolano lungo l’endotelio, formando e rompendo i legami di continuazione. I legami deboli, tuttavia, permettono il formarsi di interazioni più forti. 3. Adesione Queste interazioni più forti sono dovute all’induzione di integrine sulla superficie leucocitaria e di ICAM-1 (inter cellular adhesion molecule; molecola di adesione intercellulare) e VCAM1 (vascular cell adhesion molecule; molecola di adesione delle cellule vascolari) sull’endotelio. Il legame forte tra queste glicoproteine provoca l’adesione leucocitaria. - 10 - 4. Diapedesi La diapedesi o migrazione, è quel processo che vede muovere i leucociti mobili (neutrofili, eosinofili, basifili, monociti e linfociti) fuori dai vasi per raggiungere i tessuti perivascolari. I leucociti, che già hanno aderito alla parete vascolare tramite la molecola ICAM-1, emettono delle estroflessioni dette pseudopodi che vanno ad inserire tra le giunzioni intercellulari dell’endotelio. I leucociti con movimenti ameboidi scivolano tra le giunzioni e si dispongono tra l’endotelio e la membrana basale. Dopo un breve periodo di tempo oltrepassano anche quest’ultima mediante la secrezione di proteasi. Le prime cellule a comparire negli spazi peri-vascolari sono i neutrofili, seguiti dai monociti. 5. Chemiotassi Dopo aver lasciato i vasi sanguigni i leucociti si dirigono verso la zona dove si è verificata la lesione. La migrazione dei leucociti è mediata da sostanze chimiche che diffondendosi generano un gradiente di concentrazione lungo il quale si muovono i leucociti, per cui il fenomeno prende il nome di chemiotassi. 6. Fagocitosi Per fagocitosi si intende l’inglobamento di particelle solide all’interno di un vacuolo denominato fagosoma. La fagocitosi viene effettuata soprattutto da cellule specializzate quali i granulociti ed i magrofagi sia fissi sia circolanti, ma può essere effettuata potenzialmente da qualunque altro tipo di cellula. Il fenomeno della fagocitosi può essere distinto in tre fasi strettamente interconnesse: A) Riconoscimento e attacco delle particelle alla superficie del fagocita B) Ingestione - 11 - C) Uccisione e degradazione, rispettivamente del microbo ingerito o della particella inglobata, quando ciò è possibile A) Riconoscimento ed attacco Può essere: - Aspecifico: per semplice contatto o mediante la presenza di lectine. Le lectine sono proteine di animali, piante, batteri, che legano gli zuccheri (mannoso, galattosio, ecc.). Lectine presenti sulla superficie batterica possono legare gli zuccheri delle glicoproteine o dei glicolipidi della membrana del fagocita. Analogamente le lectine presenti sul fagocita possono legare zuccheri presenti sui batteri. Le lectine presenti sui fagociti legano il mannosio, che non è normalmente esposto nelle glicoproteine o nei gli lipidi animali, mentre invece lo è in quelli vegetali e batterici. - Specifico : tramite opponine. Benché i fagociti possano aderire a particelle inerti ed a batteri senza alcun precedente, specifico, processo di riconoscimento, la fagocitosi dei microrganismi è molto facilitata se questi vengono rivestiti dalla immunoglobuline di tipo G (IgG) e dal fattore C3b del complemento. Questo processo si chiama opsonizzazione e le molecole (IgG e C3b) che lo mediano sono dette opponine. Nella fagocitosi tramite le opponine vengono riconosciute da recettori specifici per il frammento Fc delle IgG e per il C3b, presenti sulla superficie dei neutrofili e dei macrofagi. B) Ingestione Quando un fagocita aderisce ad un germe opsonizzato, la membrana citoplasmatica si muove scorrendo attorno al germe fino ad inglobarlo in una profonda tasca. Con la fusione della membrana in corrispondenza della bocca di questa invaginazione la particella (o il germe) si trova racchiusa in una vescicola citoplasmatica rivestita da membrana, che prende il nome di fagosoma. Appena il fagosoma si chiude, ma talvolta anche prima che esso sia completamente chiuso, si attivano due meccanismi. a) Si attivano enzimi che causano la produzione di radicali ossidanti all’interno del fagosoma. - 12 - b) I lisosomi dei fagociti si fondono con il fagosoma dando origine al fagolisosoma. Mediante questo processo, detto anche degranulazione, i lisosomi scaricano il loro contenuto nel fagosoma. La capacità di respirare anaerobicamente è di particolare valore per i neutrofili, poiché essi devono funzionare nei focolai della flogosi in condizioni spesso di estrema ipossia. C) Uccisione e degradazione I meccanismi microbicidi all’interno delle cellule fagocitanti si possono classificare come: ¾ Ossigeno-dipendenti ¾ Ossigeno-indipendenti Ossigeno-dipendenti. Appena il fagosoma si chiude si ha il cosiddetto “burst respiratorio” ovvero aumenta il consumo di ossigeno. Aumenta, inoltre, anche la glicogenolisi ed il glucosio viene utilizzato attraverso lo shunt dell’esoso mono-fosfato per produrre NADPH. L’esplosione respiratoria è causata dalla rapida attivazione della NADPH-ossidasi che catalizza, all’interno del fagosoma la reazione: 2O2 + NADPH → 2O2¯• + NADPH + H con la formazione dello ione superossido, che viene poi convertito in acqua ossigenata, grazie alla reazione catalizzata dall’enzima superossido dismutasi: 2O2¯• + 2H → H2O2 + O2. 2O2¯• e H2O2 hanno di per sé solo un modesto potere microbicida, però permettono la produzione di fattori ossidanti con maggiore attività microbicida. L’ipoclorito è invece un ben noto e potente agente microbicida e viene prodotto nei neutrofili e monociti circolanti che contengono un enzima, il mieloperossidasi (MPO), grazie al quale possono utilizzare l’acqua ossigenata per con il cloro, un potente ossidante ad attività antimicrobica il radicale ipoclorito (OCl ¯•). - 13 - Ossigeno-indipendenti. Diverse sostanze presenti nei lisosomi hanno capacità citocide: -BPIP bactericidal permeability increasing protein: provocoa alterazione della membrana esterna dei microrganismi -lisozima che degrada il legame ac.muramico-N-acetilglucosamina tipico del rivestimento glicoproteico di tutti i batteri. -lattoferrina una proteiniche lega il ferro rendendolo indisponibile al metabolismo batterico, azione batteriostatica. -MBP major basic protein: proteina cationica degli eosinofili con attività battericida limitata, ma citotossica per parecchi parassiti. -pH anche il pH acido dei fagosomi (da 3,4 a 4,0) ha un’azione batteriostatica. Gli enzimi lisosomiali sono di solito più importanti per la digestione e la degradazione dei germi già uccisi, che per la loro diretta uccisione. Una volta avvenuta l’uccisione, le idrolisi acide degradano i batteri all’interno del fagolisosoma. 7. Liberazione di sostanze flogogene ed istolesive Quando avviene la fagocitosi le perturbazioni della membrana e la formazione dei fagolisosomi provocano la fuoriuscita di varie sostanze quali: - enzimi lisosomiali - metabolici attivi derivati dall’ossigeno - prodotti del metabolismo dell’acido arachidonico Tali prodotti sono potenti mediatori dei fenomeni vascolari e cellulari dell’infiammazione e servono ad amplificare gli effetti dello stimolo infiammatorio iniziale. Inoltre possono provocare un danno tissutale. Il rilascio di tali sostanze può avvenire in 3 modi: a) Fagocitosi frustrata si verifica quando i leucociti, trovandosi su superfici lisce ed ampie quali l’endotelio dei vasi, vengono in contatto con particelle potenzialmente ingeribili, però a causa dell’ - 14 - ampia superficie, la fagocitosi non ha luogo e gli enzimi vengono rilasciati nell’ambiente circostante. b) Rigurgito dopo il pasto il fagocita rimane aperto verso l’ambiente esterno, per un periodo transitorio, mentre si fonde con i lisosomi. c) Distruzione dei fagociti se i fagociti muoiono i loro prodotti vengono rilasciati all’ esterno. Un esempio sono gli ascessi, in cui si ha distruzione dei tessuti a causa delle sostanze tossiche liberate dai neutrofili morti. I fagociti morendo rilasciano nel mezzo enzimi lisosomiali e radicali ossidanti con amplificazione della reazione infiammatoria. Mediatori chimici dell’infiammazione I mediatori chimici sono stati scoperti grazie all’osservazione dell’aspecificità degli eventi che si verificano duranti l’infiammazione acuta, si è ipotizzato l’esistenza di mediatori che una volta attivati, per varie vie provocassero effetti stereotipati. Per i mediatori chimici dell’infiammazione valgono alcuni principi generali: i mediatori sono sostanze chimiche derivanti dal plasma o dai tessuti possono essere neoformati, cioè sintetizzati al momento, o preformati, presenti in forma inattiva nel plasma o sequestrati all’interno di granuli intracellulari una volta sintetizzati, attivati o liberati hanno un emivita breve agiscono legandosi a specifici recettori delle cellule bersaglio talvolta possono esercitare effetti diversi a seconda delle cellule o dei tessuti su cui agiscono molti mediatori possono stimolare il rilascio o l’attivazione di altri mediatori, amplificando la loro azione quasi tutti sono potenzialmente dannosi. I mediatori possono essere riuniti in uno di questi gruppi: - 15 - - Proteasi plasmatiche sistema delle chinine sistema della coagulazione sistema della fibrinolisi sistema del complemento - Prodotti cellulari preformati amine vasoattive (istamina e serotonina) prodotti lisosomiali e dei granuli dei granulociti e dei macrofagi - Prodotti cellulari neoformati ossidi di azoto (NO) metabolici dell’acido arachidonico (prostaglandine e leucotrieni) metabolici reattivi dell’ossigeno (radicali ossidanti) fattore attivante le piastrine (PAF = platelet activating factor) citochine L’infiammazione cronica L’infiammazione cronica (istoflogosi) è un’infiammazione di lunga durata (settimane – mesi) in cui si prevalenza dei fenomeni cellulari, che coinvolgono soprattutto macrofagi, fibroblasti e neoangiogenesi, e in cui l’infiammazione attiva, la distruzione tessutale e i tentativi di riparazione (tessuto di granulazione) procedono simultaneamente. Le caratteristiche tipiche del processo infiammatorio cronico sono: 1. Infiltrazione di cellule mononucleate Le modificazioni vascolari sono modeste, la permeabilizzazione è molto minore rispetto a quella vista nell’infiammazione acuta. I monociti iniziano a migrare precocemente, già durante la fase acuta, entro 48 ore costituiscono il tipo cellulare predominante. Appena i monociti raggiungono lo spazio interstiziale, iniziano un processo di maturazione che li trasforma in cellule molto più grandi, con un metabolismo più elevato e con maggiori capacità microbicide: questi sono i macrofagi attivi. - 16 - Nelle infiammazioni acute di breve durata lo stimolo irritativi è eliminati rapidamente e questi macrofagi presto scompaiano, ma se lo stimolo non viene eliminato, come nel caso dell’infiammazione cronica, i macrofagi persistono. L’accumulo di macrofagi può avvenire in tre modi diversi, ciascuno dei quali predomina in differenti reazioni. • Richiamo di monociti dal sangue, grazie alla presenza continua di fattori chemiotattici come C5a, fibrinopeptidi, proteine cationiche dei neutrofili, linfochine, • Proliferazione locale dei macrofagi, per divisione mitotica. • Sopravvivenza prolungata ed immobilizzazione dei macrofagi entro il sito infiammatorio, tale meccanismo si attua quando gli stimoli irritanti sono di bassa virulenza, come lipidi inerti e particelle di carbone o sotto l’azione di particolari citochine (MAF, migration inhibiting factor). Il macrofago è l’elemento fondamentale dell’infiammazione cronica a causa del gran numero di prodotti biologicamente attivi che può produrre. Alcuni di questi sono altamente tossici per i tessuti (proteasi, metabolici reattivi dell’ossigeno e dell’ossido nitrico), altri influenzano altri tipi cellulari (citochine e fattori chemiotattici), altri ancora causano la proliferazione dei fibroblasti, la deposizione di collagene e l’angiogenesi (fattori di crescita). 2. Distruzione di tessuto Tutti gli effetti prodotti dai macrofagi attivati contribuiscono alla difesa dell’organismo contro invasori indesiderati, ma se l’attivazione dei macrofagi avviene in modo improprio, possono produrre una considerevole distruzione tissutale. 3. Proliferazione dei fibroblasti e dei piccoli vasi sanguigni 4. Aumento del tessuto connettivo I meccanismi che portano al reclutamento e alla proliferazione dei fibroblasti, alla proliferazione vascolare, e all’aumento del collagene con fibrosi, nell’infiammazione cronica, sono simili a quelli che contribuiscono alla riparazione delle ferite. - 17 - 1.1.3 CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO In psicologia per dolore cronico oggi s’intende generalmente un dolore che non accompagna una grave avvezione organica, come una neoplasia o una arteriopatia obliterante, con una durata di almeno sei mesi, deve essere continuo o intermittente, che si accompagna o no ad altre manifestazioni patologiche ed è senza alcun dubbio il sintomo più rilevante lamentato dal paziente6. Il dolore cronico, non legato ad un processo patologico, ma, ad esempio, causato dalla morte di una persona cara (lutto) può causare tre diversi disturbi della sfera psicologica della persona, e sono: il disturbo di conversione, il disturbo di somatizzazione e il disturbo da dolore somatoforme. Il disturbo di conversione. Si tratta di una categoria piuttosto generale che esclude giustamente i disturbi fisici che accompagnano l’attacco di panico e l’ansia. Il concetto freudiano di conversione ha una lunga gestazione e si rifà a Charcot, Janet e Briquet, e solo in un secondo momento diventa chiaro che si tratta di una malattia della reminescenza. Eventi passati rimossi nell’inconscio, accompagnati da emozioni intense mai espresse né scaricate, si manifestano come dolori, disturbi sensitivi, sensoriali, motori oppure con eventi mentali quali fughe del pensiero, amnesie, personalità multiple, stati alterati di coscienza, esperienze mistiche, ecc. Il sintomo si carica così di significato simbolico e può aiutare il terapeuta nella comprensione del malato. Le modalità di presentazione della sintomatologia sono sensibilmente cambiate nel tempo, dalle grandi crisi isteriche siamo passati a sintomi meno clamorosi e più sfumati, quali dolori muscolari diffusi, metereopatie, stanchezza cronica, alterazioni dell’equilibrio, disagi fisici non ben definiti, gonfiori addominali, disturbi del comportamento alimentare come anoressia e bulimia. Il disturbo di conversione è riconducibile alla sindrome di Briquet che comprende una vastissima lista di sintomi, tra cui ricordiamo solo quelli legati al dolore: cefalee, malessere abituale, anestesia, dolori toracici, dolori addominali, dismenorrea, dispareunia, lombalgia, dolori articolari, dolori alle estremità, bruciori dolorosi agli organi sessuali, alla bocca o al retto, altri dolori somatici. Per quanto riguarda l’eziopatogenesi, dal punto di vista psicodinamico si fa riferimento ai meccanismi di repressione e negazione che tentano di proteggere il paziente dalla sofferenza psichica acuta prodotta da circostanze esterne o dalla pressione di conflitti e sentimenti esacerbati dall’angoscia. Non si tratta quindi di una generica reazione allo stress ambientale, 6 “Malati di dolore” di Mauro Ercolani - 18 - ma di una espressione simbolica del conflitto. È da segnalare anche l’ipotesi neurofisiologia, che prevede un’eccessiva attivazione corticale in grado di disattivare i meccanismi inibitori discendenti. La sindrome insorge nella seconda, terza decade di vita, prevalentemente nel sesso femminile. Il disturbo di somatizzazione. È diffusa la convinzione che i fattori psicologici giochino, in questa sindrome, un ruolo fondamentale, anche se è doveroso segnalare un’incidenza familiare che può suggerire l’esistenza di fattori genetici o ambientali. Il disturbo non è raro in quanto compare nell’1-2% di tutta la popolazione femminile, mentre è più raro nei maschi, si presenta preferibilmente negli stadi medio-alti della popolazione, esordisce nella seconda o terza decade della vita. I pazienti con i disturbo di somatizzazione lamentano una quantità esagerata di disturbi, disfunzioni, alterazioni sensoriali, e hanno storie cliniche complicate, spesso intrecciate di racconti per sintomi di scarso interesse clinico mentre vengono sottovalutati, come offerti per meravigliare, gravi episodi in cui sembra essere stata in gioco la vita stessa. Si tratta comunque sempre di individui dipendenti, che ricercano attenzione ed ammirazione, con sentimenti di colpa mal celati ed estremamente manipolativi. La continua ricerca di cure mediche, nuove e spesso fantasiose, li rendono a rischio per complicanze iatrogene da uso improprio di medicinali, da manovre diagnostiche rischiose e non necessarie, da interventi chirurgici insistentemente richiesti ed inutili. Il decorso è quanto mai vario, il trattamento in genere inefficace, salvo i casi che traggono beneficio dalla psicoterapia, e la prognosi mai favorevole in quanto si tratta di una condizione cronica. Chi ha maggiori possibilità di successo è il medico preparato a reggere frustrazioni e impotenza che riesce ad impostare un rapporto di fiducia, duraturo e coinvolgente. I sintomi classici di questo disturbo sono: ¾ Sintomi gastrointestinali: vomito non durante la gravidanza, dolore addominale non durante le mestruazioni, nausea non da mal di moto, aerofagia, diarrea, intolleranza a numerosi cibi. ¾ Sintomi dolorosi: dolori alle estremità, mal di schiena, dolori articolari, minzione dolorosa, altri dolori escluso la cefalea. ¾ Sintomi di conversione o pseudo-neurologici: amnesia, difficoltà di deglutizione, perdita della voce, sordità, diplopia, ambliopia, visione confusa, cecità, svenimenti e - 19 - perdita di coscienza, epilessia o convulsioni, difficoltà alla deambulazione, paralisi o debolezza muscolare, ritenzione di urina o problemi di minzione. ¾ Sintomi sessuali presenti per la maggior parte della vita del soggetto, pur in presenza di occasione per una normale attività sessuale: sensazione di bruciore agli organi genitali o all’ano (al di fuori del coito), dolori duranti il coito e impotenza. ¾ Sintomi genitali femminili: mestruazioni dolorose, irregolarità mestruali, eccessivo sanguinamento mestruale, vomito gravidico. Il disturbo da dolore somatoforme Tale disturbo era chiamato precedentemente disturbo da dolore psicogeno o idiomatico. Si tratta di un gruppo vasto ed eterogeneo che comprende dolori in ogni parte del corpo, che coinvolgono sistemi diversi e dalla più svariata origine, con o senza patologia psichiatrica associata. Corrisponde per molti versi al disturbo di conversione, ma la sintomatologia è di tipo fisico e limitata al dolore. Il sintomo dolore è senza dubbio quello presentato più frequentemente dai pazienti della medicina di base e anche nella maggior parte delle specialità mediche e chirurgiche. È lamentato più frequentemente dalle donne, tra i 30 e i 50 anni, e non raramente l’incidenza è familiare. I pazienti negano in genere ogni problema di tipo psicologico e asseriscono con sicurezza che se non vi fosse il dolore la loro vita sarebbe felice. La depressione, valutata con colloqui e strumenti psicometrici validati, va, a seconda degli studi, da un minimo del 25% ad un massimo del 100%. I sintomi non sono gli stessi della depressione maggiore. Qui prevalgono astenia, irritabilità, disturbi del sonno, anedonia, problemi sessuali e difficoltà relazionali. Il dolore compare già nell’adolescenza o negli anni seguenti per attenuarsi di solito nell’età avanzata. Di solito il dolore somatoforme non presenta variazioni regolari o ritmate, ma sembra essere dipendente da influenze interne ed esterne. Nel DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) il dolore cronico viene denominato disturbo algico e fa parte dei disturbi somatoformi, la cui caratteristica comune è la presenza di sintomi fisici che fanno pensare a una condizione medica generale e che invece non sono significati da essa, dagli effetti diretti di una sostanza o da una altro disturbo mentale. I sintomi devono causare un significativo disagio o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree; non sono intenzionali, cioè sotto il controllo della volontà. Il disturbo algico è caratterizzato dal dolore come punto focale e principale dell’alterazione clinica e risulta di gravità sufficiente per richiedere un’attenzione clinica. Inoltre vi è motivo di ritenere che qualche fattore psicologico abbia un ruolo importante nell’esordio, nella - 20 - gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore. Il dolore può sconvolgere gravemente vari aspetti della vita quotidiana: disoccupazione, invalidità e problemi familiari si incontrano frequentemente tra gli individui con forme croniche di disturbo algido. Si possono sviluppare dipendenza o abuso iatrogeno di analgesici o benzodiazepine. I soggetti i cui dolori sono associati a depressione grave presentano un rischio di suicidio aumentato. Il dolore può portare ad inattività ed isolamento sociale, il che a sua volta può causare problemi psicologici aggiuntivi e una riduzione della resistenza fisica, stanchezza e dolori aggiuntivi. Il disturbo algico può manifestarsi a qualunque età: le femmine sono più colpite dei maschi; è di riscontro abbastanza comune. 1.2 IL DOLORE CRONICO Il dolore è considerato un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale presente o potenziale oppure descritta come tale. Il dolore è sempre soggettivo. Ognuno di noi una soglia di dolore bene definita; ma che cos’è la soglia del dolore? La soglia del dolore viene definita come la più piccola esperienza di dolore che un soggetto è in grado di riconoscere; nel dolore cronico questa soglia è costantemente superate, comportando al paziente un continuo malessere generale. Quanti tipi di dolore sono presenti oggi? Sono due, il dolore acuto e il dolore cronico. Il dolore acuto è provocato dal danno tessutale, comprende anche uno stato tonico che persiste per periodi variabili fino alla guarigione; maggiore è il danno, maggiore è la risposta comportamentale, anche se è più costante l’equivalenza; maggiore è l’ansia, maggiore è la risposta di dolore; più tempo dura lo stress, più il dolore diventa intollerante ed angosciante. Il dolore cronico persiste oltre il tempo richiesto per la guarigione e che provoca un impatto considerevole sul benessere e sull’adattamento sociale del paziente. Più a lungo persiste il dolore , più probabile è lo svilupparsi di un comportamento caratterizzato da depressione, paura, preoccupazione, irritazione, ostilità e dipendenza. Nel dolore cronico, il dolore fisico tende a diventare un indesiderato compagno di viaggio, che non abbandona mai i pazienti e che li rende estremamente più difficile condurre una vita quotidiana normale; così ogni atto anche banale della loro giornata, come uscire, mangiare, lavorare, riposarsi, frequentare persone, può diventare un peso a volte insostenibile; cominciano a rinchiudersi sempre di più in loro stessi, ad evitare i rapporti con gli altri, a non - 21 - dormire più; i pensieri sono sempre più incentrati su questi problemi e non gli sembra più possibile trovare una via di uscita, gli altri ed anche le persone a noi più vicine, sembrano non riuscire più a capirli. In altre parole può svilupparsi in certi casi e senza che loro se ne accorgano, una vera e propria reazione depressiva, che è la diretta conseguenza di tutte le limitazioni ed i fastidi provocati dal dolore continuo; a questo punto il dolore fisico non è più solo, ma si accompagna ad un dolore più profondo ed inquietante, un misto di angoscia, tristezza, paura, a cui spesso è impossibile attribuire una specifica motivazione; diventerà così sempre più difficile distinguere tutti i disagi dovuti alla percezione del dolore fisico vero e proprio e quelli invece derivati da questi aspetti depressivi, che vanno progressivamente ad aumentare, tendendo anch’essi a cronicizzarsi e trasformandosi in una vera e propria malattia a se stante; si crea quindi una sorta di meccanismo di amplificazione reciproca dei due aspetti suddetti, quello fisico e quello psicologico, con la creazione di un circolo vizioso che tende a peggiorare progressivamente entrambe le componenti7. Il dolore cronico può essere definito,come ho già detto, come un dolore che si protrae oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto. Tale dolore può perdurare indefinitamente. Il dolore che non scompare malgrado trattamenti adeguati viene detto dolore non trattabile. Le condizioni tipiche del dolore cronico sono: Osteoartrite·Artrite reumatoide; Lombalgie e dolori delle spalle e del collo; Cefalee, compresa l’emicrania; Dolore neoplastico; Sindromi da dolore delle fasce muscolari; Dolori post-toracotomici; Dolore neuropatico; Herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio) e nevralgie poste-erpetiche; Nevralgie del trigemino; Neuropatia diabetica; Disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare; Dolori post-mastectomia; Angina pectoris; Dolori da arto fantasma. Ora parliamo dell’incidenza che ha il dolore cronico a livello europeo e dei costi che comporta ogni anno agli Stati europei. 7 www.salutedonna.it data 05-08-2007 - 22 - Oltre a causare indicibili sofferenze a milioni di pazienti di tutto il continente europeo, il dolore cronico lacera il tessuto sociale ed economico della nostra cultura. Non esistono a tutt'oggi cifre esaurienti a livello paneuropeo che delineino l'influenza delle varie sindromi da dolore cronico e il relativo costo per la società. Ricercatori di vari paesi hanno tuttavia iniziato a raccolgiere informazioni sulla sua natura, illustrando l'entità della sofferenza dovuta al dolore cronico. Occorre notare che le cifre variano in funzione della definizione di dolore utilizzata e delle domande specifiche poste alle persone intervistate. Quadro sinottico dei risultati degli studi disponibili : - In uno studio sulla diffusione del dolore persistente svolto in Danimarca, i ricercatori hanno riscontrato che il 38% circa della popolazione soffre di dolore cronico (Andersen e WormPedersoen 1989). - Nel 1995, uno studio mirato a quantificare il costo totale del dolore cronico non di origine tumorale per l'economia irlandese ha stimato che un campione di 95 pazienti aveva già comportato un onere di 1,9 milioni di sterline al momento dell'invio a una clinica multidisciplinare di trattamento del dolore (Sheenan et al.1996). - Un'indagine epidemiologica svolta in Svezia ha riscontrato che il 45% di tutti gli adulti ha provato forme di dolore ricorrente o persistente e l'8% dolore grave e persistente (von Korff et al. 1990). - Un'indagine svolta in Gran Bretagna ha rilevato che il 7% di un vasto gruppo di adulti intervistati in un dato momento era soggetto a un livello di dolore rilevante (Bowsher et al. 1991). - In una recente analisi dei pazienti indirizzati a un centro danese per il trattamento del dolore, quest'ultimo era pari in media a 7 su una scala fino a 10, la qualità della vita risultava gravemente ridotta, il 58% dei pazienti presentava depressione o disturbi ansiosi, il 63% era soggetto a dolori neuropatici e il 73% dei pazienti assumeva derivati dell'oppio al momento dell'ingresso nel centro, benché essi non fornissero un sollievo adeguato dal dolore. Lo studio - 23 - ha mostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da dolore cronico non di origine tumorale è fra le più basse riscontrate in tutte le condizioni mediche.