alma mater studiorum la musica e il dolore

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ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO IN LAUREA IN INFERMIERISTICA
LA MUSICA E IL DOLORE:
LA MUSICOTERAPIA APPLICATA AL PAZIENTE CON
DOLORE CRONICO
Tesi di laurea in Infermieristica Clinica 3
PRESENTATA DA
RELATORE
Corbelli Massimo
Borghesi Massimo
SESSIONE I
ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007
-1-
Indice generale
Capitolo I: il dolore
1.1
Che cos’è il dolore
1.1.1 Che cos’è il dolore: il punto di vista filosofico
1.1.2 Che cos’è il dolore: il punto di vista medico
1.1.3 Che cos’è il dolore: il punto di vista psicologico
4
4
7
18
1.2
Il dolore cronico
21
Capitolo II: la musicoterapia
Introduzione: che cos’è la musicoterapia
2a
Il terapeutico in musicoterapia
2a.1 Insegnamenti, educazione in musicoterapia
2a.2 Riabilitazione e terapia
2a.2.1 La riabilitazione
2a.2.2 La terapia
2a.3 (Musico) terapeuti e terapisti
2b
Fondamenti fisiopatologici per la musicoterapia
2b.1 Deficit ed handicap
2b.2 La struttura dell’handicap
2b.2.1 La struttura neurofisiologica di base
2b.2.2 L’apprendimento
2b.2.3 La reazione oggettuale
2b.2.4 La reazione sociale
2b.2.5 Le dinamiche di gruppo
2b.3 Prevenzione e complicanze dell’handicap
2b.4 La filosofia d’intervento
2b.4.1La teoria dell’armonizzazione del benessere
2b.4.2 La persona: mente-corpo-emozioni-relazioni
2b.4.3 La relazione Lo Mondo:apprendimento tra
affettività e socialità
2b.4.4 Il suono per l’armonizzazione
-2-
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75
2c
La tecnica musicoterapica
2c.1 Aspetti generali
2c.1.1 Il setting terapeutico
2c.1.2 Cogliere musicalità
2c.1.3 I contesti
76
77
82
93
95
Capitolo III: la musica e il dolore
3.1 La musicoterapia applicata al paziente con dolore cronico
97
Conclusioni
102
Bibliografia
103
-3-
CAPITOLO 1: IL DOLORE
1.1 CHE COS’È IL DOLORE
Che cos’è il dolore? La domanda sembra abbastanza scontata, ma non è così; ognuno di noi
“ha sperimentato”, o meglio, ha provato sulla propria pelle il dolore, che sia di origine fisica,
come una ferita o l’infiammazione di un nervo, oppure di origine psicologica-sentimentale,
come la fine di un rapporto sentimentale o la morte di un partente; cercherò, quindi, di
rispondere a questa domanda guardando il dolore sotto tre punti di vista; dal punto di vista
filosofico citando il pensiero di alcuni filosofi, dal punto di vista medico annunciando tutti i
processi che fanno nascere questo sentimento ed interpretandolo come segnale di allarme ed
infine dal punto di vista psicologico interpretando il dolore come “danno” nella psiche
umana.
1.1.1
CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA FILOSOFICO
La filosofia considera il dolore come momento del più vasto problema del male. Gli antichi
Greci pensavano che il dolore fosse un ostacolo alla felicità, e quindi uno stato della
coscienza da eliminare, dato che consideravano la felicità come scopo della vita umana:
naturalmente considerata la difficoltà di eliminare il dolore dalla vita fisica, pensavano che
l’eliminazione di esso si potesse raggiungere sul piano della meditazione filosofica, e dal
superamento delle passioni. Nell’antica Grecia si pensava che un dolore che affliggeva più
persone, cessa di essere patimento, solo per il fatto di essere intersoggettivabile e
comunicabile, trasformandosi in un qualcosa di molto simile al disagio o al malessere, ossia
alla mezza contentezza. Un qualcosa di condivisibile con gli altri uomini, sia sul piano della
cognizione e dell'esperienza che su quello della ragione, ci fa comprendere d'essere pezzi di
qualcosa, di non essere delle isole ma parti di un continente, d'essere uomini che sanno di
godere e di tribolare insieme. Un uomo, è vero, ha sempre la pretesa di patire di più di
chiunque altro perché non partecipa con altri uomini di tale passione e quindi del suo dolore:
questo, per il fatto d'essere unico ed irripetibile, sarà anche indefinibile e incomunicabile.
Nella Grecia antica l'espressione Paqos è ogni affezione dell'anima che sia accompagnata dal
piacere o dal dolore, dove il piacere e il dolore sono segno di una reazione immediata
dell'essere vivente ad una situazione favorevole o sfavorevole tale che questi sia disposto ad
affrontare la situazione con tutti i mezzi di cui sia in possesso.
Epicureo1 (341-270 a.C.),noto filosofo greco, da cui prese il nome anche un movimento
filosofico, ritiene che
1
negli uomini siano presenti
www.forma-mentis.net/index.htm Epicuro data 09-04-2007
-4-
due stati d'animo innegabili e
originariamente irriducibili: il piacere e il dolore. Questi stati d'animo, che vengono chiamati
da Epicuro "affezioni", sono i due sentimenti che muovono tutte le azioni degli uomini. Il
piacere è quindi principio di bene, il dolore è invece sintomo di errore e quindi di male,
queste sono verità originarie e di per sé evidenti che non hanno bisogno di essere provate.
Il filosofo Platone2 dichiara , nel Filebo (17, 31 d, 32 a) , che il dolore si ha quando la
proporzione delle parti che compongono l'essere vivente risulta predominata, compromessa o
controllata di modo che manchi l'armonia, mentre si ha il piacere quando tale armonia venga
ristabilita.
Aristotele3 considera, invece, il piacere come un desiderio oppure uno stato naturale, mentre
il dolore come il contrario di esso. Aggiunge poi che il piacere è definito e determinato dai
movimenti dell’anima, dal ritorno totale e sensibile agli stati naturali ed è qualsiasi azione o
fatto che non è forzato e non è contro la nostra volontà. Il dolore è tutto ciò che è forzato, che
è contro natura; tutti gli affanni, gli sforzi ed i travagli sono considerati dolorosi e se sono
imposti da necessità, se non ci si è abituati. Aristotele definisce anche la paura come dolore
che proviene dalla proiezione di un male ipotetico ma che ci può colpire, portando con sé
distruzione ed anche dolore; infatti ,specifica, che non si ha paura di tutti i mali ma solo di
quelli che possono provocare gravi danni a noi stessi, ed inoltre questi mali non devono
essere lontani da noi, ma molto prossimi. Infine il dolore, per Aristotele, è un indicatore di
una situazione ostile, sfavorevole in cui l’essere vivente è “costretto” ha vivere mentre il
piacere, o la gioia, come situazione favorevole.
In Oriente, per il Buddha, il dolore venne assunto come elemento determinante e
caratteristico della vita degli uomini, il quale additò proprio nella estinzione di esso il sommo
della felicità, il raggiungimento della non sensibilità, il Nirvana.
Per il Cristianesimo, invece, l’interpretazione del dolore mutò radicalmente, fino a diventare
il mezzo di purificazione ed elevazione morale, trovandosi in Gesù Cristo l’esempio più alto
della virtù redentrice del dolore. Infatti per la Chiesa l’espiazione dei peccati avviene solo
attraverso il dolore, basta pensare alla crocifissione, Cristo per mezzo di quel dolore fisico
riuscì a purificare se stesso e l’umanità dai peccati.
Tutta l’ascetica cristiana è, di
conseguenza, rivolta appunto all’enunciazione delle varie forme di riscatto dell’uomo
attraverso la prova e la sofferenza.
Secondo Schopenhauer4 (1788-1861), la vita è dolore per essenza poiché l’essere è la
manifestazione della volontà infinita.
2
www.miti3000.it data 10-04-2007
vedi nota n°2
4
http://ainet.altervista.org/infoz/cult/Schopenhauer_Arthur.htm Schopenhauer Arthur data 09-04-2007
3
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L’uomo è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. La soddisfazione finale è
solo apparente e dà presto luogo a un nuovo desiderio.
Il godimento o la gioia è una cessazione di dolore, lo scarico da uno stato preesistente di
tensione. Perché ci sia piacere bisogna per forza che ci sia stato dolore ma non è vero il
contrario. Il dolore è un dato primario, il piacere è solo una funzione che deriva da esso.
La noia subentra quando viene meno il desiderio.
La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando
attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.
LA SOFFERENZA UNIVERSALE:
Il dolore investe ogni creatura. L’uomo soffre di più perché sente di più la spinta della
volontà. Il genio, avendo maggiore sensibilità, è votato ad una maggiore sofferenza >>> “Chi
aumenta il sapere, moltiplica il dolore”.
Il male sta nel Principio stesso da cui il mondo dipende. Dietro le meraviglie del creato, si
cela, in realtà, un’arena di esseri tormentati ed angosciati, i quali esistono a patto di divorarsi
l’un l’altro.
L’individuo appare soltanto uno strumento per la specie, fuori dalla quale non ha valore.
L’unico fine della natura è quello di perpetuare la vita e, quindi, il dolore.
L’ILLUSIONE DELL’AMORE:
L’amore si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane; è uno
dei più forti stimoli dell’esistenza ma è solo uno strumento per perpetuare la vita della specie.
Il suo fine è l’accoppiamento; non c’è amore senza sessualità.
L’amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come peccato. Esso commette infatti
il maggiore dei delitti: la perpetuazione di altre creature destinate a soffrire.
L’unico amore positivo è quello disinteressato della pietà.
Condanna del suicidio per due motivi:
E’ un atto di forte affermazione della volontà stessa. Il suicida, anziché negare la volontà,
nega la vita.
Sopprime unicamente l’individuo, lasciando intatta la cosa in sé, che rinasce in mille altri.
La vera risposta al dolore del mondo consiste nella liberazione dalla stessa volontà di vivere,
in tre momenti essenziali: l’arte, l’etica della pietà e l’ascesi.
L’ARTE: Conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee. Il soggetto che
contempla le idee non è più l’individuo naturale ma il puro soggetto del conoscere e il suo
proprio patrimonio conoscitivo diventa il sole che gli rivela il mondo.
-6-
Grazie al suo carattere contemplativo e alla sua capacità di muoversi in un mondo di forme
eterne, l’arte crea un appagamento immobile e compiuto. L’uomo, grazie ad essa si eleva al di
sopra della volontà, del dolore e del tempo.
La musica è l’immediata rivelazione della volontà a sé stessa, l’arte più profonda ed
universale, capace di metterci in contatto con le radici stesse della vita e dell’essere.
Ogni arte è quindi liberatrice poiché il piacere che essa procura è la cessazione del bisogno;
ma essa è pur sempre temporanea e parziale, un conforto alla vita.
L’ETICA DELLA PIETA’: Tentativo di superare l’egoismo e di vincere quella lotta
incessante fra gli individui. Sgorga da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come
nostre le sofferenze degli altri. Nasce da un’esperienza vissuta. Bisogna sentire e realizzare
questa verità nel profondo del nostro essere.
E’ la moralità che produce la conoscenza.
La morale si concretizza in due virtù:
Giustizia: negativa poiché consiste nel non far male e nell’essere disposti a riconoscere agli
altri solo ciò che vogliamo che ci sia riconosciuto.
Carità: positiva perché è volontà attiva di fare il bene, è vero amore.
Sebbene la morale della pietà implichi una vittoria sull’egoismo, essa rimane sempre
all’interno della vita.
L’ASCESI: L’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita ed il volere
stesso, si propone di estirpare il desiderio di esistere, godere e volere.
La soppressione della volontà di vivere, di cui l’ascesi rappresenta la tecnica, è l’unico vero
atto di libertà che sia possibile all’uomo.
Il cammino nella salvezza mette capo al nirvana buddista che è l’esperienza del nulla.
Un nulla che non è il niente, ma un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del mondo
stesso.
1.1.2
CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA MEDICO
In medicina il dolore è la manifestazione di un danno che si sviluppa in un organo, tessuto o
in una cellula. Il dolore, a sua volta, è scatenano da un processo che cerca di rimediare al
danno iniziale e che ripristina la situazione prima del danneggiamento; questo processo
prende il nome di infiammazione5.
5
Dispense di Patologia Generale Del Prof. Bolognesi Andrea
-7-
Il processo infiammatorio elimina, diluisce o contiene l’invasione degli agenti nocivi e
prepara la via alla guarigione. La guarigione può avvenire con la rimozione dell’agente
nocivo ed il ripristino delle situazione iniziale. Se vi sono state lesioni tissutali la guarigione
avviene con la sostituzione del tessuto connettivo prodotto dai fibroblasti (cicatrizzazione). Il
processo infiammatorio-riparativo contiene e neutralizza gli effetti delle lesione e tende a
ricostruire la continuità morfologica dei tessuti, anche se a scapito del ripristino della
funzione specializzata del tessuto od organo coinvolto ( perdita di parenchima, funzionale e
accumulo di tessuto connettivo, non funzionale).
L’infiammazione è fondamentalmente una risposta protettiva tesa ad eliminare la causa
iniziale del danno cellulare e le sue conseguenze. Si deve tuttavia considerare che
l’infiammazione e la riparazione che spesso ne consegue sono processi potenzialmente
dannosi.
L’infiammazione, o flogosi si divide in: infiammazione acuta, di breve durata, da pochi
minuti a qualche giorno, dalla prevalenza dei fenomeni vascolari e dalla risposta stereotipata;
infiammazione cronica, di lunga durata, d’alcune settimane fino a qualche mese, dalla
presenza di fenomeni cellulari, dalla proliferazione di tessuto connettivo e dalla proliferazione
di piccoli vasi sanguigni.
L’infiammazione acuta.
L’infiammazione acuta consiste nella reazione di un tessuto vascolarizzato ad uno stimolo
dannoso o irritativo.
L’infiammazione venne descritta in un papiro egizio già nel 3000 a.C., ma fu il medico
romano Cornelio Celso nel 64 d.C. a descrivere per primo i quattro segni cardinali che
caratterizzano la flogosi e sono: il rubor (rossore), il calor (calore), il tumor (tumefazione,
rigonfiamento) e il dolor (dolore). Intorno al 1700 il patologo tedesco Virchow aggiunse un
quinto segno clinico ossia la functio laesa che tradotta significa perdita di funzione
dell’organo colpito.
L’eziologia dell’infiammazione possono essere raggruppate in tre grandi famiglie: cause
fisiche, che comprendono traumi, radiazioni, ustioni, congelamento e corpi estranei; cause
chimiche, ossia tossine e sostanze caustiche (acidi o basi forti) e cause biologiche e vengono
considerati infezioni, infestazioni, tessuti necrotici e reazioni immunitarie.
Nella patogenesi la maggior parte delle risposte vascolari e cellulari dell’infiammazione acuta
sono determinate dalla liberazione di mediatori chimici. Questi mediatori chimici scatenano
due tipi di fenomeni: fenomeni vascolari e fenomeni cellulari.
Fenomeni vascolari.
Immediatamente dopo la lesione possiamo osservare una seria di reazioni vascolari.
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La prima reazione è una vasocostrizione delle arteriole, su base nervosa (arco riflesso), della
durata di pochi secondi; successivamente si ha una vasodilatazione delle arteriole, per azione
di mediatori chimici ed apertura di nuovi letti capillari nell’area infiammata ( fase di iperemia
attiva). L’iperemia attiva provoca l’arrossamento (rubor) ed il riscaldamento (calor) della
zona infiammata. La vasodilatazione provoca un aumento del flusso ematico con conseguente
aumento della pressione idrostatica a livello dei capillari e delle venule. L’aumento della
pressione idrostatica provoca una iniziale formazione di trasudato (liquido a basso contenuto
proteico, derivato dal plasma per ultrafiltrazione attraverso l’endotelio vascolare, con
permeabilità endoteliale normale). Dopo questa fase si ha un aumento della permeabilità
vascolare del microcircolo, con fuoriuscita dai capillari ed accumulo nei tessuti di un
essudato (liquido extra-vascolare di origine flogistica ad alto peso specifico che può
contenere proteine ed leucociti usciti dai vasi).
All’inizio la vasodilatazione provoca solamente l’aumento della pressione idrostatica e la
formazione del trasudato, questo però viene lentamente sostituito dall’essudato quando si
altera la normale permeabilità vasale del microcircolo e incominciano ad uscire anche le
proteine plasmatiche. La presenza nell’interstizio di proteine plasmatiche altera la normale
pressione colloido-osmtica interstiziale aumentandola, in tal modo aumente ulteriormente il
richiamo di liquido verso l’interstizio. Tale fenomeno è ancor più accentuato grazie alle
presenza di enzimi proteoilitici nell’interstizio, che tagliando le proteine in più punti fanno
aumentare l’osmolarità interstiziale.
La fuoriuscita di tale liquido dai vasi provoca un aumento della viscosità del sangue
(inspissatio sanguinis) ed un conseguente rallentamento del flusso (fase di iperemia passiva),
che può essere anche di notevole entità, fino ad arrivare alla stasi. Il rallentamento del flusso
avviene anche per una maggior compressione dell’interstizio edematoso più sulla debole
parete venulare che su quella arteriolare.
Le funzioni dell’essudato sono principalmente quattro: diluizione delle sostanze tossiche,
difesa meccanica contro la diffusione dei batteri (fibrina), difesa immunologia (anticorpi), pH
acido sfavorevole per la proliferazione della maggior parte dei batteri.
Fenomeni cellulari.
Una funzione fondamentale dell’infiammazione è di permettere ai leucociti di giungere nella
sede del danno. I leucociti, in particolare i granulociti neutrofili e i monociti, si accumulano
nello spazio interstiziale del tessuto infiammato. Queste cellule sono in grado di inglobare gli
agenti lesivi, uccidere i batteri ed altri microrganismi, degradare i tessuti necrotici e fibrina e,
in collaborazione con il sistema immunitario, eliminare agenti estranei. Anche i granulociti
eosinofili e basofili e i linfociti possono essere coinvolti nei processi infiammatori.
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Durante l’infiammazione possiamo assistere a sette diversi fenomeni cellulari:
1. Marginazione
2. Rotolamento
3. Adesione
4. Diapedesi
5. Chemiotassi
6. Fagocitosi e degradazione intracellulare
7. Liberazione di sostanze flogogene ed istolesive
1. Marginazione
Gli elementi cellulari del sangue, a causa del rallentamento del flusso ematico, lasciano la
colonna assiale tipica del flusso laminare, per mettersi in cotanto con l’endotelio.
2. Rotolamento
Successivamente inizia la fase di rotolamento dei leucociti sulla superficie endoteliale. Questa
fase coinvolge un legame dei leucociti all’entotelio vascolare mediato da glicoproteine di
superficie. In particolare si ha il legame delle selectine con i rispettivi recettori. Questo
legame non è in grado di ancorare le cellule in presenza del flusso ematico: le cellule quindi
rotolano lungo l’endotelio, formando e rompendo i legami di continuazione. I legami deboli,
tuttavia, permettono il formarsi di interazioni più forti.
3. Adesione
Queste interazioni più forti sono dovute all’induzione di integrine sulla superficie leucocitaria
e di ICAM-1 (inter cellular adhesion molecule; molecola di adesione intercellulare) e VCAM1 (vascular cell adhesion molecule; molecola di adesione delle cellule vascolari)
sull’endotelio. Il legame forte tra queste glicoproteine provoca l’adesione leucocitaria.
- 10 -
4. Diapedesi
La diapedesi o migrazione, è quel processo che vede muovere i leucociti mobili (neutrofili,
eosinofili, basifili, monociti e linfociti) fuori dai vasi per raggiungere i tessuti perivascolari. I
leucociti, che già hanno aderito alla parete vascolare tramite la molecola ICAM-1, emettono
delle estroflessioni dette pseudopodi che vanno ad inserire tra le giunzioni intercellulari
dell’endotelio. I leucociti con movimenti ameboidi scivolano tra le giunzioni e si dispongono
tra l’endotelio e la membrana basale. Dopo un breve periodo di tempo oltrepassano anche
quest’ultima mediante la secrezione di proteasi.
Le prime cellule a comparire negli spazi peri-vascolari sono i neutrofili, seguiti dai monociti.
5. Chemiotassi
Dopo aver lasciato i vasi sanguigni i leucociti si dirigono verso la zona dove si è verificata la
lesione. La migrazione dei leucociti è mediata da sostanze chimiche che diffondendosi
generano un gradiente di concentrazione lungo il quale si muovono i leucociti, per cui il
fenomeno prende il nome di chemiotassi.
6. Fagocitosi
Per fagocitosi si intende l’inglobamento di particelle solide all’interno di un vacuolo
denominato fagosoma. La fagocitosi viene effettuata soprattutto da cellule specializzate quali
i granulociti ed i magrofagi sia fissi sia circolanti, ma può essere effettuata potenzialmente da
qualunque altro tipo di cellula.
Il fenomeno della fagocitosi può essere distinto in tre fasi strettamente interconnesse:
A) Riconoscimento e attacco delle particelle alla superficie del fagocita
B) Ingestione
- 11 -
C) Uccisione e degradazione, rispettivamente del microbo ingerito o della particella
inglobata, quando ciò è possibile
A) Riconoscimento ed attacco
Può essere:
-
Aspecifico: per semplice contatto o mediante la presenza di lectine. Le lectine sono
proteine di animali, piante, batteri, che legano gli zuccheri (mannoso, galattosio, ecc.).
Lectine presenti sulla superficie batterica possono legare gli zuccheri delle glicoproteine o
dei glicolipidi della membrana del fagocita. Analogamente le lectine presenti sul fagocita
possono legare zuccheri presenti sui batteri. Le lectine presenti sui fagociti legano il
mannosio, che non è normalmente esposto nelle glicoproteine o nei gli lipidi animali,
mentre invece lo è in quelli vegetali e batterici.
-
Specifico : tramite opponine. Benché i fagociti possano aderire a particelle inerti ed a
batteri senza alcun precedente, specifico, processo di riconoscimento, la fagocitosi dei
microrganismi è molto facilitata se questi vengono rivestiti dalla immunoglobuline di tipo
G (IgG) e dal fattore C3b del complemento. Questo processo si chiama opsonizzazione e
le molecole (IgG e C3b) che lo mediano sono dette opponine. Nella fagocitosi tramite le
opponine vengono riconosciute da recettori specifici per il frammento Fc delle IgG e per
il C3b, presenti sulla superficie dei neutrofili e dei macrofagi.
B) Ingestione
Quando un fagocita aderisce ad un germe opsonizzato, la membrana citoplasmatica si muove
scorrendo attorno al germe fino ad inglobarlo in una profonda tasca. Con la fusione della
membrana in corrispondenza della bocca di questa invaginazione la particella (o il germe) si
trova racchiusa in una vescicola citoplasmatica rivestita da membrana, che prende il nome di
fagosoma. Appena il fagosoma si chiude, ma talvolta anche prima che esso sia
completamente chiuso, si attivano due meccanismi.
a) Si attivano enzimi che causano la produzione di radicali ossidanti all’interno del
fagosoma.
- 12 -
b) I lisosomi dei fagociti si fondono con il fagosoma dando origine al fagolisosoma.
Mediante questo processo, detto anche degranulazione, i lisosomi scaricano il loro
contenuto nel fagosoma.
La capacità di respirare anaerobicamente è di particolare valore per i neutrofili, poiché essi
devono funzionare nei focolai della flogosi in condizioni spesso di estrema ipossia.
C) Uccisione e degradazione
I meccanismi microbicidi all’interno delle cellule fagocitanti si possono classificare come:
¾ Ossigeno-dipendenti
¾ Ossigeno-indipendenti
Ossigeno-dipendenti.
Appena il fagosoma si chiude si ha il cosiddetto “burst respiratorio” ovvero aumenta il
consumo di ossigeno. Aumenta, inoltre, anche la glicogenolisi ed il glucosio viene utilizzato
attraverso lo shunt dell’esoso mono-fosfato per produrre NADPH. L’esplosione respiratoria è
causata dalla rapida attivazione della NADPH-ossidasi che catalizza, all’interno del fagosoma
la reazione:
2O2 + NADPH → 2O2¯• + NADPH + H
con la formazione dello ione superossido, che viene poi convertito in acqua ossigenata, grazie
alla reazione catalizzata dall’enzima superossido dismutasi:
2O2¯• + 2H → H2O2 + O2.
2O2¯• e H2O2 hanno di per sé solo un modesto potere microbicida, però permettono la
produzione di fattori ossidanti con maggiore attività microbicida.
L’ipoclorito è invece un ben noto e potente agente microbicida e viene prodotto nei neutrofili
e monociti circolanti che contengono un enzima, il mieloperossidasi (MPO), grazie al quale
possono utilizzare l’acqua ossigenata per con il cloro, un potente ossidante ad attività
antimicrobica il radicale ipoclorito (OCl ¯•).
- 13 -
Ossigeno-indipendenti.
Diverse sostanze presenti nei lisosomi hanno capacità citocide:
-BPIP
bactericidal permeability increasing protein: provocoa alterazione della
membrana esterna dei microrganismi
-lisozima
che degrada il legame ac.muramico-N-acetilglucosamina tipico del
rivestimento glicoproteico di tutti i batteri.
-lattoferrina
una proteiniche lega il ferro rendendolo indisponibile al metabolismo
batterico, azione batteriostatica.
-MBP
major basic protein: proteina cationica degli eosinofili con attività
battericida limitata, ma citotossica per parecchi parassiti.
-pH
anche il pH acido dei fagosomi (da 3,4 a 4,0) ha un’azione
batteriostatica.
Gli enzimi lisosomiali sono di solito più importanti per la digestione e la degradazione dei
germi già uccisi, che per la loro diretta uccisione. Una volta avvenuta l’uccisione, le idrolisi
acide degradano i batteri all’interno del fagolisosoma.
7. Liberazione di sostanze flogogene ed istolesive
Quando avviene la fagocitosi le perturbazioni della membrana e la formazione dei
fagolisosomi provocano la fuoriuscita di varie sostanze quali:
-
enzimi lisosomiali
-
metabolici attivi derivati dall’ossigeno
-
prodotti del metabolismo dell’acido arachidonico
Tali prodotti sono potenti mediatori dei fenomeni vascolari e cellulari dell’infiammazione e
servono ad amplificare gli effetti dello stimolo infiammatorio iniziale. Inoltre possono
provocare un danno tissutale.
Il rilascio di tali sostanze può avvenire in 3 modi:
a) Fagocitosi frustrata si verifica quando i leucociti, trovandosi su superfici lisce
ed ampie quali l’endotelio dei vasi, vengono in contatto
con particelle potenzialmente ingeribili, però a causa dell’
- 14 -
ampia superficie, la fagocitosi non ha luogo e gli enzimi
vengono rilasciati nell’ambiente circostante.
b) Rigurgito dopo il pasto
il fagocita rimane aperto verso l’ambiente esterno, per un
periodo transitorio, mentre si fonde con i lisosomi.
c) Distruzione dei fagociti
se i fagociti muoiono i loro prodotti vengono rilasciati all’
esterno. Un esempio sono gli ascessi, in cui si ha
distruzione dei tessuti a causa delle sostanze tossiche
liberate dai neutrofili morti. I fagociti morendo rilasciano
nel mezzo enzimi lisosomiali e radicali ossidanti con
amplificazione della reazione infiammatoria.
Mediatori chimici dell’infiammazione
I mediatori chimici sono stati scoperti grazie all’osservazione dell’aspecificità degli eventi
che si verificano duranti l’infiammazione acuta, si è ipotizzato l’esistenza di mediatori che
una volta attivati, per varie vie provocassero effetti stereotipati.
Per i mediatori chimici dell’infiammazione valgono alcuni principi generali:
ƒ
i mediatori sono sostanze chimiche derivanti dal plasma o dai tessuti
ƒ
possono essere neoformati, cioè sintetizzati al momento, o preformati, presenti in
forma inattiva nel plasma o sequestrati all’interno di granuli intracellulari
ƒ
una volta sintetizzati, attivati o liberati hanno un emivita breve
ƒ
agiscono legandosi a specifici recettori delle cellule bersaglio
ƒ
talvolta possono esercitare effetti diversi a seconda delle cellule o dei tessuti su cui
agiscono
ƒ
molti mediatori possono stimolare il rilascio o l’attivazione di altri mediatori,
amplificando la loro azione
ƒ
quasi tutti sono potenzialmente dannosi.
I mediatori possono essere riuniti in uno di questi gruppi:
- 15 -
- Proteasi plasmatiche
sistema delle chinine
sistema della coagulazione
sistema della fibrinolisi
sistema del complemento
- Prodotti cellulari preformati
amine vasoattive (istamina e serotonina)
prodotti lisosomiali e dei granuli dei granulociti e dei macrofagi
- Prodotti cellulari neoformati
ossidi di azoto (NO)
metabolici dell’acido arachidonico (prostaglandine e leucotrieni)
metabolici reattivi dell’ossigeno (radicali ossidanti)
fattore attivante le piastrine (PAF = platelet activating factor)
citochine
L’infiammazione cronica
L’infiammazione cronica (istoflogosi) è un’infiammazione di lunga durata (settimane – mesi)
in cui si prevalenza dei fenomeni cellulari, che coinvolgono soprattutto macrofagi, fibroblasti
e neoangiogenesi, e in cui l’infiammazione attiva, la distruzione tessutale e i tentativi di
riparazione (tessuto di granulazione) procedono simultaneamente.
Le caratteristiche tipiche del processo infiammatorio cronico sono:
1. Infiltrazione di cellule mononucleate
Le modificazioni vascolari sono modeste, la permeabilizzazione è molto minore rispetto a
quella vista nell’infiammazione acuta.
I monociti
iniziano a migrare precocemente, già
durante la fase acuta, entro 48 ore
costituiscono il tipo cellulare predominante.
Appena i monociti raggiungono lo spazio interstiziale, iniziano un processo di maturazione
che li trasforma in cellule molto più grandi, con un metabolismo più elevato e con maggiori
capacità microbicide: questi sono i macrofagi attivi.
- 16 -
Nelle infiammazioni acute di breve durata lo stimolo irritativi è eliminati rapidamente e
questi macrofagi presto scompaiano, ma se lo stimolo non viene eliminato, come nel caso
dell’infiammazione cronica, i macrofagi persistono.
L’accumulo di macrofagi può avvenire in tre modi diversi, ciascuno dei quali predomina in
differenti reazioni.
•
Richiamo di monociti dal sangue, grazie alla presenza continua di fattori
chemiotattici come C5a, fibrinopeptidi, proteine cationiche dei neutrofili, linfochine,
•
Proliferazione locale dei macrofagi, per divisione mitotica.
•
Sopravvivenza prolungata ed immobilizzazione dei macrofagi entro il sito
infiammatorio, tale meccanismo si attua quando gli stimoli irritanti sono di bassa
virulenza, come lipidi inerti e particelle di carbone o sotto l’azione di particolari
citochine (MAF, migration inhibiting factor).
Il macrofago è l’elemento fondamentale dell’infiammazione cronica a causa del gran numero
di prodotti biologicamente attivi che può produrre.
Alcuni di questi sono altamente tossici per i tessuti (proteasi, metabolici reattivi dell’ossigeno
e dell’ossido nitrico), altri influenzano altri tipi cellulari (citochine e fattori chemiotattici),
altri ancora causano la proliferazione dei fibroblasti, la deposizione di collagene e
l’angiogenesi (fattori di crescita).
2. Distruzione di tessuto
Tutti gli effetti prodotti dai macrofagi attivati contribuiscono alla difesa dell’organismo
contro invasori indesiderati, ma se l’attivazione dei macrofagi avviene in modo improprio,
possono produrre una considerevole distruzione tissutale.
3. Proliferazione dei fibroblasti e dei piccoli vasi sanguigni
4. Aumento del tessuto connettivo
I meccanismi che portano al reclutamento e alla proliferazione dei fibroblasti, alla
proliferazione vascolare, e all’aumento del collagene con fibrosi, nell’infiammazione cronica,
sono simili a quelli che contribuiscono alla riparazione delle ferite.
- 17 -
1.1.3
CHE COS’È IL DOLORE: IL PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO
In psicologia per dolore cronico oggi s’intende generalmente un dolore che non accompagna
una grave avvezione organica, come una neoplasia o una arteriopatia obliterante, con una
durata di almeno sei mesi, deve essere continuo o intermittente, che si accompagna o no ad
altre manifestazioni patologiche ed è senza alcun dubbio il sintomo più rilevante lamentato
dal paziente6.
Il dolore cronico, non legato ad un processo patologico, ma, ad esempio, causato dalla morte
di una persona cara (lutto) può causare tre diversi disturbi della sfera psicologica della
persona, e sono: il disturbo di conversione, il disturbo di somatizzazione e il disturbo da
dolore somatoforme.
Il disturbo di conversione.
Si tratta di una categoria piuttosto generale che esclude giustamente i disturbi fisici che
accompagnano l’attacco di panico e l’ansia.