(Becker et al.1997). - Il dolore neuropatico (definito in modo classico) affligge tra il 25 e il 50% dei pazienti della maggior parte delle cliniche di trattamento del dolore (Bowsher 1991). - Nel Regno Unito, iI costi annuali relativi (soltanto) al male di schiena e alla sciatica ammontano attuallmente a 9 miliardi di Euro, mentre 1 miliardo di Euro viene speso ogni anno per l'assistenza sanitaria diretta (Waddell 1996). - Uno studio svolto nei Paesi Bassi ha rilevato che le patologie muscolo-scheletriche rappresentano la quinta categoria in ordine di costo sotto il profilo dell'assistenza ospedaliera e la più costosa dal punto di vista dell'assenteismo e dell'invalidità lavorativi (1,7% del PIL) (van Tulder et al. 1995). - Si riscontra dolore nel 50% dei pazienti affetti da tumori (a tutti gli stadi) e nel 75% dei pazienti con neoplasie avanzate. Ogni anno in Inghilterra e nel Galles oltre 100.000 provano dolore al momento del decesso (Higginson 1997). - Uno studio condotto in Catalogna (Spagna) ha identificato una diffusione del dolore pari al 78,6% in risposta a un'intervista telefonica che richiedeva se si fossero lamentati dolori nei precedenti 6 mesi, indipendentemente dalla loro intensità e durata (Bassols et al. 1999). - Si stima che nei Paesi Bassi il costo totale del dolore al collo nel 1996 sia stato pari a 686 milioni di dollari USA (Borghouts et al. 1999). - Un sondaggio effettuato per posta in Svezia ha rilevato che riferiva di avere provato dolore o fastidio, compresi problemi di breve durata, il 66% delle persone coinvolte, mentre il 40% ha dichiarato di avere sofferto di 'chiari' dolori di durata superiore a 6 mesi. (Brattberg et al. 1989). Un vasto studio epidemiologico del dolore cronico svolto nella zona di Grampian, in Gran Bretagna, ha riscontrato che il 50% delle persone coinvolte ha dichiarato di provare dolore o fastidio cronici , per il 16% con male di schiena e per il 16% con artrite. Nel 16% dei casi - 24 - oggetto dell'indagine, il dolore cronico era grave. (Elliott et al. 1999). Per lo studio della diffusione (o dell'incidenza) del male di schiena occorrono metodologie più rigorose, sistematiche e uniformi - I dati di uno studio svolto in Svezia indicano che il dolore alla colonna vertebrale è molto comune fra gli uomini e le donne di età compresa fra 35 e 45 anni, e che esso è associato a marcate limitazioni dello stile di vita per circa un quarto di coloro che lo provano (Linton et al. 1998). - Uno studio dei costi socioeconomici delle sindromi da dolore nel Regno Unito stima che il costo per l'assistenza sanitaria diretta sia stato pari nel 1998 a 1,6 miliardi di sterline. Tale costo diretto è tuttavia insignificante rispetto al costo delle cure informali e delle perdite di produzione ad esso associate, il cui ammontare totale è pari a 10,7 miliardi di sterline. Nel complesso, il male di schiena è una fra le condizioni mediche più costose (Maniadakis e Gray A2000). - Uno studio condotto di recente in Finlandia ha riscontrato che, su un campione di 5646 visite di pazienti ai servizi sanitari di base , il dolore veniva identificato come ragione della visita nel 40% dei casi. Un quinto dei pazienti ha dichiarato di provare dolore da oltre sei mesi. Un quarto dei pazienti in età lavorativa affetti da dolore usufruiva di mutua pagata (Mãntyselk? et al. 2001). - I risultati di uno studio svolto nei Paesi Bassi indicano che il dolore cronico è anche comune nell'infanzia e nell'adolescenza (Perquin et al. 2000). L'impatto del dolore cronico, tuttavia, non deve essere esaminato soltanto in termini economici. In Europa, il dolore cronico presenta gravi effetti negativi sulla qualità della vita di milioni di persone che ne soffrono, nonché su quella dei loro familiari. In mancanza di trattamenti adeguati , coloro che soffrono di dolore cronico sono spesso inabili al lavoro o addirittura incapaci di svolgere i compiti più semplici. Di conseguenza, i pazienti affetti da dolore cronico sono spesso soggetti a privazioni psicosociali e fisiche, compresa una - 25 - nutrizione inadeguata con perdita di peso, una riduzione dell'attività, disturbi del sonno, isolamento sociale, problemi coniugali, disoccupazione e problemi finanziari, ansia, paura e depressione8. Penso che sia doveroso fare almeno un accenno sul dolore cronico in ambito oncologico visto che sono sempre di più i pazienti che soffrono di tumore e sono sempre di più anche coloro che sono afflitti da questa “malattia”. Il Dolore Cronico Oncologico (DCO) è definito comunemente, da chi ne soffre e da chi cerca di curarlo, come “dolore globale”. Tale definizione è motivata dal fatto che le componenti che influiscono sulla sofferenza di chi è portatore del DCO sono molteplici: fisica-organica, psicologica, economico-sociale, esistenziale-spirituale. Pertanto, anche un tentativo di affronto e di risposta a chi di questo tipo di dolore è portatore, deve cercare di essere “globale”: questa è la filosofia delle Cure Palliative, in cui ad una rigorosa competenza clinica e scientifica, si deve accompagnare una capacità di presenza e di alleanza relazionale medico- (o operatore-sanitario-, visto che altra peculiarità delle cure palliative è l’approccio multiprofessionale) - paziente. Naturalmente un approccio terapeutico appropriato è, anche se non sufficiente, assolutamente necessario per consentire una assenza o almeno un livello tollerabile di dolore fisico. Quando si dice che il dolore diventa una “sindrome” esso stesso, e non solo un sintomo, si vuole sottolineare l’estrema importanza di affrontare il dolore in modo sistematico; non bisogna giungere, però, ad estrapolare il dolore dalla causa sottostante, perché in questo modo si corre il rischio di non sfruttare compiutamente tutte le risorse terapeutiche a disposizione, a partire dagli effetti palliativi delle terapie anti-tumorali. Chi si occupa di DCO deve conoscerne le più dettagliate caratteristiche: 8 www.aisd.it data 05-08-2007 - 26 - - la frequenza, oscillante dal 50 al 75% dei pazienti, a seconda della fase di malattia sulla quale si punta l’attenzione, e difforme a seconda degli organi colpiti; - i meccanismi di formazione, trasmissione e percezione del dolore, diversi a seconda che vengano coinvolti prevalentemente organi o nervi (più spesso sono presenti contemporaneamente ambedue i meccanismi); - le modalità di presentazione (il dolore in pazienti oncologici può essere suddiviso in acuto, cronico, o acuto insorgente su dolore cronico); - i modi e gli strumenti di valutazione del DCO: la sua rigorosa e sistematica valutazione rappresenta una condizione necessaria ad un corretto trattamento. I “Progetti Ospedale Senza Dolore” iniziati su tutto il territorio nazionale hanno l’obiettivo di inserire la rilevazione del dolore nella cartella clinica, come per la valutazione sistematica di parametri vitali, quali la pressione o la temperatura; - bisogna sapere il dolore si esprime in modo peculiare in gruppi particolari di pazienti (bambini, anziani, persone non cognitivamente adeguate) e che in ogni persona può comparire più di una sindrome dolorosa, provocata da motivi diversi; - per quanto riguarda il trattamento del dolore, un innalzamento del livello assistenziale e terapeutico necessita di uno stretto collegamento con la ricerca, sia quella di base, che, soprattutto, quella applicata (“traslazionale”), che dal laboratorio trasporti sull’uomo i propri risultati (vedi recenti ipotesi di variabilità individuale di risposta ai farmaci oppioidi sulla base del profilo genetico)9. 9 www.ail.it/terepia-dolore/04.asp data 05-08-2007 - 27 - LA MUSICA E IL DOLORE CAPITOLO 2: LA MUSICOTERAPIA Introduzione: che cosa è la musicoterapia Cos’è la musicoterapia, o meglio, cosa e quante sono “le musicoterapie”? Già, perché il concetto di musicoterapia è molto ampio, ha implicazioni molto vaste e si riferisce ad ambiti operativi profondamente differenti tra di loro. Associazione Professionale dei Musicoterapeuti della Gran Bretagna www.roehampton.ac.uk La musicoterapia è una forma di trattamento in cui s’instaura un mutuo rapporto fra paziente e terapeuta, che permetta il prodursi di cambiamenti nella condizione del paziente e l’attuazione della terapia. Il terapeuta lavora con una varietà di pazienti, sia bambini che adulti, che possono avere handicap emotivi, fisici, mentali o psicologici. Attraverso l’uso della musica in maniera creativa in ambito clinico, il terapeuta cerca di stabilire un’interazione, un’esperienza ed un’attività musicale condivise che portano al perseguimento degli scopi terapeutici determinati dalla patologia del paziente. Associazione Canadese di Musicoterapia www.musictherapy.ca La musicoterapia è "l’uso della musica per favorire l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell'individuo e l’uso della musica nella cura di malattie e disabilità. Può essere applicata a tutte le fasce d’età, in una varietà di ambiti di cura. La musica ha una qualità non – verbale, ma offre un’ampia possibilità d’espressione verbale e vocale. Come membro di un’équipe terapeutica, il musicoterapeuta professionista partecipa all’accertamento dei bisogni del cliente, alla formulazione di un approccio e di un programma individuale per il cliente e poi offre specifiche attività musicali per raggiungere gli scopi. Valutazioni regolari accertano ed assicurano l’efficacia del programma. La natura della musicoterapia amplifica l’approccio creativo nel lavoro con gli individui handicappati. La musicoterapia fornisce un approccio umanistico possibile che riconosce e sviluppa le risorse interne del cliente spesso non sfruttate. I musicoterapeuti desiderano aiutare l’individuo per spingerlo verso un migliore concetto di sé, e, nel senso più ampio, per far conoscere ad ogni essere umano le proprie maggiori potenzialità". Associazione Nazionale di Musicoterapia U.S.A. www.musictherapy.org La musicoterapia è "l’uso della musica nella realizzazione degli scopi terapeutici: il ristabilimento, il mantenimento e il miglioramento della salute mentale e fisica: E’ l’applicazione sistematica della musica, diretta dal musicoterapeuta in un ambito terapeutico, per portare i cambiamenti desiderati nel comportamento. Tali cambiamenti permettono all’individuo di affrontare la terapia per arrivare ad una maggiore comprensione di sé e del mondo intorno a lui, e di ottenere quindi un più adeguato adattamento alla società. Come membro della squadra terapeutica il musicoterapeuta professionista prende parte all’analisi dei problemi dell’individuo e alla formulazione degli obiettivi del piano generale di trattamento, prima di progettare ed elaborare specifiche attività musicali. Valutazioni periodiche vengono fatte per determinare l’efficacia delle procedure impiegate". 28 LA MUSICA E IL DOLORE Federazione Mondiale di Musicoterapia www.psychotherapie.org/MUTIG/wfmt.html La Musicoterapia è l'uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo,melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un cliente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione, la relazione, l'apprendimento, la motricità, l'espressione, l'organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La Musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell'individuo in modo tale che il paziente o la paziente possano meglio realizzare l'integrazione intra e interpersonale e consequenzialmente possano migliorare la qualità della loro vita grazie ad un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico. Ho pensato fosse utile iniziare questa spiegazione con una breve quanto importante rassegna internazionale di definizioni di musicoterapia; ne aggiungo una ulteriore derivante dall’analisi della realtà italiana effettuata da uno dei capo scuola della musicoterapia nazionale: la musicoterapia è una tecnica, mediante la quale varie figure professionali, attive nel campo della educazione, della riabilitazione e della psicoterapia, facilitano l’attuazione di progetti d’integrazione spaziale, temporale e sociale dell’individuo, attraverso strategie di armonizzazione della struttura funzionale dell’handicap, per mezzo dell’impiego del parametro musicale; tale armonizzazione viene perseguita con un lavoro di sintonizzazioni affettive, le quali sono possibili e facilitate grazie a strategie specifiche della comunicazione non verbale (Postacchini, 1995). E’ evidente quanto una definizione di questo tipo possa risultare, ad un primo approccio, ampia e complessa, come d'altronde lo è la disciplina di cui tratta; nonostante tutto, mi è sembrato giusto partire da una sorta di fotografia del panorama esistente, in modo da poter in seguito riprendere, in maniera analitica, ognuna delle affermazioni in essa contenute. La competenza professionale e il rigore metodologico da un lato, e dall’altro quest’attitudine naturale alla “amorevolezza”, che nel caso specifico hanno reso la ricerca e la ricostruzione del senso originario di un’opera d’arte un obiettivo desiderabile, costituiscono la base di un comune sentire che riguarda professionalmente i musicoterapeuti. Infatti, chiunque operi nel campo dell'handicap, psichiatra, neuropsichiatra infantile, psicologo, educatore, terapista della riabilitazione, viene a trovarsi in una circostanza affatto simile: deve compiere un grande sforzo, in termini di competenza e amorevolezza, per cogliere il senso profondo di una verità nascosta che sembra difficile da raggiungere e che, in qualche caso, è soltanto possibile o potenziale. Il grande sforzo degli operatori è allora quello di cercare (se già c’è), o favorire un’armonia interna della persona, sintonizzandosi su se stessa, per consentire, laddove la comunicazione è interrotta, di instaurarsi una qualche forma di relazione. 29 LA MUSICA E IL DOLORE Si potrebbe quindi stilare, sulla scia delle considerazioni fin qui esposte, un primo parziale tentativo di risposta al quesito iniziale: la musicoterapia è una modalità terapeutica atta a favorire la costruzione di relazioni, nelle quali vengono messe in gioco, da parte degli operatori, competenze tecniche, culturali ed umane, mentre da parte di coloro che ricevono, viene messa in gioco la disponibilità a farsi conoscere. Parlerò di deficit (inteso come risultato quantificabile di un danno neurologico, psichico, sociale) e di handicap (inteso come complicanza prevedibile del deficit), con la prospettiva e lo finalità, nei confronti di quest’ultimo, di poterlo prevenire ed, utopisticamente, eliminare. Sicuramente la qualità del deficit è un dato importante: una cosa è avere a che fare con un deficit sensoriale, un’altra cosa è trattare un danno motorio; un conto è una non disponibilità a comunicare, un altro conto è l’impossibilità organica di comunicare. Ma ciò che mi consente di articolare il lavoro, è anche la conoscenza approfondita della struttura dell’handicap. Questa considerazione può integrarsi alla prima e costituire una seconda parziale risposta alla domanda iniziale: la musicoterapia, al pari delle altre arti-terapie, con i parametri che le sono propri, tende a costruire le azioni nelle quali può essere chiarita la struttura dell’handicap e ne può essere approfondita la conoscenza. Attraverso un lavoro fondato su processi di interazione empatica profondamente partecipata definite sintonizzazioni, diviene possibile facilitare la comunicazione (verbale o non verbale), la qualità dell’apprendimento e la disponibilità affettiva. Le terapie artistiche, attraverso il segno grafico, la danza, la musica, ecc., non fanno altro che articolare il linguaggio del corpo (dal sensoriale, al percettivo, al mentale) attraverso un lavoro di sintonizzazione progressiva con le strutture fondamentali del comportamento. Quello che caratterizza il movimento delle arti-terapie è infatti la coesistenza di un processo estetico da una parte, con un processo rieducativo-terapeutico dall’altra parte. Lo scopo degli arte-terapeuti, naturalmente, non è quella di costruire o elaborare opere d’arte; malgrado ciò, nella loro modalità di operare esiste una qualità estetica che può essere relativa ai parametri e ai materiali utilizzati, o alla loro modalità di elaborazione. Quando tra il 1511 e il 1516 fu commissionata a Matthias Grunewald la pittura del trittico dell’altare maggiore della chiesa Monastica di Sant’Antonio ad Isenheim, attualmente smembrato e diviso tra varie sedi, nella committenza di questa opera era compreso il fatto che la chiesa si trovasse collocata presso un ospedale e pertanto veniva richiesto all’autore di questa Crocifissione di tenere presente che l’opera sarebbe stata esposta a persone sofferenti. Di fatto le ricostruzioni storiche consentono di dire che in un primo momento, quando i malati venivano accompagnati nella parte di fondo della chiesa, il trittico appariva chiuso. 30 LA MUSICA E IL DOLORE Successivamente i malati venivano avvicinati all’altare maggiore e durante il percorso il trittico veniva aperto, esponendone le sue varie parti. Durante la cerimonia venivano proposte a storpi, sordi, cerebropatici, affetti da lebbra e da altre malattie infettive gravi, che caratterizzavano le patologie di quel tempo, esperienze drammatiche ed emotivamente intense, tali da suscitare reazioni catartiche profondamente liberatorie, anche se non terapeutiche nella stretta accezione del termine. Vi era quindi un fondo di intenzionalità curativa da parte di chi proponeva tali esperienze, e che la catarsi possa essere liberatoria è un concetto che ritroviamo anche nella medicina moderna: per esempio è alla base della fondazione della stessa psicoanalisi. Nel corso della cerimonia venivano anche eseguite musiche. Di queste non abbiamo documenti storici diretti, ma possiamo ipotizzare che fossero state composte da musicisti del tempo e che si trattasse di musica prevalentemente corale. La commissione dell’opera contemplava il fatto che fosse destinata a pazienti; si trattava pertanto dell’intenzione di evocare e regolare emozioni attraverso l’arte, e non già di un’esperienza occasionalmente artistica. Nell’agire musicoterapico, si compie qualche cosa di relativamente simile; si utilizzano musiche già costruite, o ci si sforza di comporne all’interno della situazione nella quale si lavora, in maniera tale che siano adatte allo scopo che ci si era prefissi. La musicoterapia si occupa dunque della costruzione intenzionale di relazioni comunicative a fini terapeutici, attraverso l’impiego di due distinti elementi: a) la relazione: per lo sviluppo di questa ci si può avvalere certamente di attività musicali, ma anche di altre pratiche espressive; b) la musica: l’obiettivo sarà quello di realizzare attraverso di essa una forma di comunicazione non verbale. Si deve prendere atto di una realtà che non sempre si riconosce in quella visione dinamica del rapporto tra elementi musicali ed elementi relazionali. Mi è sembrata pertanto utile una schematizzazione che vedesse distinte da un lato le attività in cui l’elemento predominante è quello relazionale, in cui sono prevalentemente i terapeuti ad operare, e dall’altro le attività in cui l’elemento predominante è invece quello musicale, situazione in cui sono i musicisti, coloro che si trovano più frequentemente chiamati in causa. Si viene così a delinearsi quella situazione descritta in maniera molto efficace da Bruscia (1989), attraverso l’uso differenziato dei caratteri maiuscolo e minuscolo: con MUSICO-terapia egli indica infatti quella attività svolta prevalentemente dai musicisti, mentre utilizza il termine musico-TERAPIA per riferirsi 31 LA MUSICA E IL DOLORE a quella prevalentemente svolta dai terapeuti. In ambedue i casi, comunque, si strutturerà un tipo di relazione in cui lo sviluppo di emozioni profonde assume notevole importanza. Questo emergere, a volte anche tumultuoso, delle emozioni, non è di per sé terapeutico, e utile ai fini del trattamento, e può anche risultare pericolosamente regressivo; di questo fatto occorrerà tenere conto. Quindi, le modalità attraverso le quali queste emozioni verranno liberate, o ne sarà facilitata l’analisi introspettiva, non saranno indifferenti. A tale riguardo, si può fin d’ora operare una distinzione: da un lato vengono collocate le pratiche più tipicamente magiche o sciamaniche, in cui l’azione terapeutica viene assolta in maniera misteriosa dal suono, ed in cui, quindi, il controllo di ciò che accade da parte di chi pratica il rito può essere ritenuto solo parziale, ed il ruolo di chi ne beneficia quasi del tutto passivo; dall’altro lato vengono sistemate le pratiche più scientifiche, aventi l’obiettivo di raggiungere la consapevolezza di un essere umano. Beninteso, il discorso sui rapporti fra magia, rito ed eventi terapeutici non può certo esaurirsi in questi rapidi accenni, se solo si pensa all’importanza storica di certe pratiche popolari come il tarantismo, di cui ha magistralmente scritto De Martino (1961), o alle più recenti valutazioni sugli stati di possessione e di trance compiute da Lapassade (1990),. L’importanza della componente di suggestione nel rapporto di transfert e il valore catartico di certi rituali codificati attraverso i secoli nelle varie culture magico religiose, sono elementi che non possono certo essere trascurati quando si affronta il problema di “cosa” ha funzionato in un intervento terapeutico, e che solo un malinteso dogmatismo scientifico ha creduto di poter rimuovere. Bisogna affrontare, il problema della vita psichica dal versante “scientifico”, senza però rinunciare alla consapevolezza che certe acquisizioni scientifiche nel campo dell’attività mentale e dei fenomeni correlati rimandano spesso ad altre conoscenze non scientifiche, che si sono formate in tutt’altro modo e che, secondo me, devono accedere ad una possibilità di confronto, se l’obiettivo è quello di raggiungere una visione più integrata, anche se mai definitivamente esaustiva, di quella che si potrebbe definire la “realtà dell’anima”. Fatte tali premesse, mi concentrerò quindi sugli interventi che si propongono di raggiungere un certo livello di consapevolezza da parte del paziente. Consapevolezza è in questo caso un vocabolo che rappresenta quel metodo scientifico con cui mi sforzo di operare; rimane tuttavia una parola molto complessa in questo contesto, sulla quale bisogna intendersi, e che cercherò di chiarire utilizzando il concetto di sintonizzazione. Se consapevolezza significa, nel senso comune del termine, essere informati, essere a conoscenza, occorrerà immaginare di stabilire una comunicazione tra l’operatore e l’utente, 32 LA MUSICA E IL DOLORE attraverso la quale veicolare, nelle due direzioni, la concordanza di un progetto, la coincidenza d’intenzioni, la propria disponibilità; ma in caso di handicap molto gravi non potremo mai immaginare di stabilire una comunicazione in tempi e modi “normali”. Potremo immaginare soltanto di individuare ed utilizzare al meglio i canali sensoriali che risultano attivi per quella persona. Per esempio, non è detto che una persona con gravi deficit veda con gli occhi, così come non è detto che ascolti realmente con le orecchie. Nelle gravi condizioni di psicosi e di insufficienza mentale gli occhi possono essere in parte utilizzati al posto delle orecchie, o viceversa. Analogamente la pelle può svolgere funzioni simili vicariando altri analizzatori sensoriali.10 Risulta allora chiaro che non è indifferente, ai fini dello sviluppo della relazione, se una persona con gravi deficit che usa gli occhi come orecchie interagisce con un educatore il quale usa gli occhi come occhi. Il differente impiego di strategie percettive può comportare, da parte dell’operatore, pregiudizi e resistenze nello sviluppo di una relazione terapeutica, se egli non riuscirà a operare, per dirla con Schneider, con quella fusione di udito e vista che gli antichi cinesi definivano “luce degli orecchi”. Il fine del lavoro terapeutico non può essere quello di portare le persone dove vogliamo, o renderle simili a noi, pur essendo questa una tendenza naturale e comprensibile, ma l’obiettivo dovrebbe essere invece il portare queste persone il più vicino possibile a quello che esse effettivamente sono. Questa è la difficoltà di sintonizzarsi con le strutture dell’handicap grave. Tale difficoltà, a prima vista insuperabile e non risolvibile, non appare poi così “disumana” se solo proviamo a pensare alle sintonizzazioni precoci delle mamme con i loro bambini che sono esattamente della stessa natura. I neonati non hanno un linguaggio articolato, piangono e con questo comunicano ogni loro bisogno; se hanno fame, se hanno freddo, se sentono rumore o se desiderano altre cose. Occorre allora fare uno sforzo di decodificazione: anche i neonati sono in fondo “animali fantastici” come quelli ricostruiti da Schneider; bisogna interpretarli. A volte questo sforzo è difficile, si può procedere per prove ed errori. Il compito di un operatore alle prese con un handicap grave è esattamente lo stesso. L’obiettivo difficile, a volte anche frustrante, è proprio quello di trovare un canale di sintonizzazione con la modalità principale di comportamento di quella persona, cosa questa che può risultare ulteriormente ostacolata dagli effetti dell’educazione, la quale a volte maschera, più di quanto non aiuti a conoscere le autentiche componenti profonde della personalità. L’area in cui si cercherà questo canale di sintonizzazione è quello della comunicazione non verbale (Ricci Bitti-Caterina, 1990). Siamo certamente in una situazione di responsabilità morale di estrema delicatezza e profondità. Un esempio: se un educatore si trova a operare con i parametri musicali in una relazione educativa 10 Ciò costituisce la norma nei primi anni di vita, a causa della complessiva immaturità del Sistema Nervoso e torna in certa misura ad esserlo nelle situazioni di handicap neuro-psichico grave. 33 LA MUSICA E IL DOLORE “difficile” potrebbe scoprire, da parte della persona con la quale sta operando, una certa consuetudine ad usare suoni di una determinata intensità, durata e velocità. La valutazione di questi elementi può rivelarsi utile per delineare alcuni aspetti di personalità. Per esempio, suoni di elevata velocità, breve durata e di bassa intensità, hanno una forte componente sinestesica, portata a caratterizzare suoni piccoli, forme piccole. Se però si mantengono costanti i due parametri velocità e durata e si eleva l’intensità, non si passa al suono grande, che sarebbe ancora pertinente al simbolismo sinestesico, ma al delineamento di una qualità morale e di un tratto di personalità, l’aggressività, che è pertinente al piano del simbolismo fisiognomico. Questo è un primo accenno a quelli che considero alcuni degli elementi fondanti la metodologia d’intervento basata sulla consapevolezza. Tale consapevolezza trova nelle sintonizzazioni uno strumento di comunicazione e di condivisione, anche in quei casi di handicap psicofisico così grave da far pensare, ad un primo impatto, proprio alla impossibilità di utilizzo di una strategia fondata sulla consapevolezza. Il semplice presentare alcuni esempi ha portato alla luce un’altra questione centrale: la difficoltà osservativa e formativa di un operatore il quale debba acquisire dimestichezza con gli elementi che abbiamo visto essere in gioco e con il loro impiego nella costruzione di una relazione. Varie sono le persone che si occupano in qualche maniera di musicoterapia: insegnanti, riabilitatori (o terapisti), e terapeuti nel senso più strettamente psicoterapico del termine. Sono figure professionali diverse, hanno curriculum formativi completamente distinti, operano in condizioni diversificate. D’altra parte pare ovvio che un percorso formativo in musicoterapia non possa, né debba, né voglia ambire a formare insegnanti piuttosto che psicoterapeuti. Pare altresì di dover e poter identificare un percorso formativo in grado di costruire una professionalità specifica, peculiare, come quella del musicoterapeuta. Questo passaggio mi pare indispensabile per la chiarezza degli interventi e dell’identità degli operatori, oltre che logica premessa all’eventuale identificazione e riconoscimento di una professionalità musicoterapica da parte del legislatore (Piatti, Postacchini, 1991). Gli insegnanti restano insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione psicologica e parimenti gli psicoterapeuti ed i riabilitatori mantengono la propria identità professionale, anche nel caso che utilizzino un brano musicale all’interno del loro setting. Ma quegli operatori che si occupano di musicoterapia spesso con pazienti gravi, che operano in strutture sanitarie (pubbliche o private), terapeutiche, riabilitative, assistenziali, che collaborano alla formulazione di un progetto terapeutico/riabilitativo all’interno di una équipe multidisciplinare, che provengono da un rigoroso percorso formativo, ebbene quegli operatori sono musicoterapeuti. 34 LA MUSICA E IL DOLORE Essi, come si è in parte già detto, si occupano della conoscenza e dell’intervento sulla struttura dell’handicap, per attenuarne i livelli di disarmonia. Questo è possibile facilitando comportamenti sensoriali e motori: per esempio lavorando con bambini sordi sulla loro percezione dei suoni, o lavorando con bambini non vedenti e aiutandoli in qualche modo a percepire ugualmente attraverso le vie ottiche indenni, qualora sia compromesso soltanto l’analizzatore periferico. E’ possibile inoltre lavorare sulla struttura dell’handicap facilitando il tipo di apprendimento di una persona che non abbia strategie e modalità elaborative, al fine di consentire un apprendimento sempre più mentalizzato. E’ infatti convinzione profonda che, anche per l’insufficienza mentale, la distinzione non sia tra livelli di apprendimento normale e patologico, ma che ci siano livelli di apprendimento tipici per qualunque struttura di handicap. L’obiettivo è, livello per livello, facilitare al massimo le strategie operative. L’intervento di facilitazione potrà inoltre essere rivolto al tipo di relazione oggettuale che il paziente tende a stabilire all’interno del setting, così come potrà essere indirizzato verso le funzioni sociali del paziente medesimo. La stimolazione di ognuna di queste funzioni, non verrà comunque perseguita come obiettivo principale dell’intervento, ma in una ottica globale che mira all’integrazione armonica delle varie facoltà all’interno dell’individuo. Se è in genere lunga la strada attraverso la quale da un deficit, neurologico, sensoriale o psichico, si produce un handicap, altrettanto lungo è il percorso che deve prima formare un musicoterapeuta e poi metterlo nelle condizioni di elaborare nelle singole situazioni una strategia operativa finalizzata alla sintonizzazione ed all’armonizzazione dell’handicap secondo i concetti prima accennati. Che il percorso formativo non si possa completare in tempi brevi è un fatto dovuto prima di tutto alla complessità della materia in sé e poi alla necessità che al corso propedeutico di formazione, pur opportunamente corredato di laboratori esperenziali, si affianchi e faccia seguito una esperienza sul campo ed una supervisione dell'esperienza medesima. Un percorso così concepito favorisce l’acquisizione di una disinvolta pratica operativa che: 1) sia fondata su un modello teorico di riferimento, che può essere quello psicoanalitico, quello cognitivista, quello sistemico-relazionale, di programmazione neurolinguistica, ecc.; 2) impieghi consapevolmente i parametri, che in questo caso saranno musicali, per costruire e stabilizzare una relazione; 3) operi attraverso una tecnica basata sulle sintonizzazioni tra terapeuta e paziente. 35 LA MUSICA E IL DOLORE Successivamente la pratica operativa richiederà una costante verifica da attuare su uno o più casi per un periodo prolungato, con l’aiuto di supervisori. Sul piano pratico rendere operativo un modello di questo tipo è di estrema difficoltà; ciò deriva in parte dal fatto che non esiste a oggigiorno una chiara definizione legislativa dell'attività musicoterapica e in secondo luogo dal fatto che negli ambiti formativi attuali viene nettamente privilegiata la componente teorica, la quale è certamente indispensabile ma non esaustiva. Si dirà, a ragione, che non è un problema solo della musicoterapia e non occorre neppure rifarsi all’annosa e forse non ancora risolta questione della formazione degli psicoterapeuti, ma basta chiedersi quanto un neolaureato in medicina, sappia esercitare davvero il suo mestiere prima di fare la necessaria pratica clinica. In realtà, se è vero che, per dirla con Seneca, l’arte è lunga e la vita è breve e che quindi imparare bene una professione è sempre una questione non semplice, ciò è tanto più vero per le professioni che hanno a che fare con la relazione e con l’handicap, poiché richiedono di affrontare un percorso non lineare, complesso, fatto dell’intersezione di una componente medico-scientifica, una artisticaculturale, una antropologica ed una psicologica (Lorenzetti 1986). Tuttavia il presupposto di ogni discorso rimane il corretto apprendimento di una metodologia e di una tecnica specifiche, sapendo naturalmente che l’intero percorso formativo e professionale richiede, oltre alla competenza. Ci vogliono infatti molto tempo, molta dedizione e molta pazienza per lavorare su cose come queste: difficili, poco o nulla visibili e, a volte, incredibili. 2a. IL TERAPEUTICO IN MUSICOTERAPIA Pare che parlando di musicoterapia ci si debba riferire non solo alla terapia in senso stretto, bensì anche ad altre attività, come la riabilitazione, la prevenzione, l’integrazione, l’educazione, e così via. A questo ampio spettro di competenze corrisponde un repertorio di figure professionali altrettanto nutrito; tratterò quindi non solo di terapeuti e terapisti, ma anche di riabilitatori, educatori ed insegnanti. Tale non chiarissima situazione andrebbe poi complicata con il dilemma della musicoterapia come disciplina musicale o terapeutica: sono i musicisti, i terapeuti, entrambe le classi, o altre figure professionali ancora ad occuparsene? 36 LA MUSICA E IL DOLORE 2a.1 INSEGNANTI, EDUCAZIONE E MUSICOTERAPIA L’insegnante è colui che insegna, cioè facilita i processi di apprendimento. Questo è vero da molto tempo, almeno dal XIII secolo, che non è certo il periodo in cui è nato l’insegnamento in sé, ma quello cui possiamo far risalire l’origine del nostro codice linguistico, che da allora definisce inequivocabilmente chi svolge tale professione. Gli insegnanti sono quindi sempre stati (probabilmente anche prima di chiamarsi così) coloro che si sono occupati di “insignare”, imprimere nella mente altrui cognizioni teoriche o pratiche, servendosi magari di un particolare metodo, che si è andato man mano perfezionando nei secoli. La definizione di insegnante chiarisce quindi sia le attitudini professionali ed umane che egli ha nell’addestrare altri soggetti, sia il trasferimento di conoscenze implicito in tale operazione. Nulla del livello cognitivo, o dell’integrità psicomotoria del destinatario dell’agire dell’insegnante, è previsto nella sua definizione professionale; egli mantiene la propria identità, la propria qualifica, sia che si rivolga ad un atletico laureando, sia che si rivolga alla più sfortunata antitesi di questo che possa venire alla mente. 11 Perché ho detto questo? Perché intendo sostenere che un insegnante che insegni, a chiunque insegni, fa l’insegnante. E’ comprensibile che il desiderio di fare qualcosa di utile per chi soffre, per chi è portatore di minorazioni psicofisiche, per chi è disturbato, porti a cercare di allestire interventi finalizzati a questo scopo in qualsiasi ambito, anche quello scolastico. A ciò si aggiunge un fraintendimento alquanto frequente, che fa probabilmente parte di quel fenomeno che Melucci (1991) definisce la “terapeutizzazione del quotidiano”, per cui qualsiasi attività coinvolga coloro che si trovano in situazioni di handicap, sembra debba assumere di per sé valore terapeutico, costituendo così un’associazione inevitabile: gioco + handicap = ludoterapia, equitazione + handicap = ippoterapia, musica + handicap = musicoterapia, e così via. Si ha quasi la sensazione che il vocabolo musicoterapia venga talvolta caricato di un potere taumaturgico (e rappresenti spesso una specie di ultima spiaggia, di tentativo che comunque si può fare perché “male non fa”), per cui usandolo quando si descrivono le proprie attività si rende più importante, più socialmente utile, più scientificamente valido ciò che si fa con gli handicappati, anche se alla fin fine non si fa altro che farli cantare, suonare, ballare e ascoltare musica (Piatti, 1994). Viene il dubbio che nell’errore di considerare musica + handicap = musicoterapia siano incorsi anche gli estensori finali dell’attuale programma ministeriale per la scuola elementare, 11 A tale riguardo va tuttavia osservato che l’Italia è l’unico paese in cui gli handicappati sono inseriti nelle classi normali. Questo ha prodotto negli ultimi vent’anni una cultura dell’integrazione scolastica che non ha riscontro nelle altre nazioni, e che rende difficile il confronto con l’esperienze educative straniere nel campo dell’handicap. 37 LA MUSICA E IL DOLORE dove si afferma che: “Nell’ambito di attività di educazione al suono e alla musica è da tener presente il valore che possono assumere eventuali interventi specialistici di musicoterapia rivolti a soggetti in situazione di handicap” (Casadei-Denotariis, 1989). A parte il fatto che non si capisce se questi interventi dovranno essere compito degli insegnanti, della scuola, oppure di altri soggetti, va osservato che l’accennare solo qui ai soggetti in situazioni di handicap può far pensare che, per loro, le attività musicali debbano trasformarsi in terapia. Mi domando allora perché non si sia sentita la necessità di fare affermazioni analoghe nell’ambito della educazione linguistica (Piatti, 1993). Mi pare di poter dire che il vocabolo “musicoterapia”, per quanto ad una prima lettura possa risultare fuorviante, sia da intendere in questa accezione come intervento pedagogico e non terapeutico. Parliamo di interventi musicali a scuola, effettuati da insegnanti di educazione musicale, che verrebbero svolti anche con portatori di handicap (Zucchini, 1989). E’ tuttavia da ricordare che questi ultimi si recano a scuola per le stesse ragioni degli altri ragazzi: per fini educativi, non per curarsi, cosa altrettanto decorosa e spesso necessaria, ma da svolgersi in contesti appropriati. Se non si facesse questa doverosa distinzione, potrebbe accadere che un ipocondriaco che passa le sue giornate in ospedale, chiedesse al medico una lezione di chimica o di farmacologia: i medici sono esperti del curare non dell’insegnare ed è per l’una, non per l’altra cosa, che si trovano in corsia. Quali sono le finalità della scuola? Certamente favorire lo sviluppo cognitivo, affettivo, emotivo, sociale e morale dei bambini e dei ragazzi; un insegnante di musica che si occupasse di questo, non farebbe allora il musicoterapeuta, bensì l’insegnante. L’handicap sociale, che grava quasi su ogni portatore di deficit, se non opportunamente considerato, può, anziché ridursi, espandersi, diffondendosi ad ognuna delle aree nominate; l’isolamento affettivo si ripercuote pesantemente sulla stabilità emotiva, sul rendimento cognitivo, e così via, in un circolo vizioso di handicap - esperienze negative - aggravamento dell’handicap, che può diventare il dato saliente di tutta l’età evolutiva. Ma chi si occupa di prevenzione dell’handicap e di terapia è qualcuno che svolge una azione attinente la salute delle persone e non la loro educazione, e la cura è cosa che richiede, come vedremo, un impianto tecnico-culturale assai distante dall’insegnamento e quindi dalla realtà scolastica. Cosa significa allora fare musicoterapia nella scuola? Probabilmente l’opportunità che si presenta agli insegnanti di musica con competenze musicoterapiche di fare il proprio mestiere d’insegnanti in maniera più illuminata, creativa e completa di quella di altri colleghi, intervenendo non solo direttamente sull’apprendimento di una materia, la musica per 38 LA MUSICA E IL DOLORE l’appunto, ma anche e soprattutto creando le premesse per una positiva esperienza scolastica, sia dal punto di vista dei vissuti che da quello dei risultati. Questi professionisti potranno avvalersi, nel lavoro con persone in condizioni di disagio, di un corpus teorico e di strategie educative, appositamente studiate per il contesto educativo, come i celebri metodi Dalcroze e Orff. Ma, per quello che riguarda più specificamente la definizione degli obiettivi e delle strategie in ambito scolastico con i portatori di handicap, una volta puntualizzate le questioni di carattere generale, mi sembra logico lasciare il campo ai pedagogisti della musica. Due ultime osservazioni a margine. 1) Parte dei fraintendimenti sul significato di ciò che si è realizzato in ambito musicoterapico fino ad ora e sui risultati ottenuti, nasce dal fatto che si sono spesso documentati come risultati di attività terapeutica anche quelli che erano probabilmente il frutto di un onesto lavoro di educazione e/o animazione musicale. Far star “meglio” l’handicappato a scuola, ma anche in ospedale o nei centri di accoglienza, farlo sorridere, farlo interagire è opera meritoria, ma se non si esce da questa genericità hanno buon gioco quanti si chiedono dove stia esattamente, nella musicoterapia, il confine tra educazione e terapia, e in quale dei due ambiti debba essere inserito l’apprendimento di comportamenti più adeguati. 2) Proprio per questo, in pieno accordo con i pedagogisti (Piatti, 1994), ritengo che la musicoterapia come termine ombrello, il quale finisce per coprire le attività più diverse fra loro, sarebbe un fenomeno infinitamente meno rilevante se qualsiasi attività che utilizza il parametro musicale, sia in ambito educativo che in ambito riabilitativo-terapeutico, accettasse di sottostare ad alcune elementari regole di chiarificazione metodologica e comunicativa, dichiarando e specificando preventivamente: a) i contesti operativi, e le loro relative finalità istituzionali in cui si intende operare; b) chi e perché ha deciso, in tali contesti e di fronte a quali situazioni, di utilizzare quella specifica forma terapeutica definita musicoterapia; c) chi è responsabile del progetto, qual è il progetto e quali ne sono gli obiettivi; d) i presupposti teorici che vengono usati per giustificare il proprio indirizzo progettuale e per interpretare, analizzare e valutare i dati esperienziali; e) le ragioni che hanno indotto, di fronte ad una situazione di handicap, ad optare per un metodo e una tecnica e non per un’altra; f) le modalità di valutazione, sia istituzionale, sia del gruppo di lavoro, dei risultati ottenuti e non ottenuti; g) chi e come supervisiona l’intera attività. 39 LA MUSICA E IL DOLORE Ritengo ciascuno di questi punti requisito irrinunciabile per ogni onesto ragionamento che ambisca a definirsi scientifico e mi propongo di dimostrare nei prossimi due paragrafi, che un confine, fra educazione, riabilitazione e terapia, esiste. 2a.2 RIABILITAZIONE E TERAPIA In questo paragrafo si parla di cose che hanno attinenza con la cura delle persone, cioè con la salute, con la malattia e con le metodiche (terapia, riabilitazione) per migliorare le condizioni di chi è malato. Tutti termini il cui significato nel linguaggio comune è apparentemente condiviso, ma in realtà incessantemente dibattuto. Concetto di cura. Il suo significato è composito, e sicuramente ha subìto una notevole trasformazione in seguito allo sviluppo di una fiducia, forse eccessiva, che l’attuale società occidentale ripone nella scienza e nella tecnica, la quale ha, tra l’altro, prodotto anche un cambiamento non irrilevante nel rapporto che gli uomini hanno tra di loro e con loro stessi. Proviamo a pensare di chiedere ad un medico, cioè ad un funzionario di un sapere e di un apparato tecnico, cosa significa “curare”: la risposta sarà, approssimativamente, “guarire”. Se invece poniamo la stessa domanda a una madre che interagisce con il suo bambino, probabilmente scopriremo che per lei curare significa “aiutare a crescere”. Si colgono qui i segni della crescente divaricazione fra l’ottica “scientifica”, per cui “agire” significa ottenere risultati a partire dagli scopi che ci si propone, e l’ottica “umanistica”, per cui agire significa “interagire”, e assistere alla nascita di un mondo che scaturisce proprio da questa interazione (Galimberti, 1995). Ma allora non è proprio possibile costruire un’ottica integrativa? E che cos’è, in definitiva, la cura: ristabilire un equilibrio che si è infranto ripristinando la situazione originaria, o favorire un processo di trasformazione in senso evolutivo che porta dalla semplicità alla complessità, come ogni madre sa quando si prende cura del suo bambino? Questo dilemma si riproporrà anche a proposito della riabilitazione; credo comunque che curare debba significare ripristinare una condizione di armonia psicofisica, se questa c’era, o costruirne una nuova, se non c’era, e quindi che le definizioni precedenti debbano e possano integrarsi. Veniamo al concetto di malattia. La definizione ufficiale dello studio di Jablensky (1980) per conto della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) testualmente recita: “... per malattia si intende una condizione fisica o mentale percepita (in modo angoscioso e minaccioso) come deviazione dallo stato di salute normale e che può essere descritta in termini di sintomi o segni”. Viene invece definito danno un “disturbo o interferenza nella struttura e nel funzionamento normali del corpo”, comprendendo in esso il sistema delle funzioni mentali. E’ 40 LA MUSICA E IL DOLORE interessante osservare che, sempre lo stesso studio, definisce la salute come “uno stato di benessere psicofisico della persona”, ribaltando in chiave positiva la precedente definizione ufficiale, la quale si limitava tautologicamente a intendere per salute “l’assenza di malattie”. Nel dare il giusto rilievo al fatto che, con questo ribaltamento, l’OMS avvalla autorevolmente il concetto di unità mente-corpo della persona, considero di aver sufficientemente delimitato il campo per cominciare ad occuparmi dei termini più direttamente attinenti con la musicoterapia. 2a.2.1. LA RIABILITAZIONE Uno degli aspetti più interessanti e paradossali per chi intraprenda uno studio sulla nozione di “riabilitazione” nelle discipline che si occupano del soggetto sofferente per una disabilità psichica e/o fisica, è la confusione e la vaghezza di ogni possibile definizione, anche se, quando se ne parla, tutti sembrano intenderne il significato; infatti il termine riabilitazione è ormai di impiego frequente e, talora, abusato nella letteratura medica e psico-sociologica. Tuttavia, in origine, questo concetto appartiene alle Scienze Giuridiche. 12 Tale paternità dottrinaria giustifica, in parte, la confusione e la polisemicità riguardo all’utilizzo del concetto in ambito medico, psicologico e sociologico. Infatti, soprattutto per quanto riguarda l’handicap neuro-psichico, permane la ambiguità di fondo fra l’intento ortopedizzante proprio della giurisprudenza penale e quello terapeutico; il primo eminentemente orientato alla difesa della comunità sociale, il secondo agli interessi individuali del paziente. Per molto tempo, si è pragmaticamente intesa la riabilitazione come “quella serie di interventi diretti o indiretti che favorisca in un individuo la diminuzione dello stato di danno e di disabilità” (Jablensky, 1980). In tale definizione generica traspare subito una contraddizione: infatti, da un lato sembra di ricavare l’idea che l’oggetto specifico dell’intervento riabilitativo sia l’azione tanto sull’handicap del soggetto quanto contro l’edificazione di barriere (architettoniche, psicologiche, sociali) da parte della comunità; dall’altro lato, si avverte la possibile vocazione ortopedizzante della riabilitazione che discende in linea retta dalla sua origine lessicale giuridica: a una colpa/malattia si risponde con un intervento riparativo/riadattativo, che postula in modo acritico i concetti di normalità e devianza. E’ fin troppo chiaro, in sostanza, perché le cose non sono chiare: venendosi a collocare il concetto di riabilitazione proprio a livello dell’interfaccia handicappato/società, esso costituisce uno dei 12 La riabilitazione in campo giuridico-penale è, nelle intenzioni almeno, quell’insieme di interventi operati dallo stato al fine, oltre che di retribuire con la pena il reo, anche di ricostruire un nesso interattivo positivo fra il reo e la comunità. 41 LA MUSICA E IL DOLORE principali punti di scarico di tutte le ambivalenze e le difformità ideologiche, culturali e sociali, con le quali si è affrontato questo problema. A partire da una lunga disamina della letteratura esistente sull’argomento e delle acquisizioni maturate soprattutto nel campo dell’handicap neuro-psichico, Saraceno (1985) propone questa rilettura del concetto: “è riabilitazione qualunque intervento o costellazione di interventi che tendano a diminuire gli svantaggi sociali di un handicap fisico o psichico, e insieme a diminuire le barriere edificate dalla società nei confronti di tale handicap”. Si può dunque affermare che l’oggetto d’intervento della riabilitazione non è la malattia in prima istanza, bensì ciò che dalla malattia deriva in termini di perdita di funzioni (fisiche, psichiche, sociali) e la conseguente emarginazione cui è sottoposto il soggetto. Quanto alle tecniche con cui perseguire l’obiettivo riabilitativo, vi è, anche qui, diversità di posizioni. Si apre, infatti, un altro fronte di incertezze e polemiche, di cui possono essere esempio il problema della definizione dei rapporti fra riabilitazione e terapia e il problema della definizione delle competenze e dell’autonomia del riabilitatore rispetto al medico o comunque alla visione medicalizzata (e destoricizzata) della malattia. In generale, per riabilitare le funzioni perdute, si cerca di sfruttare al massimo le risorse e le funzioni residue dell'handicappato. L’ambito all’interno del quale a mio parere si dovrebbe muovere l’intervento riabilitativo è quello del reale; non dunque l’ambito del simbolico, all’interno del quale opera generalmente l’intervento psicoterapico. Quindi la strategia principe della riabilitazione è quella che chiamo un procedere “dal di fuori” (concetto che svilupperò ampiamente nel corso del capitolo IV°, riservato alle strategie d’intervento); dal di fuori perché si basa su una prassi, su un pattern, su una struttura esterna ben organizzata, che viene somministrata all’individuo (consapevole, consenziente, collaborante) nella convinzione che questi ne possa assumere gli schemi, le parti, le funzioni, l’armonicità. Ma, come già anticipato nel corso dell’introduzione, la mia idea di cura si distanzia dal vecchio concetto di normalizzazione, in base al quale ogni intervento doveva mirare ad una norma ideale. Penso piuttosto che sia un discorso di armonizzazione delle varie facoltà che debba essere promosso, poiché è quello che conferisce un maggior gradiente di benessere, che può appunto derivare da un equilibrio armonico delle parti. Allora la riabilitazione diventa una strategia di stimolazione ed armonizzazione di quelle funzioni sensoriali, motorie, cognitive, neuropsicologiche, psichiche e sociali, indirettamente coinvolte nel processo di formazione dell’handicap, attuata attraverso tecniche più o meno specifiche, ma sempre dal di fuori. Due precisazioni. 42 LA MUSICA E IL DOLORE 1) “Dal di fuori” non vuole dire che la relazione riabilitatore-paziente non sia importante; anzi, la caratteristica che sembra essere costante nella riabilitazione, anche se condotta su problematiche e patologie differenti (dall’ortopedia alla psichiatria) è che essa consente fondamentalmente un approccio non medico (nel senso di oggettivante, frammentante, separato) all’handicap. Ciò che, in altri termini, sembra comune allo sguardo e all’agire del riabilitatore, è di sostituire ad un’interpretazione distante dai segni dell’oggetto corpo, una visione integrante e partecipativa del corpo del paziente (inteso come totalità della persona). In tale contesto, al corpo-supporto del sapere clinico si sostituisce un corpo-rapporto del progetto riabilitativo, frutto dell’esperienza di rapporto fra riabilitatore e paziente. Quindi, dal di fuori non significa che non si possa instaurare, nel contesto di una relazione riabilitativa, quella risonanza armonica a livello empatico che nel cap. IV° si vedrà essere l’elemento unificante delle diverse strategie d’intervento. In effetti, esistono metodiche riabilitative che lo escludono in partenza, almeno in linea teorica, perché postulano schemi d’intervento quasi esclusivamente di tipo direttivo-addestrativo. Ma altre metodologie veicolano tutte le proposte tecniche attraverso le motivazioni e il coinvolgimento affettivo del paziente al progetto (Perfetti, 1986), coinvolgimento che è in larga parte frutto dell’intesa con il riabilitatore, il quale, in questo caso, è molto attento alle risposte emotive del paziente ed è a sua volta portatore, all’interno del rapporto di sentimenti ed emozioni proprie. Ciò che differenzia questa relazione, per quanto affettivamente intensa, da quella di transfert che si determina in una psicoterapia, è che qui, consapevolmente, il riabilitatore non cerca di lavorare sui contenuti interiori del paziente, non accede alla dimensione simbolica, ma veicola l’affettività attraverso la praticità di gesti e azioni volte a favorire la risincronizzazione fra tempo interiore e tempo sociale, l’integrazione di memoria e progetto, la riacquisizione del valore del ritmo che esiste fra gli oggetti ed il corpo; in buona sostanza, il riapprendimento degli aspetti, anche banali, del rapporto quotidiano Io/mondo. 2) Ho accennato a tecniche più o meno specifiche, e, in effetti, in questo lavoro se ne descriveranno alcune pertinenti alla disciplina musicoterapica. Credo che la conoscenza di tecniche costituisca un bagaglio imprescindibile, senza il quale non si darebbe la figura del riabilitatore. Nello stesso tempo penso che l’utilizzo delle tecniche debba essere prospettato attraverso un’ottica che guarda idealmente alla relazione madre-bambino come paradigma. Infatti, appare certo insensato dire che la madre possiede delle tecniche per la cura e l’allevamento del bambino; è però vero che anche la madre deve “sapere” alcune cose in ordine alla cura e all’allevamento. Dunque la madre non “ha” delle tecniche, ma “sa” qualcosa che le permette di dare concretezza alla domanda di cura che il bambino continuamente 43 LA MUSICA E IL DOLORE esprime. La madre sa favorire la domanda del bambino e insieme a lui (insieme fisicamente al suo corpo) costruisce le risposte (Saraceno, 1984). Questo “chiedere con” (cum petere) della madre alleata del bambino ne costituisce la competenza. Penso che la “competenza riabilitativa” consista nell’atteggiamento partecipativo e fiducioso con cui il riabilitatore, utilizzando le tecniche specifiche della sua disciplina, riesce a favorire le domande e a costruire assieme al paziente le risposte. 2a.2.2. LA TERAPIA Sul concetto di terapia, almeno nelle sue linee generali, dovrebbero esistere meno incertezze. La parola deriva dal greco therapeuein (guarire), e un rapidissimo cenno storico sull’evoluzione del suo significato può prendere le mosse dal motto latino “Divinum opus est sedare dolorem” (è atto divino alleviare le sofferenze), che riassume gli ideali e le possibilità della medicina antica: attenuare o eliminare le sofferenze causate dalle malattie, nell’impossibilità di intervenire sulle loro cause, pur possedendo i popoli antichi alcune conoscenze farmacologiche, chirurgiche e igieniche di prim’ordine. Sappiamo tuttavia che molte di queste conoscenze andarono perdute nel Medio Evo, salvo sporadiche isole legate a felici congiunture locali o alle intuizioni di qualche illuminato saggio. Si dovette perciò attendere la fine del ‘400, con i primi studi anatomici sul cadavere, perché la medicina tornasse ad avere una sistematica consapevolezza di sé e della necessità di mettersi ad indagare sulla natura delle malattie e sul funzionamento del corpo umano, separando sempre di più le sue acquisizioni dalle dottrine religiose e dalle credenze magiche. Questo cammino di conoscenza ha subìto un’accelerazione esponenziale negli ultimi due secoli, tale per cui si è potuto affermare il concetto di terapia come un insieme di mezzi organizzati che vengono posti in opera al fine di curare e possibilmente guarire le malattie. Il problema della distinzione fra “curare” e “guarire”, e delle sue implicazioni simboliche, è già stato posto. Resta da aggiungere che esiste anche una linea di demarcazione oggettiva, per quanto possa essere oggettivo qualcosa di cui non conosciamo ancora tutti i meccanismi, fra ciò che in medicina è guaribile e ciò che è “solo” curabile. Sono guaribili, e quindi trattabili con un tipo di terapia definita “causale”, le malattie di cui possono essere attaccate ed eliminate le cause. (Per esempio, gli antibiotici uccidono i batteri; quindi malattie batteriche un tempo temutissime come la tubercolosi e il reumatismo articolare acuto, sono diventate guaribili; anche la rimozione chirurgica di un’appendice perforata può rientrare in questa categoria). Esistono poi una serie di malattie delle quali non si conoscono a sufficienza i meccanismi per poter allestire una terapia veramente causale (si pensi ai tumori, che possiamo tuttavia rimuovere o di cui possiamo inibire la crescita), e altre ancora di cui conosciamo le 44 LA MUSICA E IL DOLORE cause ma non possiamo aggredirle (non disponiamo di farmaci efficaci contro i virus, sia che si tratti di raffreddore, sia che di AIDS). Per tutte queste situazioni, la terapia si propone di ridurre il più possibile l’aggressività dell’agente di malattia e potenziare il più possibile le difese dell’organismo. Ci si può chiedere, in una prima generalissima approssimazione, se le psicoterapie potrebbero far parte di questo contesto: una terapia il più possibile efficace e in grado di accrescere le difese dell’individuo, nei confronti di un disturbo i cui meccanismi sono in larga parte sconosciuti o solo presunti. O se, invece, per alcuni disturbi psichici molto ben definiti, una psicoterapia riuscita non possa essere considerata “causale”. E ancora, si devono ricordare tutta una serie di situazioni, dalle più lievi indisposizioni alle più gravi malattie terminali, in cui l’unica azione terapeutica è, proprio come nell’antichità, alleviare i sintomi. In questo caso parliamo di terapia “sintomatica”; (possono essere considerati tali i cosiddetti colloqui di sostegno, che hanno lo scopo di fare da sponda a situazioni troppo complesse per essere affrontate con intenti risolutivi). Infine, si definisce terapia profilattica quell’insieme di interventi volti ad impedire l'azione dei fattori che causano le malattie; mediante vaccini se si tratta di fattori infettivi, mediante bonifica ambientale se si tratta di fattori tossici, mediante potenziamento delle difese organiche se si tratta di malattie carenziali. Alla luce della definizione di salute che è stata data dall’OMS, la profilassi vede dilatarsi il suo originario significato tecnico fino a diventare qualcosa di molto più vasto: la prevenzione. Poiché infatti, la salute non è una variabile indipendente, legata solo ai capricci di qualche micro-organismo, ma è (citando sempre l’OMS) “una qualità della vita che ha una dimensione sociale, mentale, morale e affettiva, oltre che fisica; un bene instabile, che si deve continuamente riconquistare, difendere e ricostruire durante tutta la vita”, ne consegue che al suo mantenimento devono concorrere la prevenzione delle malattie e la messa in atto di ogni tentativo per migliorare le condizioni socio-ambientali di vita della comunità umana. Tratterò la prevenzione dell’handicap specificamente nel prossimo capitolo. Qui è importante osservare come questa dilatazione di significati, pur lasciando la terapia in posizione centrale come terreno riservato ai tecnici specifici dei vari settori (medici, chirurghi, igienisti), metta di fatto fortemente in discussione la possibilità che la medicina nel suo insieme continui ad essere una torre d’avorio riservata ai detentori di un sapere molto specifico, che intervengono solo quando la malattia è in atto. 13 (Chiozza, 1995) 13 A voler ben guardare, questo risultava già chiaro parecchie decine di anni fa. Sempre per fare l’esempio della tubercolosi, nel secondo dopoguerra gli antibiotici le assestarono il colpo risolutivo, ma già si era avuta una drastica diminuzione a partire dagli inizi del ‘900, con il miglioramento delle condizioni di vita dei suburbi e con 45 LA MUSICA E IL DOLORE Questo appare tanto più vero nell’ambito dell’handicap neuro-psichico, in cui l’aspetto strettamente clinico e tecnico della terapia, pur senza perdere minimamente d’importanza, viene a trovarsi inserito in un contesto molto più vasto di azioni a forte significato sociale, preventivo e riabilitativo, a cui sono chiamati operatori di svariate competenze. Infatti la complessità del problema handicap impone che non possa mai essere praticamente una sola persona ad affrontarlo, sia da un punto di vista tecnico che emotivo, ma che vi sia invece un’articolata distribuzione di competenze all’interno di un approccio multidisciplinare (Maxwell Jones, 1979). Si costituiscono così le équipe terapeutico-riabilitative di cui è parte, per esempio, il musicoterapeuta, le quali provvedono alla formulazione ed alla messa in opera del progetto terapeutico, sottoposto a periodica verifica e supervisione, e in cui comunque la responsabilità finale è del medico, ma vi è una condivisione delle problematiche e una continua integrazione di conoscenze e competenze. Questa lunga premessa era indispensabile, ma così definita la terapia appare ancora distante, o meglio incompleta, rispetto a ciò di cui mi occupo quando faccio musicoterapia. Spostiamo quindi più decisamente l’obiettivo sulla terapia dei disturbi psichici. Caduti ormai in disuso antichi presìdi dell’era pre-psicofarmacologica come le terapie da shock, i cardini fondamentali su cui poggia il trattamento della sofferenza psichica sono da un lato gli psicofarmaci e dall’altro gli interventi a carattere psicoterapico. Ed è proprio su questi ultimi che concentrerò adesso la mia attenzione. Occorre una definizione ufficiale e la attingo dallo “Psychiatric Glossary”, redatto a cura dell’Associazione Psichiatrica Americana (APA): “Psicoterapia è il nome generico per qualsiasi tipo di trattamento delle malattie psichiatriche che si basi principalmente sulla comunicazione, verbale e non verbale, con il paziente”. Rientrano dunque sotto questa definizione tanto i trattamenti psicoterapici classici, basati sulla comunicazione verbale, quanto i trattamenti che utilizzano la stessa conoscenza del mondo intrapsichico e la stessa tecnica di approccio relazionale, ma mediata da sistemi di comunicazione non verbale (quindi, i vari tipi di arte-terapia, tra cui la musicoterapia). L’elemento fondante comune è, in sostanza, la relazione. Nella psicoterapia il terapeuta parla al paziente e lo ascolta; nelle terapie non verbali vengono utilizzati come tramiti comunicativi il segno grafico, il movimento, la musica, ma il fine rimane sempre quello di stabilire con il paziente un contatto abbastanza solido e profondo da consentire al terapeuta di influire positivamente su alcuni conflitti e meccanismi psichici patologici del paziente. Molti sono i contributi dottrinali che hanno consentito l’elaborazione delle varie tecniche psicoterapiche, così che possiamo distinguere un approccio l’istituzione dei Sanatori, dove coloro che erano nelle fasi iniziali di malattia, trovavano aria e cibi sani, grazie ai quali il loro organismo era messo in condizioni di reagire efficacemente (Cosmacini, 1989). 46 LA MUSICA E IL DOLORE psicodinamico, uno cognitivista, uno sistemico, uno di programmazione neurolinguistica, e altri ancora. Dirò nel prossimo capitolo qual è secondo me l’elemento unificante di questi approcci che li rende altrettanto validamente utilizzabili in campo pratico. Qui mi interessa soprattutto sottolineare due aspetti: 1) se la riabilitazione era soprattutto una strategia facilitativa “dal di fuori” dei processi cognitivi-relazionali e di socializzazione, nel senso più ampio potremmo dire che la (psico)terapia è una facilitazione “dal di dentro” dei processi di consapevolezza di sé, di regolazione delle emozioni e delle capacità comunicative.14La locuzione “dal di dentro” indica che si lavora direttamente sull’emotività e sui processi mentali, consci e inconsci, e quindi massimo è il livello di coinvolgimento affettivo nella relazione, sia da parte del paziente che da parte del terapeuta, con tutti i rischi e le necessità di un rigoroso training di formazione per chi intenda cimentarsi in tale lavoro. 