Il concetto freudiano di conversione ha una lunga gestazione e si rifà a Charcot, Janet e
Briquet, e solo in un secondo momento diventa chiaro che si tratta di una malattia della
reminescenza. Eventi passati rimossi nell’inconscio, accompagnati da emozioni intense mai
espresse né scaricate, si manifestano come dolori, disturbi sensitivi, sensoriali, motori oppure
con eventi mentali quali fughe del pensiero, amnesie, personalità multiple, stati alterati di
coscienza, esperienze mistiche, ecc. Il sintomo si carica così di significato simbolico e può
aiutare il terapeuta nella comprensione del malato. Le modalità di presentazione della
sintomatologia sono sensibilmente cambiate nel tempo, dalle grandi crisi isteriche siamo
passati a sintomi meno clamorosi e più sfumati, quali dolori muscolari diffusi, metereopatie,
stanchezza cronica, alterazioni dell’equilibrio, disagi fisici non ben definiti, gonfiori
addominali, disturbi del comportamento alimentare come anoressia e bulimia.
Il disturbo di conversione è riconducibile alla sindrome di Briquet che comprende una
vastissima lista di sintomi, tra cui ricordiamo solo quelli legati al dolore: cefalee, malessere
abituale, anestesia, dolori toracici, dolori addominali, dismenorrea, dispareunia, lombalgia,
dolori articolari, dolori alle estremità, bruciori dolorosi agli organi sessuali, alla bocca o al
retto, altri dolori somatici.
Per quanto riguarda l’eziopatogenesi, dal punto di vista psicodinamico si fa riferimento ai
meccanismi di repressione e negazione che tentano di proteggere il paziente dalla sofferenza
psichica acuta prodotta da circostanze esterne o dalla pressione di conflitti e sentimenti
esacerbati dall’angoscia. Non si tratta quindi di una generica reazione allo stress ambientale,
6
“Malati di dolore” di Mauro Ercolani
- 18 -
ma di una espressione simbolica del conflitto. È da segnalare anche l’ipotesi neurofisiologia,
che prevede un’eccessiva attivazione corticale in grado di disattivare i meccanismi inibitori
discendenti. La sindrome insorge nella seconda, terza decade di vita, prevalentemente nel
sesso femminile.
Il disturbo di somatizzazione.
È diffusa la convinzione che i fattori psicologici giochino, in questa sindrome, un ruolo
fondamentale, anche se è doveroso segnalare un’incidenza familiare che può suggerire
l’esistenza di fattori genetici o ambientali. Il disturbo non è raro in quanto compare nell’1-2%
di tutta la popolazione femminile, mentre è più raro nei maschi, si presenta preferibilmente
negli stadi medio-alti della popolazione, esordisce nella seconda o terza decade della vita. I
pazienti con i disturbo di somatizzazione lamentano una quantità esagerata di disturbi,
disfunzioni, alterazioni sensoriali, e hanno storie cliniche complicate, spesso intrecciate di
racconti per sintomi di scarso interesse clinico mentre vengono sottovalutati, come offerti per
meravigliare, gravi episodi in cui sembra essere stata in gioco la vita stessa. Si tratta
comunque sempre di individui dipendenti, che ricercano attenzione ed ammirazione, con
sentimenti di colpa mal celati ed estremamente manipolativi. La continua ricerca di cure
mediche, nuove e spesso fantasiose, li rendono a rischio per complicanze iatrogene da uso
improprio di medicinali, da manovre diagnostiche rischiose e non necessarie, da interventi
chirurgici insistentemente richiesti ed inutili.
Il decorso è quanto mai vario, il trattamento in genere inefficace, salvo i casi che traggono
beneficio dalla psicoterapia, e la prognosi mai favorevole in quanto si tratta di una condizione
cronica. Chi ha maggiori possibilità di successo è il medico preparato a reggere frustrazioni e
impotenza che riesce ad impostare un rapporto di fiducia, duraturo e coinvolgente.
I sintomi classici di questo disturbo sono:
¾ Sintomi gastrointestinali: vomito non durante la gravidanza, dolore addominale non
durante le mestruazioni, nausea non da mal di moto, aerofagia, diarrea, intolleranza a
numerosi cibi.
¾ Sintomi dolorosi: dolori alle estremità, mal di schiena, dolori articolari, minzione
dolorosa, altri dolori escluso la cefalea.
¾ Sintomi di conversione o pseudo-neurologici: amnesia, difficoltà di deglutizione,
perdita della voce, sordità, diplopia, ambliopia, visione confusa, cecità, svenimenti e
- 19 -
perdita di coscienza, epilessia o convulsioni, difficoltà alla deambulazione, paralisi o
debolezza muscolare, ritenzione di urina o problemi di minzione.
¾ Sintomi sessuali presenti per la maggior parte della vita del soggetto, pur in presenza
di occasione per una normale attività sessuale: sensazione di bruciore agli organi
genitali o all’ano (al di fuori del coito), dolori duranti il coito e impotenza.
¾ Sintomi genitali femminili: mestruazioni dolorose, irregolarità mestruali, eccessivo
sanguinamento mestruale, vomito gravidico.
Il disturbo da dolore somatoforme
Tale disturbo era chiamato precedentemente disturbo da dolore psicogeno o idiomatico. Si
tratta di un gruppo vasto ed eterogeneo che comprende dolori in ogni parte del corpo, che
coinvolgono sistemi diversi e dalla più svariata origine, con o senza patologia psichiatrica
associata. Corrisponde per molti versi al disturbo di conversione, ma la sintomatologia è di
tipo fisico e limitata al dolore. Il sintomo dolore è senza dubbio quello presentato più
frequentemente dai pazienti della medicina di
base e anche nella maggior parte delle
specialità mediche e chirurgiche. È lamentato più frequentemente dalle donne, tra i 30 e i 50
anni, e non raramente l’incidenza è familiare. I pazienti negano in genere ogni problema di
tipo psicologico e asseriscono con sicurezza che se non vi fosse il dolore la loro vita sarebbe
felice. La depressione, valutata con colloqui e strumenti psicometrici validati, va, a seconda
degli studi, da un minimo del 25% ad un massimo del 100%. I sintomi non sono gli stessi
della depressione maggiore. Qui prevalgono astenia, irritabilità, disturbi del sonno, anedonia,
problemi sessuali e difficoltà relazionali. Il dolore compare già nell’adolescenza o negli anni
seguenti per attenuarsi di solito nell’età avanzata. Di solito il dolore somatoforme non
presenta variazioni regolari o ritmate, ma sembra essere dipendente da influenze interne ed
esterne.
Nel DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) il dolore cronico viene denominato
disturbo algico e fa parte dei disturbi somatoformi, la cui caratteristica comune è la presenza
di sintomi fisici che fanno pensare a una condizione medica generale e che invece non sono
significati da essa, dagli effetti diretti di una sostanza o da una altro disturbo mentale. I
sintomi devono causare un significativo disagio o menomazione del funzionamento sociale,
lavorativo o in altre aree; non sono intenzionali, cioè sotto il controllo della volontà.
Il disturbo algico è caratterizzato dal dolore come punto focale e principale dell’alterazione
clinica e risulta di gravità sufficiente per richiedere un’attenzione clinica. Inoltre vi è motivo
di ritenere che qualche fattore psicologico abbia un ruolo importante nell’esordio, nella
- 20 -
gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore. Il dolore può sconvolgere gravemente vari
aspetti della vita quotidiana: disoccupazione, invalidità e problemi familiari si incontrano
frequentemente tra gli individui con forme croniche di disturbo algido. Si possono sviluppare
dipendenza o abuso iatrogeno di analgesici o benzodiazepine. I soggetti i cui dolori sono
associati a depressione grave presentano un rischio di suicidio aumentato. Il dolore può
portare ad inattività ed isolamento sociale, il che a sua volta può causare problemi psicologici
aggiuntivi e una riduzione della resistenza fisica, stanchezza e dolori aggiuntivi. Il disturbo
algico può manifestarsi a qualunque età: le femmine sono più colpite dei maschi; è di
riscontro abbastanza comune.
1.2 IL DOLORE CRONICO
Il dolore è considerato un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno
tessutale presente o potenziale oppure descritta come tale. Il dolore è sempre soggettivo.
Ognuno di noi una soglia di dolore bene definita; ma che cos’è la soglia del dolore?
La soglia del dolore viene definita come la più piccola esperienza di dolore che un soggetto è
in grado di riconoscere; nel dolore cronico questa soglia è costantemente superate,
comportando al paziente un continuo malessere generale.
Quanti tipi di dolore sono presenti oggi? Sono due, il dolore acuto e il dolore cronico.
Il dolore acuto è provocato dal danno tessutale, comprende anche uno stato tonico che
persiste per periodi variabili fino alla guarigione; maggiore è il danno, maggiore è la risposta
comportamentale, anche se è più costante l’equivalenza; maggiore è l’ansia, maggiore è la
risposta di dolore; più tempo dura lo stress, più il dolore diventa intollerante ed angosciante.
Il dolore cronico persiste oltre il tempo richiesto per la guarigione e che provoca un impatto
considerevole sul benessere e sull’adattamento sociale del paziente. Più a lungo persiste il
dolore , più probabile è lo svilupparsi di un comportamento caratterizzato da depressione,
paura, preoccupazione, irritazione, ostilità e dipendenza.
Nel dolore cronico, il dolore fisico tende a diventare un indesiderato compagno di viaggio,
che non abbandona mai i pazienti e che li rende estremamente più difficile condurre una vita
quotidiana normale; così ogni atto anche banale della loro giornata, come uscire, mangiare,
lavorare, riposarsi, frequentare persone, può diventare un peso a volte insostenibile;
cominciano a rinchiudersi sempre di più in loro stessi, ad evitare i rapporti con gli altri, a non
- 21 -
dormire più; i pensieri sono sempre più incentrati su questi problemi e non gli sembra più
possibile trovare una via di uscita, gli altri ed anche le persone a noi più vicine, sembrano non
riuscire più a capirli. In altre parole può svilupparsi in certi casi e senza che loro se ne
accorgano, una vera e propria reazione depressiva, che è la diretta conseguenza di tutte le
limitazioni ed i fastidi provocati dal dolore continuo; a questo punto il dolore fisico non è più
solo, ma si accompagna ad un dolore più profondo ed inquietante, un misto di angoscia,
tristezza, paura, a cui spesso è impossibile attribuire una specifica motivazione; diventerà così
sempre più difficile distinguere tutti i disagi dovuti alla percezione del dolore fisico vero e
proprio e quelli invece derivati da questi aspetti depressivi, che vanno progressivamente ad
aumentare, tendendo anch’essi a cronicizzarsi e trasformandosi in una vera e propria malattia
a se stante; si crea quindi una sorta di meccanismo di amplificazione reciproca dei due aspetti
suddetti, quello fisico e quello psicologico, con la creazione di un circolo vizioso che tende a
peggiorare progressivamente entrambe le componenti7.
Il dolore cronico può essere definito,come ho già detto, come un dolore che si protrae oltre il
normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto. Tale dolore
può perdurare indefinitamente. Il dolore che non scompare malgrado trattamenti adeguati
viene detto dolore non trattabile. Le condizioni tipiche del dolore cronico sono:
Osteoartrite·Artrite reumatoide; Lombalgie e dolori delle spalle e del collo; Cefalee,
compresa l’emicrania; Dolore neoplastico; Sindromi da dolore delle fasce muscolari; Dolori
post-toracotomici; Dolore neuropatico; Herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio) e nevralgie
poste-erpetiche; Nevralgie del trigemino; Neuropatia diabetica; Disturbi dell’articolazione
temporo-mandibolare; Dolori post-mastectomia; Angina pectoris; Dolori da arto fantasma.
Ora parliamo dell’incidenza che ha il dolore cronico a livello europeo e dei costi che
comporta ogni anno agli Stati europei.
7
www.salutedonna.it data 05-08-2007
- 22 -
Oltre a causare indicibili sofferenze a milioni di pazienti di tutto il continente europeo, il
dolore cronico lacera il tessuto sociale ed economico della nostra cultura. Non esistono a
tutt'oggi cifre esaurienti a livello paneuropeo che delineino l'influenza delle varie sindromi da
dolore cronico e il relativo costo per la società. Ricercatori di vari paesi hanno tuttavia
iniziato a raccolgiere informazioni sulla sua natura, illustrando l'entità della sofferenza dovuta
al dolore cronico. Occorre notare che le cifre variano in funzione della definizione di dolore
utilizzata e delle domande specifiche poste alle persone intervistate.
Quadro sinottico dei risultati degli studi disponibili :
- In uno studio sulla diffusione del dolore persistente svolto in Danimarca, i ricercatori hanno
riscontrato che il 38% circa della popolazione soffre di dolore cronico (Andersen e WormPedersoen 1989).
- Nel 1995, uno studio mirato a quantificare il costo totale del dolore cronico non di origine
tumorale per l'economia irlandese ha stimato che un campione di 95 pazienti aveva già
comportato un onere di 1,9 milioni di sterline al momento dell'invio a una clinica
multidisciplinare
di
trattamento
del
dolore
(Sheenan
et
al.1996).
- Un'indagine epidemiologica svolta in Svezia ha riscontrato che il 45% di tutti gli adulti ha
provato forme di dolore ricorrente o persistente e l'8% dolore grave e persistente (von Korff
et al. 1990).
- Un'indagine svolta in Gran Bretagna ha rilevato che il 7% di un vasto gruppo di adulti
intervistati in un dato momento era soggetto a un livello di dolore rilevante (Bowsher et al.
1991).
- In una recente analisi dei pazienti indirizzati a un centro danese per il trattamento del
dolore, quest'ultimo era pari in media a 7 su una scala fino a 10, la qualità della vita risultava
gravemente ridotta, il 58% dei pazienti presentava depressione o disturbi ansiosi, il 63% era
soggetto a dolori neuropatici e il 73% dei pazienti assumeva derivati dell'oppio al momento
dell'ingresso nel centro, benché essi non fornissero un sollievo adeguato dal dolore. Lo studio
- 23 -
ha mostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da dolore cronico non di origine
tumorale è fra le più basse riscontrate in tutte le condizioni mediche.(Becker et al.1997).
- Il dolore neuropatico (definito in modo classico) affligge tra il 25 e il 50% dei pazienti della
maggior
parte
delle
cliniche
di
trattamento
del
dolore
(Bowsher
1991).
- Nel Regno Unito, iI costi annuali relativi (soltanto) al male di schiena e alla sciatica
ammontano attuallmente a 9 miliardi di Euro, mentre 1 miliardo di Euro viene speso ogni
anno per l'assistenza sanitaria diretta (Waddell 1996).
- Uno studio svolto nei Paesi Bassi ha rilevato che le patologie muscolo-scheletriche
rappresentano la quinta categoria in ordine di costo sotto il profilo dell'assistenza ospedaliera
e la più costosa dal punto di vista dell'assenteismo e dell'invalidità lavorativi (1,7% del PIL)
(van Tulder et al. 1995).
- Si riscontra dolore nel 50% dei pazienti affetti da tumori (a tutti gli stadi) e nel 75% dei
pazienti con neoplasie avanzate. Ogni anno in Inghilterra e nel Galles oltre 100.000 provano
dolore
al
momento
del
decesso
(Higginson
1997).
- Uno studio condotto in Catalogna (Spagna) ha identificato una diffusione del dolore pari al
78,6% in risposta a un'intervista telefonica che richiedeva se si fossero lamentati dolori nei
precedenti 6 mesi, indipendentemente dalla loro intensità e durata (Bassols et al. 1999).
- Si stima che nei Paesi Bassi il costo totale del dolore al collo nel 1996 sia stato pari a 686
milioni di dollari USA (Borghouts et al. 1999).
- Un sondaggio effettuato per posta in Svezia ha rilevato che riferiva di avere provato dolore
o fastidio, compresi problemi di breve durata, il 66% delle persone coinvolte, mentre il 40%
ha dichiarato di avere sofferto di 'chiari' dolori di durata superiore a 6 mesi. (Brattberg et al.
1989).
Un vasto studio epidemiologico del dolore cronico svolto nella zona di Grampian, in Gran
Bretagna, ha riscontrato che il 50% delle persone coinvolte ha dichiarato di provare dolore o
fastidio cronici , per il 16% con male di schiena e per il 16% con artrite. Nel 16% dei casi
- 24 -
oggetto dell'indagine, il dolore cronico era grave. (Elliott et al. 1999). Per lo studio della
diffusione (o dell'incidenza) del male di schiena occorrono metodologie più rigorose,
sistematiche
e
uniformi
- I dati di uno studio svolto in Svezia indicano che il dolore alla colonna vertebrale è molto
comune fra gli uomini e le donne di età compresa fra 35 e 45 anni, e che esso è associato a
marcate limitazioni dello stile di vita per circa un quarto di coloro che lo provano (Linton et
al. 1998).
-
Uno studio dei costi socioeconomici delle sindromi da dolore nel Regno Unito stima che
il costo per l'assistenza sanitaria diretta sia stato pari nel 1998 a 1,6 miliardi di sterline.
Tale costo diretto è tuttavia insignificante rispetto al costo delle cure informali e delle
perdite di produzione ad esso associate, il cui ammontare totale è pari a 10,7 miliardi di
sterline. Nel complesso, il male di schiena è una fra le condizioni mediche più costose
(Maniadakis
e
Gray
A2000).
- Uno studio condotto di recente in Finlandia ha riscontrato che, su un campione di 5646
visite di pazienti ai servizi sanitari di base , il dolore veniva identificato come ragione
della visita nel 40% dei casi. Un quinto dei pazienti ha dichiarato di provare dolore da
oltre sei mesi. Un quarto dei pazienti in età lavorativa affetti da dolore usufruiva di mutua
pagata
(Mãntyselk?
et
al.
2001).
- I risultati di uno studio svolto nei Paesi Bassi indicano che il dolore cronico è anche
comune nell'infanzia e nell'adolescenza (Perquin et al. 2000).
L'impatto del dolore cronico, tuttavia, non deve essere esaminato soltanto in termini
economici. In Europa, il dolore cronico presenta gravi effetti negativi sulla qualità della vita
di milioni di persone che ne soffrono, nonché su quella dei loro familiari. In mancanza di
trattamenti adeguati , coloro che soffrono di dolore cronico sono spesso inabili al lavoro o
addirittura incapaci di svolgere i compiti più semplici. Di conseguenza, i pazienti affetti da
dolore cronico sono spesso soggetti a privazioni psicosociali e fisiche, compresa una
- 25 -
nutrizione inadeguata con perdita di peso, una riduzione dell'attività, disturbi del sonno,
isolamento sociale, problemi coniugali, disoccupazione e problemi finanziari, ansia, paura e
depressione8.
Penso che sia doveroso fare almeno un accenno sul dolore cronico in ambito oncologico visto
che sono sempre di più i pazienti che soffrono di tumore e sono sempre di più anche coloro
che sono afflitti da questa “malattia”.
Il Dolore Cronico Oncologico (DCO) è definito comunemente, da chi ne soffre e da chi cerca
di curarlo, come “dolore globale”. Tale definizione è motivata dal fatto che le componenti
che influiscono sulla sofferenza di chi è portatore del DCO sono molteplici: fisica-organica,
psicologica, economico-sociale, esistenziale-spirituale. Pertanto, anche un tentativo di
affronto e di risposta a chi di questo tipo di dolore è portatore, deve cercare di essere
“globale”: questa è la filosofia delle Cure Palliative, in cui ad una rigorosa competenza
clinica e scientifica, si deve accompagnare una capacità di presenza e di alleanza relazionale
medico- (o operatore-sanitario-, visto che altra peculiarità delle cure palliative è l’approccio
multiprofessionale) - paziente.
Naturalmente un approccio terapeutico appropriato è, anche se non sufficiente, assolutamente
necessario per consentire una assenza o almeno un livello tollerabile di dolore fisico.
Quando si dice che il dolore diventa una “sindrome” esso stesso, e non solo un sintomo, si
vuole sottolineare l’estrema importanza di affrontare il dolore in modo sistematico; non
bisogna giungere, però, ad estrapolare il dolore dalla causa sottostante, perché in questo modo
si corre il rischio di non sfruttare compiutamente tutte le risorse terapeutiche a disposizione, a
partire dagli effetti palliativi delle terapie anti-tumorali.
Chi si occupa di DCO deve conoscerne le più dettagliate caratteristiche:
8
www.aisd.it data 05-08-2007
- 26 -
-
la frequenza, oscillante dal 50 al 75% dei pazienti, a seconda della fase di malattia sulla
quale si punta l’attenzione, e difforme a seconda degli organi colpiti;
-
i meccanismi di formazione, trasmissione e percezione del dolore, diversi a seconda che
vengano coinvolti prevalentemente organi o nervi (più spesso sono presenti
contemporaneamente ambedue i meccanismi);
-
le modalità di presentazione (il dolore in pazienti oncologici può essere suddiviso in
acuto, cronico, o acuto insorgente su dolore cronico);
-
i modi e gli strumenti di valutazione del DCO: la sua rigorosa e sistematica valutazione
rappresenta una condizione necessaria ad un corretto trattamento. I “Progetti Ospedale
Senza Dolore” iniziati su tutto il territorio nazionale hanno l’obiettivo di inserire la
rilevazione del dolore nella cartella clinica, come per la valutazione sistematica di
parametri vitali, quali la pressione o la temperatura;
-
bisogna sapere il dolore si esprime in modo peculiare in gruppi particolari di pazienti
(bambini, anziani, persone non cognitivamente adeguate) e che in ogni persona può
comparire più di una sindrome dolorosa, provocata da motivi diversi;
-
per quanto riguarda il trattamento del dolore, un innalzamento del livello assistenziale e
terapeutico necessita di uno stretto collegamento con la ricerca, sia quella di base, che,
soprattutto, quella applicata (“traslazionale”), che dal laboratorio trasporti sull’uomo i
propri risultati (vedi recenti ipotesi di variabilità individuale di risposta ai farmaci
oppioidi sulla base del profilo genetico)9.
9
www.ail.it/terepia-dolore/04.asp data 05-08-2007
- 27 -
LA MUSICA E IL DOLORE
CAPITOLO 2: LA MUSICOTERAPIA
Introduzione: che cosa è la musicoterapia
Cos’è la musicoterapia, o meglio, cosa e quante sono “le musicoterapie”? Già, perché il
concetto di musicoterapia è molto ampio, ha implicazioni molto vaste e si riferisce ad ambiti
operativi profondamente differenti tra di loro.
Associazione Professionale dei Musicoterapeuti della Gran Bretagna
www.roehampton.ac.uk
La musicoterapia è una forma di trattamento in cui s’instaura un mutuo rapporto fra paziente e terapeuta, che
permetta il prodursi di cambiamenti nella condizione del paziente e l’attuazione della terapia. Il terapeuta
lavora con una varietà di pazienti, sia bambini che adulti, che possono avere handicap emotivi, fisici, mentali o
psicologici. Attraverso l’uso della musica in maniera creativa in ambito clinico, il terapeuta cerca di stabilire
un’interazione, un’esperienza ed un’attività musicale condivise che portano al perseguimento degli scopi
terapeutici determinati dalla patologia del paziente.
Associazione Canadese di Musicoterapia
www.musictherapy.ca
La musicoterapia è "l’uso della musica per favorire l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell'individuo e
l’uso della musica nella cura di malattie e disabilità. Può essere applicata a tutte le fasce d’età, in una varietà di
ambiti di cura. La musica ha una qualità non – verbale, ma offre un’ampia possibilità d’espressione verbale e
vocale. Come membro di un’équipe terapeutica, il musicoterapeuta professionista partecipa all’accertamento
dei bisogni del cliente, alla formulazione di un approccio e di un programma individuale per il cliente e poi offre
specifiche attività musicali per raggiungere gli scopi. Valutazioni regolari accertano ed assicurano l’efficacia
del programma. La natura della musicoterapia amplifica l’approccio creativo nel lavoro con gli individui
handicappati. La musicoterapia fornisce un approccio umanistico possibile che riconosce e sviluppa le risorse
interne del cliente spesso non sfruttate. I musicoterapeuti desiderano aiutare l’individuo per spingerlo verso un
migliore concetto di sé, e, nel senso più ampio, per far conoscere ad ogni essere umano le proprie maggiori
potenzialità".
Associazione Nazionale di Musicoterapia U.S.A.
www.musictherapy.org
La musicoterapia è "l’uso della musica nella realizzazione degli scopi terapeutici: il ristabilimento, il
mantenimento e il miglioramento della salute mentale e fisica: E’ l’applicazione sistematica della musica, diretta
dal musicoterapeuta in un ambito terapeutico, per portare i cambiamenti desiderati nel comportamento. Tali
cambiamenti permettono all’individuo di affrontare la terapia per arrivare ad una maggiore comprensione di sé
e del mondo intorno a lui, e di ottenere quindi un più adeguato adattamento alla società. Come membro della
squadra terapeutica il musicoterapeuta professionista prende parte all’analisi dei problemi dell’individuo e alla
formulazione degli obiettivi del piano generale di trattamento, prima di progettare ed elaborare specifiche
attività musicali. Valutazioni periodiche vengono fatte per determinare l’efficacia delle procedure impiegate".
28
LA MUSICA E IL DOLORE
Federazione Mondiale di Musicoterapia
www.psychotherapie.org/MUTIG/wfmt.html
La Musicoterapia è l'uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo,melodia e armonia) da parte di
un musicoterapeuta qualificato, con un cliente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la
comunicazione, la relazione, l'apprendimento, la motricità, l'espressione, l'organizzazione e altri rilevanti
obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La
Musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell'individuo in modo tale che il paziente o la
paziente possano meglio realizzare l'integrazione intra e interpersonale e consequenzialmente possano
migliorare la qualità della loro vita grazie ad un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico.
Ho pensato fosse utile iniziare questa spiegazione con una breve quanto importante rassegna
internazionale di definizioni di musicoterapia; ne aggiungo una ulteriore derivante dall’analisi
della realtà italiana effettuata da uno dei capo scuola della musicoterapia nazionale: la
musicoterapia è una tecnica, mediante la quale varie figure professionali, attive nel campo
della educazione, della riabilitazione e della psicoterapia, facilitano l’attuazione di progetti
d’integrazione spaziale, temporale e sociale dell’individuo, attraverso strategie di
armonizzazione della struttura funzionale dell’handicap, per mezzo dell’impiego del
parametro musicale; tale armonizzazione viene perseguita con un lavoro di sintonizzazioni
affettive, le quali sono possibili e facilitate grazie a strategie specifiche della comunicazione
non verbale (Postacchini, 1995).
E’ evidente quanto una definizione di questo tipo possa risultare, ad un primo approccio,
ampia e complessa, come d'altronde lo è la disciplina di cui tratta; nonostante tutto, mi è
sembrato giusto partire da una sorta di fotografia del panorama esistente, in modo da poter in
seguito riprendere, in maniera analitica, ognuna delle affermazioni in essa contenute.
La competenza professionale e il rigore metodologico da un lato, e dall’altro quest’attitudine
naturale alla “amorevolezza”, che nel caso specifico hanno reso la ricerca e la ricostruzione
del senso originario di un’opera d’arte un obiettivo desiderabile, costituiscono la base di un
comune sentire che riguarda professionalmente i musicoterapeuti. Infatti, chiunque operi nel
campo dell'handicap, psichiatra, neuropsichiatra infantile, psicologo, educatore, terapista della
riabilitazione, viene a trovarsi in una circostanza affatto simile: deve compiere un grande
sforzo, in termini di competenza e amorevolezza, per cogliere il senso profondo di una verità
nascosta che sembra difficile da raggiungere e che, in qualche caso, è soltanto possibile o
potenziale.
Il grande sforzo degli operatori è allora quello di cercare (se già c’è), o favorire un’armonia
interna della persona, sintonizzandosi su se stessa, per consentire, laddove la comunicazione è
interrotta, di instaurarsi una qualche forma di relazione.
29
LA MUSICA E IL DOLORE
Si potrebbe quindi stilare, sulla scia delle considerazioni fin qui esposte, un primo parziale
tentativo di risposta al quesito iniziale: la musicoterapia è una modalità terapeutica atta a
favorire la costruzione di relazioni, nelle quali vengono messe in gioco, da parte degli
operatori, competenze tecniche, culturali ed umane, mentre da parte di coloro che ricevono,
viene messa in gioco la disponibilità a farsi conoscere.
Parlerò di deficit (inteso come risultato quantificabile di un danno neurologico, psichico,
sociale) e di handicap (inteso come complicanza prevedibile del deficit), con la prospettiva e
lo finalità, nei confronti di quest’ultimo, di poterlo prevenire ed, utopisticamente, eliminare.
Sicuramente la qualità del deficit è un dato importante: una cosa è avere a che fare con un
deficit sensoriale, un’altra cosa è trattare un danno motorio; un conto è una non disponibilità a
comunicare, un altro conto è l’impossibilità organica di comunicare. Ma ciò che mi consente
di articolare il lavoro, è anche la conoscenza approfondita della struttura dell’handicap.
Questa considerazione può integrarsi alla prima e costituire una seconda parziale risposta alla
domanda iniziale: la musicoterapia, al pari delle altre arti-terapie, con i parametri che le sono
propri, tende a costruire le azioni nelle quali può essere chiarita la struttura dell’handicap e ne
può essere approfondita la conoscenza. Attraverso un lavoro fondato su processi di interazione
empatica profondamente partecipata definite sintonizzazioni, diviene possibile facilitare la
comunicazione (verbale o non verbale), la qualità dell’apprendimento e la disponibilità
affettiva.
Le terapie artistiche, attraverso il segno grafico, la danza, la musica, ecc., non fanno altro che
articolare il linguaggio del corpo (dal sensoriale, al percettivo, al mentale) attraverso un lavoro
di sintonizzazione progressiva con le strutture fondamentali del comportamento.
Quello che caratterizza il movimento delle arti-terapie è infatti la coesistenza di un processo
estetico da una parte, con un processo rieducativo-terapeutico dall’altra parte. Lo scopo degli
arte-terapeuti, naturalmente, non è quella di costruire o elaborare opere d’arte; malgrado ciò,
nella loro modalità di operare esiste una qualità estetica che può essere relativa ai parametri e
ai materiali utilizzati, o alla loro modalità di elaborazione.
Quando tra il 1511 e il 1516 fu commissionata a Matthias Grunewald la pittura del trittico
dell’altare maggiore della chiesa Monastica di Sant’Antonio ad Isenheim, attualmente
smembrato e diviso tra varie sedi, nella committenza di questa opera era compreso il fatto che
la chiesa si trovasse collocata presso un ospedale e pertanto veniva richiesto all’autore di
questa Crocifissione di tenere presente che l’opera sarebbe stata esposta a persone sofferenti.
Di fatto le ricostruzioni storiche consentono di dire che in un primo momento, quando i malati
venivano accompagnati nella parte di fondo della chiesa, il trittico appariva chiuso.
30
LA MUSICA E IL DOLORE
Successivamente i malati venivano avvicinati all’altare maggiore e durante il percorso il
trittico veniva aperto, esponendone le sue varie parti. Durante la cerimonia venivano proposte
a storpi, sordi, cerebropatici, affetti da lebbra e da altre malattie infettive gravi, che
caratterizzavano le patologie di quel tempo, esperienze drammatiche ed emotivamente intense,
tali da suscitare reazioni catartiche profondamente liberatorie, anche se non terapeutiche nella
stretta accezione del termine. Vi era quindi un fondo di intenzionalità curativa da parte di chi
proponeva tali esperienze, e che la catarsi possa essere liberatoria è un concetto che ritroviamo
anche nella medicina moderna: per esempio è alla base della fondazione della stessa
psicoanalisi. Nel corso della cerimonia venivano anche eseguite musiche. Di queste non
abbiamo documenti storici diretti, ma possiamo ipotizzare che fossero state composte da
musicisti del tempo e che si trattasse di musica prevalentemente corale.
La commissione dell’opera contemplava il fatto che fosse destinata a pazienti; si trattava
pertanto dell’intenzione di evocare e regolare emozioni attraverso l’arte, e non già di
un’esperienza occasionalmente artistica.
Nell’agire musicoterapico, si compie qualche cosa di relativamente simile; si utilizzano
musiche già costruite, o ci si sforza di comporne all’interno della situazione nella quale si
lavora, in maniera tale che siano adatte allo scopo che ci si era prefissi.
La musicoterapia si occupa dunque della costruzione intenzionale di relazioni comunicative a
fini terapeutici, attraverso l’impiego di due distinti elementi:
a) la relazione: per lo sviluppo di questa ci si può avvalere certamente di attività musicali, ma
anche di altre pratiche espressive;
b) la musica: l’obiettivo sarà quello di realizzare attraverso di essa una forma di
comunicazione non verbale.