2) Forse abbiamo trovato una giusta collocazione per la musicoterapia. Essa, a seconda del tipo di contesto e di relazione che viene stabilita, può agire tanto in senso riabilitativo, quanto in senso terapeutico, ed in questo secondo caso può essere profilattica, sintomatica o forse anche causale. L’elemento unificante tra riabilitazione e terapia è, a mio avviso, l’utilizzo di parametri armonizzanti per promuovere una migliore integrazione psicofisica della personalità, restando su un livello più concreto e senza entrare nel merito delle dinamiche emotive, se si interviene in senso riabilitativo, affrontando invece i nodi conflittuali affettivi e ideativi e quindi accedendo alla dimensione simbolica della relazione, se si interviene in senso terapeutico. 2a.3 (MUSICO) TERAPEUTI E TERAPISTI Il termine “terapeuta” viene solitamente usato per indicare un professionista particolarmente esperto in qualche forma di terapia. Il terapeuta è in genere un laureato, abilitato all’esercizio in proprio della professione. Nel suo curriculum è compreso un training formativo che, nell’ambito psicoterapico, include anche un’analisi personale, o comunque un’esperienza che gli ha consentito di “lavare” almeno in parte la propria emotività e sperimentare in prima 14 In realtà, esistono alcune metodologie psicoterapiche in cui la relazione viene prevalentemente incentrata su aspetti esterni della vita del paziente, allo scopo di fornire input comportamentali molto precisi che favoriscano il disapprendimento di abitudini patologiche. Queste metodologie, appartenenti in gran parte all’area culturale comportamentista, non presuppongono in effetti un approccio dal di dentro. Si può dire che, in un certo senso, esse rappresentino nell’area psicoterapica il corrispettivo simmetrico degli approcci riabilitativi più attenti alla componente emotivo-affettiva della relazione. 47 LA MUSICA E IL DOLORE persona gli aspetti transferali della relazione. La qualifica di “terapista” è destinata invece a chi è competente della pratica di quella terapia. Il terapista, in genere un diplomato, possiede lo strumentario tecnico e le competenze per intervenire in senso terapeutico e/o riabilitativo, secondo le indicazioni di un progetto la cui responsabilità è del terapeuta. (Per intenderci in senso esemplificativo, la diade fisiatra-fisioterapista). Così è, e francamente non si trovano ragioni sensate perché gli operatori dell’area musicoterapica debbano sottrarsi a questa diffusissima convenzione. Vedremo nel corso di questo testo come la teoria e la tecnica musicoterapiche siano assai complesse; vedremo la quantità e la multiformità di elementi di cui tenere conto nella formulazione di un progetto di integrazione per mezzo della musicoterapia. Saranno allora musicoterapeuti quei maestri dell’arte in grado di muoversi agevolmente in mezzo a tali complessità: i supervisori. Può sembrare un vezzo linguistico, ma sono convinto che si tratti di qualcosa di ben più serio: gli insegnanti rimangono insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione psicologica, così come gli psicoterapeuti restano psicoterapeuti, anche nel caso in cui utilizzino un brano musicale all’interno del setting. Quegli operatori che invece si occupano di musicoterapia, spesso con pazienti gravi, che operano in strutture sanitarie terapeutiche, riabilitative, assistenziali, (pubbliche o private che siano), che collaborano alla formulazione di un progetto terapeutico/riabilitativo all’interno di una équipe multidisciplinare, che provengono da un rigoroso percorso formativo come quello che cercherò di indicare con chiarezza in questo testo, ebbene quegli operatori sono a mio avviso musicoterapeuti. Tuttavia, in mancanza di una cornice di riferimento legislativa sufficientemente solida per quello che riguarda l’esercizio delle professioni terapeuticamente orientate, accade che fioriscano corsi dalle più svariate impostazioni e dalla fauna più composita. Questo, assieme all’uso disinvolto del termine musicoterapia di cui si è fatto cenno nel primo paragrafo, ha portato spesso al centro di vari dibattiti l’interrogativo: chi è il musicoterapeuta. E non c’è dubbio che il persistere di una mancanza di principi chiari e di una metodologia rigorosa nella formazione e nella delimitazione dei campi d’intervento porti a vedere il musicoterapeuta, in analogia al termine ombrello, come un operatore passe partout, dalla provenienza e dal curriculum spesso mal definiti, che può comunque operare “un po’ dappertutto” (scuole, centri sanitari, comunità, carceri, etc..), non di rado autolegittimandosi. A questo riguardo intendo ribadire ulteriormente quanto già tra le righe della nostra precedente definizione: una formazione generica, che potremmo definire di primo livello, in musicoterapia, non può essere considerata sufficiente a formare un operatore dalla professionalità completa ed autonoma 48 LA MUSICA E IL DOLORE come il musicoterapeuta; tali corsi vanno a mio avviso intesi o come primo livello di un curriculum formativo più lungo ed articolato, che solo alla fine porterà alla formazione di un musicoterapeuta, oppure come acculturazione musicoterapica di base, che va ad integrare le competenze professionali di cui ogni corsista eventualmente già dispone. Ritengo che molto debba essere fatto dai corsi per garantire uno standard di formazione adeguato, in particolare per quello che riguarda l’addestramento a ragionare in termini di definizione degli obiettivi e di criteri di valutazione dei risultati. Ma è inutile nascondersi che nessuna scuola può esaurire il discorso della formazione. La pratica e la supervisione degli interventi sono in tal senso un complemento indispensabile. Occorre inoltre ribadire a questo punto un concetto già anticipato nell’introduzione. Un rigoroso ciclo di studi e di tirocinio è solo uno dei due punti fondamentali su cui si articola la formazione del terapista; l’altro è costituito da ciò che avevo genericamente indicato come “attitudine all’amorevolezza”, e che ora posso meglio definire come la necessità che l’aspirante terapista possieda un “quid” innato, costituito da un insieme di serena immediatezza, tolleranza all’ansia e genuina disponibilità all’immedesimazione empatica che non si impara né sui libri, né a scuola (Giberti, Rossi, 1996). Sarebbe anzi a mio avviso indispensabile predisporre dei criteri di valutazione preventiva di questo aspetto dell’aspirante terapista, onde evitare spiacevoli accadimenti che purtroppo allo stato attuale non sono rari; e cioè che accedano alla possibilità di svolgere una professione terapeuticamente orientata persone che casomai dovrebbero fruire della terapia come pazienti. Si può dire, in termini psicodinamici, che ogni vocazione alla terapia nasca da un’istanza riparativa, e volere curare gli altri significhi anche voler apprendere gli strumenti conoscitivi ed emotivi per “curare” se stessi. In questa luce, il quid innato, l’attitudine all’amorevolezza, nascono dunque proprio dalla capacità di condividere in parte alcuni stati d’animo del paziente. Ma è necessario possedere anche la solidità per non restare invasi dalla sua distruttività e per non andare in risonanza oltre un certo limite con i suoi stati d’angoscia (Carloni, 1982). Pur nella consapevolezza che questi aspetti estremamente complessi delle dinamiche personali potrebbero essere risistemati solo attraverso un’analisi personale, pare comunque indispensabile che una formazione di primo livello includa almeno un trainig svolto sulle proprie dinamiche emotive in rapporto alla musicoterapia, che ho definito, conformemente a quanto proposto da Benenzon e Wagner. Ritengo infine che, in termini di diffusione dell’attività e di risultati della ricerca, i tempi siano maturi per pensare anche a una formazione di II° livello, da destinare a quanti, dotati già di 49 LA MUSICA E IL DOLORE una laurea in medicina o in psicologia, o comunque di una legittimazione a operare nell’ambito psicoterapeutico, possano quindi utilizzare in proprio la musicoterapia ed essere responsabili dei progetti terapeutici e delle supervisioni. Aggiungo che, in analogia a quanto detto sulla musicoterapia didattica per il primo livello, si dovrebbe cominciare a pensare per il II° livello ad un lavoro ancora più approfondito di conoscenza musico-analitica di sé, che in accordo con quanto sostenuto da Edith Lecourt (1995) potremmo definire proprio musicoanalisi. Ovviamente qui siamo ancora nel campo delle cose da costruire. Ma nell’insieme questi mi sembrano tutti passaggi indispensabili alla chiarezza degli interventi e dell’identità degli operatori, oltre che logica premessa all’eventuale identificazione e riconoscimento di una professionalità musicoterapica da parte del Legislatore, con conseguente istituzione dell’Albo Professionale. 2b FONDAMENTI FISIOPATOLOGICI PER LA MUSICOTERAPIA La musicoterapia viene utilizzata soprattutto nelle situazioni di svantaggio relazionale, comunemente definite di handicap. Di queste situazioni, cercherò ora di dare un inquadramento di tipo funzionale che, nell’ottica riabilitativa, risulta a mio avviso il più utile. Ne spiegherò i fondamenti, senza peraltro rinunciare a una veloce ricapitolazione di quelle nozioni di anatomia e fisiopatologia, indispensabili per una migliore comprensione dei vari quadri clinici e della loro genesi. 2b.1 DEFICIT ED HANDICAP Prenderò dunque le mosse dalla parola “handicap” e più precisamente dalla definizione che ne viene data nella legge quadro n° 104 del 5/02/1992, art. 3 comma 1: "E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione". Innanzi tutto, è da notare l'importanza che viene data alle difficoltà di apprendimento e al concetto di emarginazione sociale. In secondo luogo e di conseguenza, in base a questa definizione il famoso astrofisico inglese Stephen Hawking, paralizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica ma ugualmente in grado di formulare teorie da premio Nobel, non sarebbe un handicappato. E' allora evidente che, pur dovendosi riconoscere alla legge 104 il merito di aver introdotto il concetto di integrazione del disabile in ambito scolastico e lavorativo, dobbiamo cercare 50 LA MUSICA E IL DOLORE altrove una maggiore chiarezza; per esempio in una definizione più clinica, come quella tratta dalla Concise Encyclopedia of Psycology, R. J. Corsini Ed., New York , 1987: "Un handicap è una costellazione di caratteristiche o di processi fisici, mentali, psicologici e/o sociali, che complicano oppure compromettono l'adattamento di una persona, tanto che essa non può raggiungere un livello ottimale di sviluppo e attività. E' utile distinguere la DISABILITY (menomazione fisica o mentale che concerne l'integrità della persona) dall'HANDICAP (particolare serie di reazioni psicologiche e sociali a quella menomazione)". In sostanza, il disabile è una persona deficitaria in uno o più parametri psico-sociali, rispetto alle persone della sua età e condizione. In questa ottica, possiamo definire deficit il dato quantificabile che tende a misurare l'entità del difetto e della perdita rispetto a una norma ideale. Si possono avere deficit di tipo sensoriale, motorio, neuropsicologico, psichico e sociale. Quindi, quando ci si trova in presenza di un quadro stabilizzato di danno sensoriale e/o motorio e/o psichico ecc..., si dovrebbe più correttamente parlare di persona disabile o di deficit. Chiamerò invece handicap le complicanze (fisiche, psichiche, comportamentali, sociali) del preesistente deficit. In altre parole, facendo l'esempio del ritardo mentale, il danno intellettivo è il deficit e il ritardato mentale è il disabile. L'insieme del ritardo mentale, degli svantaggi a cui va incontro il ritardato nella vita scolastica e sociale, dell'atteggiamento negativo dei familiari e della società, e delle barriere architettoniche, costituisce l'handicap. Storicamente, fin da quando, verso la fine del '700, le problematiche della disabilità neuropsichica sono diventate d'interesse medico-scientifico (prima appartenevano alla semplice esclusione custodialistica o al pregiudizio religioso-demonologico), è esistita per lungo tempo una netta contrapposizione tra: a) l'ideologia naturalistico-medico-diagnostica b) l'ideologia riabilitativo-funzionale.15 All'interno di una logica del tipo 1, a partire da una diagnosi medico-biologica (esempio: encefalopatia epilettica con ritardo mentale medio) si progetta un intervento normalizzatore dal di fuori, che tende ad aggiungere il più possibile in termini quantitativi in modo da 15 Secondo Doman (1975), sono addirittura esistite 4 fasi nella storia del concetto di handicap: I Disperazione (umanitarismo illuminista; fine ‘700). In sostanza, l’idea era che si dovesse accettare l’incurabilità dei disabili. L’ottica era puramente caritativa-assistenziale (creazione degli asili di carità, etc.). II Descrizione analitica dei sintomi (‘800). E’ la fase delle scoperte più importanti della medicina “descrittiva” (anatomia microscopica, batteriologia, etc.), per cui tutto viene visto in chiave clinica: i disturbi comportamentali sono i sintomi di malattie psichiche. III Normalizzazione (prima metà del ‘900). Si individua come obiettivo il cervello e si tenta di portare “dal di fuori” al disabile ciò che gli manca. Vengono istituite le scuole speciali. IV Prevenzione (attuale). E’ la fase della “prospettiva riabilitante”. 51 LA MUSICA E IL DOLORE riavvicinarsi alla norma ideale, senza tenere conto delle motivazioni e dell'equilibrio armonico della persona. In una logica di tipo 2, si cercherà d'intervenire "dal di dentro" (Russeau avrebbe detto "dalla parte della natura"), a partire dalle esigenze soggettive della persona, prendendo atto non tanto delle deficienze quantitative, quanto delle differenze qualitative nelle prestazioni e delle potenzialità residue. L'ipotesi è che ci sia sempre una prospettiva riabilitante, per quanto distorti e disarmonici possano essere i meccanismi funzionali del soggetto. Se accettiamo come più utile questa ultima impostazione, allora dobbiamo necessariamente accettare anche lo stato di crisi del sistema classificativo tradizionale (nosografico) delle malattie neurologiche e psichiatriche. L'ideologia riabilitativo-funzionale non contesta le definizioni in sé, anche se rischiano di trasformarsi in etichette (esempio: schizofrenia). Ma una definizione ha senso quando rimanda ad un preciso concetto, nel qual caso può diventare un'informazione (esempio: lo schizofrenico è un soggetto che ha una lettura distorta della realtà). Altrimenti si tratta di una constatazione la quale, pur non essendo di per sé negativa, non possiede però alcuna dinamica e quindi non consente alcun giudizio valutativo (cioè: cosa possiamo fare con uno che ha una lettura distorta della realtà?). Quindi i termini diagnostici tradizionali sono ancora usabili in senso descrittivo, ma non quando essi rimandano ad una interpretazione. Inoltre, la crescente complessità interpretativa di fenomeni anche apparentemente poco dinamici come il ritardo mentale, impone di riflettere sul rapporto fra sufficienza (concetto legato a criteri sociali) e normalità (concetto derivato da un'astrazione statistico-morale). E del resto, anche per le malattie mentali il concetto di norma è sottoposto a critiche radicali.16 Infatti, tra i comportamenti "normali" e quelli devianti esiste tutta una serie di sfumature intermedie. In sostanza, la crisi della valutazione clinica tradizionale in ambito psichiatrico è l'effetto di una nuova concezione dell'uomo che si è fatta faticosamente strada nell'ultimo secolo ed è condivisa dai vari orientamenti psicodinamico, fenomenologico, cognitivista, sistemico, differenti nei codici ma uniti nel passaggio da una dimensione di analisi antropologica puramente energetico-meccanica ad una nuova di tipo dialettico-strutturale (Moretti, 1980). 16 Tali critiche erano già state mosse, da parte di qualche spirito libero, con largo anticipo sui tempi del progresso scientifico e sociale, se è vero che nel suo “Dizionario del Diavolo” (1907) lo scrittore americano Ambrose Bierce dava della parola “matto” questa definizione: “affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non conforme ai modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di se stessa. In poche parole, diverso dagli altri”. 52 LA MUSICA E IL DOLORE Riassumere le premesse epistemologiche che accomunano gli orientamenti più sopra citati sarebbe cosa fuori dai limiti di questo scritto. Tuttavia, i presupposti essenziali vanno almeno ricordati: a) il rispetto del criterio di unità della persona (mente-corpo); b) il rispetto della transazione individuo-ambiente e natura-cultura (articolate tra loro in rapporto dialettico); c) la consapevolezza del carattere dinamico della conoscenza, sempre sottoposta a critiche ed aggiornamenti. Utilizzando questi criteri, cercherò ora di tracciare un profilo funzionale dell'handicap (Postacchini, Ruggerini, 1984). 2b.2 LA STRUTTURA DELL'HANDICAP Se seguissi la tradizionale prassi neurologica, dovrei cominciare col descrivere, almeno per sommi capi, l'anatomia e la fisiologia del sistema nervoso (S.N.). Ciò farebbe risultare la semiologia, cioè il linguaggio dei segni e dei sintomi, come valore fondante, in quanto dotato di grande potere conoscitivo topografico-anatomo-funzionale (esempio: a una lesione dell'arteria cerebrale media corrisponde quasi certamente una emiparesi del lato opposto del corpo). Ho già detto che ritengo questo procedimento parziale, anche se corretto, perché conduce all'idea di capacità, che è enormemente statica. mi limiterò pertanto a riassumere ciò che di anatomia e fisiologia darò per scontato nei successivi paragrafi: 1) Il S.N. (cervello + midollo + nervi + recettori sensoriali) è una complessa macchina che consente lo svolgersi ai più alti livelli della vita neurovegetativa (funzioni interne dell'organismo) e della vita di relazione. La vita neurovegetativa è quell’insieme di funzioni viscerali, sottratte al controllo della coscienza, che consentono all’organismo umano di vivere (frequenza cardiaca, temperatura corporea, equilibrio idro-salino, etc.). La vita di relazione è la capacità di rapportarsi con il mondo esterno attraverso gli analizzatori sensoriali, il movimento e il linguaggio. 2) L'unità funzionale del S.N. è una cellula chiamata neurone; ne sono presenti alcune decine di miliardi di unità e poiché ciascuna di esse è in grado di collegarsi contemporaneamente con altre decine, ne consegue che il numero di connessioni neuronali è di circa 106: astronomico. Ciò va a costituire una rete neurale di straordinaria complessità, i cui modelli artificiali 53 LA MUSICA E IL DOLORE (cibernetici) di studio, basati sui computer, rendono solo una pallida idea. In realtà, più che a una rete di computer, lo scambio di segnali tra neuroni somiglia ad una giungla, dove però tutto è mirabilmente al suo posto, almeno quando le cose vanno bene. 3) L'impulso nervoso all'interno dei neuroni viaggia sotto forma di energia elettrica, mentre tra un neurone e l'altro vi è uno spazio di pochi milionesimi di mm in cui il messaggio viene trasformato da appositi neurotrasmettitori in energia chimica e poi, una volta traghettato dall'altra parte, ritrasformato in energia elettrica. Di questi neurotrasmettitori (adrenalina, dopamina, serotonina, ecc...) si sente parlare molto; forse si tende anche a sopravvalutarne il ruolo, attribuendo ad alterazioni della loro distribuzione e del loro funzionamento la causa di molti disturbi psichici. In ogni caso, essi svolgono un ruolo fondamentale nel modulare l'intensità e la velocità di trasmissione dell'impulso nervoso. 4) L’insieme dei miliardi di neuroni, all’interno del Sistema Nervoso, è ripartito in sostanza bianca e sostanza grigia. La prima, disposta nella parte interna del cervello ed in quella esterna del midollo, accoglie i prolungamenti dei neuroni che formano le vie nervose. La seconda, disposta nella parte più superficiale del cervello e nella parte centrale del midollo, accoglie i nuclei dei neuroni, dai quali originano tutti gli impulsi e nei quali vengono integrate tutte le risposte. In pratica, la sostanza (o materia) grigia, è la vera parte pensante del sistema nervoso, essendo invece la sostanza bianca il sistema di comunicazione da e verso l’esterno. La parte di sostanza grigia che va a costituire quello strato di 6/7 mm sulla superficie del cervello umano prende il nome di corteccia. Essa è il punto d’arrivo delle vie della sensibilità e il punto di partenza delle vie di movimento.17 Occorre precisare che esiste una struttura denominata “formazione (o sostanza) reticolare”, formata da sostanza grigia, la quale occupa una posizione centrale all’interno del sistema nervoso, lungo un percorso che va dalla parte più bassa del cervello (mesencefalo) alla parte più alta del midollo spinale. Tale struttura svolge un fondamentale lavoro di raccordo fra gli input sensoriali e le strutture preposte all’attivazione dello stato di coscienza; al suo interno si trovano infatti i cosiddetti centri della veglia e del sonno e i centri per la regolazione dei riflessi di origine muscolare. L’interesse che tale formazione viene a rivestire nel discorso che sto conducendo è dovuto al ruolo di integrazione e di filtro che la stessa assolve nel processo di percezione degli stimoli sensoriali, e quindi anche quelli di natura acustica, come già esposto nel primo capitolo a proposito del discorso sugli indici di conflitto. 5) Si parlerà anche di mente, come concetto distinto (ma non disgiunto) da quello di cervello. Si intende per mente ciò che conferisce all'essere umano la consapevolezza di sé e gli 17 Secondo Edelman (1987; 1992), in essa è contenuto buona parte del “segreto” del funzionamento della mente. 54 LA MUSICA E IL DOLORE consente di giungere alla conoscenza astratta del mondo e di conseguenza alla possibilità di rappresentarlo simbolicamente. La mente viene comunemente considerata un processo e non una sostanza (la res extensa cartesiana); quindi non esiste un luogo della mente nel cervello (del resto non esiste neppure un luogo dell'intelligenza) e pertanto della mente si sa ancora meno del poco che si sa sulla vita neurovegetativa e su quella di relazione. Si presume che, almeno in parte, il segreto stia nella capacità del cervello di dialogare con se stesso, che in gergo tecnico si chiama rientro (Edelman, 1987; 1992). In pratica, la capacità mentale di organizzare la conoscenza in categorie deriverebbe da una specie di autorafforzamento dei circuiti cerebrali coinvolti nelle funzioni e negli avvenimenti che ciascun individuo è più interessato a ricordare. Si formano così mappe selezionate dell'esperienza individuale, che costituiscono i mattoni del senso dell'identità personale: ogni mente è unica e irriproducibile ed è il frutto dell'interazione del singolo individuo con le esperienze ambientali. Una volta puntualizzate queste nozioni di base dico che, a mio avviso, l'idea di capacità deve essere sostituita con quella di potenzialità funzionale e quindi, corrispettivamente, l'idea del S.N. come sede di funzioni specifiche e separate deve essere sostituita da quella di filtro analizzatore (Ciompi ‘94). In sostanza, l'individuo non è un'entità meccanica, capace di elaborare dati in assoluto e non un aggregato di funzioni, ma un campo in cui avvengono scambi fra interno ed esterno, individuale e sociale, natura e cultura. E' un filtro attivo, dotato di potenzialità interpretative rispetto al mondo, la cui piena realizzazione dipende in parte dall'assetto anatomo-funzionale ed in parte dal tipo di informazioni e di interazioni che stabilisce con l’ambiente. Come filtro attivo, l'individuo sarà dotato di: a) una struttura neurofisiologica di base (è quella di cui, nella ripartizione clinica tradizionale, si occupa la neurologia); b) un tipo di apprendimento (è l'area tradizionalmente definita neuropsicologia); c) un tipo di relazione oggettuale (i cui disturbi sono il principale oggetto d'indagine della psichiatria); d) un tipo di socializzazione. 2b.2.1 STRUTTURA NEUROFISILOGICA DI BASE Poiché la dimensione dell'homo sapiens è la più sofisticata e l'uomo non sarebbe "sapiens" (cioè dotato di mente e pensiero) se non fosse prima di tutto "sentiens et movens", cioè dotato 55 LA MUSICA E IL DOLORE della possibilità di interagire attraverso i sensi e il movimento con il mondo, è necessario partire da qui e occuparsi prima di tutto di cosa e come viene comunicato dalla periferia al centro del S.N. e viceversa (Bergamini, 1983). Lo scambio di informazioni è sempre rigorosamente bidirezionale: attraverso appositi recettori sensoriali vengono incamerate e inviate al cervello sensazioni che poi, ulteriormente elaborate, inducono una risposta in termini di comportamento e quindi di movimento (gestuale, verbale, ecc...): Gli analizzatori sensoriali sono dunque 6: sensibilità (tattile, termica, dolorifica, vibratoria, propriocettiva), olfatto, gusto, udito, vista e motricità. Attraverso questi analizzatori l'individuo esperisce la realtà esterna e si rapporta con essa. Dal punto di vista neurologico, le fasi precoci dello sviluppo dell'individuo sono contrassegnate da modalità di funzionamento del S.N. molto globali e poco selettive. In effetti, alla nascita l'uomo presenta una notevole immaturità fisiologica del S.N. rispetto agli altri mammiferi. Ciò nonostante, il neonato è ben lontano dall'essere quello che si riteneva nell'ottocento, secondo il modello adultometrico allora in auge e cioè "un essere decerebrato, dotato di riflessi" (Flechsig, 1876). In realtà, è vero che nelle prime settimane di vita prevale una modalità di tipo arcaico, che si organizza in risposte massive a stimoli anche minimi; ed è anche vero che gli analizzatori sensoriali meglio funzionanti sono quelli cosiddetti "prossimali" (sensibilità, olfatto, gusto) mentre udito e vista, soprattutto questa ultima, non sono ancora in grado di dispiegare tutto il loro potenziale discriminativo. Ma questo è legato per l'appunto allo stato d'immaturità del S.N.. Occorre tornare per un attimo a parlare di neuroni; essi, quando la maturazione del S.N. è completata, sono ricoperti da una guaina composta da una particolare sostanza chiamata mielina. Essa ha una funzione principalmente isolante, come nei cavi elettrici; all'interno della guaina, l'impulso viaggia più veloce. Se, come alla nascita, la guaina mielinica si trova ad essere incompletamente formata, gli impulsi non seguono solo la direzione principale, ma si diffondono per contiguità nei neuroni adiacenti, andando a distribuirsi in più vie. Questo è il principio fisiologico per cui non è del tutto sbagliato dire che il neonato vede (anche) con le orecchie e sente (anche) con gli occhi. In sostanza, vi è una naturale globalità sensitiva cui corrisponde una analoga globalità dei movimenti. Mentre quest'ultima lascia il posto, nel giro dei primi 12/14 mesi ad una organizzazione molto più selettiva del movimento, dal punto di vista sensoriale permane una certa attitudine all'immediatezza e alla globalità fino a tutta l'età prescolare. E' il fondamento di quel fenomeno che chiamo percezione sinestesica: in pratica, 56 LA MUSICA E IL DOLORE un costante rimando fra le varie modalità sensoriali che, a fronte di una minore capacità di analisi e di discriminazione, consente di cogliere in una visione immediata e unitaria i multiformi aspetti della realtà. Di ciò sono dimostrazione, per esempio, i disegni e i "pensierini" dei bambini di 4-5 anni, che forniscono immagini sorprendentemente profonde di situazioni che gli adulti percepiscono in modo magari più razionale ma meno completo. D'altra parte e qui per chiarezza anticipo un punto che sarà trattato meglio più avanti, il "prezzo" per giungere alla razionalità e alla capacità di astrazione che contraddistinguono il pensiero adulto, è proprio la parziale perdita di quella capacità di sintesi globale che, massima nel bambino, decresce durante lo sviluppo e sembra persistere in misura superiore alla media solo in certe personalità "artistiche". Da un punto di vista anatomico, questo processo di maturazione corrisponde alla formazione di vie nervose ben definite, costituite da fasci di neuroni che trasportano in modo selettivo determinati messaggi. Avremo così le vie delle varie sensibilità, la via ottica, le vie motorie, ecc... Ma avremo anche infinite vie di collegamento all'interno del cervello, che consentono in ogni momento un complesso gioco di integrazione fra le varie funzioni: cognitive, affettive, motorie, ecc... Nello sviluppo delle vie nervose, vi è una componente genetica (una sorta di dotazione di base, che costituisce la parte anatomica in senso stretto di ciò che ho in precedenza definito "assetto anatomo-funzionale") e una componente legata all'interazione dell'individuo con la realtà, che di quell'assetto rappresenta la parte funzionale. In altre parole, l'ambiente, inteso come infinita quantità di input sensoriali, cognitivi e affettivi e quindi come fonte di esperienza da apprendere e memorizzare, esercita su ciò che esiste alla nascita una funzione plastica, stimolando la formazione di sempre più numerose vie e circuiti neuronali di collegamento. I gradi estremi di incidenza negativa dei due fattori saranno, da un lato, l'esistenza di un danno nella dotazione anatomica di base, che ovviamente limiterà le successive possibilità di sviluppo e dall'altro lato la completa privazione di stimoli ed esperienze subìta da un individuo il cui S.N. risulterebbe anatomo-fisiologicamente integro. In mezzo, avremo tutte le possibilità intermedie, in una ripartizione in cui, secondo recenti valutazioni, la componente genetica incide per il 30%, mentre quella "ambientale" incide per il 70% (Lewontin, 1994)18. 18 Sottilizzando ulteriormente, il genetista Cavalli Sforza (1993) ritiene di poter far dipendere l’intelligenza per un terzo da fattori ereditari, un terzo da fattori culturali e per l’ultimo terzo dagli “accidenti” della vita, tipo situazioni psicologiche svantaggiose, o vicende negative che ostacolano il pieno sviluppo della personalità (ciò che in termini psicodinamici corrisponde alla inibizione nevrotica dell’intelligenza). 57 LA MUSICA E IL DOLORE Come tutte le semplificazioni, anche questa ultima contiene in sé un'inevitabile sfumatura di provocazione. E' ben noto, infatti, il dibattito, spesso polemico, fra i sostenitori dell'immodificabilità (e dell'ereditarietà) delle situazioni di svantaggio intellettivo e coloro i quali ritengono che l'eredità, in fatto di intelligenza, sia soprattutto un problema culturale-sociale, quindi suscettibile di miglioramento. In realtà, l'aver documentato attraverso esami sofisticati come la PET (Tomografia a Emissione di Positroni) che, in situazioni di scarsa stimolazione ambientale, interi circuiti cerebrale rimangono atrofici, dovrebbe ridurre i margini della polemica. Comunque sia, più stimoli esterni saranno ricevuti, maggiore sarà l'impulso alla formazione di sempre nuove connessioni neuronali e di conseguenza maggiori saranno la plasticità e l'adattabilità del S.N. ai cambiamenti e anche alle eventuali situazioni di danno che dovessero determinarsi. Per esempio, una via motoria interrotta potrebbe essere, almeno parzialmente, vicariata da circuiti alternativi in grado di "aggirare" il punto di interruzione. La possibilità di indurre, sia pure con fatica e in misura ridotta, la formazione di nuovi collegamenti anche dopo il termine ufficiale della maturazione ufficiale del S.N. (cioè i 7-8 anni) è alla base della "scommessa riabilitativa" che si ritiene formulabile anche nelle situazioni più disarmoniche e disfunzionali. La maturazione fisiologica del S.N. porta a un affinamento, oltre che delle varie vie di conduzione, anche degli analizzatori, che diventano in grado di svolgere in modo sempre più sofisticato la loro funzione. Occorre, a questo punto, definire alcuni termini-base indispensabili per la comprensione del processo maturativo. Intendo per sensazione la ricezione da parte dell'individuo del puro dato sensoriale. Intendo invece per percezione la capacità di interpretare il dato sensitivo conferendogli, quindi, un significato. Intendo infine per lavoro mentale un'ulteriore fase di elaborazione del dato percettivo, che consente un suo utilizzo sul piano simbolico e/o relazionale. Detto questo, il percorso maturativo del S.N. avviene sostanzialmente lungo la direttrice: sensazione → percezione → lavoro mentale. Si potrebbe un po’ grossolanamente dire che, all'interno della diade sensazione/percezione, gli analizzatori sensoriali, così come quelli cognitivi che vedremo più avanti, funzionano con modalità che Bion (1962) ha definito di tipo "Beta", cioè molto globali, tese e poco discriminative, mentre nella fase di lavoro mentale si ha un funzionamento di tipo "Alfa", cioè più selettivo, rilassato e categorizzante. 58 LA MUSICA E IL DOLORE Per i singoli analizzatori, il percorso sarà il seguente: Analizzatore funzionamento β funzionamento α sensibilità: olfatto: gusto: udito: vista: movimento: toccare "sentire" "sentire" (Assaggiare) "sentire" (Udire) vedere agire →discriminare →annusare →assaporare →ascoltare →guardare →eseguire Riguardo all'analizzatore motorio, andrà considerato anche il TONO di azione, ossia, in pratica, il tono muscolare di base, il quale potrà essere tendenzialmente teso e saremo allora in ambito beta, o rilassato, corrispondente a una modalità alfa. In pratica, un'attitudine tesa comporta una tendenza al mantenimento dello status quo e a un'idea di cambiamento come cosa difficile e poco desiderabile. Viceversa, un'attitudine rilassata è favorevole a una possibilità di cambiamento della situazione ed è generalmente correlata ad uno stato psicofisico di benessere (Bertolini, 1984). Questa attribuzione di significato mentale al tono muscolare avviene sulla base del fatto che, nelle fasi precoci di sviluppo, in cui la mente è ancora insufficiente a contenere ed esprimere l'intera vita psichica del bambino, le attitudini motorie costituiscono veri e propri “organizzatori del pensiero”.19 Le più precoci strategie di apprendimento sono quelle legate a modalità di funzionamento di tipo beta e quindi a un utilizzo senso-percettivo degli analizzatori. Esse sono basate su modalità di tipo imitativo e adesivo, (Gaddini, 1969) e ciò che viene appreso in questo modo non viene poi elaborato in modo consapevole, ma va a costituire un bagaglio di schemi ripetitivi (automatismi), che rappresentano una specie di base comportamentale sulla quale, successivamente, si innestano le modalità alfa (guardare, discriminare, ascoltare), le quali rispondono a processi basati su capacità di apprendimento elaborativo. Con questo secondo tipo di apprendimento, diventa possibile memorizzare coscientemente comportamenti e concetti, fino ad accedere al pensiero astratto. Possiamo immaginare che un arcaico dispositivo della mente collochi le prime funzioni beta nell'area di quella primordiale situazione psichica che Melania Klein (1946) ha definito 19 Possiamo definire "organizzatori" una serie di modalità comportamentali che il bambino mostra soprattutto in collegamento con la presenza della madre (o di una figura di equivalente significato affettivo), come per esempio il dialogo tonico fra corpo del bambino e corpo materno durante l'allattamento, la risposta del sorriso etc... Queste modalità sarebbero geneticamente determinate e costituirebbero una "base esercitativa" su cui si costruiscono e vengono progressivamente mentalizzate, le competenze relazionali. I contributi fondamentali a questi concetti sono stati forniti nel corso degli ultimi 40 anni da Spitz (1965), Mahler et al. (1975), Bowlby (1969; 1973; 1980), Brazelton-Cramer (1990). 59 LA MUSICA E IL DOLORE posizione schizo-paranoide, cioè quella fase attraversata fisiologicamente dai 0 ai 6-7 mesi, caratterizzata da un labile senso di realtà e un ridotto margine di tolleranza alle frustrazioni. Possiamo altresì immaginare che le funzioni e modalità alfa appartengano all'area della successiva posizione depressiva, in cui, a partire dagli 8-10 mesi, il bambino comincia ad essere in grado di elaborare l'idea delle frustrazioni e delle separazioni. A questo punto,si può ipotizzare che, qualora la struttura funzionale neurofisiologica sia tutta fondata su livelli alfa o tutta su livelli beta, si verifichi un'armonizzazione di funzioni, benché ovviamente a diversi livelli di integrazione. Laddove, invece, alcune funzioni siano di tipo alfa e altre di tipo beta, si avrà un'evoluzione di tipo disarmonico. In sostanza, si può dire che i processi di tipo armonico siano consoni a uno sviluppo più favorevole, anche se meno rapido; mentre i processi di tipo disarmonico, pur consentendo ad alcune funzioni e parti di personalità uno sviluppo più articolato e sofisticato, determinano un minor grado di integrazione della persona nel suo complesso. Per esempio, ai fini pratici, un'attitudine disarmonica (come potrebbe essere una grossa abilità manuale che coesiste con scarse capacità logiche, discriminative o di ascolto) può essere utile in compiti particolari, come l'uso di strumenti, anche musicali. Ma per un complessivo sviluppo della personalità, funzioni armoniche risulteranno molto più vantaggiose negli svariati contesti sociali. In realtà, in un'esistenza "normale", le funzioni beta e quelle alfa sono tra loro in equilibrio dinamico, nel senso che l'acquisizione di funzioni cognitive (e affettive) superiori non cancella quelle più arcaiche, ma si sovrappone ad esse, confinandole in un'area psichica che potremmo definire "preconscia". Quindi, esiste un'oscillazione fisiologica fra i momenti in cui viene esercitato un pieno controllo cosciente della realtà e i momenti in cui questo controllo si allenta e riemerge un modo più "istintivo" di percepirla, così come del resto esiste un'oscillazione fisiologica fra tensione e rilassamento (e stati mentali collegati). Potremmo rappresentare questo equilibrio dinamico nel seguente modo: lavoro sensoriale/percettivo lavoro mentale tono muscolare teso (β) tono muscolare rilassato (α) 2b.2.2 L’APPRENDIMENTO Il concetto di apprendimento, così come quello di intelligenza, è composito, poiché non corrispondente ad un luogo preciso del cervello, bensì ad una funzione complessa, che è sostanzialmente quella dell’acquisire nuove conoscenze dall'esterno, attraverso le quali l'individuo modifica in modo più o meno permanente il proprio comportamento. 60 LA MUSICA E IL DOLORE La memoria è invece quel processo che ci permette di conservare queste conoscenze nel tempo. E', in un certo senso, l'altra faccia della medaglia: non può esserci apprendimento senza memoria e viceversa. Insieme, le due funzioni sono indispensabili per la formazione e il mantenimento del nostro senso di individualità; ma non solo. L'uomo, unica specie vivente, è stato in grado di costruire con la cultura un sistema di trasmissione transgenerazionale della conoscenza che ha consentito a ciascuna generazione di perfezionare, sia pure in modo contraddittorio e non lineare, ciò che era stato acquisito da quella precedente (Lorentz, 1973). Quest'ultimo tipo di funzione è strettamente connesso al lavoro mentale al suo più alto livello. Per tale motivo non mi rifarò ai lavori sull’apprendimento musicale di autori celebri come Sloboda (1988) o Willems (1970; 1972), che pure a prima vista potrebbero apparire di particolare attinenza per il mio lavoro. Non utilizzerò questi contributi in quanto essi presuppongono, anche nelle forme più elementari di funzionamento da loro ipotizzate, l’integrazione di qualità neuropsicologiche talmente sofisticate da non essere utilizzabili per conoscere le modalità di apprendimento tipiche dei livelli di handicap che descriverò (Zenatti, 1969). Quelli su cui concentrerò la mia attenzione sono infatti i meccanismi basilari dell’apprendimento, che andrò ad illustrare al fine di meglio conoscere la struttura dell’handicap. Ho già fatto una distinzione fra un apprendimento di tipo beta, non elaborativo, imitativo, lento, basato sull'accumulo per ripetizione di molti tentativi, che non richiede partecipazione cosciente e un apprendimento di tipo alfa, caratterizzato da rapidità ed elevato livello di categorizzazione ed astrazione. Sostanzialmente, il meccanismo dell'apprendimento, a qualsiasi livello esso avvenga, può essere scomposto in due fasi: 1) DECODIFICAZIONE dello stimolo ricevuto dall'esterno attraverso gli analizzatori. 2) CODIFICAZIONE della risposta (di movimento, di memorizzazione, etc...) In conformità con quanto proposto da Moretti (1980), indicherò per brevità questo meccanismo come COD/DECOD. Cercherò ora di classificare i tipi di apprendimento, utilizzando uno schema semplificato rispetto alla suddivisione originale effettuata da Moretti, nel quale distinguiamo 4 livelli, 61 LA MUSICA E IL DOLORE ciascuno corrispondente a un tipo di apprendimento, procedendo dal più grossolano e primitivo al più sofisticato ed evoluto (schema n°6). I COD/DECOD MASSIVO: esso è caratterizzato da una decodificazione massiva e da un’altrettanto massiva codificazione, come per esempio il ritrarsi con tutto il corpo da una fonte di eccessivo calore. A livello di S.N., l'integrazione fra stimolo e risposta avviene nel midollo spinale e nel tronco encefalico, cioè a livelli inferiori rispetto al cervello e al controllo cosciente, corrispondendo quindi ad attività riflesse, suscettibili di stimoli e apprendimenti condizionati. Filogeneticamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo delle varie specie animali, corrisponde al comportamento di specie molto primitive (studiatissima dagli psicologi per la semplicità del suo S.N. è l’Aplysia Californica, ossia la chiocciola di mare). Ontogeneticamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo dell'individuo, corrisponde agli schemi riflessi del neonato. II COD/DECOD DENOTATIVO: è caratterizzato dalla denotazione di un carattere generico dello stimolo, come potrebbe essere la forma, la grandezza, il colore, etc..., ed implica l'intervento di strutture poste fra il tronco e la corteccia ed anche della cosiddetta corteccia primaria, cioè delle zone di corteccia deputate al riconoscimento di caratteri semplici. Filogeneticamente, corrisponde alle risposte degli insetti, fondate su grandezza, colore, etc... Ontogeneticamente corrisponde all'organizzazione del bambino a partire dal 4° mese (per esempio la risposta del sorriso al volto umano senza distinzione fra volti diversi), oppure, a livello patologico, alla reazione del ritardato mentale grave a situazioni di pericolo o di appetibilità. Cominciano ad essere presenti i concetti di spazio e velocità, per cui diviene possibile anche un addestramento, sia pure in misura limitata. III COD/DECOD CONNOTATIVO: è caratterizzato dalla possibilità di decodificare lo stimolo e codificare la risposta all'interno di una categoria. Per esempio, filogeneticamente, tra i mammiferi il cane può riconoscere il padrone, i familiari e gli estranei all'interno della categoria "uomini". Ontogeneticamente, corrisponde alla discriminazione fra madre e mondo esterno che il bambino è in grado di compiere a partire dal 7° mese circa. Questo livello richiede il funzionamento delle aree corticali di associazione, cioè delle vie di collegamento fra le varie parti della corteccia ed è linguisticamente determinato, quindi può essere elaborato coscientemente (il bambino ricorda il volto della madre anche quando non la vede). Siamo pertanto nell'ambito dell'operatività di tipo alfa. 62 LA MUSICA E IL DOLORE IV COD/DECOD PER MODALIZZAZIONE: è un livello accessibile alla sola specie umana e comporta la possibilità di riconoscere i caratteri astratti di uno stimolo. Ontogeneticamente, corrisponde alla maturazione del 15° mese. Questo tipo di apprendimento richiede il funzionamento della mente, è di tipo simbolico e influenzabile da parte dei valori culturali esterni. E', in sostanza, la maturità cognitiva. Possiamo dire che i primi due livelli corrispondono a un funzionamento di tipo beta, gli ultimi due a un funzionamento alfa. Possiamo altresì dire che i primi tre livelli corrispondono alle modalità di funzionamento cognitivo che siamo soliti attribuire rispettivamente ai ritardati mentali di grado grave (cod/decod I°), medio (II°) e lieve (III°). In situazioni "normali", i 4 livelli coesistono stratificati uno sull'altro, ma è ovvio che in genere vengano utilizzate le strategie di apprendimento più sofisticate e analitiche. Ciò, come già detto, comporta la parziale perdita di quella globalità garantita dalla diffusione sinestesica delle percezioni, ma consente un maggiore approfondimento ed una maggiore elaborazione dei dati. Il fisiologico procedere dal tipo I° al tipo IV° di apprendimento comporta lo sviluppo di quelle funzioni complesse, dette "superiori", tutte integrate a livello di lavoro mentale, che possiamo definire analizzatori cognitivi: lettura, scrittura, linguaggio, capacità di calcolo, spazialità, gnosie (capacità di riconoscimento) e prassie (capacità di esecuzione di sequenze motorie complesse). Le tattiche di comportamento di fronte ad un compito sono fondamentalmente due: I rigidità condizionata, II accomodamento elastico. Possiamo dire che la tattica rigida è l'unica possibile ai livelli I e II di cod/decod, mentre quella elastica è possibile solo per i livelli III e IV. Possiamo ancora associare la tattica rigida a un tono muscolare teso ed a modalità beta, mentre associamo la tattica elastica ad un tono rilassato ed a modalità alfa. Anche qui è possibile, per un individuo normale, oscillare fisiologicamente fra le due fasi. In genere, qualsiasi novità che debba essere decodificata provoca, in prima battuta, un irrigidimento legato alla messa in discussione dello status quo, cui segue poi un adattamento (Piaget (1945) definisce rispettivamente di assimilazione ed accomodamento). E' ovvio che più fragili saranno le basi della integrità psichica, più resistenze vi saranno a qualsiasi novità, poiché essa sarà sempre vissuta come destabilizzante. Viceversa, il passaggio dalla rigidità condizionata all'accomodamento elastico è in funzione di vari elementi (economia dello sforzo, peso delle abitudini, sicurezza circa il rapporto di probabilità successo/insuccesso, etc...), ed è in sostanza una questione di gradi di libertà da vedersi sotto tre principali punti di vista: 63 LA MUSICA E IL DOLORE I) Struttura neurofunzionale (è ovvio che un cerebropatico grave ha un danno che non gli consente di accedere all'apprendimento elaborativo); II) Assetto affettivo; III) Contesto (molte volte le potenzialità individuali consentirebbero un'evoluzione che però non è funzionale all'equilibrio familiare e/o sociale). 2b.2.3 LA REAZIONE OGGETTUALE Da un punto di vista affettivo, lo sviluppo dell'individuo può essere visto come un faticoso tentativo di uscire progressivamente dal narcisismo primario, cioè da quella condizione di totale egocentrismo in cui l'individuo investe affettivamente se stesso e si rapporta col mondo esterno in funzione dell'esclusivo soddisfacimento delle proprie esigenze. Questa è la condizione presente fisiologicamente alla nascita e nei primi mesi di vita, in cui il bambino ubbidisce esclusivamente a quello che Freud (1920) definisce il "principio del piacere". Ciò di cui si ha bisogno è la sola cosa che conta e deve essere ottenuta (per esempio la poppata quando si ha fame). All'ottenimento segue un senso di gratificazione totale; al mancato ottenimento conseguono invece una rabbia e un'aggressività troppo grandi per poter essere contenute dalla piccola mente del bambino, il quale, oltre a scaricarle sul tono muscolare, si trova nella necessità di "proiettarle" all'esterno, poiché non sarebbe in grado di sopportarne le devastanti conseguenze (sensi di colpa, etc...). Occorre tenere presente che il meccanismo di pensiero del bambino, in questa fase, è di tipo fondamentalmente schizoide, cioè magicoonnipotente. In pratica, per esempio, il bambino ritiene di avere il potere di far materializzare la mammella (o il biberon) solo perché quando ha fame la mammella effettivamente compare; allo stesso modo ritiene di poter distruggere la madre solo perché lo desidera nei momenti di frustrazione, il ché è evidentemente troppo per le sue capacità di elaborazione, per cui la distruttività deve essere evacuata . Così, è il bambino a sentirsi minacciato da chi più ama, poiché, sempre per i meccanismi del pensiero magico, è convinto che la madre sappia tutto della sua distruttività e lo possa per questo punire. Quindi, prima dei 6-7 mesi il mondo del bambino è frammentato, perché piccolo e frammentato è il Sé. Esiste un Sé di dimensioni minime, che Stern (1985) definisce "nascente" e per il resto esiste una fusione simbiotica con la madre, di cui però vengono inglobate solo quelle qualità gratificanti che sono funzionali ai bisogni del bambino (la mammella buona che dà il latte), mentre gli aspetti frustranti della relazione vengono espulsi o negati. Definiamo identificazione adesiva (Bick, 1968) quel meccanismo basato sull'inglobamento dell'oggetto d'amore, che conduce a modalità di comportamento imitative e seduttive. Chiamiamo invece 64 LA MUSICA E IL DOLORE identificazione proiettiva (Klein, 1957) l'attribuire ad altri pensieri e sentimenti che sono in realtà parti di sé. Queste due modalità immature di relazione affettiva coesistono nei primi 6-7 mesi e compongono il quadro della posizione schizoparanoide in cui, come già accennato, il bambino da un lato si autoesclude dagli aspetti più insopportabili della realtà negandoli magicamente, dall'altro proietta la propria aggressività, oppure cerca di fondersi totalmente con la madre. Pur non perdendo mai la possibilità di regredire nuovamente a questa posizione, dai 6-7 mesi si comincia a essere in grado di elaborare le frustrazioni e sopportare il lutto della perdita della madre, intesa come presenza simbiotica (Gaddini, 1981). Questa capacità consente di accedere al sentimento della depressione, intesa come consapevolezza dei propri limiti e come nascita delle istanze riparative verso l'oggetto d'amore (la madre) sopravvissuto all'aggressività della fase precedente. Si giunge così alla posizione depressiva. A questo punto, il bambino può interiorizzare l'idea della madre come qualcosa di separato da lui, ma pur sempre punto di riferimento fondamentale, quindi è in grado di valutare l'oggetto affettivo in quanto tale, con le proprietà che gli competono e i sentimenti che lo caratterizzano e non in funzione dei suoi bisogni egoistici (narcisistici). Definiamo identificazione introiettiva (Klein, 1957) la capacità di interiorizzare un modello affettivo con la consapevolezza che si tratta di un modello e che questo serve per costruirsi un'identità propria, non per "essere come", cioè per fondersi simbioticamente e imitativamente come nella fase precedente. Questa è la base di quella che in un'ottica psicodinamica si chiama “relazione oggettuale matura”. Se assimiliamo posizione schizoparanoide ed identificazione adesiva/proiettiva alla funzione beta, e posizione depressiva e identificazione introiettiva alla funzione alfa, vediamo che esiste anche a livello affettivo un equilibrio dinamico fra una situazione di maggiore integrazione e maturità e una di minore integrazione e unitarietà dell'Io, cui è sempre possibile regredire fisiologicamente in alcuni momenti della vita adulta (è normale, per esempio, dopo una separazione, pensare che tutte le colpe siano dell'altro), per poi recuperare la posizione più matura. Quando, per qualche ragione, qualcuna di queste fasi non viene superata, si ha una situazione di disturbo mentale. In questa ottica, diviene allora possibile, per esempio, leggere l'autismo infantile precoce anche come una mancata uscita da quella fase schizoide in cui si rifiuta il contatto con le parti minacciose della realtà: diviene, altresì, possibile leggere la schizofrenia anche come un ritorno, propiziato per lo più da un mancato superamento della crisi adolescenziale, a una rigida posizione schizoparanoide, che rimane come unico modo frammentato di rapportarsi con la realtà da parte di un Io troppo fragile per compattarsi su posizioni più integrate. Ho scritto "anche" non casualmente, perché secondo me la lettura psicodinamica degli eventi 65 LA MUSICA E IL DOLORE psichici non contraddice affatto quella biologico-cognitivista illustrata nel paragrafo precedente, ma casomai la integra. Comunque, l’obiettivo non è risalire alle cause certe di un disturbo, ma imparare a muoversi nella complessità dell'handicap neuro-psichico con la consapevolezza delle innumerevoli e fondamentali connessioni fra Sistema Nervoso e Mente, fra intelletto e affettività, fra sviluppo cognitivo e affettivo (Imbasciati, 1989). Riguardo a quest'ultimo, il presente paragrafo non intendeva esaurire, neppure in minima parte, l'argomento, ma solo fornire alcune chiavi di lettura pratiche. Sono pertanto rimaste escluse dal discorso tutte le fasi di sviluppo successive al 12° mese. 2b.2.4 LA REAZIONE SOCIALE Possiamo distinguere tre significati del termine socialità: a) con “socialità del I tipo” intendo riferirmi alla capacità di una persona di prendere atto dell’esistenza degli altri come individui il cui comportamento interferisce con il suo e di modificarsi sotto la pressione che l’ambiente sociale e culturale che essi formano esercita su di lui, in modo tale da indurlo ad assumere abitudini, atteggiamenti, modi di valutare i fatti o di reagire di fronte ad essi, che sono largamente accettati in quel contesto; b) con “socialità del II tipo” indico la capacità di un individuo di uscire provvisoriamente dal proprio punto di vista ed assumere quello altrui, in modo da giungere ad una comprensione profonda dell’altro; c) con “socialità del III° tipo” indico la capacità di un individuo di stabilire dei rapporti di collaborazione con gli altri, pur mantenendo una relativa indipendenza ed originalità di vedute; indico la capacità di cooperare con gli altri, per il conseguimento di un obiettivo comune, mediante una suddivisione dei compiti, o anche mediante quella forma di competizione di tipo non puramente individualistico che può esservi nei giochi sociali, nei quali, accanto ad un obiettivo che può essere individuale, come il vincere, vi è pur sempre anche un obiettivo comune, come il giocare. Nei primi tre anni di vita il bambino, di norma, acquisisce ritmi (per esempio per quanto riguarda i pasti ed il sonno/veglia) e norme (principalmente riguardanti ordine e pulizia) sulla scia di condizionamenti che gli derivano dall’esterno. Si tratta quindi di una socializzazione del I° tipo; questa, negli anni corrispondenti al periodo della scuola materna, si sviluppa grazie alle più evolute risorse del bambino e all’arricchimento dei rapporti sociali ai quali viene 66 LA MUSICA E IL DOLORE esposto. Fra i sette e i dodici anni ha poi luogo un notevole progresso per quanto riguarda il processo di socializzazione del II e del III tipo, dovuto all’acculturazione ed alle esperienze di collaborazione; il bambino diventa sempre più capace di mettersi in punti di vista diversi dal proprio, di vedere le cose come le vedono gli altri e di vivere pertanto anche i loro problemi e le loro ansie, condizione questa necessaria affinché senta in modo immediato il bisogno di intervenire, se necessario, in loro aiuto. Diviene allora possibile verso il termine della fanciullezza, il costituirsi di gruppi diversi da quelli che si formano all’interno della scuola in seguito all’intervento diretto o indiretto dell’insegnante; per i bambini di questi gruppi il punto di riferimento non è più solo l’adulto ma anche il gruppo in quanto tale, un gruppo che acquista sempre maggiore stabilità e dentro al quale il bambino vive un’esperienza di autonomia ed affronta le novità in maniera meno difficile e traumatica proprio per il fatto di sentirsi insieme agli altri e di essere nei loro confronti in condizioni di relativa parità (Erikson, 1963). Pare evidente come il poter fruire di un certo tipo di rapporti sociali piuttosto che un altro, modifichi notevolmente la qualità della vita di un individuo; l’integrazione sociale della persona handicappata non la si ottiene semplicemente inserendola in una classe di “normali”, bensì fornendole anche la possibilità di esperire relazioni sociali del tipo consentito dal proprio livello evolutivo. Anche nel caso della funzione sociale esistono notevoli differenze a seconda che ci si trovi in un sistema di tipo teso o rilassato: per una persona il cui sviluppo personale consenta rapporti sociali del tipo I, avremo una sottomissione nel caso di un contesto teso, mentre potrà svilupparsi un notevole grado di rassicurazione dato dalla esistenza di una regola in un contesto rilassato; ancora, per un tipo II di socializzazione, potremo avere incomprensione ed intolleranza in un contesto teso od empatia in uno rilassato; in fine, per il tipo III° , avremo lo sviluppo di sfiducia in contesti tesi ed al contrario capacità di delega e collaborazione in quelli rilassati. In ogni caso, solo l’esperienza “rilassata” di un tipo qualsiasi di socialità tra quelle descritte può costituire la premessa al livello successivo (Bertolini, 1984). 2b.2.5 LE DINAMICHE DI GRUPPO Le ipotesi formulate da M. Klein (1957) a proposito delle prime relazioni oggettuali, delle ansie psicotiche e dei meccanismi primitivi di difesa, fanno capire non solo che l’individuo appartiene a un gruppo familiare sin dall’inizio della vita, ma anche, anzi soprattutto, che i suoi primi contatti con le persone che gli sono vicine hanno decisiva importanza per il suo 67 LA MUSICA E IL DOLORE ulteriore sviluppo. L’individuo deve stabilire un contatto con la vita emotiva del gruppo al quale partecipa e questo gli pone il problema di evolversi e differenziarsi, dovendo conseguentemente affrontare i timori connessi con questa evoluzione. Le ansie psicotiche che insorgono in rapporto ai primi oggetti vengono riattivate in molte di queste situazioni della vita adulta, anche se, spesso, in maniera non evidente all’individuo stesso. Quando varie persone si riuniscono per svolgere un compito, possono manifestarsi due tendenze, una diretta alla realizzazione del compito, l’altra che sembra opporsi alla prima. L’attività di lavoro viene ostacolata da forze contrarie, apparentemente ingiustificabili. L’ipotesi è di trovarsi di fronte ad una attività psichica collettiva di tipo molto regredito, analoga alle ansie psicotiche descritte dalla Klein (1957) come reazione difensiva ai timori connessi alla crescita. Per comprendere questi meccanismi della vita di un gruppo occorre considerarlo, come suggerito da Bion (1961), non come somma di individui, bensì come entità vitale autonoma, dotata di una organizzazione mentale collettiva, che egli chiama mentalità di gruppo, e che è costituita dall’opinione, dalla volontà, dal desiderio del gruppo stesso, alla formazione dei quali gli individui partecipano in forma inconscia ed anonima. Utilizzando questo criterio osservativo egli differenziò gruppi primitivi definiti basici, dai più maturi gruppi di lavoro (Grinberg et al., 1972). I gruppi basici vengono così chiamati perché principalmente funzionanti in rapporto a tre modalità fondamentali denominate assunti di base, caratterizzate da emozioni intense e primitive, volte ad evitare la frustrazione inerente all’apprendimento dall’esperienza, il quale implica sforzo, dolore e contatto con la realtà. Un gruppo in assunto di base resta intrappolato nelle proprie vicissitudini di tipo emotivo. Bion descrisse tre assunti di base: a) l’assunto di base di attacco e fuga, che consiste nella convinzione da parte del gruppo che esista un nemico da attaccare o da cui fuggire; in genere il gruppo si organizza in questo modo scegliendo un leader paranoide, in grado quindi di alimentare l’idea del nemico, sia esso il terapeuta, un membro del gruppo, qualcuno di esterno, o la malattia stessa; b) l’assunto di base di dipendenza, in cui il gruppo si vive come organismo immaturo, il soddisfacimento dei cui desideri viene demandato ad un oggetto esterno, spesso proprio allo stesso conduttore, vissuto come mitico salvatore, una sorta di deità protettrice, le cui bontà, potenza e sapienza sono fuori discussione; c) l’assunto di base di accoppiamento, in cui il gruppo si pone nella magica aspettativa di un salvatore che deve ancora arrivare, di un avvenimento futuro risolutore, una speranza cioè di 68 LA MUSICA E IL DOLORE tipo messianico; in queste circostanze la leadership viene spesso conferita ad una coppia che sembra in qualche modo promettere un figlio. In opposizione ai gruppi basici, vennero dal medesimo autore descritti i gruppi di lavoro, caratterizzati dalla cooperazione responsabile al raggiungimento di un obiettivo prefissato. Non si costituiscono, come invece avviene nel caso dei gruppi basici, per valenza, ma grazie ad una certa maturità ed addestramento specifico. E’ uno stato mentale che implica contatto con la realtà, tolleranza delle frustrazioni, controllo delle emozioni. 