Si deve prendere atto di una realtà che non sempre si riconosce in quella visione dinamica del
rapporto tra elementi musicali ed elementi relazionali. Mi è sembrata pertanto utile una
schematizzazione che vedesse distinte da un lato le attività in cui l’elemento predominante è
quello relazionale, in cui sono prevalentemente i terapeuti ad operare, e dall’altro le attività in
cui l’elemento predominante è invece quello musicale, situazione in cui sono i musicisti,
coloro che si trovano più frequentemente chiamati in causa. Si viene così a delinearsi quella
situazione descritta in maniera molto efficace da Bruscia (1989), attraverso l’uso differenziato
dei caratteri maiuscolo e minuscolo: con MUSICO-terapia egli indica infatti quella attività
svolta prevalentemente dai musicisti, mentre utilizza il termine musico-TERAPIA per riferirsi
31
LA MUSICA E IL DOLORE
a quella prevalentemente svolta dai terapeuti. In ambedue i casi, comunque, si strutturerà un
tipo di relazione in cui lo sviluppo di emozioni profonde assume notevole importanza.
Questo emergere, a volte anche tumultuoso, delle emozioni, non è di per sé terapeutico, e utile
ai fini del trattamento, e può anche risultare pericolosamente regressivo; di questo fatto
occorrerà tenere conto. Quindi, le modalità attraverso le quali queste emozioni verranno
liberate, o ne sarà facilitata l’analisi introspettiva, non saranno indifferenti.
A tale riguardo, si può fin d’ora operare una distinzione: da un lato vengono collocate le
pratiche più tipicamente magiche o sciamaniche, in cui l’azione terapeutica viene assolta in
maniera misteriosa dal suono, ed in cui, quindi, il controllo di ciò che accade da parte di chi
pratica il rito può essere ritenuto solo parziale, ed il ruolo di chi ne beneficia quasi del tutto
passivo; dall’altro lato vengono sistemate le pratiche più scientifiche, aventi l’obiettivo di
raggiungere la consapevolezza di un essere umano.
Beninteso, il discorso sui rapporti fra magia, rito ed eventi terapeutici non può certo esaurirsi
in questi rapidi accenni, se solo si pensa all’importanza storica di certe pratiche popolari come
il tarantismo, di cui ha magistralmente scritto De Martino (1961), o alle più recenti
valutazioni sugli stati di possessione e di trance compiute da Lapassade (1990),. L’importanza
della componente di suggestione nel rapporto di transfert e il valore catartico di certi rituali
codificati attraverso i secoli nelle varie culture magico religiose, sono elementi che non
possono certo essere trascurati quando si affronta il problema di “cosa” ha funzionato in un
intervento terapeutico, e che solo un malinteso dogmatismo scientifico ha creduto di poter
rimuovere.
Bisogna affrontare, il problema della vita psichica dal versante “scientifico”, senza però
rinunciare alla consapevolezza che certe acquisizioni scientifiche nel campo dell’attività
mentale e dei fenomeni correlati rimandano spesso ad altre conoscenze non scientifiche, che si
sono formate in tutt’altro modo e che, secondo me, devono accedere ad una possibilità di
confronto, se l’obiettivo è quello di raggiungere una visione più integrata, anche se mai
definitivamente esaustiva, di quella che si potrebbe definire la “realtà dell’anima”.
Fatte tali premesse, mi concentrerò quindi sugli interventi che si propongono di raggiungere
un certo livello di consapevolezza da parte del paziente. Consapevolezza è in questo caso un
vocabolo che rappresenta quel metodo scientifico con cui mi sforzo di operare; rimane tuttavia
una parola molto complessa in questo contesto, sulla quale bisogna intendersi, e che cercherò
di chiarire utilizzando il concetto di sintonizzazione.
Se consapevolezza significa, nel senso comune del termine, essere informati, essere a
conoscenza, occorrerà immaginare di stabilire una comunicazione tra l’operatore e l’utente,
32
LA MUSICA E IL DOLORE
attraverso la quale veicolare, nelle due direzioni, la concordanza di un progetto, la coincidenza
d’intenzioni, la propria disponibilità; ma in caso di handicap molto gravi non potremo mai
immaginare di stabilire una comunicazione in tempi e modi “normali”. Potremo immaginare
soltanto di individuare ed utilizzare al meglio i canali sensoriali che risultano attivi per quella
persona. Per esempio, non è detto che una persona con gravi deficit veda con gli occhi, così
come non è detto che ascolti realmente con le orecchie. Nelle gravi condizioni di psicosi e di
insufficienza mentale gli occhi possono essere in parte utilizzati al posto delle orecchie, o
viceversa. Analogamente la pelle può svolgere funzioni simili vicariando altri analizzatori
sensoriali.10 Risulta allora chiaro che non è indifferente, ai fini dello sviluppo della relazione,
se una persona con gravi deficit che usa gli occhi come orecchie interagisce con un educatore
il quale usa gli occhi come occhi. Il differente impiego di strategie percettive può comportare,
da parte dell’operatore, pregiudizi e resistenze nello sviluppo di una relazione terapeutica, se
egli non riuscirà a operare, per dirla con Schneider, con quella fusione di udito e vista che gli
antichi cinesi definivano “luce degli orecchi”. Il fine del lavoro terapeutico non può essere
quello di portare le persone dove vogliamo, o renderle simili a noi, pur essendo questa una
tendenza naturale e comprensibile, ma l’obiettivo dovrebbe essere invece il portare queste
persone il più vicino possibile a quello che esse effettivamente sono. Questa è la difficoltà di
sintonizzarsi con le strutture dell’handicap grave. Tale difficoltà, a prima vista insuperabile e
non risolvibile, non appare poi così “disumana” se solo proviamo a pensare alle
sintonizzazioni precoci delle mamme con i loro bambini che sono esattamente della stessa
natura. I neonati non hanno un linguaggio articolato, piangono e con questo comunicano ogni
loro bisogno; se hanno fame, se hanno freddo, se sentono rumore o se desiderano altre cose.
Occorre allora fare uno sforzo di decodificazione: anche i neonati sono in fondo “animali
fantastici” come quelli ricostruiti da Schneider; bisogna interpretarli. A volte questo sforzo è
difficile, si può procedere per prove ed errori. Il compito di un operatore alle prese con un
handicap grave è esattamente lo stesso. L’obiettivo difficile, a volte anche frustrante, è proprio
quello di trovare un canale di sintonizzazione con la modalità principale di comportamento di
quella persona, cosa questa che può risultare ulteriormente ostacolata dagli effetti
dell’educazione, la quale a volte maschera, più di quanto non aiuti a conoscere le autentiche
componenti profonde della personalità. L’area in cui si cercherà questo canale di
sintonizzazione è quello della comunicazione non verbale (Ricci Bitti-Caterina, 1990). Siamo
certamente in una situazione di responsabilità morale di estrema delicatezza e profondità. Un
esempio: se un educatore si trova a operare con i parametri musicali in una relazione educativa
10
Ciò costituisce la norma nei primi anni di vita, a causa della complessiva immaturità del Sistema Nervoso e torna in certa
misura ad esserlo nelle situazioni di handicap neuro-psichico grave.
33
LA MUSICA E IL DOLORE
“difficile” potrebbe scoprire, da parte della persona con la quale sta operando, una certa
consuetudine ad usare suoni di una determinata intensità, durata e velocità. La valutazione di
questi elementi può rivelarsi utile per delineare alcuni aspetti di personalità. Per esempio,
suoni di elevata velocità, breve durata e di bassa intensità, hanno una forte componente
sinestesica, portata a caratterizzare suoni piccoli, forme piccole. Se però si mantengono
costanti i due parametri velocità e durata e si eleva l’intensità, non si passa al suono grande,
che sarebbe ancora pertinente al simbolismo sinestesico, ma al delineamento di una qualità
morale e di un tratto di personalità, l’aggressività, che è pertinente al piano del simbolismo
fisiognomico. Questo è un primo accenno a quelli che considero alcuni degli elementi
fondanti la metodologia d’intervento basata sulla consapevolezza. Tale consapevolezza trova
nelle sintonizzazioni uno strumento di comunicazione e di condivisione, anche in quei casi di
handicap psicofisico così grave da far pensare, ad un primo impatto, proprio alla impossibilità
di utilizzo di una strategia fondata sulla consapevolezza. Il semplice presentare alcuni esempi
ha portato alla luce un’altra questione centrale: la difficoltà osservativa e formativa di un
operatore il quale debba acquisire dimestichezza con gli elementi che abbiamo visto essere in
gioco e con il loro impiego nella costruzione di una relazione.
Varie sono le persone che si occupano in qualche maniera di musicoterapia: insegnanti,
riabilitatori (o terapisti), e terapeuti nel senso più strettamente psicoterapico del termine. Sono
figure professionali diverse, hanno curriculum formativi completamente distinti, operano in
condizioni diversificate. D’altra parte pare ovvio che un percorso formativo in musicoterapia
non possa, né debba, né voglia ambire a formare insegnanti piuttosto che psicoterapeuti. Pare
altresì di dover e poter identificare un percorso formativo in grado di costruire una
professionalità specifica, peculiare, come quella del musicoterapeuta. Questo passaggio mi
pare indispensabile per la chiarezza degli interventi e dell’identità degli operatori, oltre che
logica premessa all’eventuale identificazione e riconoscimento di una professionalità
musicoterapica da parte del legislatore (Piatti, Postacchini, 1991). Gli insegnanti restano
insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione psicologica e parimenti gli
psicoterapeuti ed i riabilitatori mantengono la propria identità professionale, anche nel caso
che utilizzino un brano musicale all’interno del loro setting. Ma quegli operatori che si
occupano di musicoterapia spesso con pazienti gravi, che operano in strutture sanitarie
(pubbliche o private), terapeutiche, riabilitative, assistenziali, che collaborano alla
formulazione
di
un
progetto
terapeutico/riabilitativo
all’interno
di
una
équipe
multidisciplinare, che provengono da un rigoroso percorso formativo, ebbene quegli operatori
sono musicoterapeuti.
34
LA MUSICA E IL DOLORE
Essi, come si è in parte già detto, si occupano della conoscenza e dell’intervento sulla struttura
dell’handicap, per attenuarne i livelli di disarmonia. Questo è possibile facilitando
comportamenti sensoriali e motori: per esempio lavorando con bambini sordi sulla loro
percezione dei suoni, o lavorando con bambini non vedenti e aiutandoli in qualche modo a
percepire ugualmente attraverso le vie ottiche indenni, qualora sia compromesso soltanto
l’analizzatore periferico. E’ possibile inoltre lavorare sulla struttura dell’handicap facilitando
il tipo di apprendimento di una persona che non abbia strategie e modalità elaborative, al fine
di consentire un apprendimento sempre più mentalizzato. E’ infatti convinzione profonda che,
anche per l’insufficienza mentale, la distinzione non sia tra livelli di apprendimento normale e
patologico, ma che ci siano livelli di apprendimento tipici per qualunque struttura di handicap.
L’obiettivo è, livello per livello, facilitare al massimo le strategie operative. L’intervento di
facilitazione potrà inoltre essere rivolto al tipo di relazione oggettuale che il paziente tende a
stabilire all’interno del setting, così come potrà essere indirizzato verso le funzioni sociali del
paziente medesimo. La stimolazione di ognuna di queste funzioni, non verrà comunque
perseguita come obiettivo principale dell’intervento, ma in una ottica globale che mira
all’integrazione armonica delle varie facoltà all’interno dell’individuo.
Se è in genere lunga la strada attraverso la quale da un deficit, neurologico, sensoriale o
psichico, si produce un handicap, altrettanto lungo è il percorso che deve prima formare un
musicoterapeuta e poi metterlo nelle condizioni di elaborare nelle singole situazioni una
strategia operativa finalizzata alla sintonizzazione ed all’armonizzazione dell’handicap
secondo i concetti prima accennati. Che il percorso formativo non si possa completare in
tempi brevi è un fatto dovuto prima di tutto alla complessità della materia in sé e poi alla
necessità che al corso propedeutico di formazione, pur opportunamente corredato di laboratori
esperenziali, si affianchi e faccia seguito una esperienza sul campo ed una supervisione
dell'esperienza medesima.
Un percorso così concepito favorisce l’acquisizione di una disinvolta pratica operativa che:
1) sia fondata su un modello teorico di riferimento, che può essere quello psicoanalitico,
quello cognitivista, quello sistemico-relazionale, di programmazione neurolinguistica, ecc.;
2) impieghi consapevolmente i parametri, che in questo caso saranno musicali, per costruire e
stabilizzare una relazione;
3) operi attraverso una tecnica basata sulle sintonizzazioni tra terapeuta e paziente.
35
LA MUSICA E IL DOLORE
Successivamente la pratica operativa richiederà una costante verifica da attuare su uno o più
casi per un periodo prolungato, con l’aiuto di supervisori.
Sul piano pratico rendere operativo un modello di questo tipo è di estrema difficoltà; ciò
deriva in parte dal fatto che non esiste a oggigiorno una chiara definizione legislativa
dell'attività musicoterapica e in secondo luogo dal fatto che negli ambiti formativi attuali
viene nettamente privilegiata la componente teorica, la quale è certamente indispensabile ma
non esaustiva. Si dirà, a ragione, che non è un problema solo della musicoterapia e non
occorre neppure rifarsi all’annosa e forse non ancora risolta questione della formazione degli
psicoterapeuti, ma basta chiedersi quanto un neolaureato in medicina, sappia esercitare
davvero il suo mestiere prima di fare la necessaria pratica clinica. In realtà, se è vero che, per
dirla con Seneca, l’arte è lunga e la vita è breve e che quindi imparare bene una professione è
sempre una questione non semplice, ciò è tanto più vero per le professioni che hanno a che
fare con la relazione e con l’handicap, poiché richiedono di affrontare un percorso non lineare,
complesso, fatto dell’intersezione di una componente medico-scientifica, una artisticaculturale, una antropologica ed una psicologica (Lorenzetti 1986).
Tuttavia il presupposto di ogni discorso rimane il corretto apprendimento di una metodologia
e di una tecnica specifiche, sapendo naturalmente che l’intero percorso formativo e
professionale richiede, oltre alla competenza. Ci vogliono infatti molto tempo, molta
dedizione e molta pazienza per lavorare su cose come queste: difficili, poco o nulla visibili e,
a volte, incredibili.
2a. IL TERAPEUTICO IN MUSICOTERAPIA
Pare che parlando di musicoterapia ci si debba riferire non solo alla terapia in senso stretto,
bensì anche ad altre attività, come la riabilitazione, la prevenzione, l’integrazione,
l’educazione, e così via. A questo ampio spettro di competenze corrisponde un repertorio di
figure professionali altrettanto nutrito; tratterò quindi non solo di terapeuti e terapisti, ma
anche di riabilitatori, educatori ed insegnanti. Tale non chiarissima situazione andrebbe poi
complicata con il dilemma della musicoterapia come disciplina musicale o terapeutica: sono i
musicisti, i terapeuti, entrambe le classi, o altre figure professionali ancora ad occuparsene?
36
LA MUSICA E IL DOLORE
2a.1 INSEGNANTI, EDUCAZIONE E MUSICOTERAPIA
L’insegnante è colui che insegna, cioè facilita i processi di apprendimento. Questo è vero da
molto tempo, almeno dal XIII secolo, che non è certo il periodo in cui è nato l’insegnamento
in sé, ma quello cui possiamo far risalire l’origine del nostro codice linguistico, che da allora
definisce inequivocabilmente chi svolge tale professione. Gli insegnanti sono quindi sempre
stati (probabilmente anche prima di chiamarsi così) coloro che si sono occupati di “insignare”, imprimere nella mente altrui cognizioni teoriche o pratiche, servendosi magari di un
particolare metodo, che si è andato man mano perfezionando nei secoli. La definizione di
insegnante chiarisce quindi sia le attitudini professionali ed umane che egli ha nell’addestrare
altri soggetti, sia il trasferimento di conoscenze implicito in tale operazione. Nulla del livello
cognitivo, o dell’integrità psicomotoria del destinatario dell’agire dell’insegnante, è previsto
nella sua definizione professionale; egli mantiene la propria identità, la propria qualifica, sia
che si rivolga ad un atletico laureando, sia che si rivolga alla più sfortunata antitesi di questo
che possa venire alla mente. 11
Perché ho detto questo?
Perché intendo sostenere che un insegnante che insegni, a chiunque insegni, fa l’insegnante.
E’ comprensibile che il desiderio di fare qualcosa di utile per chi soffre, per chi è portatore di
minorazioni psicofisiche, per chi è disturbato, porti a cercare di allestire interventi finalizzati a
questo scopo in qualsiasi ambito, anche quello scolastico. A ciò si aggiunge un
fraintendimento alquanto frequente, che fa probabilmente parte di quel fenomeno che Melucci
(1991) definisce la “terapeutizzazione del quotidiano”, per cui qualsiasi attività coinvolga
coloro che si trovano in situazioni di handicap, sembra debba assumere di per sé valore
terapeutico, costituendo così un’associazione inevitabile: gioco + handicap = ludoterapia,
equitazione + handicap = ippoterapia, musica + handicap = musicoterapia, e così via. Si ha
quasi la sensazione che il vocabolo musicoterapia venga talvolta caricato di un potere
taumaturgico (e rappresenti spesso una specie di ultima spiaggia, di tentativo che comunque si
può fare perché “male non fa”), per cui usandolo quando si descrivono le proprie attività si
rende più importante, più socialmente utile, più scientificamente valido ciò che si fa con gli
handicappati, anche se alla fin fine non si fa altro che farli cantare, suonare, ballare e ascoltare
musica (Piatti, 1994).
Viene il dubbio che nell’errore di considerare musica + handicap = musicoterapia siano
incorsi anche gli estensori finali dell’attuale programma ministeriale per la scuola elementare,
11
A tale riguardo va tuttavia osservato che l’Italia è l’unico paese in cui gli handicappati sono inseriti nelle classi
normali. Questo ha prodotto negli ultimi vent’anni una cultura dell’integrazione scolastica che non ha riscontro
nelle altre nazioni, e che rende difficile il confronto con l’esperienze educative straniere nel campo dell’handicap.
37
LA MUSICA E IL DOLORE
dove si afferma che: “Nell’ambito di attività di educazione al suono e alla musica è da tener
presente il valore che possono assumere eventuali interventi specialistici di musicoterapia
rivolti a soggetti in situazione di handicap” (Casadei-Denotariis, 1989). A parte il fatto che
non si capisce se questi interventi dovranno essere compito degli insegnanti, della scuola,
oppure di altri soggetti, va osservato che l’accennare solo qui ai soggetti in situazioni di
handicap può far pensare che, per loro, le attività musicali debbano trasformarsi in terapia. Mi
domando allora perché non si sia sentita la necessità di fare affermazioni analoghe nell’ambito
della educazione linguistica (Piatti, 1993).
Mi pare di poter dire che il vocabolo “musicoterapia”, per quanto ad una prima lettura possa
risultare fuorviante, sia da intendere in questa accezione come intervento pedagogico e non
terapeutico. Parliamo di interventi musicali a scuola, effettuati da insegnanti di educazione
musicale, che verrebbero svolti anche con portatori di handicap (Zucchini, 1989). E’ tuttavia
da ricordare che questi ultimi si recano a scuola per le stesse ragioni degli altri ragazzi: per fini
educativi, non per curarsi, cosa altrettanto decorosa e spesso necessaria, ma da svolgersi in
contesti appropriati.
Se non si facesse questa doverosa distinzione, potrebbe accadere che un ipocondriaco che
passa le sue giornate in ospedale, chiedesse al medico una lezione di chimica o di
farmacologia: i medici sono esperti del curare non dell’insegnare ed è per l’una, non per l’altra
cosa, che si trovano in corsia.
Quali sono le finalità della scuola? Certamente favorire lo sviluppo cognitivo, affettivo,
emotivo, sociale e morale dei bambini e dei ragazzi; un insegnante di musica che si occupasse
di questo, non farebbe allora il musicoterapeuta, bensì l’insegnante.
L’handicap sociale, che grava quasi su ogni portatore di deficit, se non opportunamente
considerato, può, anziché ridursi, espandersi, diffondendosi ad ognuna delle aree nominate;
l’isolamento affettivo si ripercuote pesantemente sulla stabilità emotiva, sul rendimento
cognitivo, e così via, in un circolo vizioso di handicap - esperienze negative - aggravamento
dell’handicap, che può diventare il dato saliente di tutta l’età evolutiva. Ma chi si occupa di
prevenzione dell’handicap e di terapia è qualcuno che svolge una azione attinente la salute
delle persone e non la loro educazione, e la cura è cosa che richiede, come vedremo, un
impianto tecnico-culturale assai distante dall’insegnamento e quindi dalla realtà scolastica.
Cosa significa allora fare musicoterapia nella scuola? Probabilmente l’opportunità che si
presenta agli insegnanti di musica con competenze musicoterapiche di fare il proprio mestiere
d’insegnanti in maniera più illuminata, creativa e completa di quella di altri colleghi,
intervenendo non solo direttamente sull’apprendimento di una materia, la musica per
38
LA MUSICA E IL DOLORE
l’appunto, ma anche e soprattutto creando le premesse per una positiva esperienza scolastica,
sia dal punto di vista dei vissuti che da quello dei risultati. Questi professionisti potranno
avvalersi, nel lavoro con persone in condizioni di disagio, di un corpus teorico e di strategie
educative, appositamente studiate per il contesto educativo, come i celebri metodi Dalcroze e
Orff. Ma, per quello che riguarda più specificamente la definizione degli obiettivi e delle
strategie in ambito scolastico con i portatori di handicap, una volta puntualizzate le questioni
di carattere generale, mi sembra logico lasciare il campo ai pedagogisti della musica.
Due ultime osservazioni a margine.
1) Parte dei fraintendimenti sul significato di ciò che si è realizzato in ambito musicoterapico
fino ad ora e sui risultati ottenuti, nasce dal fatto che si sono spesso documentati come risultati
di attività terapeutica anche quelli che erano probabilmente il frutto di un onesto lavoro di
educazione e/o animazione musicale. Far star “meglio” l’handicappato a scuola, ma anche in
ospedale o nei centri di accoglienza, farlo sorridere, farlo interagire è opera meritoria, ma se
non si esce da questa genericità hanno buon gioco quanti si chiedono dove stia esattamente,
nella musicoterapia, il confine tra educazione e terapia, e in quale dei due ambiti debba essere
inserito l’apprendimento di comportamenti più adeguati.
2) Proprio per questo, in pieno accordo con i pedagogisti (Piatti, 1994), ritengo che la
musicoterapia come termine ombrello, il quale finisce per coprire le attività più diverse fra
loro, sarebbe un fenomeno infinitamente meno rilevante se qualsiasi attività che utilizza il
parametro musicale, sia in ambito educativo che in ambito riabilitativo-terapeutico, accettasse
di sottostare ad alcune elementari regole di chiarificazione metodologica e comunicativa,
dichiarando e specificando preventivamente:
a) i contesti operativi, e le loro relative finalità istituzionali in cui si intende operare;
b) chi e perché ha deciso, in tali contesti e di fronte a quali situazioni, di utilizzare quella
specifica forma terapeutica definita musicoterapia;
c) chi è responsabile del progetto, qual è il progetto e quali ne sono gli obiettivi;
d) i presupposti teorici che vengono usati per giustificare il proprio indirizzo progettuale e per
interpretare, analizzare e valutare i dati esperienziali;
e) le ragioni che hanno indotto, di fronte ad una situazione di handicap, ad optare per un
metodo e una tecnica e non per un’altra;
f) le modalità di valutazione, sia istituzionale, sia del gruppo di lavoro, dei risultati ottenuti e
non ottenuti;
g) chi e come supervisiona l’intera attività.
39
LA MUSICA E IL DOLORE
Ritengo ciascuno di questi punti requisito irrinunciabile per ogni onesto ragionamento che
ambisca a definirsi scientifico e mi propongo di dimostrare nei prossimi due paragrafi, che un
confine, fra educazione, riabilitazione e terapia, esiste.
2a.2 RIABILITAZIONE E TERAPIA
In questo paragrafo si parla di cose che hanno attinenza con la cura delle persone, cioè con la
salute, con la malattia e con le metodiche (terapia, riabilitazione) per migliorare le condizioni
di chi è malato. Tutti termini il cui significato nel linguaggio comune è apparentemente
condiviso, ma in realtà incessantemente dibattuto.
Concetto di cura. Il suo significato è composito, e sicuramente ha subìto una notevole
trasformazione in seguito allo sviluppo di una fiducia, forse eccessiva, che l’attuale società
occidentale ripone nella scienza e nella tecnica, la quale ha, tra l’altro, prodotto anche un
cambiamento non irrilevante nel rapporto che gli uomini hanno tra di loro e con loro stessi.
Proviamo a pensare di chiedere ad un medico, cioè ad un funzionario di un sapere e di un
apparato tecnico, cosa significa “curare”: la risposta sarà, approssimativamente, “guarire”. Se
invece poniamo la stessa domanda a una madre che interagisce con il suo bambino,
probabilmente scopriremo che per lei curare significa “aiutare a crescere”. Si colgono qui i
segni della crescente divaricazione fra l’ottica “scientifica”, per cui “agire” significa ottenere
risultati a partire dagli scopi che ci si propone, e l’ottica “umanistica”, per cui agire significa
“interagire”, e assistere alla nascita di un mondo che scaturisce proprio da questa interazione
(Galimberti, 1995).
Ma allora non è proprio possibile costruire un’ottica integrativa? E che cos’è, in definitiva, la
cura: ristabilire un equilibrio che si è infranto ripristinando la situazione originaria, o favorire
un processo di trasformazione in senso evolutivo che porta dalla semplicità alla complessità,
come ogni madre sa quando si prende cura del suo bambino? Questo dilemma si riproporrà
anche a proposito della riabilitazione; credo comunque che curare debba significare
ripristinare una condizione di armonia psicofisica, se questa c’era, o costruirne una nuova, se
non c’era, e quindi che le definizioni precedenti debbano e possano integrarsi.
Veniamo al concetto di malattia. La definizione ufficiale dello studio di Jablensky (1980) per
conto della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) testualmente recita: “... per malattia
si intende una condizione fisica o mentale percepita (in modo angoscioso e minaccioso) come
deviazione dallo stato di salute normale e che può essere descritta in termini di sintomi o
segni”. Viene invece definito danno un “disturbo o interferenza nella struttura e nel
funzionamento normali del corpo”, comprendendo in esso il sistema delle funzioni mentali. E’
40
LA MUSICA E IL DOLORE
interessante osservare che, sempre lo stesso studio, definisce la salute come “uno stato di
benessere psicofisico della persona”, ribaltando in chiave positiva la precedente definizione
ufficiale, la quale si limitava tautologicamente a intendere per salute “l’assenza di malattie”.
Nel dare il giusto rilievo al fatto che, con questo ribaltamento, l’OMS avvalla autorevolmente
il concetto di unità mente-corpo della persona, considero di aver sufficientemente delimitato il
campo per cominciare ad occuparmi dei termini più direttamente attinenti con la
musicoterapia.
2a.2.1. LA RIABILITAZIONE
Uno degli aspetti più interessanti e paradossali per chi intraprenda uno studio sulla nozione di
“riabilitazione” nelle discipline che si occupano del soggetto sofferente per una disabilità
psichica e/o fisica, è la confusione e la vaghezza di ogni possibile definizione, anche se,
quando se ne parla, tutti sembrano intenderne il significato; infatti il termine riabilitazione è
ormai di impiego frequente e, talora, abusato nella letteratura medica e psico-sociologica.
Tuttavia, in origine, questo concetto appartiene alle Scienze Giuridiche.
12
Tale paternità
dottrinaria giustifica, in parte, la confusione e la polisemicità riguardo all’utilizzo del concetto
in ambito medico, psicologico e sociologico. Infatti, soprattutto per quanto riguarda
l’handicap neuro-psichico, permane la ambiguità di fondo fra l’intento ortopedizzante proprio
della giurisprudenza penale e quello terapeutico; il primo eminentemente orientato alla difesa
della comunità sociale, il secondo agli interessi individuali del paziente.
Per molto tempo, si è pragmaticamente intesa la riabilitazione come “quella serie di interventi
diretti o indiretti che favorisca in un individuo la diminuzione dello stato di danno e di
disabilità” (Jablensky, 1980). In tale definizione generica traspare subito una contraddizione:
infatti, da un lato sembra di ricavare l’idea che l’oggetto specifico dell’intervento riabilitativo
sia l’azione tanto sull’handicap del soggetto quanto contro l’edificazione di barriere
(architettoniche, psicologiche, sociali) da parte della comunità; dall’altro lato, si avverte la
possibile vocazione ortopedizzante della riabilitazione che discende in linea retta dalla sua
origine lessicale giuridica: a una colpa/malattia si risponde con un intervento
riparativo/riadattativo, che postula in modo acritico i concetti di normalità e devianza. E’ fin
troppo chiaro, in sostanza, perché le cose non sono chiare: venendosi a collocare il concetto di
riabilitazione proprio a livello dell’interfaccia handicappato/società, esso costituisce uno dei
12
La riabilitazione in campo giuridico-penale è, nelle intenzioni almeno, quell’insieme di interventi operati dallo
stato al fine, oltre che di retribuire con la pena il reo, anche di ricostruire un nesso interattivo positivo fra il reo e
la comunità.
41
LA MUSICA E IL DOLORE
principali punti di scarico di tutte le ambivalenze e le difformità ideologiche, culturali e
sociali, con le quali si è affrontato questo problema.
A partire da una lunga disamina della letteratura esistente sull’argomento e delle acquisizioni
maturate soprattutto nel campo dell’handicap neuro-psichico, Saraceno (1985) propone questa
rilettura del concetto: “è riabilitazione qualunque intervento o costellazione di interventi che
tendano a diminuire gli svantaggi sociali di un handicap fisico o psichico, e insieme a
diminuire le barriere edificate dalla società nei confronti di tale handicap”.
Si può dunque affermare che l’oggetto d’intervento della riabilitazione non è la malattia in
prima istanza, bensì ciò che dalla malattia deriva in termini di perdita di funzioni (fisiche,
psichiche, sociali) e la conseguente emarginazione cui è sottoposto il soggetto.
Quanto alle tecniche con cui perseguire l’obiettivo riabilitativo, vi è, anche qui, diversità di
posizioni. Si apre, infatti, un altro fronte di incertezze e polemiche, di cui possono essere
esempio il problema della definizione dei rapporti fra riabilitazione e terapia e il problema
della definizione delle competenze e dell’autonomia del riabilitatore rispetto al medico o
comunque alla visione medicalizzata (e destoricizzata) della malattia. In generale, per
riabilitare le funzioni perdute, si cerca di sfruttare al massimo le risorse e le funzioni residue
dell'handicappato. L’ambito all’interno del quale a mio parere si dovrebbe muovere
l’intervento riabilitativo è quello del reale; non dunque l’ambito del simbolico, all’interno del
quale opera generalmente l’intervento psicoterapico. Quindi la strategia principe della
riabilitazione è quella che chiamo un procedere “dal di fuori” (concetto che svilupperò
ampiamente nel corso del capitolo IV°, riservato alle strategie d’intervento); dal di fuori
perché si basa su una prassi, su un pattern, su una struttura esterna ben organizzata, che viene
somministrata all’individuo (consapevole, consenziente, collaborante) nella convinzione che
questi ne possa assumere gli schemi, le parti, le funzioni, l’armonicità. Ma, come già
anticipato nel corso dell’introduzione, la mia idea di cura si distanzia dal vecchio concetto di
normalizzazione, in base al quale ogni intervento doveva mirare ad una norma ideale. Penso
piuttosto che sia un discorso di armonizzazione delle varie facoltà che debba essere promosso,
poiché è quello che conferisce un maggior gradiente di benessere, che può appunto derivare da
un equilibrio armonico delle parti. Allora la riabilitazione diventa una strategia di stimolazione
ed armonizzazione di quelle funzioni sensoriali, motorie, cognitive, neuropsicologiche,
psichiche e sociali, indirettamente coinvolte nel processo di formazione dell’handicap, attuata
attraverso tecniche più o meno specifiche, ma sempre dal di fuori.
Due precisazioni.
42
LA MUSICA E IL DOLORE
1) “Dal di fuori” non vuole dire che la relazione riabilitatore-paziente non sia importante; anzi,
la caratteristica che sembra essere costante nella riabilitazione, anche se condotta su
problematiche e patologie differenti (dall’ortopedia alla psichiatria) è che essa consente
fondamentalmente un approccio non medico (nel senso di oggettivante, frammentante,
separato) all’handicap. Ciò che, in altri termini, sembra comune allo sguardo e all’agire del
riabilitatore, è di sostituire ad un’interpretazione distante dai segni dell’oggetto corpo, una
visione integrante e partecipativa del corpo del paziente (inteso come totalità della persona).
In tale contesto, al corpo-supporto del sapere clinico si sostituisce un corpo-rapporto del
progetto riabilitativo, frutto dell’esperienza di rapporto fra riabilitatore e paziente.