2b.3 PREVENZIONE E COMPLICANZE DELL'HANDICAP Definita la struttura dell'handicap, cercherò ora di introdurre i concetti di prevenzione e complicanza. Per fare questo, è necessario considerare che, da condizioni di deficit come quelle che considerate (siano esse di tipo neurologico o psichico), possono avere origine tutta una serie di complicanze che dovremmo essere in grado di prevedere e, nei limiti del possibile, di prevenire. Intendo per prevenzione PRIMARIA, la prevenzione della malattia stessa. Essa, se attuata, comporterebbe l'estinzione della possibilità di essere affetti da quel determinato disturbo. E' quanto si è riusciti a fare con talune malattie infettive per le quali si è allestito un efficace vaccino (Vaiolo, Poliomielite, ecc...) oppure si sono drasticamente ridotte alcune cause favorenti (Tubercolosi, Rachitismo, ecc...). Nel campo neurologico-psichiatrico, la prevenzione primaria rimane fondamentalmente un'utopia, in quanto le cause non sono sempre note e, quando lo sono, non è quasi mai possibile intervenire su di esse (bisognerebbe essere in grado di modificare i difetti genetici delle malattie ereditarie o correggere il difetto di funzionamento di quel dato neurotrasmettitore o, ancora più utopisticamente, modificare le condizioni di svantaggio socio-culturale che sono alla base di certi quadri patologici). Ci si muove, quindi, prevalentemente "a valle" e cioè a livello di prevenzione secondaria e terziaria. Intendo per prevenzione SECONDARIA quella delle complicanze di un deficit già stabilizzato. Per esempio, evitare che gli alti livelli di glicemia di un diabetico vadano a danneggiare la retina. Possiamo immaginare che, per uno schizofrenico, poter stabilizzare in modo sufficiente i propri stati d'animo e le proprie condotte sia un buon modo di favorirne l'inserimento sociale. Intendo per prevenzione TERZIARIA la stabilizzazione di complicanze già in atto, al fine di evitarne l'ulteriore peggioramento. Per esempio, se la glicemia elevata ha già compromesso la retina, è possibile prevenire il rischio di distacco ricorrendo al suo cerchiaggio. In gravi patologie psicotiche, come le chiusure autistiche, possiamo immaginare che riuscire a 69 LA MUSICA E IL DOLORE dialogare con quel paziente all'interno del suo guscio autistico, sia l'unica modalità di stabilizzazione possibile. Da un punto di vista classificativo, ragionando sempre in un'ottica funzionale, si può prospettare una situazione che racchiuda la gran parte della patologia neurologica e psichiatrica, oltre a una serie di complicanze sociali che in genere costituiscono la conseguenza ultima e, spesso, inevitabile della deriva familiare e sociale originata dal deficit. Possiamo dire che, di tutto questo elenco, le complicanze fisiche e psichiche primarie sono le meno direttamente modificabili (una Sclerosi a placche o una demenza evolvono in modo abbastanza inesorabile).Tuttavia, anche in questi casi, la stabilizzazione e il miglioramento delle condotte emotive della persona ammalata può essere considerato un obiettivo di prevenzione terziaria altamente desiderabile. Viceversa, per quanto riguarda le complicanze fisiche e psichiche secondarie, quelle comportamentali e sociali, si può (grossolanamente) dire che maggiore sarà il funzionamento mentale in senso armonico del portatore di deficit, minore sarà il rischio di andarvi incontro. E' pertanto sull'armonizzazione dell'handicap che si incentreranno le strategie di intervento terapeutico e riabilitativo. 2b.4 LA FILOSOFIA D'INTERVENTO “Nella filosofia troviamo una dolcissima medicina, perché mentre delle altre si sente il piacere solo dopo la guarigione, essa piace e guarisce insieme” M. de Montaigne (1533-1592) Essais, 11, 25. Perseguire un maggior gradiente di benessere implica, come si è visto, il favorire una riduzione delle tensioni esistenti tra le parti del sistema oggetto delle premure e cure. A tal proposito preciso che le parti da armonizzare non sono solo quelle del sé, bensì anche quelle “parti” che costituiscono il numero più ampio possibile di sfaccettature dell’esistenza, sia essa con o senza handicap. Intendo perciò evidenziare l’utilità dell’armonizzazione del mondo delle idee con quello degli eventi fisico-somatici, con quello relazionale, con quello delle strategie istituzionali… L’espansione applicativa, a vari contesti e a vari livelli, restituisce alla teoria di base dell’armonizzazione una più feconda ricchezza e, agli operatori, strumenti più efficaci per la pratica quotidiana d’intervento. 70 LA MUSICA E IL DOLORE 2b.4.1 LA TEORIA DELL-ARMONIZZAZIONE: DEL BENESSERE Inserita nell’ottica fenomenologica la teoria dell’armonizzazione si propone come obiettivo primario nella pratica quello dell’instaurarsi o riconsolidarsi di un buon rapporto “Io-Mondo” per il paziente. Si tratta di qualcosa di più del generico “benessere”, si tratta non di un sollievo a breve termine, bensì soprattutto di un guadagno nel tempo, che deriva da un percorso riabilitativo complesso di sperimentazione nel “qui e ora” delle potenzialità residue. Si tratta di un ri-assestamento del rapporto sé/altri, che renda possibile una maggior sintonia per l’individuo nello stare con sé, nello stare con altri, nel vedersi “sé” e “altro da sé”. Ciascun individuo, con o senza handicap, è in ultima analisi un aggregato di natura e cultura, ovvero è da un lato “ciò che è” e, dall’altro, “ciò che apprende”. Ciascuna personale idea di benessere è di conseguenza alimentata da entrambi i versanti, da intendersi in costante rapporto dialettico: la mia idea di benessere dipende dal mio rapporto con il mondo. Un armonioso rapporto Io-Mondo può essere però particolarmente difficile da realizzare se la persona presenta uno o più deficit, di tipo sensoriale, motorio, neuropsicologico, psichico e/o sociale, specie se questi si sono profondamente radicati nella persona condizionandone il senso d’identità. Intendiamoci sul concetto di deficit: definisco “deficit” il dato quantificabile che tende a misurare l’entità del difetto e della perdita rispetto a una norma ideale. “Disabile” è allora il portatore di “deficit”. La presenza del deficit provoca difficoltà e complicanze che chiamo “handicap”: l’handicap è la dissonanza che si instaura nel rapporto Io-Mondo sul piano fisico-esperienziale (che comprende aspetti cognitivi ed emotivi), ma anche sul piano storico, culturale, istituzionale. E’ evidente, in questo caso, la condizione di non integrazione delle funzioni, ovvero di squilibrio e dissonanza rispetto al piano cognitivo-emotivo-relazionale. L’affinarsi di un’abilità molto specifica non ha facilitato in questo caso uno sviluppo armonico della persona nella sua totalità, comportando anzi l’impossibilità per la bambina di orientare sforzi in una molteplicità di direzioni, secondo un progetto ben più funzionale al raggiungimento della consonanza Io-Mondo. Al contempo, l’esempio sopra riportato del ragazzo epilettico assistito per ogni minimo movimento ci mostra come, al pari della negazione del deficit, è la sua enfatizzazione da parte del contesto che porta con sé un aggravamento dell’handicap. La consapevolezza di questi due rischi uguali ed opposti dovrebbe favorire interventi equilibrati ed efficaci, sia a livello preventivo sia a livello riabilitativo-terapeutico. 71 LA MUSICA E IL DOLORE 2b.4.2 LA PERSONA: MENTE-CORPO-EMOZIONI-RELAZIONI Un approccio fecondo all’handicap si fonda sulla considerazione della persona nella sua unità. L’essere caratterizzati da meccanismi funzionali distorti e disarmonici può complicare tutte le modalità del soggetto di stare al mondo. Tuttavia ritengo che sia sempre possibile un percorso di cambiamento, sotto il segno della consapevolezza non solo degli operatori ma anche degli utenti. L’unità della persona svela, in ogni singola parte, la sua complessità. L’individuo non è un’entità meccanica, ma un filtro attivo, un campo in cui avvengono scambi fra interno ed esterno, individuale e sociale, natura e cultura. Per comodità espositiva, definisco ora il concetto di mente cui faccio riferimento. Intendo per mente ciò che conferisce all'essere umano la consapevolezza di sé e gli consente di giungere alla conoscenza astratta del mondo e di conseguenza alla possibilità di rappresentarlo simbolicamente. Ogni mente si rivela unica e irriproducibile in quanto rappresentativa dell’incontro originale e costante tra un Io e un mondo; non ha un luogo unico nel corpo, non coincide con il cervello e viene infatti considerata un processo e non una sostanza. Sostanza è il corpo che con la sua pelle, i suoi muscoli, i suoi analizzatori sensoriali, la sua rete neuronale, funziona da interfaccia con il mondo. L’esperienza corporeo-mentale della persona nel mondo si conserva e si accumula nell’individuo in un variegato mosaico di mappe selezionate intenzionalmente, che costituiscono i mattoni del senso dell’identità personale. L’identità personale e le esperienze corporeo-mentali derivanti dal rapporto Io-Mondo, pur mutando nelle varie epoche della vita, sono una costante esistenziale, che continua il suo processo anche dopo la scadenza del termine che le ricerche più recenti indicano fissato attorno ai 10 anni. Per questo motivo, chi basa la scommessa riabilitativa sulla complessità della persona umana, considera sempre aperto il processo di cambiamento: utenti che hanno oltrepassato l’età ideale per la plasticità neurologica possono infatti rispondere in maniera significativa ad una riabilitazione che incide sulla plasticità affettiva. La persona va considerata per la dinamicità del “qui e ora”, per le potenzialità che, anche nei casi di maggiore compromissione, ancora possiede: la musicoterapia si rivela spesso un canale privilegiato in tal senso, nel mettere in risalto le aree del paziente ancora suscettibili di cambiamento. La scommessa riabilitativa fa dunque perno sul fatto che l’essere umano non è solo mente, non è solo corpo, non è solo emozioni, ma è insieme mente, corpo ed emozioni, quindi un intervento di musicoterapia mira al ripristino dell’armonia globale della persona. 72 LA MUSICA E IL DOLORE Processi di tipo disarmonico, pur consentendo ad alcune funzioni e parti di personalità uno sviluppo più articolato e particolarmente sofisticato, determinano un minor grado complessivo di integrazione: per esempio, una raffinata abilità manuale, pur utile al perseguimento della performance strumentale, potrebbe rivelarsi un ostacolo per l’armonizzazione delle varie funzioni dell’individuo qualora venisse a catalizzare tutte le attenzioni riabilitative in corso. 2b.4.3 LA RELAZIONE LO MONDO:APPRENDIMENTO TRA AFFETIVITÁ E SOCIALITÁ “L’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme […].Il fatto che l’ambiente sia, in parte, un prodotto dell’attività stessa dell’organismo, semplicemente sottolinea la complessità delle interazioni che bisogna tenere in conto” (Damasio20, 1995). Faccio mia questa affermazione di Antonio Damasio perché mi pare sottolineare ancora una volta l’importanza del rapporto Io-Mondo nella sua biunivocità. In genere, qualsiasi novità che debba essere appresa provoca, in prima battuta, un irrigidimento legato alla messa in discussione dello status quo, cui segue poi un adattamento. “In tutto il comportamento esplorativo, sia scientifico sia artistico, è sempre presente il conflitto tra gli impulsi neofilici e quelli neofobici. I primi ci spingono verso esperienze nuove, facendoci desiderare ardentemente le novità. I secondi ci trattengono e ci spingono a rifugiarci in ciò che ci è familiare. Noi siamo continuamente in uno stato di equilibrio mutevole tra le contrastanti attrazioni dello stimolo nuovo ed eccitante e quelle del vecchio stimolo familiare. Se perdessimo la neofilia, resteremmo fermi, se perdessimo la neofobia, ci precipiteremmo a capofitto nel disastro. […] Noi esploriamo e ci fermiamo, indaghiamo e restiamo stabili, estendendo piano piano sia la comprensione di noi stessi sia l’ambiente in cui viviamo” (D. Morris21, 1968). E' ovvio che più fragili saranno le basi della integrità psichica, più resistenze vi saranno a qualsiasi novità, poiché essa sarà sempre vissuta come destabilizzante. Il passaggio da una reazione neofobica ad una neofilica (e viceversa) è probabilmente influenzato da vari elementi (economia dello sforzo, peso delle abitudini, sicurezza circa il rapporto di probabilità 20 Anthony Damasio, neurobiologo statunitense di origine portoghese, attualmente professore di Neuroscienze alla University of Southern California e direttore del “Brain and Creativity Institute”. 21 Desmond Morris, principalmente noto per i suoi lavori come zoologo e come etologo, è tuttavia anche un artista appartenente alla tradizione surrealista. Le sue considerazioni sull'essere umano da un punto di vista meramente zoologico hanno suscitato numerose controversie 73 LA MUSICA E IL DOLORE successo/insuccesso...), ed è in sostanza una conquista di quella libertà consentita dalla struttura neurofunzionale e dall’assetto socio-affettivo dell’individuo. Si può così affermare che un cerebropatico grave ha un danno che non gli consente di accedere all'apprendimento elaborativo (inteso come apprendimento di funzioni cognitive superiori), ma che quello stesso cerebropatico grave può progredire per quel che riguarda le modalità relazionali: è il rapporto Io-Mondo a condizionare il percorso di (ri)attualizzazione delle potenzialità in senso positivo o in senso negativo, ovvero come slancio o sfiducia rispetto al cambiamento. Il fattore che apre al cambiamento è la motivazione: in particolare, nelle relazioni di cura, se è attiva la motivazione si possono ottenere cambiamenti talora insperati in partenza. La teoria dell’armonizzazione acquista ulteriore valore se estesa a tutti i campi dell’esistenza umana, rispetto ai quali un individuo possa presentare un “gap” disarmonico tra alcune parti e altre, a scapito del raggiungimento del benessere. In questo senso, appare fecondo riflettere in merito alla declinazione degli aspetti relazionali nei campi dell’affettività e della socialità. Quando si parla di sentimenti ed emozioni, i concetti di “norma” e “devianza” appaiono assai sfumati, e l’oscillazione tra situazioni di maggiore e minore integrità e maturità affettiva è da considerarsi indice di flessibilità e salute durante tutto il corso della vita umana: per esempio è normale, nel periodo iniziale di una separazione, pensare che la responsabilità non sia propria e svalutare ciò che si lascia, per poi recuperare una posizione emotiva più equilibrata. Anche il termine socialità fa riferimento a un continuum fenomenico di relazioni Io-mondo: ad un estremo del continuum si pone la situazione di conformismo acritico nei confronti delle pressioni dell’ambiente sociale e culturale; all’estremo opposto si colloca la condizione di autismo inteso, secondo la definizione di Bleuler22, come quello stato in cui l’individuo è interamente assorbito dalle proprie esperienze interiori al punto da perdere ogni interesse per la realtà esterna, le cose e gli altri. La qualità della vita di un individuo è notevolmente influenzata dal tipo di rapporti che intrattiene con il suo ambiente. In particolare, un individuo può vivere uno stato di profondo disagio qualora il proprio comportamento non rispecchi le aspettative e le credenze del contesto sociale di riferimento: è il caso della dissonanza vissuta da quegli immigrati che, per adattarsi al sistema culturale della patria di accoglienza, rinunciano a mantenere quello d’origine, oppure è il caso del bambino handicappato per la cui integrazione non è sufficiente l’inserimento spaziale in una classe di “normali”, ma è necessaria anche la possibilità di esperire relazioni sociali del tipo consentito dal suo livello evolutivo. 22 Eugen Bleuler (1857–1939), psichiatra svizzero. Nella sua opera fondamentale, il “Trattato di Psichiatria” (1916), si alternano due visioni della malattia mentale: una organicistica e una psicodinamica. 74 LA MUSICA E IL DOLORE Ancora una volta, sono le sfumature a fare la differenza e a farci preferire la flessibilità mentale ad una qualsivoglia schematizzazione. 2b.4.4 IL SUONO PER L’ARMONIZZAZIONE Come può il suono porsi a mediatore del cambiamento, all’interno della cornice di un funzionamento così complesso qual è quello umano? “Ci troviamo di fronte - è innegabile - a una conoscenza “debole”, costruita su continui rimandi” perché il rapporto uomo-suono è un rapporto complesso, che va inserito nell’ampia “catena bio-psico-socio-ambientale” (Lorenzetti23, 1984). Se il suono riassume in sé l’unità mente-corpo-emozioni-relazioni che ho fin qui illustrato, allora produrre personalmente dei suoni e insieme fruire dei suoni altrui significa mettersi in relazione, attraverso il mezzo sonoro, con il complesso mondo esperienziale degli altri, oltre che con il proprio. La musicoterapia, in virtù della peculiarità del mezzo sonoro e della centralità della dimensione emotiva, mira a porsi come elemento riequilibratore e armonizzante dello spazio interno e sociale della persona, rispettando i tempi, i turni, dando voce alla profondità tramite l’immediatezza del musicale, puntando alla relazione positiva con il paziente, alla valorizzazione delle sue risorse residue, in accordo e in sintonia con la persona, con la finalità di trovare, assieme al terapeuta, il giusto spazio, il giusto ritmo e il giusto tempo. Come infatti in una personalità armonica sono possibili funzionamenti a diversi livelli, e l’acquisizione del livello superiore non cancella le modalità precedenti (le quali vengono anzi ricomprese in un insieme più o meno armonico) così, nella musica, trame armoniche molto complesse possono ricomprendere al loro interno elementi melodici. Damasio (2000) descrive il funzionamento dell’organismo umano attraverso un’interessante metafora, quella della partitura orchestrale: il comportamento di un organismo vivente non è il risultato di un’unica linea melodica semplice, ma un concorso di più linee melodiche, ed esse non derivano dall’apporto di un unico strumento quanto piuttosto da diversi gruppi di strumenti che producono differenti tipi di suoni ed eseguono melodie diverse; possono suonare ininterrottamente per tutto il brano, oppure tacere di tanto in tanto, a volte per un certo numero di battute. Un’ulteriore conseguenza è che tutto ciò che ha luogo in ciascun momento, in un tutto integrato, è la fusione di contributi diversi, non dissimile dalla fusione polifonica, di un’esecuzione orchestrale. 23 Loredano Matteo Lorenzetti, psicologo, architetto e musicista, pioniere della musicoterapia italiana. 75 LA MUSICA E IL DOLORE In musicoterapia, allo stesso modo, ciò a cui si trova di fronte l’osservatore è un insieme composito, un concorso di contributi nel tempo, che hanno tuttavia luogo in un unico organismo e sono connessi, in qualche modo, in virtù di un unico obiettivo. A fare da sfondo alla teoria dell’armonizzazione come orchestrazione è il concetto di intenzionalità: “Se l’improvvisazione da una parte è un momento in sé compiuto, dall’altra parte è un evento generato da una serie di momenti significativi della storia d’ogni relazione musicoterapica” (Barbagallo, 2003). L’attività creativa estemporanea del musicoterapeuta è mossa dall’intenzione terapeutica della costruzione di un senso condiviso, resa possibile dall’utilizzo di opportune tecniche. L’improvvisazione intenzionale favorisce la co-costruzione, all’interno del setting terapeutico, di un codice comunicativo non verbale comune: la forma musicale improvvisata non dovrebbe mai essere vissuta dal paziente come un corpo estraneo, bensì egli dovrebbe poter risuonare in essa qualcosa di sé, il più liberamente possibile. La relazione interpersonale diventa oggetto di indagine e la comunicazione, nella prospettiva psicologica, diventa pertanto il tessuto che crea, mantiene, modifica i legami fra le persone. Infatti, ogni qualvolta un soggetto comunica qualcosa ad un altro, egli definisce nel medesimo tempo sé stesso e l’altro, nonché la natura e la qualità delle relazioni che li unisce. “E’ plausibile affermare che la percezione della nostra identità sia frutto della capacità di raccontare a noi stessi la nostra storia, una storia prodotta da molteplici narrazioni: il racconto delle sensazioni, delle percezioni, delle immagini, degli affetti, degli spazi, delle relazioni, degli accadimenti, dei desideri e dei progetti. Passiamo la nostra esistenza a raccontarci la “nostra esistenza” e contemporaneamente a trovare il modo di raccontarla agli altri, ricercando ed utilizzando i modi e le forme che via via ci sembrano le più adatte ed efficaci a questo scopo” (Bonanomi, 2000). 2c LA TECNICA MUSICOTERAPICA Il presente capitolo cercherà di illustrare gli aspetti applicativi della musicoterapia. Verranno in primo luogo affrontate alcune questioni di carattere generale, quelle che cioè prescindono dal tipo di intervento musicoterapico, siano esse di natura pratica, psicologica o strategica; successivamente si procederà all’analisi delle tecniche musicoterapiche specifiche per la riabilitazione, la terapia e la formazione. Calare nella pratica questi concetti significa indiscutibilmente ridurne il respiro teorico, ma significa altresì dargli visibilità. Credo che anche di questa ci sia bisogno, ragion per cui invito a considerare i suggerimenti pragmatici che verranno di volta in volta dati come una delle 76 LA MUSICA E IL DOLORE traduzioni possibili del modello teorico d’intervento musicoterapico fin qui delineato; sono convinto infatti che i singoli gesti abbiano importanza soprattutto per la coerenza con il modello teorico di riferimento e tra di loro all’interno del progetto terapeutico. Queste linee guida generali non saranno quindi binari bensì indicazioni di rotta, all’interno ed attorno alle quali sarà possibile, oltre che doveroso per ogni musicoterapeuta, trovare gli aggiustamenti idonei al contesto in cui opera. 2c.1 ASPETTI GENERALI La musicoterapia, come ogni attività, necessita di uno spazio in cui aver luogo. La prima caratteristica che questo spazio deve possedere è quella di essere delimitato; la delimitazione rende un luogo stabile, riconoscibile, riservato, protetto (Anzieu, 1987); per queste stesse ragioni pare di poter estendere il concetto di delimitazione dal piano architettonico a quello acustico, considerando necessario un certo isolamento da e verso l’esterno (Borghesi, 1995). La stanza di musicoterapia deve inoltre avere caratteristiche che riguardano genericamente la qualità di fruizione ed altre abbastanza specifiche concernenti le dimensioni e l’acustica. La facilità di accesso al locale, la presenza di servizi adiacenti, il riscaldamento e l’igiene ambientale, sono tutti requisiti minimi indispensabili per ogni ambiente che si voglia candidare ad ospitare una qualsiasi attività di tipo terapeutico. Per quanto concerne le dimensioni, occorre a mio avviso tener conto di alcune considerazioni: l’attività musicoterapica necessita di un certo spazio di movimento o, in alcuni casi, spazio di distanza; la possibilità di organizzare attività gruppali orienterebbe immediatamente verso ambienti di discrete dimensioni, però occorre tenere presente che locali troppo ampi possono risultare carenti di punti di riferimento, poco o nulla contenitivi, dispersivi e pertanto poco idonei all’instaurazione di quel clima di fiducia e di sicurezza che è premessa di ogni presa in carico di tipo terapeutico. Anche le esigenze di tipo acustico orientano verso ambienti di medie dimensioni, in quanto locali troppo piccoli espongono ad intensità elevate mentre ambienti eccessivamente grandi determinano il problema della perdita di intelligibilità del messaggio sonoro a causa della dispersione acustica e della riverberazione. Paiono pertanto indicabili, a titolo puramente orientativo, locali di una quarantina di metri quadrati, dotati di appositi pannelli fonoassorbenti sulle pareti e di moquette sul pavimento. 77 LA MUSICA E IL DOLORE Per quel che riguarda la dotazione tecnica, un laboratorio di musicoterapia deve possedere uno strumentario per la produzione musicale, per l’ascolto di materiali preregistrati e per la ripresa audio-visiva degli incontri. Verranno di seguito nominati alcuni strumenti che possono rappresentare un campionario tipo, tuttavia mi pare opportuno fare due considerazioni preliminari alla compilazione di qualunque elenco: in primo luogo, segnalo la necessità di disporre di uno strumentario sufficientemente nutrito e vario; è importante che ognuno senta di poter compiere la propria ricerca con un margine di scelta sufficientemente ampio, sia per quanto riguarda le caratteristiche timbriche, sia per le possibilità di variazione dinamica, sia per le qualità intonative, melodiche e armoniche. In secondo luogo ricordo l’importanza della scelta di strumenti che lascino terapeuti e pazienti liberi da preoccupazioni; sarà opportuno quindi orientarsi verso strumenti solidi, di ampia facilità e libertà d’uso, al fine di ridurre le ansie concernenti l’incolumità degli stessi, strumenti di dimensioni tali da non poter essere ingeriti, strumenti che non inducano preoccupazioni di tipo igienico. Una famiglia di strumenti generalmente presente in gran numero e varietà è quella degli idiofoni, strumenti in cui il suono viene prodotto direttamente dal materiale costruttivo: xilofoni, metallofoni, wood block, cembali, legnetti, piatti, campane tubolari, maracas, triangoli, campanelli; a questa famiglia appartengono pure gli elementi “sonori” di cui è dotato l’ambiente stesso, i cui muri, vetri, scaffalature e termosifoni si prestano a frequenti utilizzazioni. Anche i membranofoni sono in linea di massima numerosi nei laboratori di musicoterapia: si tratta di quegli strumenti il cui suono si origina dalla vibrazione di membrane tese, ad esempio tamburi di ogni forma e dimensione, bongos, congitas, congas, timbales, tom. Terzo gruppo di strumenti è quello dei cordofoni, il cui suono deriva dalla vibrazione di corde tese tra due punti fissi: chitarra, salterio, pianoforte. Per la maggior parte i cordofoni sono strumenti delicati, perché vincolati a proprietà di amplificazione che solo casse acustiche in materiale pregiato e dalle ricercate forme sono in grado di produrre; per queste ragioni non vengono neppure menzionate in questo contesto intere famiglie di strumenti che godono altrove di ben altro blasone come, ad esempio, gli archi. Ancor meno frequenti sono in genere gli aerofoni, strumenti che hanno come vibratore primario l’aria e ciò principalmente per le già citate questioni di carattere igienico. Comunque gli aerofoni che più spesso si trovano nei nostri laboratori sono: flauto dolce, ocarina, armonica e vari richiami per uccelli (Centazzo, 1982). 78 LA MUSICA E IL DOLORE L’ultimo gruppo di strumenti di cui mi occuperò è quello degli elettrofoni, il cui nome deriva ovviamente dall’impiego di energia elettrica nella generazione sonora; gli esempi più noti e diffusi sono la tastiera elettronica, il microfono e l’impianto di registrazione/riproduzione stereofonica. Per quanto concerne la tastiera, penso che sia conveniente utilizzare uno strumento già in possesso di un proprio apparato di amplificazione interna, al fine di rendere più agevoli collegamenti e spostamenti; è inoltre importante orientarsi su prodotti in possesso di tastiera sensibile alla dinamica di pressione del tasto oltre che, ovviamente, delle caratteristiche più frequentemente riscontrabili in questo genere di strumenti, come l’estensione di almeno 5 ottave e una tavolozza timbrica sufficientemente ampia. Per il microfono, che deve poter essere indifferentemente utilizzato sia per la ripresa che per l’amplificazione diretta di ogni genere di sonorità, consiglio di riferirsi a componenti dinamici24 ed omnidirezionali25, sia per le caratteristiche foniche che per la robustezza costruttiva che generalmente contraddistingue questo genere di prodotti. L’impianto d’ascolto dei materiali preregistrati è in genere dotato della possibilità di utilizzare diverse sorgenti come cd e nastri. mi pare opportuno riferirci ad un sistema di alta fedeltà, capace cioè di riprodurre tutti i parametri musicali con un buon grado di approssimazione all’originale. La gamma delle frequenze deve esser tale da garantire l’ascolto non solo della linea melodica, ma anche delle armonizzazioni più gravi così come degli armonici più acuti, caratteristiche garantite da un impianto in grado di erogare in maniera sufficientemente lineare dai 20 ai 20.000 Hz; anche il parametro intensità deve poter essere riprodotto con una gamma di variazioni dinamiche “credibili” senza che questo debba comportare un livello di disturbo eccessivamente elevato o una perdita di intelligibilità degli insiemi sonori. Lo stesso impianto audio è in genere dotato di prese microfoniche che possono in taluni casi rivelarsi utili per la registrazione delle sedute. In coda a questo paragrafo sulle apparecchiature elettroniche parlerò di videoregistrazione, sistema monitoraggio assai diffuso in musicoterapia: il fatto che taluni pazienti attribuiscano a tali apparecchiature proprietà persecutorie, suggerisce collocazioni marginali di telecamera ed annessi; queste sono però generalmente sfavorevoli alla ripresa audiofonica di tali sistemi, perciò sono da preferire quelle soluzioni che consentono il collegamento ad un microfono esterno alla telecamera. 24 L’aggettivazione “dinamico” per un microfono si riferisce ad alcune caratteristiche costruttuive del sistema di trasduzione di cui è costituito. 25 Una delle caratteristiche principali del funzionamento di un microfono è la direzionalità, la quale specifica la capacità di captare suoni provenienti da diverse regioni dello spazio e viene descritta da un diagramma di polarità; si possono avere quindi microfoni a diagramma polare ipercardioide, cardioide, bidirezionale (o a otto) ed omnidirezionale. 79 LA MUSICA E IL DOLORE Sono sicuramente raccomandabili sistemazioni stabili delle apparecchiature elettroniche, che possono così essere collocate in posizioni di riguardo e funzionalmente vantaggiose, evitando i lunghi tempi e i frequenti contrattempi degli assemblaggi provvisori, i quali mettono oltretutto a repentaglio l’integrità dei sistemi stessi (Clementi, 1984). Non può mancare in una trattazione dello strumentario tipico dei laboratori di musicoterapia almeno una menzione all’ampia gamma di strumenti sonori che vengono costruiti o fatti costruire dai musicoterapeuti appositamente per determinate circostanze terapeutiche; di questo non mi occuperò direttamente in questo testo, ma rinvio l’approfondimento ad uno splendido manuale facilmente reperibile esclusivamente dedicato all’argomento (Rossena, 1995). L’elencazione dello strumentario si completa con la menzione delle sorgenti sonore più intime di cui si possa disporre: le voci e i corpi dei partecipanti. Ci preme comunque ricordare a complemento di quest’ultimo discorso, come l’enumerazione delle famiglie costituenti lo strumentario musicoterapico non sia di per se stessa sinonimo delle varietà sonore disponibili, dal momento che esistono molti differenti modi di utilizzazione per ognuno degli strumenti citati, cosa questa assai frequente in musica ma ancor più evidente nel contesto musicoterapico, in virtù del fatto che qui la creatività viene abbondantemente promossa. Così pensiamo alla percussione diretta dello strumento, effettuata da parte di chi lo manipola, quella indiretta, ottenuta con l’ausilio di un utensile, la percussione reciproca, in cui due corpi producono una vibrazione che si origina dall’urto dei medesimi; ancora, possiamo avere produzione sonora per raschiamento, per sfregamento o per strappo, oppure ottenuta da un flusso d’aria proveniente da un mantice o dai polmoni. Tutto ciò è ovviamente proponibile in ogni parte dello strumentario con effetti che si differenziano notevolmente gli uni dagli altri, limitati unicamente dalla capacità creativa del paziente e del terapeuta. Ogni intervento musicoterapico, sia esso terapeutico, riabilitativo o formativo, conosce l’utilizzo di taluni dispositivi psicologici che sono comuni ad ognuna di queste iniziative. Si tratta di strumenti che favoriscono la realizzazione di quel clima di fiduciosa collaborazione che è a mio avviso indispensabile allo sviluppo ed al mantenimento di un buon livello motivazionale, nei pazienti e negli operatori. Le attività nascono e proseguono all’insegna di quello che potremmo chiamare “atteggiamento di accoglimento” da parte degli operatori, i quali per l’appunto accolgono favorevolmente i loro utenti, sia sul piano fisico che su quello psicologico, ne tengono in grande considerazione ogni comunicazione, sia verbale che non verbale, senza esprimere giudizi morali a proposito 80 LA MUSICA E IL DOLORE di queste, senza criticare, senza squalificare, eventualmente riconnotandole positivamente, riutilizzandone le parti pertinenti al progetto in corso di realizzazione. Un altro elemento comune che, pur in modi diversi, viene utilizzato in ognuno degli ambiti precedentemente nominati, è il concetto di “costanza”, termine che orienta verso pensieri come solidità, durata, orientamento. Costante è una cosa solida, che resiste ai contrattempi, che resiste alla sfiducia, che non si lascia distruggere; costante è una cosa che dura nel tempo, che è consapevole della complessità della materia con cui tratta, che non confida nella rapidità del miracolo e non si espone pertanto allo sconforto distruttivo del fallimento; costante è una cosa che si sa di poter ritrovare, in un certo tempo, in un certo luogo. Praticamente si osservano: a) regolarità degli spazi e degli strumentari utilizzati, dei quali si è già ampiamente parlato; b) regolarità degli incontri; tale parametro può essere suscettibile delle variazioni più ampie a seconda della tipologia d’intervento in atto e può oscillare dalla alta frequenza dei precisi appuntamenti di un intervento terapeutico, alla più dilatata ed approssimativa indicazione del momento dedicato all’attività riabilitativa; c) regolarità dei partecipanti; anche in questo caso si hanno situazioni fortemente strutturate ed altre che lo sono assai meno, prevedendo magari la partecipazione, a fianco di operatori stabili, di altre figure saltuarie, oppure lasciando aperto l’accesso all’attività per utenti occasionali. Risulta evidente come quest’idea della costanza, della regolarità, sia in qualche modo presa in considerazione in ognuno dei tipi d’intervento citati, in quanto determinante per la costituzione ed il consolidamento di quel clima di fiducia che considero requisito assolutamente indispensabile. “Intenzionalità” può essere un’altra parola chiave, utile ad indicare l’esigenza di linee di condotta che possono accomunare tutti gli interventi di musicoterapia; nella formazione, nella riabilitazione, nella terapia, riscontriamo sempre una progettualità, composta di una analisi preliminare della domanda e dei bisogni, una dichiarazione preventiva d’intenti, un monitoraggio dell’esperienza e di un bilancio finale; d’altro canto, non può esistere intervento tecnico alcuno la cui applicazione non sia guidata da un fare consapevole: su ciò si determina la differenza tra professionalità e spontaneismo. Proseguiamo nell’analisi di quelli che possono essere i punti di contatto tra gli interventi musicoterapici riabilitativi, terapeutici e formativi. 81 LA MUSICA E IL DOLORE In caso di attività di gruppo si pone il problema di se e come regolarne l’accesso, stabilendone aprioristicamente alcune caratteristiche, come l’essere gruppo aperto o chiuso, omogeneo od eterogeneo. Spesso queste decisioni risentono consistentemente di influenze provenienti dalle istituzioni, dai committenti o anche dalle preferenze degli operatori coinvolti, prevaricando quelle che sarebbero le indicazioni ottimali derivate dalle valutazioni tecniche; non s’intende con ciò esprimere un giudizio di merito rispetto a tali circostanze, ma semplicemente indicare la necessità di prenderne atto (Racamier, 1972). Non è comunque di questo tipo di condizionamenti che mi occuperò. Rispetto alla scelta tra gruppo aperto o chiuso mi pare vantaggiosa l’ormai diffusa idea di regolamentarne in ogni caso l’accesso, in maniera da rendere anche questo parametro sufficientemente stabile da essere poi utilizzato con intenzionalità. In linea di massima si possono pensare cicli dagli 8 ai 12 incontri come dimensione sufficiente a garantire l’identità di un gruppo; in questa maniera si potranno affrontare gli eventuali ingressi gradualmente e le dimissioni come fatto atteso, programmato, che giunge al compimento di un percorso. Gruppo omogeneo o gruppo eterogeneo? Posta in questi termini viene certo da rispondere eterogeneo, non fosse altro perché diverse sono tutte le persone, per quanto ci si possa sforzare a riunirle in ghetti categoriali, come “gli psicotici”, “gli insufficienti mentali”, “i mongoloidi” e via dicendo; eterogeneo perché chiunque conduca attività gruppali non può non conoscere e non confidare nelle possibilità di confronto ed interazione che tale dimensione offre e considerarle strumenti preziosi per la riabilitazione e la terapia. Quello che si ricerca nella costituzione dei gruppi di musicoterapia è, più che un fatto di omogeneità, quella che definirei una questione di similitudine: in questo modo si potranno costituire gruppi eterogenei per età, sesso e patologia, ma omogenei per quanto riguarda i livelli di forza dell’IO, le motivazioni e gli obiettivi (Gabbard, 1992). 2c.1.1 IL SETTING TERAPEUTICO Che cos’è un “setting”? Il termine deriva dal verbo inglese “to set” che significa “mettere, collocare” e, in prima estensione, “preparare, mettere a punto, sistemare per”: si parla dunque di definire dei contesti, delle ambientazioni. In questo senso è stato impiegato per indicare il contesto di ricerca, specialmente in psicologia sperimentale, con il fine di preparare un ambiente che 82 LA MUSICA E IL DOLORE consentisse di non inficiare il processo di conoscenza e l’attendibilità dei dati raccolti. In psicoanalisi il termine definisce una situazione specificamente costruita per analizzare il significato affettivo dei vissuti del paziente (Galimberti, 1999). In musicoterapia il termine e il concetto di “setting” sono stati mutuati dalla tradizione psicoanalitica; tuttavia in molti casi questa eredità è stata accolta senza la necessaria consapevolezza, e ciò ha fatto sì che spesso lo strumento “setting” sia stato utilizzato in maniera parziale e improduttiva. Il contesto musicoterapico presenta una sua identità peculiare e dalla tradizione psicoanalitica si distingue chiaramente (basti pensare alla prevalenza espressiva del musicale, in luogo di quella del verbale); tuttavia ritengo che il setting sia uno strumento trasversale ed estremamente prezioso anche per questa disciplina. Autori come Eissler, Winnicott e Balint, hanno spodestato il primato dell’interpretazione a favore del valore terapeutico del setting in sé indagandone il significato nel trattamento delle patologie gravi. Winnicott scopre i limiti della funzione interpretativa lavorando particolarmente con pazienti psicotici: egli vede il fattore curativo della psicoanalisi non nella funzione interpretativa, ma nel modo in cui il setting analitico fornisce i rifornimenti parentali mancanti, ed appaga i primi bisogni di sviluppo. Per il paziente grave il setting verrebbe in questo modo a configurarsi come luogo del possibile adattamento, ove trovare se stesso e/o l’oggetto esterno capace di contenere la sua sofferenza. Anche in musicoterapia è “il luogo del possibile adattamento”, lo spazio potenzialmente capace di “contenere la sofferenza”, non solo per i pazienti gravi ma per tutte le tipologie di pazienti. Il setting musicoterapico, però, diventa il “luogo del possibile adattamento” non in virtù della restituzione dei “rifornimenti parentali mancanti” o del soddisfacimento dei “primi bisogni di sviluppo”, ma in quanto spazio aperto ai fenomeni che il paziente mostra nel qui e ora e che nel qui e ora esprimono significato. Si tratta ancora una volta di leggere le cose guardando le cose stesse, cioè di operare quella riduzione fenomenologica secondo la quale il terapeuta si sforza di guardare il paziente per come è, senza farsi condizionare o paralizzare da pregiudizi. La delimitazione accurata del setting partecipa a quel processo di integrazione spaziale e temporale dell’individuo che è favorito da, e al contempo consente, una certa chiarezza nel rapporto tra sé e l’altro, concorrendo significativamente al complesso lavoro sull’unitarietà della persona. Entro i confini della stanza di musicoterapia è auspicabile che vi sia uno spazio di libertà anche per il musicoterapeuta, che lo renda aperto all’originalità: presentandosi spoglio il più possibile di preconcetti e difese, desideri e aspettative egli, ad esempio, più agevolmente potrà evitare il senso di impotenza, oppure la rabbia per la mancanza di collaborazione da parte del 83 LA MUSICA E IL DOLORE paziente, e non correrà il rischio di classificarlo frettolosamente come inadeguato al trattamento musicoterapico. In questo senso il concetto di setting si dilata e viene a comprendere anche il musicoterapeuta. Nel corso di numerose supervisioni sono emerse da parte dei musicoterapeuti difficoltà “concrete” riguardo al che fare nei singoli casi. Una revisione di questo materiale mi ha indotto a ritenere che molte di tali difficoltà siano legate non tanto a problemi relativi al progetto terapeutico quanto a certi aspetti generali della cornice (o setting) all’interno della quale si inscrive l’intervento. Per questo mi pare importante ridefinire alcuni fondamenti del setting musicoterapico cercando di chiarire quali sono le caratteristiche necessarie e sufficienti che trasformano un ambiente in un setting, al fine di facilitarne l’utilizzo consapevole nei vari ambiti applicativi. Tre sono le cornici che definiscono il setting musicoterapico: quella spaziale, quella temporale e quella comportamentale. In senso fenomenologico, lo spazio è il darsi uno spazio (fisico, psicologico e acustico, come vedremo), il tempo è il darsi un tempo all’interno della durata della seduta e del trattamento, mentre la cornice comportamentale riguarda l’insieme di norme e divieti pattuiti tra musicoterapeuta e paziente. Il concetto di setting mantiene per me un senso di unitarietà e mi appare al contempo come una struttura e come un campo. Struttura è infatti “ordine intrinseco che garantisce a qualsiasi organismo la sua funzione e la sua conservazione”, ovvero “la stabilità e la funzionalità del tutto” (Galimberti, 1999). Poiché caratteristica di una struttura è la capacità di modificarsi lentamente nel tempo il setting, in quanto struttura, sembrerebbe funzionare allo stesso modo, evidenziando e promuovendo nel tempo dei cambiamenti. Analogamente, se si guarda al setting come ad un campo, si deve considerare che l’insieme dei suoi elementi costituisce un continuo che solo arbitrariamente può essere scisso in sezioni, le quali tutte contengono eventi dinamicamente interconnessi. Ogni evento musicoterapico posto al suo interno sarebbe così localizzabile da coordinate spaziali, temporali, comportamentali la cui materia è al contempo di natura fisica, psicologica e sonoro-musicale. Ogni evento ha senso per come si mostra in sé e in relazione a tutto ciò che gli sta attorno: il campo è infatti quel “luogo fisico o metaforico in cui compare l’oggetto d’indagine e con il quale l’ambiente globale, in cui l’oggetto si presenta, costituisce una totalità di fenomeni coesistenti che interagiscono” (Galimberti, ibidem). 84 LA MUSICA E IL DOLORE Cornice spaziale All’interno della cornice spaziale si intrecciano la dimensione fisica, la dimensione psicologica e quella acustica: come si può vedere, la cornice spaziale è per me un concetto multidimensionale. Per aver luogo ed essere costruttiva, una relazione intima come quella che si stabilisce tra paziente e terapeuta necessita innanzitutto di uno spazio fisico, la stanza di musicoterapia, che deve essere un luogo definito, riconoscibile, delimitato, costante, con una forte caratterizzazione architettonica, legato indissolubilmente ad una funzione. Purtroppo il musicoterapeuta non può sempre disporre di uno spazio esclusivo: a volte, anzi, egli si trova a dover convertire ad uso musicoterapico un ambiente fortemente caratterizzato in altro senso. Nel selezionare un ambiente adatto cerca di non essere rigido, ma anche di tener presenti le necessità basilari del laboratorio. In caso di multifunzionalità del luogo, diventa assai utile adottare tutti i dispositivi atti a facilitarne caratterizzazione e delimitazione. Ad esempio, è opportuno che lo strumentario musicale faccia la sua comparsa nel momento dell’attività, senza restare a far parte dei materiali esposti come arredamento; può anche essere necessario occultare materiali che rievochino la consueta funzione del locale (ad esempio materiali per l’espressività manuale o grafo/pittorica). Sarebbe opportuno inoltre che lo spazio destinato alla musicoterapia fosse di dimensioni medie, né costringente né dispersivo, cosicché sia il perimetro murario, come di solito accade nelle stanze di una casa, a delimitarne chiaramente i confini. In caso di locali troppo piccoli, converrà essere più oculati del solito nella selezione dello strumentario e degli arredi; nei locali troppo ampi si potrà invece cercare di delimitare lo spazio con tappeti, tendaggi, cuscini ecc., e strategiche disposizioni del materiale musicoterapico. In generale, gli strumenti verranno distribuiti in modo da favorire un punto di fuoco centrale ed essere facilmente raggiungibili dagli utenti: se avete la consuetudine di metterli per terra, il giorno in cui incontrate persone su sedia a rotelle o anziani, ricordatevi di cambiare assetto. Il setting però non coincide con la stanza di musicoterapia: avere la stanza di musicoterapia non significa avere il luogo del possibile adattamento se non si è consapevoli che rimane una stanza vuota fino al momento in cui è riempita da una relazione che si dà uno spazio, un tempo e un’intenzionalità propri. Cornice spaziale viene ora a significare uno spazio psicologico, dove la relazione terapeutica entra nel vivo e si sviluppa. La porta della stanza di musicoterapia può diventare così, nel corso delle sedute, la porta che 85 LA MUSICA E IL DOLORE si apre ad un universo di volta in volta diverso: un “multi-verso”, un “universo mondo” che è progettato prima e vissuto poi come luogo aperto a svariate possibilità abitative: l’operatore e il paziente lo vivono in seduta contenuti entro la sua fisicità che riempiono di movimento mentale. “Il mio papà è un tipo tranquillo. […] Ma quando viene la domenica ce ne usciamo dalla porta di dietro, quella che dà sulla savana. Lasciamo i nostri vestiti sotto un baobab, mentre il sole africano rende la sua pelle (e la mia) splendente e nera. Nel tronco del baobab sono nascosti i nostri ornamenti da guerrieri Masai e i coltelli, le frecce, gli archi e le lance. […] Insieme corriamo veloci nella savana come fanno i Masai. Fiutiamo l’odore delle gazzelle e dei grandi leoni che sonnecchiano, mentre all’orizzonte sbandano in branchi gli struzzi. […] Quando tramonta il sole e si vedono le prime stelle m’insegna i sentieri dove camminano gli spiriti. Ma in quel momento è tardi, dobbiamo rientrare. Ci rimettiamo i nostri vestiti, mentre la sera smorza la luce e ci fa pallidi di nuovo. Sorridendo, rientriamo in casa dalla porta di dietro; io tengo la mia 26 mano nella sua.” (Mariniello , 2002). Parafrasando l’estratto della novella, potremmo dire che “quando viene il giorno della seduta di musicoterapia”, un momento specifico e ricorrente, non importa quanto “tranquilli” (o invece agitati, depressi, sfiduciati ecc.) siano nella quotidianità musicoterapeuta e paziente: un processo di cambiamento è attuabile, nel luogo del possibile adattamento che è il setting, poiché tutto ciò che si agisce e si pensa all’interno di questa cornice accade in virtù della cornice stessa, di un tempo e di un luogo definiti e delimitati, all’interno dei quali ci si può (metaforicamente) spogliare dei propri vestiti, indossandone altri o anche stando per un po’ (metaforicamente) nudi. Una volta messo piede nel setting, ogni viaggio diviene possibile: non si è più solo “tranquilli” ma anche curiosi e “aperti al mondo”, per questo la porta della stanza di musicoterapia dà su mondi inaspettati e sempre nuovi, se chi la abita nutre quella fiducia reciproca che permette di tenere la propria mano in quella altrui. Quando il tempo della seduta finisce, si tornano ad indossare (sempre metaforicamente) i propri vestiti. Quello del paziente è comunque un andare via “sorridendo”, se egli può portare via con sé l’interiorizzazione della fiducia e della condivisione, la permanenza della significatività della relazione, fino alla successiva possibilità di incontro, di viaggio, di cambiamento. Entro i confini della stanza di musicoterapia il paziente trova libertà per pensare, sentire ed esprimere. Se la coppia è una diade (o il gruppo una rete), il percorso terapeutico si sviluppa nel senso della ricerca di un equilibrio in continua trasformazione, che non rifiuta gli apporti dell’una o dell’altra parte, ma che continuamente li modula e bilancia. Lo spazio mentale ed emotivo delle relazioni però è esposto, tanto quanto quello fisico, ad una serie di minacce: in particolare, esso tende ad essere eroso dalle richieste, più o meno 26 Cecco Mariniello, uno dei più conosciuti illustratori italiani di libri per ragazzi. 86 LA MUSICA E IL DOLORE consapevoli, che reciprocamente ciascuno avanza all’altro. Da ciò la necessità di proteggerlo dalle pressioni esterne, ma anche da quelle interne (Casement, 1990). A garantire massima chiarezza e tutela del rapporto terapico rispetto agli individui esterni (familiari, personale della struttura intermedia, e simili) contribuisce l’incontro regolare di musicoterapeuta e paziente. Tuttavia, questo assetto non sempre si verifica: può accadere ad esempio che alcune figure parentali o il personale delle strutture partecipino e/o interferiscano in maniera accidentale durante le sedute. Ancora una volta mi sembra opportuno fare un richiamo ad azioni che favoriscano la riconoscibilità, quindi la delimitazione e caratterizzazione del setting. Molti trattamenti si avvalgono dell’allargamento dello spazio psicologico ad altre figure. Non discuterò qui la necessità o meno di tale scelta, ma esorto a riflettere, nella fase progettuale dell’intervento, sulla opportunità dell’eventuale compresenza di più figure, considerando con attenzione quanto essa venga a confliggere con l’esigenza di delimitare il campo della relazione terapeutica. Nel caso in cui si decida, per opportunità terapeutica o per vincoli istituzionali, di allargare la relazione, è altamente raccomandabile favorire la presenza sempre dello stesso genitore/insegnante di sostegno/educatore/infermiere, nonché invitare ad una partecipazione che il meno possibile vincoli e imbrigli l’espressività dell’utente. Proteggere lo spazio psicologico del setting non significa evitare qualsiasi riferimento alla sua esistenza nelle ore o nei giorni in cui non si fa musicoterapia: ci sono anzi casi in cui questi riferimenti si rivelano utili, ad esempio può essere importante rammentare ad utenti anziani compromessi nell’area della memoria l’appuntamento musicoterapico. Piuttosto non vanno assecondate inutili ed invadenti curiosità sui particolari del processo in atto. Per quel che concerne invece la protezione dello spazio psicologico dalle pressioni interne, occorre essere consapevoli che se non si ha sufficiente cura nel disporre gli opportuni accorgimenti per riconoscere e disinnescare pregiudizi, posizioni ideologiche ed aspettative, lo spazio terapeutico e la sua funzione possono venire seriamente compromessi. Appare chiara anche in questo senso l’importanza, per i musicoterapeuti in formazione, di un training osservativo, di un’esperienza musicoterapica personale come fruitore, di addestramento alla stesura dei verbali, alla discussione in équipe, alle interazioni con i colleghi e della necessità di supervisione (Postacchini et al., 1997). C’è una terza dimensione, coesistente a quella fisica e psicologica, che partecipa alla costituzione della cornice spaziale e che si configura come musicoterapicamente originale: si tratta dello spazio acustico, la cui riconoscibilità è altrettanto auspicabile. 87 LA MUSICA E IL DOLORE Uno strumentario variegato permette al paziente (o al gruppo di pazienti) di trovare quella ricchezza timbrica che maggiormente consenta libertà di espressione; al contrario, l’assenza totale di una famiglia timbrica o di strumenti melodici può costituire grave mutilazione dello spazio acustico, favorendo la fuga verso altri spazi espressivi oppure una totale inibizione dell’espressività stessa. Suggerisco comunque di adottare sempre l’idea di intenzionalità nella scelta dello strumentario. Ad esempio, dopo un’accurata osservazione, si può procedere alla delimitazione dello spazio timbrico, togliendo quella parte dello strumentario che assuma valenze discomunicative per il paziente. La sottrazione, specie in itinere, è comunque un’operazione sempre ricca di delicate implicazioni, per questo anche nel caso di rottura degli strumenti è spesso utile riparare piuttosto che eliminare. Altra caratteristica indispensabile allo spazio acustico della terapia è l’intelligibilità: se si opera in ambienti fortemente riverberanti, si dovranno adottare correttivi fonoassorbenti, magari empirici come tappeti, tendaggi, e simili. Infine, è opportuno delimitare lo spazio acustico con un buon isolamento dai suoni esterni, i quali vengono altrimenti ad invadere il setting, rendendo ad esempio a scuola acusticamente presenti i compagni o le insegnanti delle classi adiacenti. La trasparenza acustica di certe pareti ostacola la definizione del setting musicoterapico altrettanto di quanto accadrebbe con pareti di vetro. Cornice temporale La gestione attenta di aspetti temporali, relativi alla singola seduta e all’intero trattamento, contribuisce in larga parte alla delimitazione di un setting. Come uno spazio dai labili margini favorisce fughe spaziali, un tempo fluttuante, imprevedibile, non ben delimitato e/o scandito induce fughe in termini temporali, ostacolando l’essere nel “qui e ora” del paziente. Come regola generale, si può dire che le sedute individuali durano mediamente 45-50 minuti ciascuna, quelle gruppali dall’ora alle due ore. Va precisato che il valore medio delle sedute gruppali è maggiormente variabile di quello riferito ai setting individuali, in quanto fortemente influenzato dalla tipologia e dal numero dei partecipanti. Sono ben consapevole che spesso cadenza e durata delle sedute sono pesantemente condizionate da considerazioni del tutto estranee agli aspetti terapeutici e tecnici della musicoterapia; vincoli economici e pressioni istituzionali spesso decidono al nostro posto. Ma, ancor peggio, le pressioni esterne agiscono su di noi (ed in questo senso l’elemento temporale diventa indicativo di quelle erosioni del setting di cui si diceva più sopra parlando di cornice 88 LA MUSICA E IL DOLORE psicologica). Ad esempio, un musicoterapeuta alle prese con le prime fasi di trattamento di una bambina, potrebbe considerare la durata delle sedute come parametro da modulare progressivamente sui bisogni della propria paziente, ma sentirsi fortemente inibito in questo dalle aspettative dei genitori, i quali potrebbero pensare (e far pesare) di pagare per 45 minuti di trattamento (e non di disponibilità del musicoterapeuta) e di aspettarsi una prestazione musicale corrispondente: non sempre, invece, il tempo effettivo di azione sonora coincide con il tempo concordato della durata della seduta, specie con pazienti gravemente inibiti nell’area dell’espressività. Ancora una volta mi pare fondamentale evitare il più possibile una posizione di tipo integralista e sforzarsi di operare nella direzione della flessibilità; un lavoro onesto e professionale è possibile anche in situazioni distanti dall’ideale musicoterapico. Darsi un tempo non significa unicamente regolamentare i tempi e le fasi della seduta terapeutica. Il recupero del concetto di intenzionalità che sta dietro all’espressione “darsi un tempo” porta a riflettere su intere sedute passate nel tentativo di ancorare faticosamente al suo presente un bambino ipercinetico, o ad altre dedicate alla ricerca del coinvolgimento di una paziente gravemente depressa nel tentativo di recuperare gli avanzi malcelati della sua immagine di futuro, o ancora alle ore passate tra storie di paese e canti popolari alla riesumazione dell’orgoglio di una memoria il cui presente è deficitario ed il cui futuro fugace. Anche la stabilità della durata dei singoli interventi nel corso del trattamento, non va perseguita in maniera acritica: esistono alcuni percorsi che traggono il loro maggior beneficio proprio da un incremento o da un decremento progressivi del tempo della seduta (ad esempio ciò accade nel trattamento di problematiche relative alla concentrazione). Si consideri invece il caso di un bambino che vive con la madre una relazione di eccessiva dipendenza: la diminuzione progressiva del tempo di presenza della madre nella stanza di musicoterapia viene a corrispondere con l’incremento della libertà del bambino nel “darsi un tempo”. Si riscontra nella pratica clinica un agire assai variegato rispetto al parametro “tempo”: è importante che ogni variazione avvenga sulla base di riflessioni consapevoli, proprio al fine di proteggere il setting dal rischio dell’apertura di brecce che sarebbero poi difficili da riparare. Si usa solitamente suddividere la seduta musicoterapica in tre momenti: accoglienza del paziente nel clima musicale, elaborazione del materiale emergente e conclusione dell’incontro. Si tratta di fasi solo sulla carta ben scandite nel tempo; più spesso ciò che si verifica è un fluido passaggio dall’una all’altra, anzi può accadere talvolta di calibrare sulle 89 LA MUSICA E IL DOLORE esigenze del paziente la loro scansione, o decidere di renderla meno precisamente caratterizzata. Un’altra questione di notevole rilievo per una buona delimitazione del setting riguarda la cadenza delle sedute. In linea di massima, il musicoterapeuta dovrebbe indicare un valore ottimale nella formulazione di un progetto d’intervento, difendendosi il più possibile da aspettative e pressioni della committenza che non abbiano fondamento nel significato terapeutico del setting. Perché il musicoterapeuta possa isolare il “qui e ora” del paziente e della relazione che con questi si va intessendo, è necessario che la cadenza delle sedute garantisca l’interferenza minima possibile sul cambiamento da parte di eventi estranei al contesto, che cioè la latenza tra una seduta e l’altra non venga a “sporcare” la lettura del processo di cambiamento in corso, mascherando o annullando le evidenze ad esso legate. Un’eccessiva diluizione temporale (meno di due incontri settimanali) è assai poco indicata per pazienti molto gravi, per i quali i fenomeni non permangono a lungo nella coscienza. Per i gruppi, invece, nella maggior parte dei casi è sufficiente una cadenza settimanale delle sedute. Un caso definito dalla committenza come “caso di emergenza” potrebbe essere utilmente differito di qualche tempo, se ci fossero alle porte le ferie del terapeuta, proprio perché ogni sospensione del trattamento, seppur temporanea, viene ad interferire non solo con il materiale già acquisito ma anche e soprattutto con la disposizione interiore ed esteriore dell’utente rispetto a nuove acquisizioni. Altrettanto importante riguardo alla cornice temporale è il tempo del trattamento nel suo complesso. Ci sono casi in cui è possibile progettare interventi di lunga durata, a causa della complessità degli obiettivi: alcune precauzioni possono anche in questo caso favorire la percezione dei confini. L’inizio del trattamento, ad esempio, andrà pianificato in un periodo nel quale sia possibile garantire, da ambo le parti, una buona continuità; le sospensioni per ferie andranno annunciate con anticipo e comunque, soprattutto nei casi con più grave compromissione delle facoltà psichiche, non dovranno essere troppo lunghe; la fine del trattamento andrà preparata con largo anticipo, annunciandola, riepilogando le fasi più significative della relazione terapeutica, incrementando l’autonomia e il distanziamento, ed evitando l’apertura di nuovi filoni musicali. Le comunicazioni relative alla durata del trattamento oscillano necessariamente tra dire e non dire: non ha senso allarmare un paziente che si mostra entusiasta del trattamento, alla prima seduta, con una comunicazione frustrante del tipo: 90 LA MUSICA E IL DOLORE “Il trattamento sarà purtroppo per noi molto breve”. Ciò non significa però che si debbano alimentare illusioni: “Non ti preoccupare, sarò sempre qui per te!” Ha senso invece comunicare assai per tempo la fine del trattamento ad un soggetto che si mostra assai dipendente ed imitativo