Quindi, dal di fuori non significa che non si possa instaurare, nel contesto di una relazione
riabilitativa, quella risonanza armonica a livello empatico che nel cap. IV° si vedrà essere
l’elemento unificante delle diverse strategie d’intervento. In effetti, esistono metodiche
riabilitative che lo escludono in partenza, almeno in linea teorica, perché postulano schemi
d’intervento quasi esclusivamente di tipo direttivo-addestrativo. Ma altre metodologie
veicolano tutte le proposte tecniche attraverso le motivazioni e il coinvolgimento affettivo del
paziente al progetto (Perfetti, 1986), coinvolgimento che è in larga parte frutto dell’intesa con
il riabilitatore, il quale, in questo caso, è molto attento alle risposte emotive del paziente ed è a
sua volta portatore, all’interno del rapporto di sentimenti ed emozioni proprie.
Ciò che differenzia questa relazione, per quanto affettivamente intensa, da quella di transfert
che si determina in una psicoterapia, è che qui, consapevolmente, il riabilitatore non cerca di
lavorare sui contenuti interiori del paziente, non accede alla dimensione simbolica, ma veicola
l’affettività attraverso la praticità di gesti e azioni volte a favorire la risincronizzazione fra
tempo interiore e tempo sociale, l’integrazione di memoria e progetto, la riacquisizione del
valore del ritmo che esiste fra gli oggetti ed il corpo; in buona sostanza, il riapprendimento
degli aspetti, anche banali, del rapporto quotidiano Io/mondo.
2) Ho accennato a tecniche più o meno specifiche, e, in effetti, in questo lavoro se ne
descriveranno alcune pertinenti alla disciplina musicoterapica. Credo che la conoscenza di
tecniche costituisca un bagaglio imprescindibile, senza il quale non si darebbe la figura del
riabilitatore. Nello stesso tempo penso che l’utilizzo delle tecniche debba essere prospettato
attraverso un’ottica che guarda idealmente alla relazione madre-bambino come paradigma.
Infatti, appare certo insensato dire che la madre possiede delle tecniche per la cura e
l’allevamento del bambino; è però vero che anche la madre deve “sapere” alcune cose in
ordine alla cura e all’allevamento. Dunque la madre non “ha” delle tecniche, ma “sa” qualcosa
che le permette di dare concretezza alla domanda di cura che il bambino continuamente
43
LA MUSICA E IL DOLORE
esprime. La madre sa favorire la domanda del bambino e insieme a lui (insieme fisicamente al
suo corpo) costruisce le risposte (Saraceno, 1984).
Questo “chiedere con” (cum petere) della madre alleata del bambino ne costituisce la
competenza. Penso che la “competenza riabilitativa” consista nell’atteggiamento partecipativo
e fiducioso con cui il riabilitatore, utilizzando le tecniche specifiche della sua disciplina, riesce
a favorire le domande e a costruire assieme al paziente le risposte.
2a.2.2. LA TERAPIA
Sul concetto di terapia, almeno nelle sue linee generali, dovrebbero esistere meno incertezze.
La parola deriva dal greco therapeuein (guarire), e un rapidissimo cenno storico
sull’evoluzione del suo significato può prendere le mosse dal motto latino “Divinum opus est
sedare dolorem” (è atto divino alleviare le sofferenze), che riassume gli ideali e le possibilità
della medicina antica: attenuare o eliminare le sofferenze causate dalle malattie,
nell’impossibilità di intervenire sulle loro cause, pur possedendo i popoli antichi alcune
conoscenze farmacologiche, chirurgiche e igieniche di prim’ordine. Sappiamo tuttavia che
molte di queste conoscenze andarono perdute nel Medio Evo, salvo sporadiche isole legate a
felici congiunture locali o alle intuizioni di qualche illuminato saggio. Si dovette perciò
attendere la fine del ‘400, con i primi studi anatomici sul cadavere, perché la medicina
tornasse ad avere una sistematica consapevolezza di sé e della necessità di mettersi ad
indagare sulla natura delle malattie e sul funzionamento del corpo umano, separando sempre
di più le sue acquisizioni dalle dottrine religiose e dalle credenze magiche. Questo cammino di
conoscenza ha subìto un’accelerazione esponenziale negli ultimi due secoli, tale per cui si è
potuto affermare il concetto di terapia come un insieme di mezzi organizzati che vengono
posti in opera al fine di curare e possibilmente guarire le malattie.
Il problema della distinzione fra “curare” e “guarire”, e delle sue implicazioni simboliche, è
già stato posto. Resta da aggiungere che esiste anche una linea di demarcazione oggettiva, per
quanto possa essere oggettivo qualcosa di cui non conosciamo ancora tutti i meccanismi, fra
ciò che in medicina è guaribile e ciò che è “solo” curabile. Sono guaribili, e quindi trattabili
con un tipo di terapia definita “causale”, le malattie di cui possono essere attaccate ed
eliminate le cause. (Per esempio, gli antibiotici uccidono i batteri; quindi malattie batteriche
un tempo temutissime come la tubercolosi e il reumatismo articolare acuto, sono diventate
guaribili; anche la rimozione chirurgica di un’appendice perforata può rientrare in questa
categoria). Esistono poi una serie di malattie delle quali non si conoscono a sufficienza i
meccanismi per poter allestire una terapia veramente causale (si pensi ai tumori, che possiamo
tuttavia rimuovere o di cui possiamo inibire la crescita), e altre ancora di cui conosciamo le
44
LA MUSICA E IL DOLORE
cause ma non possiamo aggredirle (non disponiamo di farmaci efficaci contro i virus, sia che
si tratti di raffreddore, sia che di AIDS). Per tutte queste situazioni, la terapia si propone di
ridurre il più possibile l’aggressività dell’agente di malattia e potenziare il più possibile le
difese dell’organismo.
Ci si può chiedere, in una prima generalissima approssimazione, se le psicoterapie potrebbero
far parte di questo contesto: una terapia il più possibile efficace e in grado di accrescere le
difese dell’individuo, nei confronti di un disturbo i cui meccanismi sono in larga parte
sconosciuti o solo presunti. O se, invece, per alcuni disturbi psichici molto ben definiti, una
psicoterapia riuscita non possa essere considerata “causale”.
E ancora, si devono ricordare tutta una serie di situazioni, dalle più lievi indisposizioni alle più
gravi malattie terminali, in cui l’unica azione terapeutica è, proprio come nell’antichità,
alleviare i sintomi. In questo caso parliamo di terapia “sintomatica”; (possono essere
considerati tali i cosiddetti colloqui di sostegno, che hanno lo scopo di fare da sponda a
situazioni troppo complesse per essere affrontate con intenti risolutivi).
Infine, si definisce terapia profilattica quell’insieme di interventi volti ad impedire l'azione dei
fattori che causano le malattie; mediante vaccini se si tratta di fattori infettivi, mediante
bonifica ambientale se si tratta di fattori tossici, mediante potenziamento delle difese
organiche se si tratta di malattie carenziali. Alla luce della definizione di salute che è stata data
dall’OMS, la profilassi vede dilatarsi il suo originario significato tecnico fino a diventare
qualcosa di molto più vasto: la prevenzione. Poiché infatti, la salute non è una variabile
indipendente, legata solo ai capricci di qualche micro-organismo, ma è (citando sempre
l’OMS) “una qualità della vita che ha una dimensione sociale, mentale, morale e affettiva,
oltre che fisica; un bene instabile, che si deve continuamente riconquistare, difendere e
ricostruire durante tutta la vita”, ne consegue che al suo mantenimento devono concorrere la
prevenzione delle malattie e la messa in atto di ogni tentativo per migliorare le condizioni
socio-ambientali di vita della comunità umana. Tratterò la prevenzione dell’handicap
specificamente nel prossimo capitolo. Qui è importante osservare come questa dilatazione di
significati, pur lasciando la terapia in posizione centrale come terreno riservato ai tecnici
specifici dei vari settori (medici, chirurghi, igienisti), metta di fatto fortemente in discussione
la possibilità che la medicina nel suo insieme continui ad essere una torre d’avorio riservata ai
detentori di un sapere molto specifico, che intervengono solo quando la malattia è in atto. 13
(Chiozza, 1995)
13
A voler ben guardare, questo risultava già chiaro parecchie decine di anni fa. Sempre per fare l’esempio della
tubercolosi, nel secondo dopoguerra gli antibiotici le assestarono il colpo risolutivo, ma già si era avuta una
drastica diminuzione a partire dagli inizi del ‘900, con il miglioramento delle condizioni di vita dei suburbi e con
45
LA MUSICA E IL DOLORE
Questo appare tanto più vero nell’ambito dell’handicap neuro-psichico, in cui l’aspetto
strettamente clinico e tecnico della terapia, pur senza perdere minimamente d’importanza,
viene a trovarsi inserito in un contesto molto più vasto di azioni a forte significato sociale,
preventivo e riabilitativo, a cui sono chiamati operatori di svariate competenze. Infatti la
complessità del problema handicap impone che non possa mai essere praticamente una sola
persona ad affrontarlo, sia da un punto di vista tecnico che emotivo, ma che vi sia invece
un’articolata distribuzione di competenze all’interno di un approccio multidisciplinare
(Maxwell Jones, 1979). Si costituiscono così le équipe terapeutico-riabilitative di cui è parte,
per esempio, il musicoterapeuta, le quali provvedono alla formulazione ed alla messa in opera
del progetto terapeutico, sottoposto a periodica verifica e supervisione, e in cui comunque la
responsabilità finale è del medico, ma vi è una condivisione delle problematiche e una
continua integrazione di conoscenze e competenze.
Questa lunga premessa era indispensabile, ma così definita la terapia appare ancora distante, o
meglio incompleta, rispetto a ciò di cui mi occupo quando faccio musicoterapia.
Spostiamo quindi più decisamente l’obiettivo sulla terapia dei disturbi psichici.
Caduti ormai in disuso antichi presìdi dell’era pre-psicofarmacologica come le terapie da
shock, i cardini fondamentali su cui poggia il trattamento della sofferenza psichica sono da un
lato gli psicofarmaci e dall’altro gli interventi a carattere psicoterapico. Ed è proprio su questi
ultimi che concentrerò adesso la mia attenzione.
Occorre una definizione ufficiale e la attingo dallo “Psychiatric Glossary”, redatto a cura
dell’Associazione Psichiatrica Americana (APA): “Psicoterapia è il nome generico per
qualsiasi tipo di trattamento delle malattie psichiatriche che si basi principalmente sulla
comunicazione, verbale e non verbale, con il paziente”. Rientrano dunque sotto questa
definizione tanto i trattamenti psicoterapici classici, basati sulla comunicazione verbale,
quanto i trattamenti che utilizzano la stessa conoscenza del mondo intrapsichico e la stessa
tecnica di approccio relazionale, ma mediata da sistemi di comunicazione non verbale (quindi,
i vari tipi di arte-terapia, tra cui la musicoterapia). L’elemento fondante comune è, in sostanza,
la relazione. Nella psicoterapia il terapeuta parla al paziente e lo ascolta; nelle terapie non
verbali vengono utilizzati come tramiti comunicativi il segno grafico, il movimento, la musica,
ma il fine rimane sempre quello di stabilire con il paziente un contatto abbastanza solido e
profondo da consentire al terapeuta di influire positivamente su alcuni conflitti e meccanismi
psichici patologici del paziente. Molti sono i contributi dottrinali che hanno consentito
l’elaborazione delle varie tecniche psicoterapiche, così che possiamo distinguere un approccio
l’istituzione dei Sanatori, dove coloro che erano nelle fasi iniziali di malattia, trovavano aria e cibi sani, grazie ai
quali il loro organismo era messo in condizioni di reagire efficacemente (Cosmacini, 1989).
46
LA MUSICA E IL DOLORE
psicodinamico, uno cognitivista, uno sistemico, uno di programmazione neurolinguistica, e
altri ancora. Dirò nel prossimo capitolo qual è secondo me l’elemento unificante di questi
approcci che li rende altrettanto validamente utilizzabili in campo pratico.
Qui mi interessa soprattutto sottolineare due aspetti:
1) se la riabilitazione era soprattutto una strategia facilitativa “dal di fuori” dei processi
cognitivi-relazionali e di socializzazione, nel senso più ampio potremmo dire che la
(psico)terapia è una facilitazione “dal di dentro” dei processi di consapevolezza di sé, di
regolazione delle emozioni e delle capacità comunicative.14La locuzione “dal di dentro” indica
che si lavora direttamente sull’emotività e sui processi mentali, consci e inconsci, e quindi
massimo è il livello di coinvolgimento affettivo nella relazione, sia da parte del paziente che
da parte del terapeuta, con tutti i rischi e le necessità di un rigoroso training di formazione per
chi intenda cimentarsi in tale lavoro.
2) Forse abbiamo trovato una giusta collocazione per la musicoterapia. Essa, a seconda del
tipo di contesto e di relazione che viene stabilita, può agire tanto in senso riabilitativo, quanto
in senso terapeutico, ed in questo secondo caso può essere profilattica, sintomatica o forse
anche causale. L’elemento unificante tra riabilitazione e terapia è, a mio avviso, l’utilizzo di
parametri armonizzanti per promuovere una migliore integrazione psicofisica della
personalità, restando su un livello più concreto e senza entrare nel merito delle dinamiche
emotive, se si interviene in senso riabilitativo, affrontando invece i nodi conflittuali affettivi e
ideativi e quindi accedendo alla dimensione simbolica della relazione, se si interviene in senso
terapeutico.
2a.3 (MUSICO) TERAPEUTI E TERAPISTI
Il termine “terapeuta” viene solitamente usato per indicare un professionista particolarmente
esperto in qualche forma di terapia. Il terapeuta è in genere un laureato, abilitato all’esercizio
in proprio della professione. Nel suo curriculum è compreso un training formativo che,
nell’ambito psicoterapico, include anche un’analisi personale, o comunque un’esperienza che
gli ha consentito di “lavare” almeno in parte la propria emotività e sperimentare in prima
14
In realtà, esistono alcune metodologie psicoterapiche in cui la relazione viene prevalentemente incentrata su
aspetti esterni della vita del paziente, allo scopo di fornire input comportamentali molto precisi che favoriscano il
disapprendimento di abitudini patologiche. Queste metodologie, appartenenti in gran parte all’area culturale
comportamentista, non presuppongono in effetti un approccio dal di dentro. Si può dire che, in un certo senso,
esse rappresentino nell’area psicoterapica il corrispettivo simmetrico degli approcci riabilitativi più attenti alla
componente emotivo-affettiva della relazione.
47
LA MUSICA E IL DOLORE
persona gli aspetti transferali della relazione. La qualifica di “terapista” è destinata invece a
chi è competente della pratica di quella terapia. Il terapista, in genere un diplomato, possiede
lo strumentario tecnico e le competenze per intervenire in senso terapeutico e/o riabilitativo,
secondo le indicazioni di un progetto la cui responsabilità è del terapeuta. (Per intenderci in
senso esemplificativo, la diade fisiatra-fisioterapista).
Così è, e francamente non si trovano ragioni sensate perché gli operatori dell’area
musicoterapica debbano sottrarsi a questa diffusissima convenzione.
Vedremo nel corso di questo testo come la teoria e la tecnica musicoterapiche siano assai
complesse; vedremo la quantità e la multiformità di elementi di cui tenere conto nella
formulazione di un progetto di integrazione per mezzo della musicoterapia. Saranno allora
musicoterapeuti quei maestri dell’arte in grado di muoversi agevolmente in mezzo a tali
complessità: i supervisori.
Può sembrare un vezzo linguistico, ma sono convinto che si tratti di qualcosa di ben più serio:
gli insegnanti rimangono insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione
psicologica, così come gli psicoterapeuti restano psicoterapeuti, anche nel caso in cui
utilizzino un brano musicale all’interno del setting. Quegli operatori che invece si occupano di
musicoterapia, spesso con pazienti gravi, che operano in strutture sanitarie terapeutiche,
riabilitative, assistenziali, (pubbliche o private che siano), che collaborano alla formulazione
di un progetto terapeutico/riabilitativo all’interno di una équipe multidisciplinare, che
provengono da un rigoroso percorso formativo come quello che cercherò di indicare con
chiarezza in questo testo, ebbene quegli operatori sono a mio avviso musicoterapeuti.
Tuttavia, in mancanza di una cornice di riferimento legislativa sufficientemente solida per
quello che riguarda l’esercizio delle professioni terapeuticamente orientate, accade che
fioriscano corsi dalle più svariate impostazioni e dalla fauna più composita. Questo, assieme
all’uso disinvolto del termine musicoterapia di cui si è fatto cenno nel primo paragrafo, ha
portato spesso al centro di vari dibattiti l’interrogativo: chi è il musicoterapeuta. E non c’è
dubbio che il persistere di una mancanza di principi chiari e di una metodologia rigorosa nella
formazione e nella delimitazione dei campi d’intervento porti a vedere il musicoterapeuta, in
analogia al termine ombrello, come un operatore passe partout, dalla provenienza e dal
curriculum spesso mal definiti, che può comunque operare “un po’ dappertutto” (scuole, centri
sanitari, comunità, carceri, etc..), non di rado autolegittimandosi. A questo riguardo intendo
ribadire ulteriormente quanto già tra le righe della nostra precedente definizione: una
formazione generica, che potremmo definire di primo livello, in musicoterapia, non può essere
considerata sufficiente a formare un operatore dalla professionalità completa ed autonoma
48
LA MUSICA E IL DOLORE
come il musicoterapeuta; tali corsi vanno a mio avviso intesi o come primo livello di un
curriculum formativo più lungo ed articolato, che solo alla fine porterà alla formazione di un
musicoterapeuta, oppure come acculturazione musicoterapica di base, che va ad integrare le
competenze professionali di cui ogni corsista eventualmente già dispone.
Ritengo che molto debba essere fatto dai corsi per garantire uno standard di formazione
adeguato, in particolare per quello che riguarda l’addestramento a ragionare in termini di
definizione degli obiettivi e di criteri di valutazione dei risultati. Ma è inutile nascondersi che
nessuna scuola può esaurire il discorso della formazione. La pratica e la supervisione degli
interventi sono in tal senso un complemento indispensabile. Occorre inoltre ribadire a questo
punto un concetto già anticipato nell’introduzione. Un rigoroso ciclo di studi e di tirocinio è
solo uno dei due punti fondamentali su cui si articola la formazione del terapista; l’altro è
costituito da ciò che avevo genericamente indicato come “attitudine all’amorevolezza”, e che
ora posso meglio definire come la necessità che l’aspirante terapista possieda un “quid”
innato, costituito da un insieme di serena immediatezza, tolleranza all’ansia e genuina
disponibilità all’immedesimazione empatica che non si impara né sui libri, né a scuola
(Giberti, Rossi, 1996). Sarebbe anzi a mio avviso indispensabile predisporre dei criteri di
valutazione preventiva di questo aspetto dell’aspirante terapista, onde evitare spiacevoli
accadimenti che purtroppo allo stato attuale non sono rari; e cioè che accedano alla possibilità
di svolgere una professione terapeuticamente orientata persone che casomai dovrebbero fruire
della terapia come pazienti.
Si può dire, in termini psicodinamici, che ogni vocazione alla terapia nasca da un’istanza
riparativa, e volere curare gli altri significhi anche voler apprendere gli strumenti conoscitivi
ed emotivi per “curare” se stessi. In questa luce, il quid innato, l’attitudine all’amorevolezza,
nascono dunque proprio dalla capacità di condividere in parte alcuni stati d’animo del
paziente. Ma è necessario possedere anche la solidità per non restare invasi dalla sua
distruttività e per non andare in risonanza oltre un certo limite con i suoi stati d’angoscia
(Carloni, 1982).
Pur nella consapevolezza che questi aspetti estremamente complessi delle dinamiche personali
potrebbero essere risistemati solo attraverso un’analisi personale, pare comunque
indispensabile che una formazione di primo livello includa almeno un trainig svolto sulle
proprie dinamiche emotive in rapporto alla musicoterapia, che ho definito, conformemente a
quanto proposto da Benenzon e Wagner.
Ritengo infine che, in termini di diffusione dell’attività e di risultati della ricerca, i tempi siano
maturi per pensare anche a una formazione di II° livello, da destinare a quanti, dotati già di
49
LA MUSICA E IL DOLORE
una laurea in medicina o in psicologia, o comunque di una legittimazione a operare
nell’ambito psicoterapeutico, possano quindi utilizzare in proprio la musicoterapia ed essere
responsabili dei progetti terapeutici e delle supervisioni. Aggiungo che, in analogia a quanto
detto sulla musicoterapia didattica per il primo livello, si dovrebbe cominciare a pensare per il
II° livello ad un lavoro ancora più approfondito di conoscenza musico-analitica di sé, che in
accordo con quanto sostenuto da Edith Lecourt (1995) potremmo definire proprio
musicoanalisi. Ovviamente qui siamo ancora nel campo delle cose da costruire. Ma
nell’insieme questi mi sembrano tutti passaggi indispensabili alla chiarezza degli interventi e
dell’identità degli operatori, oltre che logica premessa all’eventuale identificazione e
riconoscimento di una professionalità musicoterapica da parte del Legislatore, con
conseguente istituzione dell’Albo Professionale.
2b FONDAMENTI FISIOPATOLOGICI PER LA MUSICOTERAPIA
La musicoterapia viene utilizzata soprattutto nelle situazioni di svantaggio relazionale,
comunemente definite di handicap. Di queste situazioni, cercherò ora di dare un
inquadramento di tipo funzionale che, nell’ottica riabilitativa, risulta a mio avviso il più utile.
Ne spiegherò i fondamenti, senza peraltro rinunciare a una veloce ricapitolazione di quelle
nozioni di anatomia e fisiopatologia, indispensabili per una migliore comprensione dei vari
quadri clinici e della loro genesi.
2b.1 DEFICIT ED HANDICAP
Prenderò dunque le mosse dalla parola “handicap” e più precisamente dalla definizione che
ne viene data nella legge quadro n° 104 del 5/02/1992, art. 3 comma 1: "E' persona
handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o
progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento,
di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione".
Innanzi tutto, è da notare l'importanza che viene data alle difficoltà di apprendimento e al
concetto di emarginazione sociale. In secondo luogo e di conseguenza, in base a questa
definizione il famoso astrofisico inglese Stephen Hawking, paralizzato dalla sclerosi laterale
amiotrofica ma ugualmente in grado di formulare teorie da premio Nobel, non sarebbe un
handicappato.
E' allora evidente che, pur dovendosi riconoscere alla legge 104 il merito di aver introdotto il
concetto di integrazione del disabile in ambito scolastico e lavorativo, dobbiamo cercare
50
LA MUSICA E IL DOLORE
altrove una maggiore chiarezza; per esempio in una definizione più clinica, come quella tratta
dalla Concise Encyclopedia of Psycology, R. J. Corsini Ed., New York , 1987: "Un handicap è
una costellazione di caratteristiche o di processi fisici, mentali, psicologici e/o sociali, che
complicano oppure compromettono l'adattamento di una persona, tanto che essa non può
raggiungere un livello ottimale di sviluppo e attività. E' utile distinguere la DISABILITY
(menomazione fisica o mentale che concerne l'integrità della persona) dall'HANDICAP
(particolare serie di reazioni psicologiche e sociali a quella menomazione)".
In sostanza, il disabile è una persona deficitaria in uno o più parametri psico-sociali, rispetto
alle persone della sua età e condizione. In questa ottica, possiamo definire deficit il dato
quantificabile che tende a misurare l'entità del difetto e della perdita rispetto a una norma
ideale. Si possono avere deficit di tipo sensoriale, motorio, neuropsicologico, psichico e
sociale. Quindi, quando ci si trova in presenza di un quadro stabilizzato di danno sensoriale
e/o motorio e/o psichico ecc..., si dovrebbe più correttamente parlare di persona disabile o di
deficit. Chiamerò invece handicap le complicanze (fisiche, psichiche, comportamentali,
sociali) del preesistente deficit. In altre parole, facendo l'esempio del ritardo mentale, il danno
intellettivo è il deficit e il ritardato mentale è il disabile. L'insieme del ritardo mentale, degli
svantaggi a cui va incontro il ritardato nella vita scolastica e sociale, dell'atteggiamento
negativo dei familiari e della società, e delle barriere architettoniche, costituisce l'handicap.
Storicamente, fin da quando, verso la fine del '700, le problematiche della disabilità
neuropsichica sono diventate d'interesse medico-scientifico (prima appartenevano alla
semplice esclusione custodialistica o al pregiudizio religioso-demonologico), è esistita per
lungo tempo una netta contrapposizione tra:
a) l'ideologia naturalistico-medico-diagnostica
b) l'ideologia riabilitativo-funzionale.15
All'interno di una logica del tipo 1, a partire da una diagnosi medico-biologica (esempio:
encefalopatia epilettica con ritardo mentale medio) si progetta un intervento normalizzatore
dal di fuori, che tende ad aggiungere il più possibile in termini quantitativi in modo da
15
Secondo Doman (1975), sono addirittura esistite 4 fasi nella storia del concetto di handicap:
I Disperazione (umanitarismo illuminista; fine ‘700). In sostanza, l’idea era che si dovesse accettare l’incurabilità
dei disabili. L’ottica era puramente caritativa-assistenziale (creazione degli asili di carità, etc.).
II Descrizione analitica dei sintomi (‘800). E’ la fase delle scoperte più importanti della medicina “descrittiva”
(anatomia microscopica, batteriologia, etc.), per cui tutto viene visto in chiave clinica: i disturbi comportamentali
sono i sintomi di malattie psichiche.
III Normalizzazione (prima metà del ‘900). Si individua come obiettivo il cervello e si tenta di portare “dal di
fuori” al disabile ciò che gli manca. Vengono istituite le scuole speciali.
IV Prevenzione (attuale). E’ la fase della “prospettiva riabilitante”.
51
LA MUSICA E IL DOLORE
riavvicinarsi alla norma ideale, senza tenere conto delle motivazioni e dell'equilibrio armonico
della persona.
In una logica di tipo 2, si cercherà d'intervenire "dal di dentro" (Russeau avrebbe detto "dalla
parte della natura"), a partire dalle esigenze soggettive della persona, prendendo atto non tanto
delle deficienze quantitative, quanto delle differenze qualitative nelle prestazioni e delle
potenzialità residue.
L'ipotesi è che ci sia sempre una prospettiva riabilitante, per quanto distorti e disarmonici
possano essere i meccanismi funzionali del soggetto.
Se accettiamo come più utile questa ultima impostazione, allora dobbiamo necessariamente
accettare anche lo stato di crisi del sistema classificativo tradizionale (nosografico) delle
malattie neurologiche e psichiatriche.
L'ideologia riabilitativo-funzionale non contesta le definizioni in sé, anche se rischiano di
trasformarsi in etichette (esempio: schizofrenia). Ma una definizione ha senso quando rimanda
ad un preciso concetto, nel qual caso può diventare un'informazione (esempio: lo
schizofrenico è un soggetto che ha una lettura distorta della realtà). Altrimenti si tratta di una
constatazione la quale, pur non essendo di per sé negativa, non possiede però alcuna dinamica
e quindi non consente alcun giudizio valutativo (cioè: cosa possiamo fare con uno che ha una
lettura distorta della realtà?). Quindi i termini diagnostici tradizionali sono ancora usabili in
senso descrittivo, ma non quando essi rimandano ad una interpretazione. Inoltre, la crescente
complessità interpretativa di fenomeni anche apparentemente poco dinamici come il ritardo
mentale, impone di riflettere sul rapporto fra sufficienza (concetto legato a criteri sociali) e
normalità (concetto derivato da un'astrazione statistico-morale). E del resto, anche per le
malattie mentali il concetto di norma è sottoposto a critiche radicali.16 Infatti, tra i
comportamenti "normali" e quelli devianti esiste tutta una serie di sfumature intermedie. In
sostanza, la crisi della valutazione clinica tradizionale in ambito psichiatrico è l'effetto di una
nuova concezione dell'uomo che si è fatta faticosamente strada nell'ultimo secolo ed è
condivisa dai vari orientamenti psicodinamico, fenomenologico, cognitivista, sistemico,
differenti nei codici ma uniti nel passaggio da una dimensione di analisi antropologica
puramente energetico-meccanica ad una nuova di tipo dialettico-strutturale (Moretti, 1980).
16
Tali critiche erano già state mosse, da parte di qualche spirito libero, con largo anticipo sui tempi del progresso
scientifico e sociale, se è vero che nel suo “Dizionario del Diavolo” (1907) lo scrittore americano Ambrose
Bierce dava della parola “matto” questa definizione: “affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non
conforme ai modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di se stessa. In poche
parole, diverso dagli altri”.
52
LA MUSICA E IL DOLORE
Riassumere le premesse epistemologiche che accomunano gli orientamenti più sopra citati
sarebbe cosa fuori dai limiti di questo scritto. Tuttavia, i presupposti essenziali vanno almeno
ricordati:
a) il rispetto del criterio di unità della persona (mente-corpo);
b) il rispetto della transazione individuo-ambiente e natura-cultura (articolate tra loro in
rapporto dialettico);
c) la consapevolezza del carattere dinamico della conoscenza, sempre sottoposta a critiche ed
aggiornamenti.
Utilizzando questi criteri, cercherò ora di tracciare un profilo funzionale dell'handicap
(Postacchini, Ruggerini, 1984).
2b.2 LA STRUTTURA DELL'HANDICAP
Se seguissi la tradizionale prassi neurologica, dovrei cominciare col descrivere, almeno per
sommi capi, l'anatomia e la fisiologia del sistema nervoso (S.N.). Ciò farebbe risultare la
semiologia, cioè il linguaggio dei segni e dei sintomi, come valore fondante, in quanto dotato
di grande potere conoscitivo topografico-anatomo-funzionale (esempio: a una lesione
dell'arteria cerebrale media corrisponde quasi certamente una emiparesi del lato opposto del
corpo).
Ho già detto che ritengo questo procedimento parziale, anche se corretto, perché conduce
all'idea di capacità, che è enormemente statica. mi limiterò pertanto a riassumere ciò che di
anatomia e fisiologia darò per scontato nei successivi paragrafi:
1) Il S.N. (cervello + midollo + nervi + recettori sensoriali) è una complessa macchina che
consente lo svolgersi ai più alti livelli della vita neurovegetativa (funzioni interne
dell'organismo) e della vita di relazione. La vita neurovegetativa è quell’insieme di funzioni
viscerali, sottratte al controllo della coscienza, che consentono all’organismo umano di vivere
(frequenza cardiaca, temperatura corporea, equilibrio idro-salino, etc.). La vita di relazione è
la capacità di rapportarsi con il mondo esterno attraverso gli analizzatori sensoriali, il
movimento e il linguaggio.
2) L'unità funzionale del S.N. è una cellula chiamata neurone; ne sono presenti alcune decine
di miliardi di unità e poiché ciascuna di esse è in grado di collegarsi contemporaneamente con
altre decine, ne consegue che il numero di connessioni neuronali è di circa 106: astronomico.
Ciò va a costituire una rete neurale di straordinaria complessità, i cui modelli artificiali
53
LA MUSICA E IL DOLORE
(cibernetici) di studio, basati sui computer, rendono solo una pallida idea. In realtà, più che a
una rete di computer, lo scambio di segnali tra neuroni somiglia ad una giungla, dove però
tutto è mirabilmente al suo posto, almeno quando le cose vanno bene.
3) L'impulso nervoso all'interno dei neuroni viaggia sotto forma di energia elettrica, mentre tra
un neurone e l'altro vi è uno spazio di pochi milionesimi di mm in cui il messaggio viene
trasformato da appositi neurotrasmettitori in energia chimica e poi, una volta traghettato
dall'altra parte, ritrasformato in energia elettrica. Di questi neurotrasmettitori (adrenalina,
dopamina, serotonina, ecc...) si sente parlare molto; forse si tende anche a sopravvalutarne il
ruolo, attribuendo ad alterazioni della loro distribuzione e del loro funzionamento la causa di
molti disturbi psichici. In ogni caso, essi svolgono un ruolo fondamentale nel modulare
l'intensità e la velocità di trasmissione dell'impulso nervoso.
4) L’insieme dei miliardi di neuroni, all’interno del Sistema Nervoso, è ripartito in sostanza
bianca e sostanza grigia. La prima, disposta nella parte interna del cervello ed in quella esterna
del midollo, accoglie i prolungamenti dei neuroni che formano le vie nervose. La seconda,
disposta nella parte più superficiale del cervello e nella parte centrale del midollo, accoglie i
nuclei dei neuroni, dai quali originano tutti gli impulsi e nei quali vengono integrate tutte le
risposte. In pratica, la sostanza (o materia) grigia, è la vera parte pensante del sistema nervoso,
essendo invece la sostanza bianca il sistema di comunicazione da e verso l’esterno. La parte di
sostanza grigia che va a costituire quello strato di 6/7 mm sulla superficie del cervello umano
prende il nome di corteccia. Essa è il punto d’arrivo delle vie della sensibilità e il punto di
partenza delle vie di movimento.17
Occorre precisare che esiste una struttura denominata “formazione (o sostanza) reticolare”,
formata da sostanza grigia, la quale occupa una posizione centrale all’interno del sistema
nervoso, lungo un percorso che va dalla parte più bassa del cervello (mesencefalo) alla parte
più alta del midollo spinale. Tale struttura svolge un fondamentale lavoro di raccordo fra gli
input sensoriali e le strutture preposte all’attivazione dello stato di coscienza; al suo interno si
trovano infatti i cosiddetti centri della veglia e del sonno e i centri per la regolazione dei
riflessi di origine muscolare. L’interesse che tale formazione viene a rivestire nel discorso che
sto conducendo è dovuto al ruolo di integrazione e di filtro che la stessa assolve nel processo
di percezione degli stimoli sensoriali, e quindi anche quelli di natura acustica, come già
esposto nel primo capitolo a proposito del discorso sugli indici di conflitto.