rispetto all’operatore, magari facendo sì che la comunicazione del termine dell’intervento si trasformi in uno stimolo per il percorso di adattamento espressivo del paziente. Ci sono altri casi in cui il tempo del trattamento è determinato a priori dalla committenza: sarà necessario riformulare gli obiettivi in base a tempo e cadenza che ci sono concessi. Cornice comportamentale Per una buona perimetrazione del setting, ritengo indispensabile all’interno delle sedute anche una cornice comportamentale, che favorisca la chiarezza nel processo di adattamento del paziente e la possibilità del musicoterapeuta di lavorare serenamente. Si tratta di un accordo, un patto stipulato tra paziente (o gruppo di pazienti) e musicoterapeuta intorno a norme e divieti. In primo luogo, nel setting musicoterapico va costruita la possibilità di applicare una sorta di regola fondamentale della musicoterapia: il paziente accetta di essere completamente spontaneo con il musicoterapeuta e quest’ultimo agisce e reagisce subitaneamente accogliendo tutte le proposte dell’utente come legittime. Tutto ciò che passa per la testa del paziente, se nella seduta psicoanalitica è detto per libera associazione, in quella musicoterapica diviene oggetto sonoro del “qui e ora”, improvvisazione musicale contenuta e protetta all’interno del setting. Fondamentale risulta poi il divieto di violenza, che permette al paziente la concentrazione intorno al sentirsi e al pensarsi senza che l’azione sfugga dall’ambito sonoro e sconfini in un agito psicomotorio estraneo al contesto. Al contempo, il musicoterapeuta può pensare al paziente e alla relazione che con lui costruisce senza temere aggressioni e lesioni. Gli strumenti musicali non sono quindi delle armi da impugnare violentemente bensì occasioni 91 LA MUSICA E IL DOLORE sonore per esprimersi entro una cornice di libertà non violenta che consente anche l’espressione di sentimenti d’impeto e tumulto. C’è un ultimo aspetto che mi pare di rilievo al fine di ottenere uno spazio relazionale affidabile: quello etico. Il libero consenso del paziente (o di chi lo rappresenta legalmente) ad obiettivi, mezzi e tecniche del trattamento musicoterapico, costituisce un livello generale di definizione del rapporto, una sorta di requisito preliminare ed irrinunciabile per l’intervento. Inoltre, il musicoterapeuta si impegna a non operare discriminazioni sociali o razziali nella presa in carico del paziente, ad esercitare al meglio la sua competenza professionale e favorire il rapporto solo finché questo sia necessario, senza speculare sul disagio imponendo una durata del trattamento che vada oltre il dovuto. Il setting andrà garantito anche in termini di riservatezza: non sarebbe infatti ben delimitato se da esso uscissero cose private, quasi avesse pareti eticamente permeabili. La privacy può essere minata anche da eventi esterni alla stanza di musicoterapia: ad una madre che dopo aver atteso il figlio in trattamento musicoterapico sommerge di domande il musicoterapeuta, può risultare opportuno non disvelare alcune parti intime della relazione, qualunque sia l’urgenza ansiosa che muove la signora. Analoga attenzione sarà opportuno attuare nei confronti di tutte quelle sollecitazioni a violare la riservatezza che derivano da altri operatori o da interlocutori istituzionali. Anche all’interno delle discussioni di équipe, sarà opportuno comunicare solamente le informazioni strettamente necessarie, onde evitare inutili violazioni dell’intimità terapeutica. Sempre in tema di riservatezza, ricordo che alcuni professionisti considerano il videotape uno strumento di grande utilità all’interno del lavoro musicoterapico; tuttavia, anche rispetto all’impiego di questa ed altre apparecchiature per la registrazione, occorrerà disporre attente cautele di tipo etico e giuridico. In primo luogo, va ricordata la necessità di procurarsi un consenso informato al semplice utilizzo di simili strumenti. In secondo luogo, qualora si ritenga necessario portare fuori dal setting materiale videoregistrato, oltre all’autorizzazione da parte degli utenti, sarà comunque opportuna una attenta valutazione da parte del professionista circa le ripercussioni che un simile utilizzo potrebbe avere sull’intimità e sulla fiducia interne alla relazione. Parimenti, considero necessario rendere non riconoscibili i pazienti in caso di pubblicazioni scientifiche. Infine, proteggere il setting non può significare omertà: il musicoterapeuta che nell’esercizio della sua professione venisse a conoscenza di situazioni oggettive di sfruttamento e di 92 LA MUSICA E IL DOLORE violenza su minori e disabili, deve contrastarle, anche quando le persone appaiono consenzienti. 2c.1.2 COGLIERE MUSICALITÁ Cosa osservare, come osservare, quale uso fare di quanto osservato? Nella osservazione in musicoterapia una delle prime difficoltà è direttamente collegata al grande numero di eventi che accadono nell'unità di tempo. L'illusione di cogliere tutto compare assai frequentemente, ma ben presto i conduttori sperimentano l’impossibilità oggettiva di farlo; per questa stessa ragione avanza talvolta l’idea di affidare il compito osservativo ad una telecamera, tuttavia questa soluzione, oltre a presentare i limiti dovuti alla fissità del mezzo, che vengono soprattutto indicati in una certa insensibilità ai dati emotivi, rinvia semplicemente la selezione dei dati al momento della revisione del materiale, che in questo modo risulta essere oltremodo dispendiosa. Si è inoltre evidenziato il rischio che i conduttori effettuino, più o meno consapevolmente, una selezione dei dati finalizzata alla conferma delle proprie aspettative. La peculiarità comunicativa dell’intervento musicoterapico rende prioritario l’ascolto, la raccolta di elementi espressivi. Tuttavia, la valorizzazione di tutti gli aspetti non verbali, extra verbali e para verbali, tipica risorsa di questo approccio, può rendere molto complessa la percezione, la comprensione ed il ricordo di una moltitudine di stimoli sensoriali ai quali si viene esposti nel corso di ogni seduta. Da ciò scaturisce la necessità di dotarsi di strumenti atti a facilitare la categorizzazione del materiale. Penso che gli elementi di maggior rilievo debbano essere in vario modo ripresi nell’incontro successivo, al fine di alimentare la pur flebile continuità di un discorso terapeutico riabilitativo. La modalità del raccordo tra una seduta e l’altra, nella prima parte dell’incontro, è soggetta a notevoli variazioni a seconda della gravità del paziente: nei casi in cui è possibile, c’è un recupero verbale delle cose più significative della seduta precedente; più spesso ciò non accade, per cui si effettua una sorta di “verbale sonoro” dell’incontro precedente, utilizzando quel timbro, quella linea melodica, o quel frammento ritmico sul quale si era aperto un dialogo sonoro nel corso dell’ultima seduta. Nella seconda parte, che distinguo per chiarezza espositiva, l’improvvisazione occupa la maggior parte del tempo; può talvolta, tuttavia, essere 93 LA MUSICA E IL DOLORE annunciata da una consegna, il cui contenuto è l’invito ad una relazione con il terapeuta attraverso l’uso del mediatore sonoro e la cui formulazione varia sensibilmente a seconda delle possibilità di comprensione del paziente. Ulteriore centro d’interesse si è rivelato essere il “verbale” redatto dai conduttori, assieme alla discussione che generalmente di questo viene fatta. Alcuni verbali vengono scritti da uno solo dei conduttori, deputato fin dalla divisione dei compiti al ruolo di osservatore, altri riportano distinte osservazioni per ognuno di questi, altri ancora sono praticamente scritti a quattro mani, ossia conseguenti a discussione. Ovviamente, da ciascun tipo di verbale traspare chiaramente quale rapporto ci sia tra i conduttori e questo può talvolta condizionare pesantemente l’uso che il gruppo o il singolo utente può fare di questo strumento; in questo modo, prima ancora che per i contenuti, già dalla forma si arriva ad interrogarsi circa la funzione alla quale un verbale deve assolvere. In sostanza i protocolli analizzati hanno rivelato alcuni scopi ai quali vengono asserviti, con maggior o minor consapevolezza dei loro redattori; quelli che emergono con maggior frequenza e che si possono presentare sia in forma distinta che associata sono: 1) il convincimento: i conduttori usano il verbale per spiegare qualcosa al gruppo, per convincerlo della positività dell’esperienza o per indicarne le forme espressive “ottimali”; 2) la giustificazione degli atti e delle parole dei conduttori stessi, particolarmente se contestati; 3) il raccordo con l’incontro precedente. All’interno dei verbali trovano spazio la descrizione degli eventi salienti, le verbalizzazioni del gruppo e talvolta alcuni commenti dei conduttori; mi è accaduto spesso di riscontrare un elevato grado di permeabilità delle descrizioni alle interpretazioni, la qual cosa ostacola il gruppo nel processo di riconoscimento della propria storia. Comunque, troppo spesso nella mia esperienza, i verbali sono parole di parole: non c’è musica, non c’è musicalità. La cosa che più ha attratto la mia riflessione riguarda la peculiarità dell’osservare musicoterapico, ciò che lo distingue da altre forme di terapia: l’osservazione durante l’azione. Se in ambito psicodinamico è stata descritta la necessità di sviluppare una sorta di visione binoculare, intendendo con ciò l’esigenza di rivolgere al contempo lo sguardo alla relazione transferale e al moto controtransferale, ancor più in ambito musicoterapico sarà opportuno addestrarsi alla consapevolezza delle retroazioni istantanee e sviluppare ciò che per vezzo linguistico amo da tempo denominare “ascolto biaurale”. Ogni nota, ogni silenzio sollecitano 94 LA MUSICA E IL DOLORE ad altre note, ad altri spostamenti, non tutti così programmaticamente terapeutici, ma più spesso prossimi all’ambito dell’agito afinalistico, quando non a quello delle sonorità saturanti. Ascoltare ed ancora ascoltare. Ascoltare i suoni dell’utente ed ascoltare i suoni che si sentono crescere in sé. Ascoltare, prima di rispondere. Ciò non esclude talvolta la necessità di rispondere tempestivamente, di cogliere lo stimolo al volo, ma questa mi pare assai meno trascurata della capacità di creare un ampio spazio acustico, all’interno del quale l’utente possa lanciare e se necessario ribadire fino a strillare la propria Identità Sonora (ISO). A questo punto il discorso intorno all’osservazione, al non visto, allo stravisto, al vedere e all’essere visionari, intorno a filtri, occhiali, orecchie tappate, oggettività ed intersoggettività, viene rimandato al capitolo sulla supervisione, dove queste tematiche troveranno apposita trattazione, poiché l’ambito loro congeniale pare proprio essere quello del ripensamento. 2c.1.3 I CONTESTI Il concetto di musicoterapia è ampio, ha implicazioni molto vaste, si riferisce ad ambiti operativi profondamente differenziati tra loro. Ciò che tuttavia accomuna chiunque operi nel campo musicoterapico è la tensione a cercare, se già c’è, o altrimenti a favorire un’armonia interna della persona sintonizzandosi ad essa, per consentire che una qualche forma di relazione possa instaurarsi. Quando si parla di musicoterapia ci si riferisce non solo alla terapia in senso stretto, bensì anche ad altre attività, come la riabilitazione, la prevenzione, l’integrazione, l’educazione, e così via. A questo ampio spettro di competenze corrisponde un repertorio di figure professionali altrettanto nutrito: terapeuti, riabilitatori, educatori ed insegnanti. Sono figure professionali diverse, hanno curricola formativi completamente distinti, operano in condizioni e contesti diversificati. Ma chi è il musicoterapeuta? Gli insegnanti restano insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione psicologica e parimenti gli psicoterapeuti ed i riabilitatori mantengono la propria identità professionale, anche nel caso che utilizzino un brano musicale all’interno del loro setting. Ma quegli operatori che si occupano di musicoterapia spesso con pazienti gravi, che operano in strutture sanitarie (pubbliche o private), terapeutiche, riabilitative, assistenziali, che collaborano alla formulazione di un progetto terapeutico/riabilitativo all’interno di una équipe multidisciplinare, che provengono da un rigoroso percorso formativo, ebbene quegli operatori sono musicoterapeuti. 95 LA MUSICA E IL DOLORE Ritengo che la musicoterapia come termine ombrello, il quale finisce per coprire le attività più diverse fra loro, sarebbe un fenomeno infinitamente meno rilevante se qualsiasi attività che utilizza il parametro musicale, sia in ambito educativo che in ambito riabilitativo-terapeutico, accettasse di sottostare ad alcune elementari regole di chiarificazione metodologica e comunicativa, dichiarando e specificando preventivamente: a) i contesti operativi, e le loro relative finalità istituzionali in cui si intende operare; b) perché si sia deciso, in tali contesti e di fronte a quali situazioni, di utilizzare quella specifica forma terapeutica definita musicoterapia; c) chi è responsabile del progetto, qual è il progetto e quali ne sono gli obiettivi; d) i presupposti teorici che vengono usati per giustificare il proprio indirizzo progettuale e per interpretare, analizzare e valutare i dati esperienziali; e) le modalità di valutazione, sia istituzionale che del gruppo di lavoro, dei risultati ottenuti e non ottenuti; f) chi e come supervisiona l’intera attività. 96 LA MUSICA E IL DOLORE Capitolo III: la musica e il dolore 3.1 LA MUSICOTERAPIA APPLICATA AL PAZIENTE CON DOLORE CRONICO La musica come intervento terapeutico è nata nei primi anni del novecento degli Stati Uniti, ma ha avuto il suo maggiore sviluppo a partire dai primi anni ’50. Inizialmente veniva usata nella cura del dolore causato da ferite, ma negli ultimi anni venti anni l’uso della musica, considerata come un intervento, è aumentata, fino a diventare una crescente ed interessante terapia complementare. La musicoterapia è stata usata per pazienti di tutte l’età, dai neonati, ai bambini, dagli adulti agli anziani. Il suo impiego comprende tantissime cure specialistiche come terapie intensive e rianimazioni, terapie intensive cardiologiche, oncologia, nell’ambito materno e ginecologico, in geriatria e nelle cure palliative. Ha trovato anche uno spazio considerevole in sala operatoria, sia nel pre-operatorio, sia intra-operatorio e sia nel postoperatorio. La musicoterapia è usata anche in unione ad altre attività come programmi di educazione e video messaggi rilassanti. Sono presenti parecchie ricerche inerenti a questo argomento, perché il dolore, come ho già detto, è una patologia debilitante che colpisce migliaia di persone in tutto il mondo, che fa spendere centinai di migliaia di dollari l’anno ogni stato e, soprattutto, costringe i pazienti a diventare dipendenti ai farmaci antidolorifici e ad assumerli in dosi sempre maggiori. I primi documenti che associano la musicoterapia al trattamento del dolore cronico risalgono agli Stati Uniti durante la due guerre mondiali dove curavano i veterani che avevano riportato traumi e ferita. Gli individui ospedalizzati si cimentarono, attivamente (ossia suonando degli strumenti) oppure passivamente (cioè ascoltando), durante le attività musicatali, che attenuavano la percezione del dolore. Numerosi medici ed infermieri testimoniarono gli effetti vantaggiosi che la musica riproduce, e nel 1944 alla Michigan State University venne inaugurato il primo corso di laurea in Terapia della musica. In uno studio effettuato, e pubblicato nel luglio del 200327, dal Professore Ruth McCaffrey (Assistente Professore alla Florida Atlantic University College of Nursing) e dal Professore Edward Freeman (Professore alla Florida International University) riguardante l’efficacia 27 Pubblicato sulla rivista “Journal of Advenced Nursing” il 16 luglio del 2003, autori Professore Ruth McCaffrey e Professore Edward Freeman. 97 LA MUSICA E IL DOLORE della musicoterapia nei pazienti anziani ed affetti da osteoatrite. Presero un campione di 66 persone, tutte aventi circa 65 anni di diagnosi di osteoatrite; formarono due gruppi da 33 persona ciascuno. In ogni gruppo erano presenti 22 donne e 11 uomini28 di età compresa tra i 58 e i 76 anni per il gruppo di esperimento, mentre per il gruppo si controllo erano sempre 22 donne e 11 uomini, ma con un età compresa tra i 61 ed i 75 anni. Al primo gruppo è stata fatta ascoltare della musica29 per 20 minuti al giorno, dopo circa un’ora dalla toilette del mattino, per 14 giorni, e dopo 1,7 e 14 giorni gli è stato chiesto di complicare un questionario inerente alla percezione e sensazione dolorosa. Al gruppo di controllo, invece, è stato mantenuto in silenzio per 20 minuti al giorno, dopo circa un’ora dalla toilette del mattino, per 14 giorni, e dopo 1,7 e 14 giorni gli è stato chiesto di compilate un questionario inerente alla percezione e sensazione dolorosa. Il risultato fu che nel primo gruppo il dolore si era notevolmente ridotto, e che comparato al secondo gruppo, la percezione dolorosa era più lenta a ritornare, mentre nel secondo gruppo il dolore è rimasto pressoché invariato. Una ricerca uscita sul “ONF”30 nel settembre del 2003, scritta dalla dottoressa Kristine L. Kwekkebook, prende in considerazione la musica e una fonte distraete (una libro registrato) nei pazienti affetti da cancro e sottoposti ad procedure mediche invasive. Per rendere più veritiero possibile lo studio, gli interventi sono stati resi più uguali possibile, sempre entro certi limiti, eliminando cioè tutte quelle piccole differenze personali che ogni medico possiede. Sono stati presi 58 pazienti, di età media di 53 anni, affetti da cancro e sottoposti ad procedure mediche invasiva, come biopsia di tessuti, e sono stati divisi in tre gruppi. Il primo gruppo, avente 24 pazienti, comprendeva nell’ascolto di musica durante le procedure, il secondo gruppo, di 14 persone, comprendeva una distrazione durante questi interventi mentre l’ultimo raggruppamento, di 20 pazienti, era considerato come gruppo di controllo. Il primo gruppo è stato invitato a scegliere la musica da un catalogo offerto dalla ricercatrice, il secondo, invece, hanno scelto un libro registrato da una raccolta, mentre l’ultimo gruppo è rimasto in silenzio durante le procedure. La musica e il libro registrato sono stati fatti ascoltare prima, durante e dopo l’intervento. I risultati sono che non c’è tanta differenza tra l’ascoltare musica o un fattore distraete prima durante e dopo la procedura; il dolore e l’ansia sono diminuite rispetto al campione guida mentre tra i due gruppi di studio la percezione della sensazione dolorosa, durante l’intervento, non ha mostrato grandissime differenze, ansia, invece, si è dimostrata leggermente inferiore in chi ascoltava musica. 28 La diffusione di questa malattia tra i sessi è di 2:1 per le donne, di conseguenza, per rendere più veritiero possibile l’esperimento hanno dovuto considerare un valore doppio delle donne rispetto agli uomini. 29 La musica scelta fu quella Mozart, e più precisamente, Andantino da concerto per flauto e arpa, Le nozze di Figaro e la Sinfonia N.40. 30 L’articolo apparso sul “ONF” risale al 4 settembre del 2003 ed e stato scritto da Kristine L. Kwekkebook 98 LA MUSICA E IL DOLORE Sul “Journal of Nursing Care Quality”31 del 2003 è apparso un articolo che attestava l’efficacia della musicoterapia in ambito oncologico. I pazienti e i loro familiari sottoposti a questo trattamento hanno avuto un beneficio, non solo dal punto di vista del dolore, riducendolo, ma anche dal punto di vista psicologico e emozionale riducendo l’ansia, lo stress e la depressione. I risultati sono stati talmente grandiosi che, questa terapia è stata inserita nelle cure consigliate del Medicine Service at Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Una ricerca fatta in Germania e pubblicata nel dicembre del 2005 sul “Annals of the New York Academy of Sciences”32 dimostra come la musicoterapia, in appoggio ad una adeguata terapia farmacologia, possa sia migliorare il dolore sia il suo ritorno. Sono stati presi 40 pazienti affetti da dolore cronico e suddivisi in due gruppi. Il primo gruppo di 21 persone, ed una età media di 53 anni, hanno ricevuto, in aggiunta alla loro terapia farmacologia, anche la musicoterapia, mentre il secondo gruppo, di 19 pazienti, ed un età media di 52 anni, gli è stato somministrata solo la terapia farmacologia. Dopo una settimana sono stati sottoposti a delle domande per quantificare la loro sensazione dolorosa. Nel primo gruppo il 71% dei pazienti ha ricevuto un miglioramento significativo da questa terapia mentre nel secondo raggruppamento solo il 35% delle persona ha ottenuto una diminuzione del dolore, inoltre le persone del primo gruppo hanno ottenuto una stabilizzazione migliore del dolore ed un ritorno più lento. Sulla rivista “International Nursing Review” nel 2006 è apparso un articolo, intitolato La musica come intervento contro il dolore in cinque Paesi Asiatici, scritto da P. H. Lim33 e da R. Locsin34, che raccoglieva nove distinti studi, fatti in Cina, Filippine, Corea del Sud, Tailandia e Taiwan, sugli effetti curativi della musicoterapia sul dolore. I criteri usati per raggruppare gli studi sono stati, l’età dei pazienti (dai bambini agli anziani), l’ospedalizzazione dei pazienti e non, i tipi di musica usati (suoni naturali, voci, musica registrata o dal vivo, con o senza lirica), gli studi sia pubblicati sia i non e gli articoli recensiti. L’origine delle nove ricerche sono, quattro dalla Tailandia, due dalle Filippine, ed una da Taiwan, Corea del Sud e Cina. Sette dei nove studi hanno utilizzato un metodo di ricerca sperimentale, uno studio, invece, ha usato un metodo quasi sperimentale mentre l’ultimo ha usato uno studio pilotato. Il metodo di ricerca sperimentale si basa su tre tipi di ricerca 31 Journal of Nursing Care Quality è un trimensile. L’articolo in questione risale al trimestre gennaio-marzo del 2003 ed è stato scritto dal Simone B. Zappa e da Barrie R. Cassileth. 32 L’articolo compare alla pagina n°283 del suddetto gionale 33 P. H. Lim è professore nella facoltà d’Infermieristica all’ Università Principe di Songkla ad Hat Yai, Songkla, Tailandia. 34 R. Locsin è professore nel Christine E. Lynn Nursing College, Università della Florida, Boca Raton, Florida USA. 99 LA MUSICA E IL DOLORE differenti. Nella prima ricerca sono stati presi 38 pazienti post-operati e divisi in due gruppi, uno di controllo, l’altro sottoposto a musicoterapia. I risultati sono stati molto positivi, si è notato una notevole interazione tra il tempo di ascolto e la riduzione del dolore; i pazienti del gruppo sottoposto a musicoterapia hanno manifestato molto meno dolore rispetto ai colleghi del gruppo di controllo. La seconda ricerca ha esaminato 169 soggetti, affetti da dolore cronico, e suddivisi in due gruppi, il primo (di 86 pazienti) sottoposto a musicoterapia, il secondo (di 83 pazienti) basato sulle cure farmacologiche. Il sollievo dal dolore è stato migliore nei pazienti sottoposti a musicoterapia piuttosto a quelli sottoposti a cure farmacologiche, anzi nei soggetti del primo gruppo è stato riscontrato anche un abbassamento delle pressione sanguigna e della frequenza cardiaca. La terza ricerca esamina gli effetti della musica sul dolore da travaglio in un campione di 110 donne tailandesi. Sono state divise in due gruppi, il primo di 55 donne è stata sottoposta a musica mentre il secondo gruppo è stato considerato come gruppo di controllo. Il dolore è stato misurato prima dei trattamenti, ed ogni ora di studio per le tre ore successive. Le donne del primo gruppo hanno riscontrato un dolore minore rispetto a quelle del secondo gruppo ed un parto “più sereno e tranquillo”. Lo studio quasi sperimentale si basava sugli effetti della musica durante la fase del travaglio. Le pazienti, di nazionalità cinese, sono state assegnate casualmente o al gruppo di controllo o a quello della musica. Nello studio pilotato la musica è stata usata in alternativa alla terapia farmacologia nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico. Alla fine sei dei nove studi presi in considerazione hanno stabilito che la musicoterapia apporta un sollievo nel trattamento del dolore (anche quello cronico) nonché un beneficio a livello fisiologico, abbassando la pressione sanguigna e migliorando l’umore dei pazienti, mentre i restanti tre hanno avuto un esito misto che non prova, ma nemmeno confuta, gli effetti di alleviamento della musica sul dolore. Uno studio pubblicato sulla rivista “Journal of Advanced Nursing”35, del maggio 2006, dimostra come la musica può lenire il dolore cronico. Lo studio è stato condotto da Sandra Siedlecki, della Cleveland Clinic Foundation, e dai suoi collaboratori; al trial hanno partecipato sessanta volontari di età media intorno ai 50 anni con esperienza di dolore cronico legata soprattutto a patologie quali l’osteoartrite e l’artrite reumatoide. I volontari sono stati divisi in due gruppi uno dei quali ha ascoltato, per sei mesi, musica almeno per un’ora al giorno. Il tipo di musica è stata scelta dagli stessi pazienti a seconda dei loro gusti e la maggior parte di loro ha prediletto la musica melodica. 35 Notizia Ansa di venerdì 26 maggio 2006 100 LA MUSICA E IL DOLORE Secondo quanto emerso dalle interviste fatte ai volontari circa la percezione del dolore risulta che il gruppo che ha inserito la musica nella pratica quotidiana ne ha tratto beneficio in termini di percezione del dolore, ma non solo, secondo i ricercatori l’ascolto della musica produce piacere e forse effetti benefici sulla salute perché induce una alternanza controllata tra eccitazione e rilassamento. Un’appropriata selezione di brani musicali, composta di brani veloci e lenti intervallati da pause, potrebbe essere utilizzata come trattamento per indurre il rilassamento e avere effetti benefici nell’ambito della terapia delle patologie cardiovascolari. La dottoressa Siedlecki ha dichiarato che “i partecipanti allo studio hanno dichiarato di aver tratto beneficio dall’ascolto della musica non solo nell’umore ma anche nella percezione del dolore. Per molti di loro essersi leggermente affrancati dal dolore cronico ha significato riprendere una vita normale che prima avevano abbandonato”. Nonostante ci siano parecchi studi che attestano l’efficacia della musicoterapia sul dolore (soprattutto quello cronico), riducendolo, in alcuni casi annullarlo, e ritardando anche la sua ricomparsa, molti scienziati, e soprattutto medici, sono ancora molto scettici sull’argomento, ritenendolo solo un placebo di scarso interesse medico. Dato che la maggior parte degli studi che ho ricercato sono stati presi da giornali o riviste di origine infermieristica perché non considerarla anche in Italia una pratica infermieristica? Per me la musicoterapia può entrare a far parte delle pratiche infermieristiche perché: non è un farmaco, quindi non entra a far parte di tutta la legislatura dei farmaci, non da controindicazioni, non ha bisogno di una prescrizione medica, la prescrizione la può fare anche l’infermiere stesso, non è una procedura invasiva e in ultimo non richiede nessuna abilità manuale specifica, ma solo di una conoscenza a livello teorico. In più, negli Stati Uniti, la musicoterapia è considerata già una pratica infermieristica da circa vent’anni. 101 LA MUSICA E IL DOLORE Conclusioni Il dolore cronico è una delle patologie più debilitanti al mondo, è l’anticamera di tante malattie psichiatriche, tra le quali la depressione e l’ansia e purtroppo non sempre i farmaci analgesici danno i frutti sperati, causando solo dipendenza e resistenza. È una spesa economica pesante e gravosa, sui bilanci degli Stati Europei, che spendono ogni anno miliardi di dollari per fronteggiare questa malattia. La musicoterapia è una tecnica di cura innovativa, per il vecchio continente, che consentirebbe agli Stati di risparmiare parecchie migliaia di dollari l’anno, ma ancora più importante, consentirebbe a molte persone di riavere uno stile di vita normale e di riacquistare rapporti affettivi sociali e lavorativi e di disintossicarsi dai farmaci. Il problema più grosso è che molti medici ignorano questa tecnica, non la considerano in maniera adeguata, ma hanno dei pregiudizi, dettati principalmente dalla non conoscenza, venendo considerata erroneamente un placebo. Negli Stati Uniti è stata riconosciuta come terapia mutuabile da più di vent’anni ed è stata riconosciuta anche come terapia alternativa ai farmaci. Sono stati effettuati numerosi studi, a partire dai primi anni ottanta, con questa domanda “la musicoterapia ha effetti sul dolore cronico?”. Moltissimi studi36 hanno dimostrato gli effetti positivi della musica sul dolore, riducendolo e in alcuni casi eliminandolo, favorendo la guarigione dalla depressione, causata dal dolore, ed avere effetti benefici anche sul sistema cardiocircolatorio. Alcuni scienziati considerano solo una piccola parte di questi studi, ossia quelli che hanno ottenuto risulti mediocri, dicendo che gli studi sono pochi e che quelli che ci sono non sono molto incoraggianti. Purtroppo finché la si pensa così, la musicoterapia non avrà molta strada e verrà archiviata come placebo; gli studi inerenti, come ho già detto, sono tantissimi e dimostrano gli effetti benefici sul dolore, speriamo che in un futuro prossimo si cambi idea e che la musicoterapia possa fare strada in questo ambito. 36 Ci sono centinaia e centinaia di studi, io ne ho riportati solo alcuni, quelli secondo me, che meglio rispondevano alla domanda precedentemente fatta. Per vedere gli studi andare al Cap. 3°. 102 LA MUSICA E IL DOLORE BIBLIOGRAFIA AA. VV. Enciclopedia Treccani 1998 AA. VV. La nuova Enciclopedia della musica, Garzanti, Milano 1983. AA.VV., L’Enciclopedia della Musica (1995), Istituto Geografico De Agostini, Novara. Anolli, L. (a cura di), Psicologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna 2002. ANZIEU D. (1985), Le Moi-peau, Bordas, Paris (tr. it. L’Io pelle, Borla, Roma 1987). Baily John “Music strctureand human movement”, in Musical structure and cognition, London academic press, 1985 BARANGER M., BARANGER W. (1961-62), (tr. it.La situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Cortina, Milano 1990). Barthes R., La grana della voce, in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985. BENENZON R. (1981), Manual de musicoterapia, Paidos, Barcelona 1981, (tr. fr. Manuel de musicothérapie, Privat, Toulose 1983; tr. it. Manuale di musicoterapia. Borla, Roma, 1984). Benenzon R. 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