5) Si parlerà anche di mente, come concetto distinto (ma non disgiunto) da quello di cervello.
Si intende per mente ciò che conferisce all'essere umano la consapevolezza di sé e gli
17
Secondo Edelman (1987; 1992), in essa è contenuto buona parte del “segreto” del funzionamento
della mente.
54
LA MUSICA E IL DOLORE
consente di giungere alla conoscenza astratta del mondo e di conseguenza alla possibilità di
rappresentarlo simbolicamente. La mente viene comunemente considerata un processo e non
una sostanza (la res extensa cartesiana); quindi non esiste un luogo della mente nel cervello
(del resto non esiste neppure un luogo dell'intelligenza) e pertanto della mente si sa ancora
meno del poco che si sa sulla vita neurovegetativa e su quella di relazione.
Si presume che, almeno in parte, il segreto stia nella capacità del cervello di dialogare con se
stesso, che in gergo tecnico si chiama rientro (Edelman, 1987; 1992). In pratica, la capacità
mentale di organizzare la conoscenza in categorie deriverebbe da una specie di
autorafforzamento dei circuiti cerebrali coinvolti nelle funzioni e negli avvenimenti che
ciascun individuo è più interessato a ricordare. Si formano così mappe selezionate
dell'esperienza individuale, che costituiscono i mattoni del senso dell'identità personale: ogni
mente è unica e irriproducibile ed è il frutto dell'interazione del singolo individuo con le
esperienze ambientali.
Una volta puntualizzate queste nozioni di base dico che, a mio avviso, l'idea di capacità deve
essere sostituita con quella di potenzialità funzionale e quindi, corrispettivamente, l'idea del
S.N. come sede di funzioni specifiche e separate deve essere sostituita da quella di filtro
analizzatore (Ciompi ‘94). In sostanza, l'individuo non è un'entità meccanica, capace di
elaborare dati in assoluto e non un aggregato di funzioni, ma un campo in cui avvengono
scambi fra interno ed esterno, individuale e sociale, natura e cultura. E' un filtro attivo, dotato
di potenzialità interpretative rispetto al mondo, la cui piena realizzazione dipende in parte
dall'assetto anatomo-funzionale ed in parte dal tipo di informazioni e di interazioni che
stabilisce con l’ambiente.
Come filtro attivo, l'individuo sarà dotato di:
a) una struttura neurofisiologica di base (è quella di cui, nella ripartizione clinica tradizionale,
si occupa la neurologia);
b) un tipo di apprendimento (è l'area tradizionalmente definita neuropsicologia);
c) un tipo di relazione oggettuale (i cui disturbi sono il principale oggetto d'indagine della
psichiatria);
d) un tipo di socializzazione.
2b.2.1 STRUTTURA NEUROFISILOGICA DI BASE
Poiché la dimensione dell'homo sapiens è la più sofisticata e l'uomo non sarebbe "sapiens"
(cioè dotato di mente e pensiero) se non fosse prima di tutto "sentiens et movens", cioè dotato
55
LA MUSICA E IL DOLORE
della possibilità di interagire attraverso i sensi e il movimento con il mondo, è necessario
partire da qui e occuparsi prima di tutto di cosa e come viene comunicato dalla periferia al
centro del S.N. e viceversa (Bergamini, 1983).
Lo scambio di informazioni è sempre rigorosamente bidirezionale: attraverso appositi recettori
sensoriali vengono incamerate e inviate al cervello sensazioni che poi, ulteriormente elaborate,
inducono una risposta in termini di comportamento e quindi di movimento (gestuale, verbale,
ecc...): Gli analizzatori sensoriali sono dunque 6:
sensibilità (tattile, termica, dolorifica, vibratoria, propriocettiva), olfatto, gusto, udito, vista e
motricità. Attraverso questi analizzatori l'individuo esperisce la realtà esterna e si rapporta con
essa.
Dal punto di vista neurologico, le fasi precoci dello sviluppo dell'individuo sono
contrassegnate da modalità di funzionamento del S.N. molto globali e poco selettive. In effetti,
alla nascita l'uomo presenta una notevole immaturità fisiologica del S.N. rispetto agli altri
mammiferi. Ciò nonostante, il neonato è ben lontano dall'essere quello che si riteneva
nell'ottocento, secondo il modello adultometrico allora in auge e cioè "un essere decerebrato,
dotato di riflessi" (Flechsig, 1876).
In realtà, è vero che nelle prime settimane di vita prevale una modalità di tipo arcaico, che si
organizza in risposte massive a stimoli anche minimi; ed è anche vero che gli analizzatori
sensoriali meglio funzionanti sono quelli cosiddetti "prossimali" (sensibilità, olfatto, gusto)
mentre udito e vista, soprattutto questa ultima, non sono ancora in grado di dispiegare tutto il
loro potenziale discriminativo. Ma questo è legato per l'appunto allo stato d'immaturità del
S.N..
Occorre tornare per un attimo a parlare di neuroni; essi, quando la maturazione del S.N. è
completata, sono ricoperti da una guaina composta da una particolare sostanza chiamata
mielina. Essa ha una funzione principalmente isolante, come nei cavi elettrici; all'interno della
guaina, l'impulso viaggia più veloce. Se, come alla nascita, la guaina mielinica si trova ad
essere incompletamente formata, gli impulsi non seguono solo la direzione principale, ma si
diffondono per contiguità nei neuroni adiacenti, andando a distribuirsi in più vie. Questo è il
principio fisiologico per cui non è del tutto sbagliato dire che il neonato vede (anche) con le
orecchie e sente (anche) con gli occhi. In sostanza, vi è una naturale globalità sensitiva cui
corrisponde una analoga globalità dei movimenti. Mentre quest'ultima lascia il posto, nel giro
dei primi 12/14 mesi ad una organizzazione molto più selettiva del movimento, dal punto di
vista sensoriale permane una certa attitudine all'immediatezza e alla globalità fino a tutta l'età
prescolare. E' il fondamento di quel fenomeno che chiamo percezione sinestesica: in pratica,
56
LA MUSICA E IL DOLORE
un costante rimando fra le varie modalità sensoriali che, a fronte di una minore capacità di
analisi e di discriminazione, consente di cogliere in una visione immediata e unitaria i
multiformi aspetti della realtà. Di ciò sono dimostrazione, per esempio, i disegni e i
"pensierini" dei bambini di 4-5 anni, che forniscono immagini sorprendentemente profonde di
situazioni che gli adulti percepiscono in modo magari più razionale ma meno completo.
D'altra parte e qui per chiarezza anticipo un punto che sarà trattato meglio più avanti, il
"prezzo" per giungere alla razionalità e alla capacità di astrazione che contraddistinguono il
pensiero adulto, è proprio la parziale perdita di quella capacità di sintesi globale che, massima
nel bambino, decresce durante lo sviluppo e sembra persistere in misura superiore alla media
solo in certe personalità "artistiche".
Da un punto di vista anatomico, questo processo di maturazione corrisponde alla formazione
di vie nervose ben definite, costituite da fasci di neuroni che trasportano in modo selettivo
determinati messaggi. Avremo così le vie delle varie sensibilità, la via ottica, le vie motorie,
ecc... Ma avremo anche infinite vie di collegamento all'interno del cervello, che consentono
in ogni momento un complesso gioco di integrazione fra le varie funzioni: cognitive, affettive,
motorie, ecc...
Nello sviluppo delle vie nervose, vi è una componente genetica (una sorta di dotazione di
base, che costituisce la parte anatomica in senso stretto di ciò che ho in precedenza definito
"assetto anatomo-funzionale") e una componente legata all'interazione dell'individuo con la
realtà, che di quell'assetto rappresenta la parte funzionale.
In altre parole, l'ambiente, inteso come infinita quantità di input sensoriali, cognitivi e affettivi
e quindi come fonte di esperienza da apprendere e memorizzare, esercita su ciò che esiste alla
nascita una funzione plastica, stimolando la formazione di sempre più numerose vie e circuiti
neuronali di collegamento.
I gradi estremi di incidenza negativa dei due fattori saranno, da un lato, l'esistenza di un
danno nella dotazione anatomica di base, che ovviamente limiterà le successive possibilità di
sviluppo e dall'altro lato la completa privazione di stimoli ed esperienze subìta da un individuo
il cui S.N. risulterebbe anatomo-fisiologicamente integro.
In mezzo, avremo tutte le
possibilità intermedie, in una ripartizione in cui, secondo recenti valutazioni, la componente
genetica incide per il 30%, mentre quella "ambientale" incide per il 70% (Lewontin, 1994)18.
18
Sottilizzando ulteriormente, il genetista Cavalli Sforza (1993) ritiene di poter far dipendere l’intelligenza per
un terzo da fattori ereditari, un terzo da fattori culturali e per l’ultimo terzo dagli “accidenti” della vita, tipo
situazioni psicologiche svantaggiose, o vicende negative che ostacolano il pieno sviluppo della personalità (ciò
che in termini psicodinamici corrisponde alla inibizione nevrotica dell’intelligenza).
57
LA MUSICA E IL DOLORE
Come tutte le semplificazioni, anche questa ultima contiene in sé un'inevitabile sfumatura di
provocazione.
E' ben noto, infatti, il dibattito, spesso polemico, fra i sostenitori dell'immodificabilità (e
dell'ereditarietà) delle situazioni di svantaggio intellettivo e coloro i quali ritengono che
l'eredità, in fatto di intelligenza, sia soprattutto un problema culturale-sociale, quindi
suscettibile di miglioramento. In realtà, l'aver documentato attraverso esami sofisticati come
la PET (Tomografia a Emissione di Positroni) che, in situazioni di scarsa stimolazione
ambientale, interi circuiti cerebrale rimangono atrofici, dovrebbe ridurre i margini della
polemica.
Comunque sia, più stimoli esterni saranno ricevuti, maggiore sarà l'impulso alla formazione
di sempre nuove connessioni neuronali e di conseguenza maggiori saranno la plasticità e
l'adattabilità del
S.N. ai cambiamenti e anche alle eventuali situazioni di danno
che
dovessero determinarsi. Per esempio, una via motoria interrotta potrebbe essere, almeno
parzialmente, vicariata da circuiti alternativi in grado di "aggirare" il punto di interruzione. La
possibilità di indurre, sia pure con fatica e in misura ridotta, la formazione di nuovi
collegamenti anche dopo il termine ufficiale della maturazione ufficiale del S.N. (cioè i 7-8
anni) è alla base della "scommessa riabilitativa" che si ritiene formulabile anche nelle
situazioni più disarmoniche e disfunzionali.
La maturazione fisiologica del S.N. porta a un affinamento, oltre che delle varie vie di
conduzione, anche degli analizzatori, che diventano in grado di svolgere in modo sempre più
sofisticato la loro funzione.
Occorre, a questo punto, definire alcuni termini-base indispensabili per la comprensione del
processo maturativo. Intendo per sensazione la ricezione da parte dell'individuo del puro dato
sensoriale.
Intendo invece per percezione la capacità di interpretare il dato sensitivo conferendogli,
quindi, un significato. Intendo infine per lavoro mentale un'ulteriore fase di elaborazione del
dato percettivo, che consente un suo utilizzo sul piano simbolico e/o relazionale.
Detto questo, il percorso maturativo del S.N. avviene sostanzialmente lungo la direttrice:
sensazione →
percezione → lavoro mentale.
Si potrebbe un po’ grossolanamente dire che, all'interno della diade sensazione/percezione, gli
analizzatori sensoriali, così come quelli cognitivi che vedremo più avanti, funzionano con
modalità che Bion (1962) ha definito di tipo "Beta", cioè molto globali, tese e poco
discriminative, mentre nella fase di lavoro mentale si ha un funzionamento di tipo "Alfa", cioè
più selettivo, rilassato e categorizzante.
58
LA MUSICA E IL DOLORE
Per i singoli analizzatori, il percorso sarà il seguente:
Analizzatore
funzionamento β
funzionamento α
sensibilità:
olfatto:
gusto:
udito:
vista:
movimento:
toccare
"sentire"
"sentire" (Assaggiare)
"sentire" (Udire)
vedere
agire
→discriminare
→annusare
→assaporare
→ascoltare
→guardare
→eseguire
Riguardo all'analizzatore motorio, andrà considerato anche il TONO di azione, ossia, in
pratica, il tono muscolare di base, il quale potrà essere tendenzialmente teso e saremo allora in
ambito beta, o rilassato, corrispondente a una modalità alfa. In pratica, un'attitudine tesa
comporta una tendenza al mantenimento dello status quo e a un'idea di cambiamento come
cosa difficile e poco desiderabile. Viceversa, un'attitudine rilassata è favorevole a una
possibilità di cambiamento della situazione ed è generalmente correlata ad uno stato
psicofisico di benessere (Bertolini, 1984). Questa attribuzione di significato mentale al tono
muscolare avviene sulla base del fatto che, nelle fasi precoci di sviluppo, in cui la mente è
ancora insufficiente a contenere ed esprimere l'intera vita psichica del bambino, le attitudini
motorie costituiscono veri e propri “organizzatori del pensiero”.19
Le più precoci strategie di apprendimento sono quelle legate a modalità di funzionamento di
tipo beta e quindi a un utilizzo senso-percettivo degli analizzatori. Esse sono basate su
modalità di tipo imitativo e adesivo, (Gaddini, 1969) e ciò che viene appreso in questo modo
non viene poi elaborato in modo consapevole, ma va a costituire un bagaglio di schemi
ripetitivi (automatismi), che rappresentano una specie di base comportamentale sulla quale,
successivamente, si innestano le modalità alfa (guardare, discriminare, ascoltare), le quali
rispondono a processi basati su capacità di apprendimento elaborativo. Con questo secondo
tipo di apprendimento, diventa possibile memorizzare coscientemente comportamenti e
concetti, fino ad accedere al pensiero astratto.
Possiamo immaginare che un arcaico dispositivo della mente collochi le prime funzioni beta
nell'area di quella primordiale situazione psichica che Melania Klein (1946) ha definito
19
Possiamo definire "organizzatori" una serie di modalità comportamentali che il bambino mostra soprattutto in
collegamento con la presenza della madre (o di una figura di equivalente significato affettivo), come per esempio
il dialogo tonico fra corpo del bambino e corpo materno durante l'allattamento, la risposta del sorriso etc...
Queste modalità sarebbero geneticamente determinate e costituirebbero una "base esercitativa" su cui si
costruiscono e vengono progressivamente mentalizzate, le competenze relazionali. I contributi fondamentali a
questi concetti sono stati forniti nel corso degli ultimi 40 anni da Spitz (1965), Mahler et al. (1975), Bowlby
(1969; 1973; 1980), Brazelton-Cramer (1990).
59
LA MUSICA E IL DOLORE
posizione schizo-paranoide, cioè quella fase attraversata fisiologicamente dai 0 ai 6-7 mesi,
caratterizzata da un labile senso di realtà e un ridotto margine di tolleranza alle frustrazioni.
Possiamo altresì immaginare che le funzioni e modalità alfa appartengano all'area della
successiva posizione depressiva, in cui, a partire dagli 8-10 mesi, il bambino comincia ad
essere in grado di elaborare l'idea delle frustrazioni e delle separazioni.
A questo punto,si può ipotizzare che, qualora la struttura funzionale neurofisiologica sia tutta
fondata su livelli alfa o tutta su livelli beta, si verifichi un'armonizzazione di funzioni, benché
ovviamente a diversi livelli di integrazione. Laddove, invece, alcune funzioni siano di tipo alfa
e altre di tipo beta, si avrà un'evoluzione di tipo disarmonico. In sostanza, si può dire che i
processi di tipo armonico siano consoni a uno sviluppo più favorevole, anche se meno rapido;
mentre i processi di tipo disarmonico, pur consentendo ad alcune funzioni e parti di
personalità uno sviluppo più articolato e sofisticato, determinano un minor grado di
integrazione della persona nel suo complesso.
Per esempio, ai fini pratici, un'attitudine
disarmonica (come potrebbe essere una grossa abilità manuale che coesiste con scarse
capacità logiche, discriminative o di ascolto) può essere utile in compiti particolari, come l'uso
di strumenti, anche musicali. Ma per un complessivo sviluppo della personalità, funzioni
armoniche risulteranno molto più vantaggiose negli svariati contesti sociali.
In realtà, in un'esistenza "normale", le funzioni beta e quelle alfa sono tra loro in equilibrio
dinamico, nel senso che l'acquisizione di funzioni cognitive (e affettive) superiori non cancella
quelle più arcaiche, ma si sovrappone ad esse, confinandole in un'area psichica che potremmo
definire "preconscia". Quindi, esiste un'oscillazione fisiologica fra i momenti in cui viene
esercitato un pieno controllo cosciente della realtà e i momenti in cui questo controllo si
allenta e riemerge un modo più "istintivo" di percepirla, così come del resto esiste
un'oscillazione fisiologica fra tensione e rilassamento (e stati mentali collegati). Potremmo
rappresentare questo equilibrio dinamico nel seguente modo:
lavoro sensoriale/percettivo
lavoro mentale
tono muscolare teso (β)
tono muscolare rilassato (α)
2b.2.2 L’APPRENDIMENTO
Il concetto di apprendimento, così come quello di intelligenza, è composito, poiché non
corrispondente ad un luogo preciso del cervello, bensì ad una funzione complessa, che è
sostanzialmente quella dell’acquisire nuove conoscenze dall'esterno, attraverso le quali
l'individuo modifica in modo più o meno permanente il proprio comportamento.
60
LA MUSICA E IL DOLORE
La memoria è invece quel processo che ci permette di conservare queste conoscenze nel
tempo. E', in un certo senso, l'altra faccia della medaglia: non può esserci apprendimento
senza memoria e viceversa.
Insieme, le due funzioni sono indispensabili per la formazione e il mantenimento del nostro
senso di individualità; ma non solo. L'uomo, unica specie vivente, è stato in grado di costruire
con la cultura un sistema di trasmissione transgenerazionale della conoscenza che ha
consentito a ciascuna generazione di perfezionare, sia pure in modo contraddittorio e non
lineare, ciò che era stato acquisito da quella precedente (Lorentz, 1973).
Quest'ultimo tipo di funzione è strettamente connesso al lavoro mentale al suo più alto livello.
Per tale motivo non mi rifarò ai lavori sull’apprendimento musicale di autori celebri come
Sloboda (1988) o Willems (1970; 1972), che pure a prima vista potrebbero apparire di
particolare attinenza per il mio lavoro. Non utilizzerò questi contributi in quanto essi
presuppongono, anche nelle forme più elementari di funzionamento da loro ipotizzate,
l’integrazione di qualità neuropsicologiche talmente sofisticate da non essere utilizzabili per
conoscere le modalità di apprendimento tipiche dei livelli di handicap che descriverò (Zenatti,
1969).
Quelli su cui concentrerò la mia attenzione sono infatti i meccanismi basilari
dell’apprendimento, che andrò ad illustrare al fine di meglio conoscere la struttura
dell’handicap.
Ho già fatto una distinzione fra un apprendimento di tipo beta, non elaborativo, imitativo,
lento, basato sull'accumulo per ripetizione di molti tentativi, che non richiede partecipazione
cosciente e un apprendimento di tipo alfa, caratterizzato da rapidità ed elevato livello di
categorizzazione ed astrazione.
Sostanzialmente, il meccanismo dell'apprendimento, a qualsiasi livello esso avvenga, può
essere scomposto in due fasi:
1) DECODIFICAZIONE dello stimolo ricevuto dall'esterno attraverso gli analizzatori.
2) CODIFICAZIONE della risposta (di movimento, di memorizzazione, etc...)
In conformità con quanto proposto da Moretti (1980), indicherò per brevità questo
meccanismo come COD/DECOD.
Cercherò ora di classificare i tipi di apprendimento, utilizzando uno schema semplificato
rispetto alla suddivisione originale effettuata da Moretti, nel quale distinguiamo 4 livelli,
61
LA MUSICA E IL DOLORE
ciascuno corrispondente a un tipo di apprendimento, procedendo dal più grossolano e
primitivo al più sofisticato ed evoluto (schema n°6).
I COD/DECOD MASSIVO: esso è caratterizzato da una decodificazione massiva e da
un’altrettanto massiva codificazione, come per esempio il ritrarsi con tutto il corpo da una
fonte di eccessivo calore. A livello di S.N., l'integrazione fra stimolo e risposta avviene nel
midollo spinale e nel tronco encefalico, cioè a livelli inferiori rispetto al cervello e al controllo
cosciente, corrispondendo quindi ad attività riflesse, suscettibili di stimoli e apprendimenti
condizionati.
Filogeneticamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo delle varie specie animali,
corrisponde al comportamento di specie molto primitive (studiatissima dagli psicologi per la
semplicità del suo S.N. è l’Aplysia Californica, ossia la chiocciola di mare).
Ontogeneticamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo dell'individuo, corrisponde agli
schemi riflessi del neonato.
II COD/DECOD DENOTATIVO: è caratterizzato dalla denotazione di un carattere generico
dello stimolo, come potrebbe essere la forma, la grandezza, il colore, etc..., ed implica
l'intervento di strutture poste fra il tronco e la corteccia ed anche della cosiddetta corteccia
primaria, cioè delle zone di corteccia deputate al riconoscimento di caratteri semplici.
Filogeneticamente, corrisponde alle risposte degli insetti, fondate su grandezza, colore, etc...
Ontogeneticamente corrisponde all'organizzazione del bambino a partire dal 4° mese (per
esempio la risposta del sorriso al volto umano senza distinzione fra volti diversi), oppure, a
livello patologico, alla reazione del ritardato mentale grave a situazioni di pericolo o di
appetibilità.
Cominciano ad essere presenti i concetti di spazio e velocità, per cui diviene possibile anche
un addestramento, sia pure in misura limitata.
III COD/DECOD CONNOTATIVO: è caratterizzato dalla possibilità di decodificare lo stimolo
e codificare la risposta all'interno di una categoria.
Per esempio, filogeneticamente, tra i mammiferi il cane può riconoscere il padrone, i familiari
e gli estranei all'interno della categoria "uomini". Ontogeneticamente, corrisponde alla
discriminazione fra madre e mondo esterno che il bambino è in grado di compiere a partire dal
7° mese circa.
Questo livello richiede il funzionamento delle aree corticali di associazione, cioè delle vie di
collegamento fra le varie parti della corteccia ed è linguisticamente determinato, quindi può
essere elaborato coscientemente (il bambino ricorda il volto della madre anche quando non la
vede). Siamo pertanto nell'ambito dell'operatività di tipo alfa.
62
LA MUSICA E IL DOLORE
IV COD/DECOD PER MODALIZZAZIONE: è un livello accessibile alla sola specie umana e
comporta la possibilità di riconoscere i caratteri astratti di uno stimolo. Ontogeneticamente,
corrisponde alla maturazione del 15° mese. Questo tipo di apprendimento richiede il
funzionamento della mente, è di tipo simbolico e influenzabile da parte dei valori culturali
esterni. E', in sostanza, la maturità cognitiva.
Possiamo dire che i primi due livelli corrispondono a un funzionamento di tipo beta, gli ultimi
due a un funzionamento alfa. Possiamo altresì dire che i primi tre livelli corrispondono alle
modalità di funzionamento cognitivo che siamo soliti attribuire rispettivamente ai ritardati
mentali di grado grave (cod/decod I°), medio (II°) e lieve (III°). In situazioni "normali", i 4
livelli coesistono stratificati uno sull'altro, ma è ovvio che in genere vengano utilizzate le
strategie di apprendimento più sofisticate e analitiche. Ciò, come già detto, comporta la
parziale perdita di quella globalità garantita dalla diffusione sinestesica delle percezioni, ma
consente un maggiore approfondimento ed una maggiore elaborazione dei dati. Il fisiologico
procedere dal tipo I° al tipo IV° di apprendimento comporta lo sviluppo di quelle funzioni
complesse, dette "superiori", tutte integrate a livello di lavoro mentale, che possiamo definire
analizzatori cognitivi: lettura, scrittura, linguaggio, capacità di calcolo, spazialità, gnosie
(capacità di riconoscimento) e prassie (capacità di esecuzione di sequenze motorie
complesse).
Le tattiche di comportamento di fronte ad un compito sono fondamentalmente due: I rigidità
condizionata, II accomodamento elastico. Possiamo dire che la tattica rigida è l'unica possibile
ai livelli I e II di cod/decod, mentre quella elastica è possibile solo per i livelli III e IV.
Possiamo ancora associare la tattica rigida a un tono muscolare teso ed a modalità beta,
mentre associamo la tattica elastica ad un tono rilassato ed a modalità alfa. Anche qui è
possibile, per un individuo normale, oscillare fisiologicamente fra le due fasi. In genere,
qualsiasi novità che debba essere decodificata provoca, in prima battuta, un irrigidimento
legato alla messa in discussione dello status quo, cui segue poi un adattamento (Piaget (1945)
definisce rispettivamente di assimilazione ed accomodamento). E' ovvio che più fragili
saranno le basi della integrità psichica, più resistenze vi saranno a qualsiasi novità, poiché essa
sarà sempre vissuta come destabilizzante. Viceversa, il passaggio dalla rigidità condizionata
all'accomodamento elastico è in funzione di vari elementi (economia dello sforzo, peso delle
abitudini, sicurezza circa il rapporto di probabilità successo/insuccesso, etc...), ed è in sostanza
una questione di gradi di libertà da vedersi sotto tre principali punti di vista:
63
LA MUSICA E IL DOLORE
I) Struttura neurofunzionale (è ovvio che un cerebropatico grave ha un danno che non gli
consente di accedere all'apprendimento elaborativo);
II) Assetto affettivo;
III) Contesto (molte volte le potenzialità individuali consentirebbero un'evoluzione che però
non è funzionale all'equilibrio familiare e/o sociale).
2b.2.3 LA REAZIONE OGGETTUALE
Da un punto di vista affettivo, lo sviluppo dell'individuo può essere visto come un faticoso
tentativo di uscire progressivamente dal narcisismo primario, cioè da quella condizione di
totale egocentrismo in cui l'individuo investe affettivamente se stesso e si rapporta col mondo
esterno in funzione dell'esclusivo soddisfacimento delle proprie esigenze. Questa è la
condizione presente fisiologicamente alla nascita e nei primi mesi di vita, in cui il bambino
ubbidisce esclusivamente a quello che Freud (1920) definisce il "principio del piacere". Ciò di
cui si ha bisogno è la sola cosa che conta e deve essere ottenuta (per esempio la poppata
quando si ha fame). All'ottenimento segue un senso di gratificazione totale; al mancato
ottenimento conseguono invece una rabbia e un'aggressività troppo grandi per poter essere
contenute dalla piccola mente del bambino, il quale, oltre a scaricarle sul tono muscolare, si
trova nella necessità di "proiettarle" all'esterno, poiché non sarebbe in grado di sopportarne le
devastanti conseguenze (sensi di colpa, etc...). Occorre tenere presente che il meccanismo di
pensiero del bambino, in questa fase, è di tipo fondamentalmente schizoide, cioè magicoonnipotente. In pratica, per esempio, il bambino ritiene di avere il potere di far materializzare
la mammella (o il biberon) solo perché quando ha fame la mammella effettivamente compare;
allo stesso modo ritiene di poter distruggere la madre solo perché lo desidera nei momenti di
frustrazione, il ché è evidentemente troppo per le sue capacità di elaborazione, per cui la
distruttività deve essere evacuata . Così, è il bambino a sentirsi minacciato da chi più ama,
poiché, sempre per i meccanismi del pensiero magico, è convinto che la madre sappia tutto
della sua distruttività e lo possa per questo punire.
Quindi, prima dei 6-7 mesi il mondo del bambino è frammentato, perché piccolo e
frammentato è il Sé. Esiste un Sé di dimensioni minime, che Stern (1985) definisce "nascente"
e per il resto esiste una fusione simbiotica con la madre, di cui però vengono inglobate solo
quelle qualità gratificanti che sono funzionali ai bisogni del bambino (la mammella buona che
dà il latte), mentre gli aspetti frustranti della relazione vengono espulsi o negati. Definiamo
identificazione adesiva (Bick, 1968) quel meccanismo basato sull'inglobamento dell'oggetto
d'amore, che conduce a modalità di comportamento imitative e seduttive. Chiamiamo invece
64
LA MUSICA E IL DOLORE
identificazione proiettiva (Klein, 1957) l'attribuire ad altri pensieri e sentimenti che sono in
realtà parti di sé. Queste due modalità immature di relazione affettiva coesistono nei primi 6-7
mesi e compongono il quadro della posizione schizoparanoide in cui, come già accennato, il
bambino da un lato si autoesclude dagli aspetti più insopportabili della realtà negandoli
magicamente, dall'altro proietta la propria aggressività, oppure cerca di fondersi totalmente
con la madre.
Pur non perdendo mai la possibilità di regredire nuovamente a questa posizione, dai 6-7 mesi
si comincia a essere in grado di elaborare le frustrazioni e sopportare il lutto della perdita della
madre, intesa come presenza simbiotica (Gaddini, 1981). Questa capacità consente di accedere
al sentimento della depressione, intesa come consapevolezza dei propri limiti e come nascita
delle istanze riparative verso l'oggetto d'amore (la madre) sopravvissuto all'aggressività della
fase precedente. Si giunge così alla posizione depressiva. A questo punto, il bambino può
interiorizzare l'idea della madre come qualcosa di separato da lui, ma pur sempre punto di
riferimento fondamentale, quindi è in grado di valutare l'oggetto affettivo in quanto tale, con
le proprietà che gli competono e i sentimenti che lo caratterizzano e non in funzione dei suoi
bisogni egoistici (narcisistici). Definiamo identificazione introiettiva (Klein, 1957) la capacità
di interiorizzare un modello affettivo con la consapevolezza che si tratta di un modello e che
questo serve per costruirsi un'identità propria, non per "essere come", cioè per fondersi
simbioticamente e imitativamente come nella fase precedente. Questa è la base di quella che
in un'ottica psicodinamica si chiama “relazione oggettuale matura”. Se assimiliamo posizione
schizoparanoide ed identificazione adesiva/proiettiva alla funzione beta, e posizione
depressiva e identificazione introiettiva alla funzione alfa, vediamo che esiste anche a livello
affettivo un equilibrio dinamico fra una situazione di maggiore integrazione e maturità e una
di minore integrazione e unitarietà dell'Io, cui è sempre possibile regredire fisiologicamente in
alcuni momenti della vita adulta (è normale, per esempio, dopo una separazione, pensare che
tutte le colpe siano dell'altro), per poi recuperare la posizione più matura. Quando, per qualche
ragione, qualcuna di queste fasi non viene superata, si ha una situazione di disturbo mentale.
In questa ottica, diviene allora possibile, per esempio, leggere l'autismo infantile precoce
anche come una mancata uscita da quella fase schizoide in cui si rifiuta il contatto con le parti
minacciose della realtà: diviene, altresì, possibile leggere la schizofrenia anche come un
ritorno, propiziato per lo più da un mancato superamento della crisi adolescenziale, a una
rigida posizione schizoparanoide, che rimane come unico modo frammentato di rapportarsi
con la realtà da parte di un Io troppo fragile per compattarsi su posizioni più integrate. Ho
scritto "anche" non casualmente, perché secondo me la lettura psicodinamica degli eventi
65
LA MUSICA E IL DOLORE
psichici non contraddice affatto quella biologico-cognitivista illustrata nel paragrafo
precedente, ma casomai la integra. Comunque, l’obiettivo non è risalire alle cause certe di un
disturbo, ma imparare a muoversi nella complessità dell'handicap neuro-psichico con la
consapevolezza delle innumerevoli e fondamentali connessioni fra Sistema Nervoso e Mente,
fra intelletto e affettività, fra sviluppo cognitivo e affettivo (Imbasciati, 1989). Riguardo a
quest'ultimo, il presente paragrafo non intendeva esaurire, neppure in minima parte,
l'argomento, ma solo fornire alcune chiavi di lettura pratiche. Sono pertanto rimaste escluse
dal discorso tutte le fasi di sviluppo successive al 12° mese.
2b.2.4 LA REAZIONE SOCIALE
Possiamo distinguere tre significati del termine socialità:
a) con “socialità del I tipo” intendo riferirmi alla capacità di una persona di prendere atto
dell’esistenza degli altri come individui il cui comportamento interferisce con il suo e di
modificarsi sotto la pressione che l’ambiente sociale e culturale che essi formano esercita su di
lui, in modo tale da indurlo ad assumere abitudini, atteggiamenti, modi di valutare i fatti o di
reagire di fronte ad essi, che sono largamente accettati in quel contesto;
b) con “socialità del II tipo” indico la capacità di un individuo di uscire provvisoriamente dal
proprio punto di vista ed assumere quello altrui, in modo da giungere ad una comprensione
profonda dell’altro;
c) con “socialità del III° tipo” indico la capacità di un individuo di stabilire dei rapporti di
collaborazione con gli altri, pur mantenendo una relativa indipendenza ed originalità di
vedute; indico la capacità di cooperare con gli altri, per il conseguimento di un obiettivo
comune, mediante una suddivisione dei compiti, o anche mediante quella forma di
competizione di tipo non puramente individualistico che può esservi nei giochi sociali, nei
quali, accanto ad un obiettivo che può essere individuale, come il vincere, vi è pur sempre
anche un obiettivo comune, come il giocare.
Nei primi tre anni di vita il bambino, di norma, acquisisce ritmi (per esempio per quanto
riguarda i pasti ed il sonno/veglia) e norme (principalmente riguardanti ordine e pulizia) sulla
scia di condizionamenti che gli derivano dall’esterno. Si tratta quindi di una socializzazione
del I° tipo; questa, negli anni corrispondenti al periodo della scuola materna, si sviluppa grazie
alle più evolute risorse del bambino e all’arricchimento dei rapporti sociali ai quali viene
66
LA MUSICA E IL DOLORE
esposto. Fra i sette e i dodici anni ha poi luogo un notevole progresso per quanto riguarda il
processo di socializzazione del II e del III tipo, dovuto all’acculturazione ed alle esperienze di
collaborazione; il bambino diventa sempre più capace di mettersi in punti di vista diversi dal
proprio, di vedere le cose come le vedono gli altri e di vivere pertanto anche i loro problemi e
le loro ansie, condizione questa necessaria affinché senta in modo immediato il bisogno di
intervenire, se necessario, in loro aiuto. Diviene allora possibile verso il termine della
fanciullezza, il costituirsi di gruppi diversi da quelli che si formano all’interno della scuola in
seguito all’intervento diretto o indiretto dell’insegnante; per i bambini di questi gruppi il punto
di riferimento non è più solo l’adulto ma anche il gruppo in quanto tale, un gruppo che
acquista sempre maggiore stabilità e dentro al quale il bambino vive un’esperienza di
autonomia ed affronta le novità in maniera meno difficile e traumatica proprio per il fatto di
sentirsi insieme agli altri e di essere nei loro confronti in condizioni di relativa parità (Erikson,
1963).
Pare evidente come il poter fruire di un certo tipo di rapporti sociali piuttosto che un altro,
modifichi notevolmente la qualità della vita di un individuo; l’integrazione sociale della
persona handicappata non la si ottiene semplicemente inserendola in una classe di “normali”,
bensì fornendole anche la possibilità di esperire relazioni sociali del tipo consentito dal
proprio livello evolutivo.
Anche nel caso della funzione sociale esistono notevoli differenze a seconda che ci si trovi in
un sistema di tipo teso o rilassato: per una persona il cui sviluppo personale consenta rapporti
sociali del tipo I, avremo una sottomissione nel caso di un contesto teso, mentre potrà
svilupparsi un notevole grado di rassicurazione dato dalla esistenza di una regola in un
contesto rilassato; ancora, per un tipo II di socializzazione, potremo avere incomprensione ed
intolleranza in un contesto teso od empatia in uno rilassato; in fine, per il tipo III° , avremo lo
sviluppo di sfiducia in contesti tesi ed al contrario capacità di delega e collaborazione in quelli
rilassati. In ogni caso, solo l’esperienza “rilassata” di un tipo qualsiasi di socialità tra quelle
descritte può costituire la premessa al livello successivo (Bertolini, 1984).
2b.2.5 LE DINAMICHE DI GRUPPO
Le ipotesi formulate da M. Klein (1957) a proposito delle prime relazioni oggettuali, delle
ansie psicotiche e dei meccanismi primitivi di difesa, fanno capire non solo che l’individuo
appartiene a un gruppo familiare sin dall’inizio della vita, ma anche, anzi soprattutto, che i
suoi primi contatti con le persone che gli sono vicine hanno decisiva importanza per il suo
67
LA MUSICA E IL DOLORE
ulteriore sviluppo. L’individuo deve stabilire un contatto con la vita emotiva del gruppo al
quale partecipa e questo gli pone il problema di evolversi e differenziarsi, dovendo
conseguentemente affrontare i timori connessi con questa evoluzione. Le ansie psicotiche che
insorgono in rapporto ai primi oggetti vengono riattivate in molte di queste situazioni della
vita adulta, anche se, spesso, in maniera non evidente all’individuo stesso.
Quando varie persone si riuniscono per svolgere un compito, possono manifestarsi due
tendenze, una diretta alla realizzazione del compito, l’altra che sembra opporsi alla prima.
L’attività di lavoro viene ostacolata da forze contrarie, apparentemente ingiustificabili.
L’ipotesi è di trovarsi di fronte ad una attività psichica collettiva di tipo molto regredito,
analoga alle ansie psicotiche descritte dalla Klein (1957) come reazione difensiva ai timori
connessi alla crescita.
Per comprendere questi meccanismi della vita di un gruppo occorre considerarlo, come
suggerito da Bion (1961), non come somma di individui, bensì come entità vitale autonoma,
dotata di una organizzazione mentale collettiva, che egli chiama mentalità di gruppo, e che è
costituita dall’opinione, dalla volontà, dal desiderio del gruppo stesso, alla formazione dei
quali gli individui partecipano in forma inconscia ed anonima.
Utilizzando questo criterio osservativo egli differenziò gruppi primitivi definiti basici, dai più
maturi gruppi di lavoro (Grinberg et al., 1972).
I gruppi basici vengono così chiamati perché principalmente funzionanti in rapporto a tre
modalità fondamentali denominate assunti di base, caratterizzate da emozioni intense e
primitive, volte ad evitare la frustrazione inerente all’apprendimento dall’esperienza, il quale
implica sforzo, dolore e contatto con la realtà. Un gruppo in assunto di base resta intrappolato
nelle proprie vicissitudini di tipo emotivo.
Bion descrisse tre assunti di base:
a) l’assunto di base di attacco e fuga, che consiste nella convinzione da parte del gruppo che
esista un nemico da attaccare o da cui fuggire; in genere il gruppo si organizza in questo modo
scegliendo un leader paranoide, in grado quindi di alimentare l’idea del nemico, sia esso il
terapeuta, un membro del gruppo, qualcuno di esterno, o la malattia stessa;
b) l’assunto di base di dipendenza, in cui il gruppo si vive come organismo immaturo, il
soddisfacimento dei cui desideri viene demandato ad un oggetto esterno, spesso proprio allo
stesso conduttore, vissuto come mitico salvatore, una sorta di deità protettrice, le cui bontà,
potenza e sapienza sono fuori discussione;
c) l’assunto di base di accoppiamento, in cui il gruppo si pone nella magica aspettativa di un
salvatore che deve ancora arrivare, di un avvenimento futuro risolutore, una speranza cioè di
68
LA MUSICA E IL DOLORE
tipo messianico; in queste circostanze la leadership viene spesso conferita ad una coppia che
sembra in qualche modo promettere un figlio.
In opposizione ai gruppi basici, vennero dal medesimo autore descritti i gruppi di lavoro,
caratterizzati dalla cooperazione responsabile al raggiungimento di un obiettivo prefissato.
Non si costituiscono, come invece avviene nel caso dei gruppi basici, per valenza, ma grazie
ad una certa maturità ed addestramento specifico. E’ uno stato mentale che implica contatto
con la realtà, tolleranza delle frustrazioni, controllo delle emozioni.
2b.3 PREVENZIONE E COMPLICANZE DELL'HANDICAP
Definita la struttura dell'handicap, cercherò ora di introdurre i concetti di prevenzione e
complicanza. Per fare questo, è necessario considerare che, da condizioni di deficit come
quelle che considerate (siano esse di tipo neurologico o psichico), possono avere origine tutta
una serie di complicanze che dovremmo essere in grado di prevedere e, nei limiti del
possibile, di prevenire.
Intendo per prevenzione PRIMARIA, la prevenzione della malattia stessa. Essa, se attuata,
comporterebbe l'estinzione della possibilità di essere affetti da quel determinato disturbo. E'
quanto si è riusciti a fare con talune malattie infettive per le quali si è allestito un efficace
vaccino (Vaiolo, Poliomielite, ecc...) oppure si sono drasticamente ridotte alcune cause
favorenti (Tubercolosi, Rachitismo, ecc...). Nel campo neurologico-psichiatrico, la
prevenzione primaria rimane fondamentalmente un'utopia, in quanto le cause non sono sempre
note e, quando lo sono, non è quasi mai possibile intervenire su di esse (bisognerebbe essere
in grado di modificare i difetti genetici delle malattie ereditarie o correggere il difetto di
funzionamento di quel dato neurotrasmettitore o, ancora più utopisticamente, modificare le
condizioni di svantaggio socio-culturale che sono alla base di certi quadri patologici). Ci si
muove, quindi, prevalentemente "a valle" e cioè a livello di prevenzione secondaria e terziaria.
Intendo per prevenzione SECONDARIA quella delle complicanze di un deficit già
stabilizzato. Per esempio, evitare che gli alti livelli di glicemia di un diabetico vadano a
danneggiare la retina. Possiamo immaginare che, per uno schizofrenico, poter stabilizzare in
modo sufficiente i propri stati d'animo e le proprie condotte sia un buon modo di favorirne
l'inserimento sociale.
Intendo per prevenzione TERZIARIA la stabilizzazione di complicanze già in atto, al fine di
evitarne l'ulteriore peggioramento. Per esempio, se la glicemia elevata ha già compromesso la
retina, è possibile prevenire il rischio di distacco ricorrendo al suo cerchiaggio. In gravi
patologie psicotiche, come le chiusure autistiche, possiamo immaginare che riuscire a
69
LA MUSICA E IL DOLORE
dialogare con quel paziente all'interno del suo guscio autistico, sia l'unica modalità di
stabilizzazione possibile.
Da un punto di vista classificativo, ragionando sempre in un'ottica funzionale,
si può
prospettare una situazione che racchiuda la gran parte della patologia neurologica e
psichiatrica, oltre a una serie di complicanze sociali che in genere costituiscono la
conseguenza ultima e, spesso, inevitabile della deriva familiare e sociale originata dal deficit.
Possiamo dire che, di tutto questo elenco, le complicanze fisiche e psichiche primarie sono le
meno direttamente modificabili (una Sclerosi a placche o una demenza evolvono in modo
abbastanza inesorabile).Tuttavia, anche in questi casi, la stabilizzazione e il miglioramento
delle condotte emotive della persona ammalata può essere considerato un obiettivo di
prevenzione terziaria altamente desiderabile.
Viceversa, per quanto riguarda le complicanze fisiche e psichiche secondarie, quelle
comportamentali e sociali, si può (grossolanamente) dire che maggiore sarà il funzionamento
mentale in senso armonico del portatore di deficit, minore sarà il rischio di andarvi incontro.
E' pertanto sull'armonizzazione dell'handicap che si incentreranno le strategie di intervento
terapeutico e riabilitativo.
2b.4 LA FILOSOFIA D'INTERVENTO
“Nella filosofia troviamo una dolcissima medicina, perché mentre delle altre si sente il piacere solo dopo la
guarigione, essa piace e guarisce insieme” M. de Montaigne (1533-1592) Essais, 11, 25.
Perseguire un maggior gradiente di benessere implica, come si è visto, il favorire una
riduzione delle tensioni esistenti tra le parti del sistema oggetto delle premure e cure. A tal
proposito preciso che le parti da armonizzare non sono solo quelle del sé, bensì anche quelle
“parti” che costituiscono il numero più ampio possibile di sfaccettature dell’esistenza, sia essa
con o senza handicap. Intendo perciò evidenziare l’utilità dell’armonizzazione del mondo
delle idee con quello degli eventi fisico-somatici, con quello relazionale, con quello delle
strategie istituzionali… L’espansione applicativa, a vari contesti e a vari livelli, restituisce alla
teoria di base dell’armonizzazione una più feconda ricchezza e, agli operatori, strumenti più
efficaci per la pratica quotidiana d’intervento.
70
LA MUSICA E IL DOLORE
2b.4.1 LA TEORIA DELL-ARMONIZZAZIONE: DEL BENESSERE
Inserita nell’ottica fenomenologica la teoria dell’armonizzazione si propone come obiettivo
primario nella pratica quello dell’instaurarsi o riconsolidarsi di un buon rapporto “Io-Mondo”
per il paziente. Si tratta di qualcosa di più del generico “benessere”, si tratta non di un sollievo
a breve termine, bensì soprattutto di un guadagno nel tempo, che deriva da un percorso
riabilitativo complesso di sperimentazione nel “qui e ora” delle potenzialità residue. Si tratta
di un ri-assestamento del rapporto sé/altri, che renda possibile una maggior sintonia per
l’individuo nello stare con sé, nello stare con altri, nel vedersi “sé” e “altro da sé”.
Ciascun individuo, con o senza handicap, è in ultima analisi un aggregato di natura e cultura,
ovvero è da un lato “ciò che è” e, dall’altro, “ciò che apprende”. Ciascuna personale idea di
benessere è di conseguenza alimentata da entrambi i versanti, da intendersi in costante
rapporto dialettico: la mia idea di benessere dipende dal mio rapporto con il mondo. Un
armonioso rapporto Io-Mondo può essere però particolarmente difficile da realizzare se la
persona presenta uno o più deficit, di tipo sensoriale, motorio, neuropsicologico, psichico e/o
sociale, specie se questi si sono profondamente radicati nella persona condizionandone il
senso d’identità.
Intendiamoci sul concetto di deficit: definisco “deficit” il dato quantificabile che tende a
misurare l’entità del difetto e della perdita rispetto a una norma ideale. “Disabile” è allora il
portatore di “deficit”.
La presenza del deficit provoca difficoltà e complicanze che chiamo “handicap”: l’handicap è
la dissonanza che si instaura nel rapporto Io-Mondo sul piano fisico-esperienziale (che
comprende aspetti cognitivi ed emotivi), ma anche sul piano storico, culturale, istituzionale.
E’ evidente, in questo caso, la condizione di non integrazione delle funzioni, ovvero di
squilibrio e dissonanza rispetto al piano cognitivo-emotivo-relazionale. L’affinarsi di
un’abilità molto specifica non ha facilitato in questo caso uno sviluppo armonico della persona
nella sua totalità, comportando anzi l’impossibilità per la bambina di orientare sforzi in una
molteplicità di direzioni, secondo un progetto ben più funzionale al raggiungimento della
consonanza Io-Mondo.
Al contempo, l’esempio sopra riportato del ragazzo epilettico assistito per ogni minimo
movimento ci mostra come, al pari della negazione del deficit, è la sua enfatizzazione da parte
del contesto che porta con sé un aggravamento dell’handicap.
La consapevolezza di questi due rischi uguali ed opposti dovrebbe favorire interventi
equilibrati ed efficaci, sia a livello preventivo sia a livello riabilitativo-terapeutico.
71
LA MUSICA E IL DOLORE
2b.4.2 LA PERSONA: MENTE-CORPO-EMOZIONI-RELAZIONI
Un approccio fecondo all’handicap si fonda sulla considerazione della persona nella sua unità.
L’essere caratterizzati da meccanismi funzionali distorti e disarmonici può complicare tutte le
modalità del soggetto di stare al mondo. Tuttavia ritengo che sia sempre possibile un percorso
di cambiamento, sotto il segno della consapevolezza non solo degli operatori ma anche degli
utenti.
L’unità della persona svela, in ogni singola parte, la sua complessità. L’individuo non è
un’entità meccanica, ma un filtro attivo, un campo in cui avvengono scambi fra interno ed
esterno, individuale e sociale, natura e cultura.
Per comodità espositiva, definisco ora il concetto di mente cui faccio riferimento. Intendo per
mente ciò che conferisce all'essere umano la consapevolezza di sé e gli consente di giungere
alla conoscenza astratta del mondo e di conseguenza alla possibilità di rappresentarlo
simbolicamente. Ogni mente si rivela unica e irriproducibile in quanto rappresentativa
dell’incontro originale e costante tra un Io e un mondo; non ha un luogo unico nel corpo, non
coincide con il cervello e viene infatti considerata un processo e non una sostanza. Sostanza è
il corpo che con la sua pelle, i suoi muscoli, i suoi analizzatori sensoriali, la sua rete
neuronale, funziona da interfaccia con il mondo. L’esperienza corporeo-mentale della persona
nel mondo si conserva e si accumula nell’individuo in un variegato mosaico di mappe
selezionate intenzionalmente, che costituiscono i mattoni del senso dell’identità personale.
L’identità personale e le esperienze corporeo-mentali derivanti dal rapporto Io-Mondo, pur
mutando nelle varie epoche della vita, sono una costante esistenziale, che continua il suo
processo anche dopo la scadenza del termine che le ricerche più recenti indicano fissato
attorno ai 10 anni. Per questo motivo, chi basa la scommessa riabilitativa sulla complessità
della persona umana, considera sempre aperto il processo di cambiamento: utenti che hanno
oltrepassato l’età ideale per la plasticità neurologica possono infatti rispondere in maniera
significativa ad una riabilitazione che incide sulla plasticità affettiva. La persona va
considerata per la dinamicità del “qui e ora”, per le potenzialità che, anche nei casi di
maggiore compromissione, ancora possiede: la musicoterapia si rivela spesso un canale
privilegiato in tal senso, nel mettere in risalto le aree del paziente ancora suscettibili di
cambiamento.
La scommessa riabilitativa fa dunque perno sul fatto che l’essere umano non è solo mente,
non è solo corpo, non è solo emozioni, ma è insieme mente, corpo ed emozioni, quindi un
intervento di musicoterapia mira al ripristino dell’armonia globale della persona.
72
LA MUSICA E IL DOLORE
Processi di tipo disarmonico, pur consentendo ad alcune funzioni e parti di personalità uno
sviluppo più articolato e particolarmente sofisticato, determinano un minor grado complessivo
di integrazione: per esempio, una raffinata abilità manuale, pur utile al perseguimento della
performance strumentale, potrebbe rivelarsi un ostacolo per l’armonizzazione delle varie
funzioni dell’individuo qualora venisse a catalizzare tutte le attenzioni riabilitative in corso.
2b.4.3 LA RELAZIONE LO MONDO:APPRENDIMENTO TRA
AFFETIVITÁ E SOCIALITÁ
“L’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme […].Il fatto che l’ambiente sia, in
parte, un prodotto dell’attività stessa dell’organismo, semplicemente sottolinea la complessità
delle interazioni che bisogna tenere in conto” (Damasio20, 1995).
Faccio mia questa affermazione di Antonio Damasio perché mi pare sottolineare ancora una
volta l’importanza del rapporto Io-Mondo nella sua biunivocità.
In genere, qualsiasi novità che debba essere appresa provoca, in prima battuta, un
irrigidimento legato alla messa in discussione dello status quo, cui segue poi un adattamento.
“In tutto il comportamento esplorativo, sia scientifico sia artistico, è sempre presente il
conflitto tra gli impulsi neofilici e quelli neofobici. I primi ci spingono verso esperienze
nuove, facendoci desiderare ardentemente le novità. I secondi ci trattengono e ci spingono a
rifugiarci in ciò che ci è familiare. Noi siamo continuamente in uno stato di equilibrio
mutevole tra le contrastanti attrazioni dello stimolo nuovo ed eccitante e quelle del vecchio
stimolo familiare. Se perdessimo la neofilia, resteremmo fermi, se perdessimo la neofobia, ci
precipiteremmo a capofitto nel disastro. […]
Noi esploriamo e ci fermiamo, indaghiamo e restiamo stabili, estendendo piano piano sia la
comprensione di noi stessi sia l’ambiente in cui viviamo” (D. Morris21, 1968).
E' ovvio che più fragili saranno le basi della integrità psichica, più resistenze vi saranno a
qualsiasi novità, poiché essa sarà sempre vissuta come destabilizzante. Il passaggio da una
reazione neofobica ad una neofilica (e viceversa) è probabilmente influenzato da vari elementi
(economia dello sforzo, peso delle abitudini, sicurezza circa il rapporto di probabilità
20
Anthony Damasio, neurobiologo statunitense di origine portoghese, attualmente professore di Neuroscienze
alla University of Southern California e direttore del “Brain and Creativity Institute”.
21
Desmond Morris, principalmente noto per i suoi lavori come zoologo e come etologo, è tuttavia anche un
artista appartenente alla tradizione surrealista. Le sue considerazioni sull'essere umano da un punto di vista
meramente zoologico hanno suscitato numerose controversie
73
LA MUSICA E IL DOLORE
successo/insuccesso...), ed è in sostanza una conquista di quella libertà consentita dalla
struttura neurofunzionale e dall’assetto socio-affettivo dell’individuo.
Si può così affermare che un cerebropatico grave ha un danno che non gli consente di
accedere all'apprendimento elaborativo (inteso come apprendimento di funzioni cognitive
superiori), ma che quello stesso cerebropatico grave può progredire per quel che riguarda le
modalità relazionali: è il rapporto Io-Mondo a condizionare il percorso di (ri)attualizzazione
delle potenzialità in senso positivo o in senso negativo, ovvero come slancio o sfiducia
rispetto al cambiamento.
Il fattore che apre al cambiamento è la motivazione: in particolare, nelle relazioni di cura, se è
attiva la motivazione si possono ottenere cambiamenti talora insperati in partenza.
La teoria dell’armonizzazione acquista ulteriore valore se estesa a tutti i campi dell’esistenza
umana, rispetto ai quali un individuo possa presentare un “gap” disarmonico tra alcune parti e
altre, a scapito del raggiungimento del benessere. In questo senso, appare fecondo riflettere in
merito alla declinazione degli aspetti relazionali nei campi dell’affettività e della socialità.
Quando si parla di sentimenti ed emozioni, i concetti di “norma” e “devianza” appaiono assai
sfumati, e l’oscillazione tra situazioni di maggiore e minore integrità e maturità affettiva è da
considerarsi indice di flessibilità e salute durante tutto il corso della vita umana: per esempio è
normale, nel periodo iniziale di una separazione, pensare che la responsabilità non sia propria
e svalutare ciò che si lascia, per poi recuperare una posizione emotiva più equilibrata.
Anche il termine socialità fa riferimento a un continuum fenomenico di relazioni Io-mondo:
ad un estremo del continuum si pone la situazione di conformismo acritico nei confronti delle
pressioni dell’ambiente sociale e culturale; all’estremo opposto si colloca la condizione di
autismo inteso, secondo la definizione di Bleuler22, come quello stato in cui l’individuo è
interamente assorbito dalle proprie esperienze interiori al punto da perdere ogni interesse per
la realtà esterna, le cose e gli altri.
La qualità della vita di un individuo è notevolmente influenzata dal tipo di rapporti che
intrattiene con il suo ambiente. In particolare, un individuo può vivere uno stato di profondo
disagio qualora il proprio comportamento non rispecchi le aspettative e le credenze del
contesto sociale di riferimento: è il caso della dissonanza vissuta da quegli immigrati che, per
adattarsi al sistema culturale della patria di accoglienza, rinunciano a mantenere quello
d’origine, oppure è il caso del bambino handicappato per la cui integrazione non è sufficiente
l’inserimento spaziale in una classe di “normali”, ma è necessaria anche la possibilità di
esperire relazioni sociali del tipo consentito dal suo livello evolutivo.
22
Eugen Bleuler (1857–1939), psichiatra svizzero. Nella sua opera fondamentale, il “Trattato di Psichiatria”
(1916), si alternano due visioni della malattia mentale: una organicistica e una psicodinamica.
74
LA MUSICA E IL DOLORE
Ancora una volta, sono le sfumature a fare la differenza e a farci preferire la flessibilità
mentale ad una qualsivoglia schematizzazione.
2b.4.4 IL SUONO PER L’ARMONIZZAZIONE
Come può il suono porsi a mediatore del cambiamento, all’interno della cornice di un
funzionamento così complesso qual è quello umano? “Ci troviamo di fronte - è innegabile - a
una conoscenza “debole”, costruita su continui rimandi” perché il rapporto uomo-suono è un
rapporto complesso, che va inserito nell’ampia “catena bio-psico-socio-ambientale”
(Lorenzetti23, 1984).
Se il suono riassume in sé l’unità mente-corpo-emozioni-relazioni che ho fin qui illustrato,
allora produrre personalmente dei suoni e insieme fruire dei suoni altrui significa mettersi in
relazione, attraverso il mezzo sonoro, con il complesso mondo esperienziale degli altri, oltre
che con il proprio. La musicoterapia, in virtù della peculiarità del mezzo sonoro e della
centralità della dimensione emotiva, mira a porsi come elemento riequilibratore e
armonizzante dello spazio interno e sociale della persona, rispettando i tempi, i turni, dando
voce alla profondità tramite l’immediatezza del musicale, puntando alla relazione positiva con
il paziente, alla valorizzazione delle sue risorse residue, in accordo e in sintonia con la
persona, con la finalità di trovare, assieme al terapeuta, il giusto spazio, il giusto ritmo e il
giusto tempo. Come infatti in una personalità armonica sono possibili funzionamenti a diversi
livelli, e l’acquisizione del livello superiore non cancella le modalità precedenti (le quali
vengono anzi ricomprese in un insieme più o meno armonico) così, nella musica, trame
armoniche molto complesse possono ricomprendere al loro interno elementi melodici.
Damasio (2000) descrive il funzionamento dell’organismo umano attraverso un’interessante
metafora, quella della partitura orchestrale: il comportamento di un organismo vivente non è il
risultato di un’unica linea melodica semplice, ma un concorso di più linee melodiche, ed esse
non derivano dall’apporto di un unico strumento quanto piuttosto da diversi gruppi di
strumenti che producono differenti tipi di suoni ed eseguono melodie diverse; possono
suonare ininterrottamente per tutto il brano, oppure tacere di tanto in tanto, a volte per un certo
numero di battute. Un’ulteriore conseguenza è che tutto ciò che ha luogo in ciascun momento,
in un tutto integrato, è la fusione di contributi diversi, non dissimile dalla fusione polifonica,
di un’esecuzione orchestrale.
23
Loredano Matteo Lorenzetti, psicologo, architetto e musicista, pioniere della musicoterapia italiana.
75
LA MUSICA E IL DOLORE
In musicoterapia, allo stesso modo, ciò a cui si trova di fronte l’osservatore è un insieme
composito, un concorso di contributi nel tempo, che hanno tuttavia luogo in un unico
organismo e sono connessi, in qualche modo, in virtù di un unico obiettivo. A fare da sfondo
alla teoria dell’armonizzazione come orchestrazione è il concetto di intenzionalità: “Se
l’improvvisazione da una parte è un momento in sé compiuto, dall’altra parte è un evento
generato da una serie di momenti significativi della storia d’ogni relazione musicoterapica”
(Barbagallo, 2003). L’attività creativa estemporanea del musicoterapeuta è mossa
dall’intenzione terapeutica della costruzione di un senso condiviso, resa possibile dall’utilizzo
di opportune tecniche. L’improvvisazione intenzionale favorisce la co-costruzione, all’interno
del setting terapeutico, di un codice comunicativo non verbale comune: la forma musicale
improvvisata non dovrebbe mai essere vissuta dal paziente come un corpo estraneo, bensì egli
dovrebbe poter risuonare in essa qualcosa di sé, il più liberamente possibile. La relazione
interpersonale diventa oggetto di indagine e la comunicazione, nella prospettiva psicologica,
diventa pertanto il tessuto che crea, mantiene, modifica i legami fra le persone. Infatti, ogni
qualvolta un soggetto comunica qualcosa ad un altro, egli definisce nel medesimo tempo sé
stesso e l’altro, nonché la natura e la qualità delle relazioni che li unisce. “E’ plausibile
affermare che la percezione della nostra identità sia frutto della capacità di raccontare a noi
stessi la nostra storia, una storia prodotta da molteplici narrazioni: il racconto delle sensazioni,
delle percezioni, delle immagini, degli affetti, degli spazi, delle relazioni, degli accadimenti,
dei desideri e dei progetti. Passiamo la nostra esistenza a raccontarci la “nostra esistenza” e
contemporaneamente a trovare il modo di raccontarla agli altri, ricercando ed utilizzando i
modi e le forme che via via ci sembrano le più adatte ed efficaci a questo scopo” (Bonanomi,
2000).
2c LA TECNICA MUSICOTERAPICA
Il presente capitolo cercherà di illustrare gli aspetti applicativi della musicoterapia. Verranno
in primo luogo affrontate alcune questioni di carattere generale, quelle che cioè prescindono
dal tipo di intervento musicoterapico, siano esse di natura pratica, psicologica o strategica;
successivamente si procederà all’analisi delle tecniche musicoterapiche specifiche per la
riabilitazione, la terapia e la formazione.
Calare nella pratica questi concetti significa indiscutibilmente ridurne il respiro teorico, ma
significa altresì dargli visibilità. Credo che anche di questa ci sia bisogno, ragion per cui invito
a considerare i suggerimenti pragmatici che verranno di volta in volta dati come una delle
76
LA MUSICA E IL DOLORE
traduzioni possibili del modello teorico d’intervento musicoterapico fin qui delineato; sono
convinto infatti che i singoli gesti abbiano importanza soprattutto per la coerenza con il
modello teorico di riferimento e tra di loro all’interno del progetto terapeutico. Queste linee
guida generali non saranno quindi binari bensì indicazioni di rotta, all’interno ed attorno alle
quali sarà possibile, oltre che doveroso per ogni musicoterapeuta, trovare gli aggiustamenti
idonei al contesto in cui opera.
2c.1 ASPETTI GENERALI
La musicoterapia, come ogni attività, necessita di uno spazio in cui aver luogo. La prima
caratteristica che questo spazio deve possedere è quella di essere delimitato; la delimitazione
rende un luogo stabile, riconoscibile, riservato, protetto (Anzieu, 1987); per queste stesse
ragioni pare di poter estendere il concetto di delimitazione dal piano architettonico a quello
acustico, considerando necessario un certo isolamento da e verso l’esterno (Borghesi, 1995).
La stanza di musicoterapia deve inoltre avere caratteristiche che riguardano genericamente la
qualità di fruizione ed altre abbastanza specifiche concernenti le dimensioni e l’acustica.
La facilità di accesso al locale, la presenza di servizi adiacenti, il riscaldamento e l’igiene
ambientale, sono tutti requisiti minimi indispensabili per ogni ambiente che si voglia
candidare ad ospitare una qualsiasi attività di tipo terapeutico.
Per quanto concerne le dimensioni, occorre a mio avviso tener conto di alcune considerazioni:
l’attività musicoterapica necessita di un certo spazio di movimento o, in alcuni casi, spazio di
distanza; la possibilità di organizzare attività gruppali orienterebbe immediatamente verso
ambienti di discrete dimensioni, però occorre tenere presente che locali troppo ampi possono
risultare carenti di punti di riferimento, poco o nulla contenitivi, dispersivi e pertanto poco
idonei all’instaurazione di quel clima di fiducia e di sicurezza che è premessa di ogni presa in
carico di tipo terapeutico.
Anche le esigenze di tipo acustico orientano verso ambienti di medie dimensioni, in quanto
locali troppo piccoli espongono ad intensità elevate mentre ambienti eccessivamente grandi
determinano il problema della perdita di intelligibilità del messaggio sonoro a causa della
dispersione acustica e della riverberazione. Paiono pertanto indicabili, a titolo puramente
orientativo, locali di una quarantina di metri quadrati, dotati di appositi pannelli
fonoassorbenti sulle pareti e di moquette sul pavimento.
77
LA MUSICA E IL DOLORE
Per quel che riguarda la dotazione tecnica, un laboratorio di musicoterapia deve possedere uno
strumentario per la produzione musicale, per l’ascolto di materiali preregistrati e per la ripresa
audio-visiva degli incontri.
Verranno di seguito nominati alcuni strumenti che possono rappresentare un campionario tipo,
tuttavia mi pare opportuno fare due considerazioni preliminari alla compilazione di qualunque
elenco: in primo luogo, segnalo la necessità di disporre di uno strumentario sufficientemente
nutrito e vario; è importante che ognuno senta di poter compiere la propria ricerca con un
margine di scelta sufficientemente ampio, sia per quanto riguarda le caratteristiche timbriche,
sia per le possibilità di variazione dinamica, sia per le qualità intonative, melodiche e
armoniche. In secondo luogo ricordo l’importanza della scelta di strumenti che lascino
terapeuti e pazienti liberi da preoccupazioni; sarà opportuno quindi orientarsi verso strumenti
solidi, di ampia facilità e libertà d’uso, al fine di ridurre le ansie concernenti l’incolumità degli
stessi, strumenti di dimensioni tali da non poter essere ingeriti, strumenti che non inducano
preoccupazioni di tipo igienico.
Una famiglia di strumenti generalmente presente in gran numero e varietà è quella degli
idiofoni, strumenti in cui il suono viene prodotto direttamente dal materiale costruttivo:
xilofoni, metallofoni, wood block, cembali, legnetti, piatti, campane tubolari, maracas,
triangoli, campanelli; a questa famiglia appartengono pure gli elementi “sonori” di cui è
dotato l’ambiente stesso, i cui muri, vetri, scaffalature e termosifoni si prestano a frequenti
utilizzazioni.
Anche i membranofoni sono in linea di massima numerosi nei laboratori di musicoterapia: si
tratta di quegli strumenti il cui suono si origina dalla vibrazione di membrane tese, ad esempio
tamburi di ogni forma e dimensione, bongos, congitas, congas, timbales, tom.
Terzo gruppo di strumenti è quello dei cordofoni, il cui suono deriva dalla vibrazione di corde
tese tra due punti fissi: chitarra, salterio, pianoforte. Per la maggior parte i cordofoni sono
strumenti delicati, perché vincolati a proprietà di amplificazione che solo casse acustiche in
materiale pregiato e dalle ricercate forme sono in grado di produrre; per queste ragioni non
vengono neppure menzionate in questo contesto intere famiglie di strumenti che godono
altrove di ben altro blasone come, ad esempio, gli archi.
Ancor meno frequenti sono in genere gli aerofoni, strumenti che hanno come vibratore
primario l’aria e ciò principalmente per le già citate questioni di carattere igienico. Comunque
gli aerofoni che più spesso si trovano nei nostri laboratori sono: flauto dolce, ocarina,
armonica e vari richiami per uccelli (Centazzo, 1982).
78
LA MUSICA E IL DOLORE
L’ultimo gruppo di strumenti di cui mi occuperò è quello degli elettrofoni, il cui nome deriva
ovviamente dall’impiego di energia elettrica nella generazione sonora; gli esempi più noti e
diffusi sono la tastiera elettronica, il microfono e l’impianto di registrazione/riproduzione
stereofonica. Per quanto concerne la tastiera, penso che sia conveniente utilizzare uno
strumento già in possesso di un proprio apparato di amplificazione interna, al fine di rendere
più agevoli collegamenti e spostamenti; è inoltre importante orientarsi su prodotti in possesso
di tastiera sensibile alla dinamica di pressione del tasto oltre che, ovviamente, delle
caratteristiche più frequentemente riscontrabili in questo genere di strumenti, come
l’estensione di almeno 5 ottave e una tavolozza timbrica sufficientemente ampia. Per il
microfono, che deve poter essere indifferentemente utilizzato sia per la ripresa che per
l’amplificazione diretta di ogni genere di sonorità, consiglio di riferirsi a componenti
dinamici24 ed omnidirezionali25, sia per le caratteristiche foniche che per la robustezza
costruttiva che generalmente contraddistingue questo genere di prodotti. L’impianto d’ascolto
dei materiali preregistrati è in genere dotato della possibilità di utilizzare diverse sorgenti
come cd e nastri. mi pare opportuno riferirci ad un sistema di alta fedeltà, capace cioè di
riprodurre tutti i parametri musicali con un buon grado di approssimazione all’originale. La
gamma delle frequenze deve esser tale da garantire l’ascolto non solo della linea melodica, ma
anche delle armonizzazioni più gravi così come degli armonici più acuti, caratteristiche
garantite da un impianto in grado di erogare in maniera sufficientemente lineare dai 20 ai
20.000 Hz; anche il parametro intensità deve poter essere riprodotto con una gamma di
variazioni dinamiche “credibili” senza che questo debba comportare un livello di disturbo
eccessivamente elevato o una perdita di intelligibilità degli insiemi sonori. Lo stesso impianto
audio è in genere dotato di prese microfoniche che possono in taluni casi rivelarsi utili per la
registrazione delle sedute.
In coda a questo paragrafo sulle apparecchiature elettroniche parlerò di videoregistrazione,
sistema monitoraggio assai diffuso in musicoterapia: il fatto che taluni pazienti attribuiscano a
tali apparecchiature proprietà persecutorie, suggerisce collocazioni marginali di telecamera ed
annessi; queste sono però generalmente sfavorevoli alla ripresa audiofonica di tali sistemi,
perciò sono da preferire quelle soluzioni che consentono il collegamento ad un microfono
esterno alla telecamera.
24
L’aggettivazione “dinamico” per un microfono si riferisce ad alcune caratteristiche costruttuive del sistema di
trasduzione di cui è costituito.
25
Una delle caratteristiche principali del funzionamento di un microfono è la direzionalità, la quale specifica la
capacità di captare suoni provenienti da diverse regioni dello spazio e viene descritta da un diagramma di
polarità; si possono avere quindi microfoni a diagramma polare ipercardioide, cardioide, bidirezionale (o a otto)
ed omnidirezionale.
79
LA MUSICA E IL DOLORE
Sono sicuramente raccomandabili sistemazioni stabili delle apparecchiature elettroniche, che
possono così essere collocate in posizioni di riguardo e funzionalmente vantaggiose, evitando
i lunghi tempi e i frequenti contrattempi degli assemblaggi provvisori, i quali mettono
oltretutto a repentaglio l’integrità dei sistemi stessi (Clementi, 1984).
Non può mancare in una trattazione dello strumentario tipico dei laboratori di musicoterapia
almeno una menzione all’ampia gamma di strumenti sonori che vengono costruiti o fatti
costruire dai musicoterapeuti appositamente per determinate circostanze terapeutiche; di
questo non mi occuperò direttamente in questo testo, ma rinvio l’approfondimento ad uno
splendido manuale facilmente reperibile esclusivamente dedicato all’argomento (Rossena,
1995).
L’elencazione dello strumentario si completa con la menzione delle sorgenti sonore più intime
di cui si possa disporre: le voci e i corpi dei partecipanti.
Ci preme comunque ricordare a complemento di quest’ultimo discorso, come l’enumerazione
delle famiglie costituenti lo strumentario musicoterapico non sia di per se stessa sinonimo
delle varietà sonore disponibili, dal momento che esistono molti differenti modi di
utilizzazione per ognuno degli strumenti citati, cosa questa assai frequente in musica ma ancor
più evidente nel contesto musicoterapico, in virtù del fatto che qui la creatività viene
abbondantemente promossa. Così pensiamo alla percussione diretta dello strumento, effettuata
da parte di chi lo manipola, quella indiretta, ottenuta con l’ausilio di un utensile, la
percussione reciproca, in cui due corpi producono una vibrazione che si origina dall’urto dei
medesimi; ancora, possiamo avere produzione sonora per raschiamento, per sfregamento o per
strappo, oppure ottenuta da un flusso d’aria proveniente da un mantice o dai polmoni. Tutto
ciò è ovviamente proponibile in ogni parte dello strumentario con effetti che si differenziano
notevolmente gli uni dagli altri, limitati unicamente dalla capacità creativa del paziente e del
terapeuta.
Ogni intervento musicoterapico, sia esso terapeutico, riabilitativo o formativo, conosce
l’utilizzo di taluni dispositivi psicologici che sono comuni ad ognuna di queste iniziative. Si
tratta di strumenti che favoriscono la realizzazione di quel clima di fiduciosa collaborazione
che è a mio avviso indispensabile allo sviluppo ed al mantenimento di un buon livello
motivazionale, nei pazienti e negli operatori.
Le attività nascono e proseguono all’insegna di quello che potremmo chiamare “atteggiamento
di accoglimento” da parte degli operatori, i quali per l’appunto accolgono favorevolmente i
loro utenti, sia sul piano fisico che su quello psicologico, ne tengono in grande considerazione
ogni comunicazione, sia verbale che non verbale, senza esprimere giudizi morali a proposito
80
LA MUSICA E IL DOLORE
di queste, senza criticare, senza squalificare, eventualmente riconnotandole positivamente,
riutilizzandone le parti pertinenti al progetto in corso di realizzazione.
Un altro elemento comune che, pur in modi diversi, viene utilizzato in ognuno degli ambiti
precedentemente nominati, è il concetto di “costanza”, termine che orienta verso pensieri
come solidità, durata, orientamento. Costante è una cosa solida, che resiste ai contrattempi,
che resiste alla sfiducia, che non si lascia distruggere; costante è una cosa che dura nel tempo,
che è consapevole della complessità della materia con cui tratta, che non confida nella rapidità
del miracolo e non si espone pertanto allo sconforto distruttivo del fallimento; costante è una
cosa che si sa di poter ritrovare, in un certo tempo, in un certo luogo. Praticamente si
osservano:
a) regolarità degli spazi e degli strumentari utilizzati, dei quali si è già ampiamente parlato;
b) regolarità degli incontri; tale parametro può essere suscettibile delle variazioni più ampie a
seconda della tipologia d’intervento in atto e può oscillare dalla alta frequenza dei precisi
appuntamenti di un intervento terapeutico, alla più dilatata ed approssimativa indicazione del
momento dedicato all’attività riabilitativa;
c) regolarità dei partecipanti; anche in questo caso si hanno situazioni fortemente strutturate ed
altre che lo sono assai meno, prevedendo magari la partecipazione, a fianco di operatori
stabili, di altre figure saltuarie, oppure lasciando aperto l’accesso all’attività per utenti
occasionali.
Risulta evidente come quest’idea della costanza, della regolarità, sia in qualche modo presa in
considerazione in ognuno dei tipi d’intervento citati, in quanto determinante per la
costituzione ed il consolidamento di quel clima di fiducia che considero requisito
assolutamente indispensabile.
“Intenzionalità” può essere un’altra parola chiave, utile ad indicare l’esigenza di linee di
condotta che possono accomunare tutti gli interventi di musicoterapia; nella formazione, nella
riabilitazione, nella terapia, riscontriamo sempre una progettualità, composta di una analisi
preliminare della domanda e dei bisogni, una dichiarazione preventiva d’intenti, un
monitoraggio dell’esperienza e di un bilancio finale; d’altro canto, non può esistere intervento
tecnico alcuno la cui applicazione non sia guidata da un fare consapevole: su ciò si determina
la differenza tra professionalità e spontaneismo.
Proseguiamo nell’analisi di quelli che possono essere i punti di contatto tra gli interventi
musicoterapici riabilitativi, terapeutici e formativi.
81
LA MUSICA E IL DOLORE
In caso di attività di gruppo si pone il problema di se e come regolarne l’accesso, stabilendone
aprioristicamente alcune caratteristiche, come l’essere gruppo aperto o chiuso, omogeneo od
eterogeneo.
Spesso queste decisioni risentono consistentemente di influenze provenienti dalle istituzioni,
dai committenti o anche dalle preferenze degli operatori coinvolti, prevaricando quelle che
sarebbero le indicazioni ottimali derivate dalle valutazioni tecniche; non s’intende con ciò
esprimere un giudizio di merito rispetto a tali circostanze, ma semplicemente indicare la
necessità di prenderne atto (Racamier, 1972). Non è comunque di questo tipo di
condizionamenti che mi occuperò.
Rispetto alla scelta tra gruppo aperto o chiuso mi pare vantaggiosa l’ormai diffusa idea di
regolamentarne in ogni caso l’accesso, in maniera da rendere anche questo parametro
sufficientemente stabile da essere poi utilizzato con intenzionalità. In linea di massima si
possono pensare cicli dagli 8 ai 12 incontri come dimensione sufficiente a garantire l’identità
di un gruppo; in questa maniera si potranno affrontare gli eventuali ingressi gradualmente e
le dimissioni come fatto atteso, programmato, che giunge al compimento di un percorso.
Gruppo omogeneo o gruppo eterogeneo? Posta in questi termini viene certo da rispondere
eterogeneo, non fosse altro perché diverse sono tutte le persone, per quanto ci si possa sforzare
a riunirle in ghetti categoriali, come “gli psicotici”, “gli insufficienti mentali”, “i mongoloidi”
e via dicendo; eterogeneo perché chiunque conduca attività gruppali non può non conoscere e
non confidare nelle possibilità di confronto ed interazione che tale dimensione offre e
considerarle strumenti preziosi per la riabilitazione e la terapia. Quello che si ricerca nella
costituzione dei gruppi di musicoterapia è, più che un fatto di omogeneità, quella che definirei
una questione di similitudine: in questo modo si potranno costituire gruppi eterogenei per età,
sesso e patologia, ma omogenei per quanto riguarda i livelli di forza dell’IO, le motivazioni e
gli obiettivi (Gabbard, 1992).
2c.1.1 IL SETTING TERAPEUTICO
Che cos’è un “setting”?
Il termine deriva dal verbo inglese “to set” che significa “mettere, collocare” e, in prima
estensione, “preparare, mettere a punto, sistemare per”: si parla dunque di definire dei
contesti, delle ambientazioni. In questo senso è stato impiegato per indicare il contesto di
ricerca, specialmente in psicologia sperimentale, con il fine di preparare un ambiente che
82
LA MUSICA E IL DOLORE
consentisse di non inficiare il processo di conoscenza e l’attendibilità dei dati raccolti. In
psicoanalisi il termine definisce una situazione specificamente costruita per analizzare il
significato affettivo dei vissuti del paziente (Galimberti, 1999).
In musicoterapia il termine e il concetto di “setting” sono stati mutuati dalla tradizione
psicoanalitica; tuttavia in molti casi questa eredità è stata accolta senza la necessaria
consapevolezza, e ciò ha fatto sì che spesso lo strumento “setting” sia stato utilizzato in
maniera parziale e improduttiva. Il contesto musicoterapico presenta una sua identità peculiare
e dalla tradizione psicoanalitica si distingue chiaramente (basti pensare alla prevalenza
espressiva del musicale, in luogo di quella del verbale); tuttavia ritengo che il setting sia uno
strumento trasversale ed estremamente prezioso anche per questa disciplina.
Autori come Eissler, Winnicott e Balint, hanno spodestato il primato dell’interpretazione a
favore del valore terapeutico del setting in sé indagandone il significato nel trattamento delle
patologie gravi. Winnicott scopre i limiti della funzione interpretativa lavorando
particolarmente con pazienti psicotici: egli vede il fattore curativo della psicoanalisi non nella
funzione interpretativa, ma nel modo in cui il setting analitico fornisce i rifornimenti parentali
mancanti, ed appaga i primi bisogni di sviluppo. Per il paziente grave il setting verrebbe in
questo modo a configurarsi come luogo del possibile adattamento, ove trovare se stesso e/o
l’oggetto esterno capace di contenere la sua sofferenza. Anche in musicoterapia è “il luogo del
possibile adattamento”, lo spazio potenzialmente capace di “contenere la sofferenza”, non solo
per i pazienti gravi ma per tutte le tipologie di pazienti.
Il setting musicoterapico, però, diventa il “luogo del possibile adattamento” non in virtù della
restituzione dei “rifornimenti parentali mancanti” o del soddisfacimento dei “primi bisogni di
sviluppo”, ma in quanto spazio aperto ai fenomeni che il paziente mostra nel qui e ora e che
nel qui e ora esprimono significato. Si tratta ancora una volta di leggere le cose guardando le
cose stesse, cioè di operare quella riduzione fenomenologica secondo la quale il terapeuta si
sforza di guardare il paziente per come è, senza farsi condizionare o paralizzare da pregiudizi.
La delimitazione accurata del setting partecipa a quel processo di integrazione spaziale e
temporale dell’individuo che è favorito da, e al contempo consente, una certa chiarezza nel
rapporto tra sé e l’altro, concorrendo significativamente al complesso lavoro sull’unitarietà
della persona.
Entro i confini della stanza di musicoterapia è auspicabile che vi sia uno spazio di libertà
anche per il musicoterapeuta, che lo renda aperto all’originalità: presentandosi spoglio il più
possibile di preconcetti e difese, desideri e aspettative egli, ad esempio, più agevolmente potrà
evitare il senso di impotenza, oppure la rabbia per la mancanza di collaborazione da parte del
83
LA MUSICA E IL DOLORE
paziente, e non correrà il rischio di classificarlo frettolosamente come inadeguato al
trattamento musicoterapico. In questo senso il concetto di setting si dilata e viene a
comprendere anche il musicoterapeuta.
Nel corso di numerose supervisioni sono emerse da parte dei musicoterapeuti difficoltà
“concrete” riguardo al che fare nei singoli casi. Una revisione di questo materiale mi ha
indotto a ritenere che molte di tali difficoltà siano legate non tanto a problemi relativi al
progetto terapeutico quanto a certi aspetti generali della cornice (o setting) all’interno della
quale si inscrive l’intervento.
Per questo mi pare importante ridefinire alcuni fondamenti del setting musicoterapico
cercando di chiarire quali sono le caratteristiche necessarie e sufficienti che trasformano un
ambiente in un setting, al fine di facilitarne l’utilizzo consapevole nei vari ambiti applicativi.
Tre sono le cornici che definiscono il setting musicoterapico: quella spaziale, quella temporale
e quella comportamentale.
In senso fenomenologico, lo spazio è il darsi uno spazio (fisico, psicologico e acustico, come
vedremo), il tempo è il darsi un tempo all’interno della durata della seduta e del trattamento,
mentre la cornice comportamentale riguarda l’insieme di norme e divieti pattuiti tra
musicoterapeuta e paziente.
Il concetto di setting mantiene per me un senso di unitarietà e mi appare al contempo come
una struttura e come un campo.
Struttura è infatti “ordine intrinseco che garantisce a qualsiasi organismo la sua funzione e la
sua conservazione”, ovvero “la stabilità e la funzionalità del tutto” (Galimberti, 1999). Poiché
caratteristica di una struttura è la capacità di modificarsi lentamente nel tempo il setting, in
quanto struttura, sembrerebbe funzionare allo stesso modo, evidenziando e promuovendo nel
tempo dei cambiamenti.
Analogamente, se si guarda al setting come ad un campo, si deve considerare che l’insieme
dei suoi elementi costituisce un continuo che solo arbitrariamente può essere scisso in sezioni,
le quali tutte contengono eventi dinamicamente interconnessi. Ogni evento musicoterapico
posto al suo interno sarebbe così localizzabile da coordinate spaziali, temporali,
comportamentali la cui materia è al contempo di natura fisica, psicologica e sonoro-musicale.
Ogni evento ha senso per come si mostra in sé e in relazione a tutto ciò che gli sta attorno: il
campo è infatti quel “luogo fisico o metaforico in cui compare l’oggetto d’indagine e con il
quale l’ambiente globale, in cui l’oggetto si presenta, costituisce una totalità di fenomeni
coesistenti che interagiscono” (Galimberti, ibidem).
84
LA MUSICA E IL DOLORE
Cornice spaziale
All’interno della cornice spaziale si intrecciano la dimensione fisica, la dimensione
psicologica e quella acustica: come si può vedere, la cornice spaziale è per me un concetto
multidimensionale.
Per aver luogo ed essere costruttiva, una relazione intima come quella che si stabilisce tra
paziente e terapeuta necessita innanzitutto di uno spazio fisico, la stanza di musicoterapia, che
deve essere un luogo definito, riconoscibile, delimitato, costante, con una forte
caratterizzazione architettonica, legato indissolubilmente ad una funzione. Purtroppo il
musicoterapeuta non può sempre disporre di uno spazio esclusivo: a volte, anzi, egli si trova a
dover convertire ad uso musicoterapico un ambiente fortemente caratterizzato in altro senso.
Nel selezionare un ambiente adatto cerca di non essere rigido, ma anche di tener presenti le
necessità basilari del laboratorio.
In caso di multifunzionalità del luogo, diventa assai utile adottare tutti i dispositivi atti a
facilitarne caratterizzazione e delimitazione. Ad esempio, è opportuno che lo strumentario
musicale faccia la sua comparsa nel momento dell’attività, senza restare a far parte dei
materiali esposti come arredamento; può anche essere necessario occultare materiali che
rievochino la consueta funzione del locale (ad esempio materiali per l’espressività manuale o
grafo/pittorica).
Sarebbe opportuno inoltre che lo spazio destinato alla musicoterapia fosse di dimensioni
medie, né costringente né dispersivo, cosicché sia il perimetro murario, come di solito accade
nelle stanze di una casa, a delimitarne chiaramente i confini.
In caso di locali troppo piccoli, converrà essere più oculati del solito nella selezione dello
strumentario e degli arredi; nei locali troppo ampi si potrà invece cercare di delimitare lo
spazio con tappeti, tendaggi, cuscini ecc., e strategiche disposizioni del materiale
musicoterapico.
In generale, gli strumenti verranno distribuiti in modo da favorire un punto di fuoco centrale
ed essere facilmente raggiungibili dagli utenti: se avete la consuetudine di metterli per terra, il
giorno in cui incontrate persone su sedia a rotelle o anziani, ricordatevi di cambiare assetto.
Il setting però non coincide con la stanza di musicoterapia: avere la stanza di musicoterapia
non significa avere il luogo del possibile adattamento se non si è consapevoli che rimane una
stanza vuota fino al momento in cui è riempita da una relazione che si dà uno spazio, un
tempo e un’intenzionalità propri. Cornice spaziale viene ora a significare uno spazio
psicologico, dove la relazione terapeutica entra nel vivo e si sviluppa.
La porta della stanza di musicoterapia può diventare così, nel corso delle sedute, la porta che
85
LA MUSICA E IL DOLORE
si apre ad un universo di volta in volta diverso: un “multi-verso”, un “universo mondo” che è
progettato prima e vissuto poi come luogo aperto a svariate possibilità abitative: l’operatore e
il paziente lo vivono in seduta contenuti entro la sua fisicità che riempiono di movimento
mentale.
“Il mio papà è un tipo tranquillo. […] Ma quando viene la domenica ce ne usciamo dalla
porta di dietro, quella che dà sulla savana. Lasciamo i nostri vestiti sotto un baobab, mentre il sole
africano rende la sua pelle (e la mia) splendente e nera. Nel tronco del baobab sono nascosti i
nostri ornamenti da guerrieri Masai e i coltelli, le frecce, gli archi e le lance. […] Insieme
corriamo veloci nella savana come fanno i Masai. Fiutiamo l’odore delle gazzelle e dei grandi
leoni che sonnecchiano, mentre all’orizzonte sbandano in branchi gli struzzi. […] Quando
tramonta il sole e si vedono le prime stelle m’insegna i sentieri dove camminano gli spiriti. Ma in
quel momento è tardi, dobbiamo rientrare. Ci rimettiamo i nostri vestiti, mentre la sera smorza la
luce e ci fa pallidi di nuovo. Sorridendo, rientriamo in casa dalla porta di dietro; io tengo la mia
26
mano nella sua.” (Mariniello , 2002).
Parafrasando l’estratto della novella, potremmo dire che “quando viene il giorno della
seduta di musicoterapia”, un momento specifico e ricorrente, non importa quanto “tranquilli”
(o invece agitati, depressi, sfiduciati ecc.) siano nella quotidianità musicoterapeuta e paziente:
un processo di cambiamento è attuabile, nel luogo del possibile adattamento che è il setting,
poiché tutto ciò che si agisce e si pensa all’interno di questa cornice accade in virtù della
cornice stessa, di un tempo e di un luogo definiti e delimitati, all’interno dei quali ci si può
(metaforicamente) spogliare dei propri vestiti, indossandone altri o anche stando per un po’
(metaforicamente) nudi. Una volta messo piede nel setting, ogni viaggio diviene possibile:
non si è più solo “tranquilli” ma anche curiosi e “aperti al mondo”, per questo la porta della
stanza di musicoterapia dà su mondi inaspettati e sempre nuovi, se chi la abita nutre quella
fiducia reciproca che permette di tenere la propria mano in quella altrui.
Quando il tempo della seduta finisce, si tornano ad indossare (sempre metaforicamente) i
propri vestiti. Quello del paziente è comunque un andare via “sorridendo”, se egli può portare
via con sé l’interiorizzazione della fiducia e della condivisione, la permanenza della
significatività della relazione, fino alla successiva possibilità di incontro, di viaggio, di
cambiamento.
Entro i confini della stanza di musicoterapia il paziente trova libertà per pensare, sentire ed
esprimere. Se la coppia è una diade (o il gruppo una rete), il percorso terapeutico si sviluppa
nel senso della ricerca di un equilibrio in continua trasformazione, che non rifiuta gli apporti
dell’una o dell’altra parte, ma che continuamente li modula e bilancia.
Lo spazio mentale ed emotivo delle relazioni però è esposto, tanto quanto quello fisico, ad una
serie di minacce: in particolare, esso tende ad essere eroso dalle richieste, più o meno
26
Cecco Mariniello, uno dei più conosciuti illustratori italiani di libri per ragazzi.
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LA MUSICA E IL DOLORE
consapevoli, che reciprocamente ciascuno avanza all’altro. Da ciò la necessità di proteggerlo
dalle pressioni esterne, ma anche da quelle interne (Casement, 1990).
A garantire massima chiarezza e tutela del rapporto terapico rispetto agli individui esterni
(familiari, personale della struttura intermedia, e simili) contribuisce l’incontro regolare di
musicoterapeuta e paziente. Tuttavia, questo assetto non sempre si verifica: può accadere ad
esempio che alcune figure parentali o il personale delle strutture partecipino e/o interferiscano
in maniera accidentale durante le sedute. Ancora una volta mi sembra opportuno fare un
richiamo ad azioni che favoriscano la riconoscibilità, quindi la delimitazione e
caratterizzazione del setting.
Molti trattamenti si avvalgono dell’allargamento dello spazio psicologico ad altre figure. Non
discuterò qui la necessità o meno di tale scelta, ma esorto a riflettere, nella fase progettuale
dell’intervento, sulla opportunità dell’eventuale compresenza di più figure, considerando con
attenzione quanto essa venga a confliggere con l’esigenza di delimitare il campo della
relazione terapeutica. Nel caso in cui si decida, per opportunità terapeutica o per vincoli
istituzionali, di allargare la relazione, è altamente raccomandabile favorire la presenza sempre
dello stesso genitore/insegnante di sostegno/educatore/infermiere, nonché invitare ad una
partecipazione che il meno possibile vincoli e imbrigli l’espressività dell’utente.
Proteggere lo spazio psicologico del setting non significa evitare qualsiasi riferimento alla sua
esistenza nelle ore o nei giorni in cui non si fa musicoterapia: ci sono anzi casi in cui questi
riferimenti si rivelano utili, ad esempio può essere importante rammentare ad utenti anziani
compromessi nell’area della memoria l’appuntamento musicoterapico. Piuttosto non vanno
assecondate inutili ed invadenti curiosità sui particolari del processo in atto.
Per quel che concerne invece la protezione dello spazio psicologico dalle pressioni interne,
occorre essere consapevoli che se non si ha sufficiente cura nel disporre gli opportuni
accorgimenti per riconoscere e disinnescare pregiudizi, posizioni ideologiche ed aspettative, lo
spazio terapeutico e la sua funzione possono venire seriamente compromessi.
Appare chiara anche in questo senso l’importanza, per i musicoterapeuti in formazione, di un
training osservativo, di un’esperienza musicoterapica personale come fruitore, di
addestramento alla stesura dei verbali, alla discussione in équipe, alle interazioni con i
colleghi e della necessità di supervisione (Postacchini et al., 1997).
C’è una terza dimensione, coesistente a quella fisica e psicologica, che partecipa alla
costituzione della cornice spaziale e che si configura come musicoterapicamente originale: si
tratta dello spazio acustico, la cui riconoscibilità è altrettanto auspicabile.
87
LA MUSICA E IL DOLORE
Uno strumentario variegato permette al paziente (o al gruppo di pazienti) di trovare quella
ricchezza timbrica che maggiormente consenta libertà di espressione; al contrario, l’assenza
totale di una famiglia timbrica o di strumenti melodici può costituire grave mutilazione dello
spazio acustico, favorendo la fuga verso altri spazi espressivi oppure una totale inibizione
dell’espressività stessa. Suggerisco comunque di adottare sempre l’idea di intenzionalità nella
scelta dello strumentario. Ad esempio, dopo un’accurata osservazione, si può procedere alla
delimitazione dello spazio timbrico, togliendo quella parte dello strumentario che assuma
valenze discomunicative per il paziente. La sottrazione, specie in itinere, è comunque
un’operazione sempre ricca di delicate implicazioni, per questo anche nel caso di rottura degli
strumenti è spesso utile riparare piuttosto che eliminare.
Altra caratteristica indispensabile allo spazio acustico della terapia è l’intelligibilità: se si
opera in ambienti fortemente riverberanti, si dovranno adottare correttivi fonoassorbenti,
magari empirici come tappeti, tendaggi, e simili.
Infine, è opportuno delimitare lo spazio acustico con un buon isolamento dai suoni esterni, i
quali vengono altrimenti ad invadere il setting, rendendo ad esempio a scuola acusticamente
presenti i compagni o le insegnanti delle classi adiacenti. La trasparenza acustica di certe
pareti ostacola la definizione del setting musicoterapico altrettanto di quanto accadrebbe con
pareti di vetro.
Cornice temporale
La gestione attenta di aspetti temporali, relativi alla singola seduta e all’intero trattamento,
contribuisce in larga parte alla delimitazione di un setting. Come uno spazio dai labili margini
favorisce fughe spaziali, un tempo fluttuante, imprevedibile, non ben delimitato e/o scandito
induce fughe in termini temporali, ostacolando l’essere nel “qui e ora” del paziente. Come
regola generale, si può dire che le sedute individuali durano mediamente 45-50 minuti
ciascuna, quelle gruppali dall’ora alle due ore. Va precisato che il valore medio delle sedute
gruppali è maggiormente variabile di quello riferito ai setting individuali, in quanto fortemente
influenzato dalla tipologia e dal numero dei partecipanti.
Sono ben consapevole che spesso cadenza e durata delle sedute sono pesantemente
condizionate da considerazioni del tutto estranee agli aspetti terapeutici e tecnici della
musicoterapia; vincoli economici e pressioni istituzionali spesso decidono al nostro posto. Ma,
ancor peggio, le pressioni esterne agiscono su di noi (ed in questo senso l’elemento temporale
diventa indicativo di quelle erosioni del setting di cui si diceva più sopra parlando di cornice
88
LA MUSICA E IL DOLORE
psicologica). Ad esempio, un musicoterapeuta alle prese con le prime fasi di trattamento di
una bambina, potrebbe considerare la durata delle sedute come parametro da modulare
progressivamente sui bisogni della propria paziente, ma sentirsi fortemente inibito in questo
dalle aspettative dei genitori, i quali potrebbero pensare (e far pesare) di pagare per 45 minuti
di trattamento (e non di disponibilità del musicoterapeuta) e di aspettarsi una prestazione
musicale corrispondente: non sempre, invece, il tempo effettivo di azione sonora coincide con
il tempo concordato della durata della seduta, specie con pazienti gravemente inibiti nell’area
dell’espressività.
Ancora una volta mi pare fondamentale evitare il più possibile una posizione di tipo
integralista e sforzarsi di operare nella direzione della flessibilità; un lavoro onesto e
professionale è possibile anche in situazioni distanti dall’ideale musicoterapico.
Darsi un tempo non significa unicamente regolamentare i tempi e le fasi della seduta
terapeutica. Il recupero del concetto di intenzionalità che sta dietro all’espressione “darsi un
tempo” porta a riflettere su intere sedute passate nel tentativo di ancorare faticosamente al suo
presente un bambino ipercinetico, o ad altre dedicate alla ricerca del coinvolgimento di una
paziente gravemente depressa nel tentativo di recuperare gli avanzi malcelati della sua
immagine di futuro, o ancora alle ore passate tra storie di paese e canti popolari alla
riesumazione dell’orgoglio di una memoria il cui presente è deficitario ed il cui futuro fugace.
Anche la stabilità della durata dei singoli interventi nel corso del trattamento, non va
perseguita in maniera acritica: esistono alcuni percorsi che traggono il loro maggior beneficio
proprio da un incremento o da un decremento progressivi del tempo della seduta (ad esempio
ciò accade nel trattamento di problematiche relative alla concentrazione). Si consideri invece
il caso di un bambino che vive con la madre una relazione di eccessiva dipendenza: la
diminuzione progressiva del tempo di presenza della madre nella stanza di musicoterapia
viene a corrispondere con l’incremento della libertà del bambino nel “darsi un tempo”.
Si riscontra nella pratica clinica un agire assai variegato rispetto al parametro “tempo”: è
importante che ogni variazione avvenga sulla base di riflessioni consapevoli, proprio al fine di
proteggere il setting dal rischio dell’apertura di brecce che sarebbero poi difficili da riparare.
Si usa solitamente suddividere la seduta musicoterapica in tre momenti: accoglienza del
paziente nel clima musicale, elaborazione del materiale emergente e conclusione
dell’incontro. Si tratta di fasi solo sulla carta ben scandite nel tempo; più spesso ciò che si
verifica è un fluido passaggio dall’una all’altra, anzi può accadere talvolta di calibrare sulle
89
LA MUSICA E IL DOLORE
esigenze del paziente la loro scansione, o decidere di renderla meno precisamente
caratterizzata.
Un’altra questione di notevole rilievo per una buona delimitazione del setting riguarda la
cadenza delle sedute. In linea di massima, il musicoterapeuta dovrebbe indicare un valore
ottimale nella formulazione di un progetto d’intervento, difendendosi il più possibile da
aspettative e pressioni della committenza che non abbiano fondamento nel significato
terapeutico del setting.
Perché il musicoterapeuta possa isolare il “qui e ora” del paziente e della relazione che con
questi si va intessendo, è necessario che la cadenza delle sedute garantisca l’interferenza
minima possibile sul cambiamento da parte di eventi estranei al contesto, che cioè la latenza
tra una seduta e l’altra non venga a “sporcare” la lettura del processo di cambiamento in corso,
mascherando o annullando le evidenze ad esso legate. Un’eccessiva diluizione temporale
(meno di due incontri settimanali) è assai poco indicata per pazienti molto gravi, per i quali i
fenomeni non permangono a lungo nella coscienza. Per i gruppi, invece, nella maggior parte
dei casi è sufficiente una cadenza settimanale delle sedute. Un caso definito dalla committenza
come “caso di emergenza” potrebbe essere utilmente differito di qualche tempo, se ci fossero
alle porte le ferie del terapeuta, proprio perché ogni sospensione del trattamento, seppur
temporanea, viene ad interferire non solo con il materiale già acquisito ma anche e soprattutto
con la disposizione interiore ed esteriore dell’utente rispetto a nuove acquisizioni.
Altrettanto importante riguardo alla cornice temporale è il tempo del trattamento nel suo
complesso.
Ci sono casi in cui è possibile progettare interventi di lunga durata, a causa della complessità
degli obiettivi: alcune precauzioni possono anche in questo caso favorire la percezione dei
confini. L’inizio del trattamento, ad esempio, andrà pianificato in un periodo nel quale sia
possibile garantire, da ambo le parti, una buona continuità; le sospensioni per ferie andranno
annunciate con anticipo e comunque, soprattutto nei casi con più grave compromissione delle
facoltà psichiche, non dovranno essere troppo lunghe; la fine del trattamento andrà preparata
con largo anticipo, annunciandola, riepilogando le fasi più significative della relazione
terapeutica, incrementando l’autonomia e il distanziamento, ed evitando l’apertura di nuovi
filoni musicali. Le comunicazioni relative alla durata del trattamento oscillano
necessariamente tra dire e non dire: non ha senso allarmare un paziente che si mostra
entusiasta del trattamento, alla prima seduta, con una comunicazione frustrante del tipo:
90
LA MUSICA E IL DOLORE
“Il trattamento sarà purtroppo per noi molto breve”.
Ciò non significa però che si debbano alimentare illusioni:
“Non ti preoccupare, sarò sempre qui per te!”
Ha senso invece comunicare assai per tempo la fine del trattamento ad un soggetto che si
mostra assai dipendente ed imitativo rispetto all’operatore, magari facendo sì che la
comunicazione del termine dell’intervento si trasformi in uno stimolo per il percorso di
adattamento espressivo del paziente.
Ci sono altri casi in cui il tempo del trattamento è determinato a priori dalla committenza:
sarà necessario riformulare gli obiettivi in base a tempo e cadenza che ci sono concessi.
Cornice comportamentale
Per una buona perimetrazione del setting, ritengo indispensabile all’interno delle sedute anche
una cornice comportamentale, che favorisca la chiarezza nel processo di adattamento del
paziente e la possibilità del musicoterapeuta di lavorare serenamente. Si tratta di un accordo,
un patto stipulato tra paziente (o gruppo di pazienti) e musicoterapeuta intorno a norme e
divieti.
In primo luogo, nel setting musicoterapico va costruita la possibilità di applicare una sorta di
regola fondamentale della musicoterapia: il paziente accetta di essere completamente
spontaneo con il musicoterapeuta e quest’ultimo agisce e reagisce subitaneamente accogliendo
tutte le proposte dell’utente come legittime. Tutto ciò che passa per la testa del paziente, se
nella seduta psicoanalitica è detto per libera associazione, in quella musicoterapica diviene
oggetto sonoro del “qui e ora”, improvvisazione musicale contenuta e protetta all’interno del
setting.
Fondamentale risulta poi il divieto di violenza, che permette al paziente la concentrazione
intorno al sentirsi e al pensarsi senza che l’azione sfugga dall’ambito sonoro e sconfini in un
agito psicomotorio estraneo al contesto. Al contempo, il musicoterapeuta può pensare al
paziente e alla relazione che con lui costruisce senza temere aggressioni e lesioni. Gli
strumenti musicali non sono quindi delle armi da impugnare violentemente bensì occasioni
91
LA MUSICA E IL DOLORE
sonore per esprimersi entro una cornice di libertà non violenta che consente anche
l’espressione di sentimenti d’impeto e tumulto.
C’è un ultimo aspetto che mi pare di rilievo al fine di ottenere uno spazio relazionale
affidabile: quello etico.
Il libero consenso del paziente (o di chi lo rappresenta legalmente) ad obiettivi, mezzi e
tecniche del trattamento musicoterapico, costituisce un livello generale di definizione del
rapporto, una sorta di requisito preliminare ed irrinunciabile per l’intervento.
Inoltre, il musicoterapeuta si impegna a non operare discriminazioni sociali o razziali nella
presa in carico del paziente, ad esercitare al meglio la sua competenza professionale e favorire
il rapporto solo finché questo sia necessario, senza speculare sul disagio imponendo una
durata del trattamento che vada oltre il dovuto.
Il setting andrà garantito anche in termini di riservatezza: non sarebbe infatti ben delimitato se
da esso uscissero cose private, quasi avesse pareti eticamente permeabili. La privacy può
essere minata anche da eventi esterni alla stanza di musicoterapia: ad una madre che dopo aver
atteso il figlio in trattamento musicoterapico sommerge di domande il musicoterapeuta, può
risultare opportuno non disvelare alcune parti intime della relazione, qualunque sia l’urgenza
ansiosa che muove la signora. Analoga attenzione sarà opportuno attuare nei confronti di tutte
quelle sollecitazioni a violare la riservatezza che derivano da altri operatori o da interlocutori
istituzionali. Anche all’interno delle discussioni di équipe, sarà opportuno comunicare
solamente le informazioni strettamente necessarie, onde evitare inutili violazioni dell’intimità
terapeutica.
Sempre in tema di riservatezza, ricordo che alcuni professionisti considerano il videotape uno
strumento di grande utilità all’interno del lavoro musicoterapico; tuttavia, anche rispetto
all’impiego di questa ed altre apparecchiature per la registrazione, occorrerà disporre attente
cautele di tipo etico e giuridico. In primo luogo, va ricordata la necessità di procurarsi un
consenso informato al semplice utilizzo di simili strumenti. In secondo luogo, qualora si
ritenga necessario portare fuori dal setting materiale videoregistrato, oltre all’autorizzazione
da parte degli utenti, sarà comunque opportuna una attenta valutazione da parte del
professionista circa le ripercussioni che un simile utilizzo potrebbe avere sull’intimità e sulla
fiducia interne alla relazione. Parimenti, considero necessario rendere non riconoscibili i
pazienti in caso di pubblicazioni scientifiche.
Infine, proteggere il setting non può significare omertà: il musicoterapeuta che nell’esercizio
della sua professione venisse a conoscenza di situazioni oggettive di sfruttamento e di
92
LA MUSICA E IL DOLORE
violenza su minori e disabili, deve contrastarle, anche quando le persone appaiono
consenzienti.
2c.1.2 COGLIERE MUSICALITÁ
Cosa osservare, come osservare, quale uso fare di quanto osservato?
Nella osservazione in musicoterapia una delle prime difficoltà è direttamente collegata al
grande numero di eventi che accadono nell'unità di tempo. L'illusione di cogliere tutto
compare assai frequentemente, ma ben presto i conduttori sperimentano l’impossibilità
oggettiva di farlo; per questa stessa ragione avanza talvolta l’idea di affidare il compito
osservativo ad una telecamera, tuttavia questa soluzione, oltre a presentare i limiti dovuti alla
fissità del mezzo, che vengono soprattutto indicati in una certa insensibilità ai dati emotivi,
rinvia semplicemente la selezione dei dati al momento della revisione del materiale, che in
questo modo risulta essere oltremodo dispendiosa. Si è inoltre evidenziato il rischio che i
conduttori effettuino, più o meno consapevolmente, una selezione dei dati finalizzata alla
conferma delle proprie aspettative.
La peculiarità comunicativa dell’intervento musicoterapico rende prioritario l’ascolto, la
raccolta di elementi espressivi.
Tuttavia, la valorizzazione di tutti gli aspetti non verbali, extra verbali e para verbali, tipica
risorsa di questo approccio, può rendere molto complessa la percezione, la comprensione ed il
ricordo di una moltitudine di stimoli sensoriali ai quali si viene esposti nel corso di ogni
seduta.
Da ciò scaturisce la necessità di dotarsi di strumenti atti a facilitare la categorizzazione del
materiale.
Penso che gli elementi di maggior rilievo debbano essere in vario modo ripresi nell’incontro
successivo, al fine di alimentare la pur flebile continuità di un discorso terapeutico
riabilitativo.
La modalità del raccordo tra una seduta e l’altra, nella prima parte dell’incontro, è soggetta a
notevoli variazioni a seconda della gravità del paziente: nei casi in cui è possibile, c’è un
recupero verbale delle cose più significative della seduta precedente; più spesso ciò non
accade, per cui si effettua una sorta di “verbale sonoro” dell’incontro precedente, utilizzando
quel timbro, quella linea melodica, o quel frammento ritmico sul quale si era aperto un dialogo
sonoro nel corso dell’ultima seduta. Nella seconda parte, che distinguo per chiarezza
espositiva, l’improvvisazione occupa la maggior parte del tempo; può talvolta, tuttavia, essere
93
LA MUSICA E IL DOLORE
annunciata da una consegna, il cui contenuto è l’invito ad una relazione con il terapeuta
attraverso l’uso del mediatore sonoro e la cui formulazione varia sensibilmente a seconda
delle possibilità di comprensione del paziente.
Ulteriore centro d’interesse si è rivelato essere il “verbale” redatto dai conduttori, assieme
alla discussione che generalmente di questo viene fatta.
Alcuni verbali vengono scritti da uno solo dei conduttori, deputato fin dalla divisione dei
compiti al ruolo di osservatore, altri riportano distinte osservazioni per ognuno di questi, altri
ancora sono praticamente scritti a quattro mani, ossia conseguenti a discussione. Ovviamente,
da ciascun tipo di verbale traspare chiaramente quale rapporto ci sia tra i conduttori e questo
può talvolta condizionare pesantemente l’uso che il gruppo o il singolo utente può fare di
questo strumento; in questo modo, prima ancora che per i contenuti, già dalla forma si arriva
ad interrogarsi circa la funzione alla quale un verbale deve assolvere. In sostanza i protocolli
analizzati hanno rivelato alcuni scopi ai quali vengono asserviti, con maggior o minor
consapevolezza dei loro redattori; quelli che emergono con maggior frequenza e che si
possono presentare sia in forma distinta che associata sono:
1) il convincimento: i conduttori usano il verbale per spiegare qualcosa al gruppo, per
convincerlo della positività dell’esperienza o per indicarne le forme espressive “ottimali”;
2) la giustificazione degli atti e delle parole dei conduttori stessi, particolarmente se
contestati;
3) il raccordo con l’incontro precedente. All’interno dei verbali trovano spazio la descrizione
degli eventi salienti, le verbalizzazioni del gruppo e talvolta alcuni commenti dei
conduttori; mi è accaduto spesso di riscontrare un elevato grado di permeabilità delle
descrizioni alle interpretazioni, la qual cosa ostacola il gruppo nel processo di
riconoscimento della propria storia. Comunque, troppo spesso nella mia esperienza, i
verbali sono parole di parole: non c’è musica, non c’è musicalità.
La cosa che più ha attratto la mia riflessione riguarda la peculiarità dell’osservare
musicoterapico, ciò che lo distingue da altre forme di terapia: l’osservazione durante l’azione.
Se in ambito psicodinamico è stata descritta la necessità di sviluppare una sorta di visione
binoculare, intendendo con ciò l’esigenza di rivolgere al contempo lo sguardo alla relazione
transferale e al moto controtransferale, ancor più in ambito musicoterapico sarà opportuno
addestrarsi alla consapevolezza delle retroazioni istantanee e sviluppare ciò che per vezzo
linguistico amo da tempo denominare “ascolto biaurale”. Ogni nota, ogni silenzio sollecitano
94
LA MUSICA E IL DOLORE
ad altre note, ad altri spostamenti, non tutti così programmaticamente terapeutici, ma più
spesso prossimi all’ambito dell’agito afinalistico, quando non a quello delle sonorità saturanti.
Ascoltare ed ancora ascoltare. Ascoltare i suoni dell’utente ed ascoltare i suoni che si sentono
crescere in sé. Ascoltare, prima di rispondere. Ciò non esclude talvolta la necessità di
rispondere tempestivamente, di cogliere lo stimolo al volo, ma questa mi pare assai meno
trascurata della capacità di creare un ampio spazio acustico, all’interno del quale l’utente
possa lanciare e se necessario ribadire fino a strillare la propria Identità Sonora (ISO).
A questo punto il discorso intorno all’osservazione, al non visto, allo stravisto, al vedere e
all’essere visionari, intorno a filtri, occhiali, orecchie tappate, oggettività ed intersoggettività,
viene rimandato al capitolo sulla supervisione, dove queste tematiche troveranno apposita
trattazione, poiché l’ambito loro congeniale pare proprio essere quello del ripensamento.
2c.1.3 I CONTESTI
Il concetto di musicoterapia è ampio, ha implicazioni molto vaste, si riferisce ad ambiti
operativi profondamente differenziati tra loro. Ciò che tuttavia accomuna chiunque operi nel
campo musicoterapico è la tensione a cercare, se già c’è, o altrimenti a favorire un’armonia
interna della persona sintonizzandosi ad essa, per consentire che una qualche forma di
relazione possa instaurarsi.
Quando si parla di musicoterapia ci si riferisce non solo alla terapia in senso stretto, bensì
anche ad altre attività, come la riabilitazione, la prevenzione, l’integrazione, l’educazione, e
così via. A questo ampio spettro di competenze corrisponde un repertorio di figure
professionali altrettanto nutrito: terapeuti, riabilitatori, educatori ed insegnanti. Sono figure
professionali diverse, hanno curricola formativi completamente distinti, operano in condizioni
e contesti diversificati.
Ma chi è il musicoterapeuta?
Gli insegnanti restano insegnanti, anche quando si avvalgono di competenze d’ispirazione
psicologica e parimenti gli psicoterapeuti ed i riabilitatori mantengono la propria identità
professionale, anche nel caso che utilizzino un brano musicale all’interno del loro setting. Ma
quegli operatori che si occupano di musicoterapia spesso con pazienti gravi, che operano in
strutture sanitarie (pubbliche o private), terapeutiche, riabilitative, assistenziali, che
collaborano alla formulazione di un progetto terapeutico/riabilitativo all’interno di una équipe
multidisciplinare, che provengono da un rigoroso percorso formativo, ebbene quegli operatori
sono musicoterapeuti.
95
LA MUSICA E IL DOLORE
Ritengo che la musicoterapia come termine ombrello, il quale finisce per coprire le attività più
diverse fra loro, sarebbe un fenomeno infinitamente meno rilevante se qualsiasi attività che
utilizza il parametro musicale, sia in ambito educativo che in ambito riabilitativo-terapeutico,
accettasse di sottostare ad alcune elementari regole di chiarificazione metodologica e
comunicativa, dichiarando e specificando preventivamente:
a) i contesti operativi, e le loro relative finalità istituzionali in cui si intende operare;
b) perché si sia deciso, in tali contesti e di fronte a quali situazioni, di utilizzare quella
specifica forma terapeutica definita musicoterapia;
c) chi è responsabile del progetto, qual è il progetto e quali ne sono gli obiettivi;
d) i presupposti teorici che vengono usati per giustificare il proprio indirizzo
progettuale e per interpretare, analizzare e valutare i dati esperienziali;
e) le modalità di valutazione, sia istituzionale che del gruppo di lavoro, dei risultati
ottenuti e non ottenuti;
f) chi e come supervisiona l’intera attività.
96
LA MUSICA E IL DOLORE
Capitolo III: la musica e il dolore
3.1 LA MUSICOTERAPIA APPLICATA AL PAZIENTE CON
DOLORE CRONICO
La musica come intervento terapeutico è nata nei primi anni del novecento degli Stati Uniti,
ma ha avuto il suo maggiore sviluppo a partire dai primi anni ’50. Inizialmente veniva usata
nella cura del dolore causato da ferite, ma negli ultimi anni venti anni l’uso della musica,
considerata come un intervento, è aumentata, fino a diventare una crescente ed interessante
terapia complementare. La musicoterapia è stata usata per pazienti di tutte l’età, dai neonati, ai
bambini, dagli adulti agli anziani. Il suo impiego comprende tantissime cure specialistiche
come terapie intensive e rianimazioni, terapie intensive cardiologiche, oncologia, nell’ambito
materno e ginecologico, in geriatria e nelle cure palliative. Ha trovato anche uno spazio
considerevole in sala operatoria, sia nel pre-operatorio, sia intra-operatorio e sia nel postoperatorio. La musicoterapia è usata anche in unione ad altre attività come programmi di
educazione e video messaggi rilassanti.
Sono presenti parecchie ricerche inerenti a questo argomento, perché il dolore, come ho già
detto, è una patologia debilitante che colpisce migliaia di persone in tutto il mondo, che fa
spendere centinai di migliaia di dollari l’anno ogni stato e, soprattutto, costringe i pazienti a
diventare dipendenti ai farmaci antidolorifici e ad assumerli in dosi sempre maggiori.
I primi documenti che associano la musicoterapia al trattamento del dolore cronico risalgono
agli Stati Uniti durante la due guerre mondiali dove curavano i veterani che avevano riportato
traumi e ferita. Gli individui ospedalizzati si cimentarono, attivamente (ossia suonando degli
strumenti) oppure passivamente (cioè ascoltando), durante le attività musicatali, che
attenuavano la percezione del dolore. Numerosi medici ed infermieri testimoniarono gli effetti
vantaggiosi che la musica riproduce, e nel 1944 alla Michigan State University venne
inaugurato il primo corso di laurea in Terapia della musica.
In uno studio effettuato, e pubblicato nel luglio del 200327, dal Professore Ruth McCaffrey
(Assistente Professore alla Florida Atlantic University College of Nursing) e dal Professore
Edward Freeman (Professore alla Florida International University) riguardante l’efficacia
27
Pubblicato sulla rivista “Journal of Advenced Nursing” il 16 luglio del 2003, autori Professore Ruth
McCaffrey e Professore Edward Freeman.
97
LA MUSICA E IL DOLORE
della musicoterapia nei pazienti anziani ed affetti da osteoatrite. Presero un campione di 66
persone, tutte aventi circa 65 anni di diagnosi di osteoatrite; formarono due gruppi da 33
persona ciascuno. In ogni gruppo erano presenti 22 donne e 11 uomini28 di età compresa tra i
58 e i 76 anni per il gruppo di esperimento, mentre per il gruppo si controllo erano sempre 22
donne e 11 uomini, ma con un età compresa tra i 61 ed i 75 anni. Al primo gruppo è stata fatta
ascoltare della musica29 per 20 minuti al giorno, dopo circa un’ora dalla toilette del mattino,
per 14 giorni, e dopo 1,7 e 14 giorni gli è stato chiesto di complicare un questionario inerente
alla percezione e sensazione dolorosa. Al gruppo di controllo, invece, è stato mantenuto in
silenzio per 20 minuti al giorno, dopo circa un’ora dalla toilette del mattino, per 14 giorni, e
dopo 1,7 e 14 giorni gli è stato chiesto di compilate un questionario inerente alla percezione e
sensazione dolorosa. Il risultato fu che nel primo gruppo il dolore si era notevolmente ridotto,
e che comparato al secondo gruppo, la percezione dolorosa era più lenta a ritornare, mentre
nel secondo gruppo il dolore è rimasto pressoché invariato.
Una ricerca uscita sul “ONF”30 nel settembre del 2003, scritta dalla dottoressa Kristine L.
Kwekkebook, prende in considerazione la musica e una fonte distraete (una libro registrato)
nei pazienti affetti da cancro e sottoposti ad procedure mediche invasive. Per rendere più
veritiero possibile lo studio, gli interventi sono stati resi più uguali possibile, sempre entro
certi limiti, eliminando cioè tutte quelle piccole differenze personali che ogni medico
possiede. Sono stati presi 58 pazienti, di età media di 53 anni, affetti da cancro e sottoposti ad
procedure mediche invasiva, come biopsia di tessuti, e sono stati divisi in tre gruppi. Il primo
gruppo, avente 24 pazienti, comprendeva nell’ascolto di musica durante le procedure, il
secondo gruppo, di 14 persone, comprendeva una distrazione durante questi interventi mentre
l’ultimo raggruppamento, di 20 pazienti, era considerato come gruppo di controllo. Il primo
gruppo è stato invitato a scegliere la musica da un catalogo offerto dalla ricercatrice, il
secondo, invece, hanno scelto un libro registrato da una raccolta, mentre l’ultimo gruppo è
rimasto in silenzio durante le procedure. La musica e il libro registrato sono stati fatti ascoltare
prima, durante e dopo l’intervento. I risultati sono che non c’è tanta differenza tra l’ascoltare
musica o un fattore distraete prima durante e dopo la procedura; il dolore e l’ansia sono
diminuite rispetto al campione guida mentre tra i due gruppi di studio la percezione della
sensazione dolorosa, durante l’intervento, non ha mostrato grandissime differenze, ansia,
invece, si è dimostrata leggermente inferiore in chi ascoltava musica.
28
La diffusione di questa malattia tra i sessi è di 2:1 per le donne, di conseguenza, per rendere più veritiero
possibile l’esperimento hanno dovuto considerare un valore doppio delle donne rispetto agli uomini.
29
La musica scelta fu quella Mozart, e più precisamente, Andantino da concerto per flauto e arpa, Le nozze di
Figaro e la Sinfonia N.40.
30
L’articolo apparso sul “ONF” risale al 4 settembre del 2003 ed e stato scritto da Kristine L. Kwekkebook
98
LA MUSICA E IL DOLORE
Sul “Journal of
Nursing Care Quality”31 del 2003 è apparso un articolo che attestava
l’efficacia della musicoterapia in ambito oncologico. I pazienti e i loro familiari sottoposti a
questo trattamento hanno avuto un beneficio, non solo dal punto di vista del dolore,
riducendolo, ma anche dal punto di vista psicologico e emozionale riducendo l’ansia, lo stress
e la depressione. I risultati sono stati talmente grandiosi che, questa terapia è stata inserita
nelle cure consigliate del Medicine Service at Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di
New York.
Una ricerca fatta in Germania e pubblicata nel dicembre del 2005 sul “Annals of the New
York Academy of Sciences”32 dimostra come la musicoterapia, in appoggio ad una adeguata
terapia farmacologia, possa sia migliorare il dolore sia il suo ritorno. Sono stati presi 40
pazienti affetti da dolore cronico e suddivisi in due gruppi. Il primo gruppo di 21 persone, ed
una età media di 53 anni, hanno ricevuto, in aggiunta alla loro terapia farmacologia, anche la
musicoterapia, mentre il secondo gruppo, di 19 pazienti, ed un età media di 52 anni, gli è stato
somministrata solo la terapia farmacologia. Dopo una settimana sono stati sottoposti a delle
domande per quantificare la loro sensazione dolorosa. Nel primo gruppo il 71% dei pazienti
ha ricevuto un miglioramento significativo da questa terapia mentre nel secondo
raggruppamento solo il 35% delle persona ha ottenuto una diminuzione del dolore, inoltre le
persone del primo gruppo hanno ottenuto una stabilizzazione migliore del dolore ed un ritorno
più lento.
Sulla rivista “International Nursing Review” nel 2006 è apparso un articolo, intitolato La
musica come intervento contro il dolore in cinque Paesi Asiatici, scritto da P. H. Lim33 e da
R. Locsin34, che raccoglieva nove distinti studi, fatti in Cina, Filippine, Corea del Sud,
Tailandia e Taiwan, sugli effetti curativi della musicoterapia sul dolore. I criteri usati per
raggruppare gli studi sono stati, l’età dei pazienti (dai bambini agli anziani),
l’ospedalizzazione dei pazienti e non, i tipi di musica usati (suoni naturali, voci, musica
registrata o dal vivo, con o senza lirica), gli studi sia pubblicati sia i non e gli articoli recensiti.
L’origine delle nove ricerche sono, quattro dalla Tailandia, due dalle Filippine, ed una da
Taiwan, Corea del Sud e Cina. Sette dei nove studi hanno utilizzato un metodo di ricerca
sperimentale, uno studio, invece, ha usato un metodo quasi sperimentale mentre l’ultimo ha
usato uno studio pilotato. Il metodo di ricerca sperimentale si basa su tre tipi di ricerca
31
Journal of Nursing Care Quality è un trimensile. L’articolo in questione risale al trimestre gennaio-marzo del
2003 ed è stato scritto dal Simone B. Zappa e da Barrie R. Cassileth.
32
L’articolo compare alla pagina n°283 del suddetto gionale
33
P. H. Lim è professore nella facoltà d’Infermieristica all’ Università Principe di Songkla ad Hat Yai, Songkla,
Tailandia.
34
R. Locsin è professore nel Christine E. Lynn Nursing College, Università della Florida, Boca Raton, Florida
USA.
99
LA MUSICA E IL DOLORE
differenti. Nella prima ricerca sono stati presi 38 pazienti post-operati e divisi in due gruppi,
uno di controllo, l’altro sottoposto a musicoterapia. I risultati sono stati molto positivi, si è
notato una notevole interazione tra il tempo di ascolto e la riduzione del dolore; i pazienti del
gruppo sottoposto a musicoterapia hanno manifestato molto meno dolore rispetto ai colleghi
del gruppo di controllo. La seconda ricerca ha esaminato 169 soggetti, affetti da dolore
cronico, e suddivisi in due gruppi, il primo (di 86 pazienti) sottoposto a musicoterapia, il
secondo (di 83 pazienti) basato sulle cure farmacologiche. Il sollievo dal dolore è stato
migliore nei pazienti sottoposti a musicoterapia piuttosto a quelli sottoposti a cure
farmacologiche, anzi nei soggetti del primo gruppo è stato riscontrato anche un abbassamento
delle pressione sanguigna e della frequenza cardiaca. La terza ricerca esamina gli effetti della
musica sul dolore da travaglio in un campione di 110 donne tailandesi. Sono state divise in
due gruppi, il primo di 55 donne è stata sottoposta a musica mentre il secondo gruppo è stato
considerato come gruppo di controllo. Il dolore è stato misurato prima dei trattamenti, ed ogni
ora di studio per le tre ore successive. Le donne del primo gruppo hanno riscontrato un dolore
minore rispetto a quelle del secondo gruppo ed un parto “più sereno e tranquillo”.
Lo studio quasi sperimentale si basava sugli effetti della musica durante la fase del travaglio.
Le pazienti, di nazionalità cinese, sono state assegnate casualmente o al gruppo di controllo o
a quello della musica.
Nello studio pilotato la musica è stata usata in alternativa alla terapia farmacologia nei
pazienti sottoposti ad intervento chirurgico.
Alla fine sei dei nove studi presi in considerazione hanno stabilito che la musicoterapia
apporta un sollievo nel trattamento del dolore (anche quello cronico) nonché un beneficio a
livello fisiologico, abbassando la pressione sanguigna e migliorando l’umore dei pazienti,
mentre i restanti tre hanno avuto un esito misto che non prova, ma nemmeno confuta, gli
effetti di alleviamento della musica sul dolore.
Uno studio pubblicato sulla rivista “Journal of Advanced Nursing”35, del maggio 2006,
dimostra come la musica può lenire il dolore cronico. Lo studio è stato condotto da Sandra
Siedlecki, della Cleveland Clinic Foundation, e dai suoi collaboratori; al trial hanno
partecipato sessanta volontari di età media intorno ai 50 anni con esperienza di dolore cronico
legata soprattutto a patologie quali l’osteoartrite e l’artrite reumatoide.
I volontari sono stati divisi in due gruppi uno dei quali ha ascoltato, per sei mesi, musica
almeno per un’ora al giorno. Il tipo di musica è stata scelta dagli stessi pazienti a seconda dei
loro gusti e la maggior parte di loro ha prediletto la musica melodica.
35
Notizia Ansa di venerdì 26 maggio 2006
100
LA MUSICA E IL DOLORE
Secondo quanto emerso dalle interviste fatte ai volontari circa la percezione del dolore risulta
che il gruppo che ha inserito la musica nella pratica quotidiana ne ha tratto beneficio in
termini di percezione del dolore, ma non solo, secondo i ricercatori l’ascolto della musica
produce piacere e forse effetti benefici sulla salute perché induce una alternanza controllata tra
eccitazione e rilassamento. Un’appropriata selezione di brani musicali, composta di brani
veloci e lenti intervallati da pause, potrebbe essere utilizzata come trattamento per indurre il
rilassamento e avere effetti benefici nell’ambito della terapia delle patologie cardiovascolari.
La dottoressa Siedlecki ha dichiarato che “i partecipanti allo studio hanno dichiarato di aver
tratto beneficio dall’ascolto della musica non solo nell’umore ma anche nella percezione del
dolore. Per molti di loro essersi leggermente affrancati dal dolore cronico ha significato
riprendere una vita normale che prima avevano abbandonato”.
Nonostante ci siano parecchi studi che attestano l’efficacia della musicoterapia sul dolore
(soprattutto quello cronico), riducendolo, in alcuni casi annullarlo, e ritardando anche la sua
ricomparsa, molti scienziati, e soprattutto medici, sono ancora molto scettici sull’argomento,
ritenendolo solo un placebo di scarso interesse medico.
Dato che la maggior parte degli studi che ho ricercato sono stati presi da giornali o riviste di
origine infermieristica perché non considerarla anche in Italia una pratica infermieristica?
Per me la musicoterapia può entrare a far parte delle pratiche infermieristiche perché:
non è un farmaco, quindi non entra a far parte di tutta la legislatura dei farmaci, non da
controindicazioni, non ha bisogno di una prescrizione medica, la prescrizione la può fare
anche l’infermiere stesso, non è una procedura invasiva e in ultimo non richiede nessuna
abilità manuale specifica, ma solo di una conoscenza a livello teorico. In più, negli Stati Uniti,
la musicoterapia è considerata già una pratica infermieristica da circa vent’anni.
101
LA MUSICA E IL DOLORE
Conclusioni
Il dolore cronico è una delle patologie più debilitanti al mondo, è l’anticamera di tante
malattie psichiatriche, tra le quali la depressione e l’ansia e purtroppo non sempre i farmaci
analgesici danno i frutti sperati, causando solo dipendenza e resistenza. È una spesa
economica pesante e gravosa, sui bilanci degli Stati Europei, che spendono ogni anno miliardi
di dollari per fronteggiare questa malattia.
La musicoterapia è una tecnica di cura innovativa, per il vecchio continente, che consentirebbe
agli Stati di risparmiare parecchie migliaia di dollari l’anno, ma ancora più importante,
consentirebbe a molte persone di riavere uno stile di vita normale e di riacquistare rapporti
affettivi sociali e lavorativi e di disintossicarsi dai farmaci. Il problema più grosso è che molti
medici ignorano questa tecnica, non la considerano in maniera adeguata, ma hanno dei
pregiudizi, dettati principalmente dalla non conoscenza, venendo considerata erroneamente un
placebo.
Negli Stati Uniti è stata riconosciuta come terapia mutuabile da più di vent’anni ed è stata
riconosciuta anche come terapia alternativa ai farmaci.
Sono stati effettuati numerosi studi, a partire dai primi anni ottanta, con questa domanda “la
musicoterapia ha effetti sul dolore cronico?”. Moltissimi studi36 hanno dimostrato gli effetti
positivi della musica sul dolore, riducendolo e in alcuni casi eliminandolo, favorendo la
guarigione dalla depressione, causata dal dolore, ed avere effetti benefici anche sul sistema
cardiocircolatorio.
Alcuni scienziati considerano solo una piccola parte di questi studi, ossia quelli che hanno
ottenuto risulti mediocri, dicendo che gli studi sono pochi e che quelli che ci sono non sono
molto incoraggianti.
Purtroppo finché la si pensa così, la musicoterapia non avrà molta strada e verrà archiviata
come placebo; gli studi inerenti, come ho già detto, sono tantissimi e dimostrano gli effetti
benefici sul dolore, speriamo che in un futuro prossimo si cambi idea e che la musicoterapia
possa fare strada in questo ambito.
36
Ci sono centinaia e centinaia di studi, io ne ho riportati solo alcuni, quelli secondo me, che meglio
rispondevano alla domanda precedentemente fatta. Per vedere gli studi andare al Cap. 3°.
102
LA MUSICA E IL DOLORE
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