LAVORO (RAPPORTO) Dimissioni OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Incapacità Riferimenti Normativi CC Art. 428 CC Art. 2697 La Corte Suprema di Cassazione Sezione Lavoro Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Stefano CICIRETTI - Presidente Dott. Pietro CUOCO - Consigliere Dott. Luciano VIGOLO - rel. Consigliere Dott. Attilio CELENTANO - Consigliere Dott. Paolo STILE - Consigliere ha pronunciato la seguente: Sentenza Sul ricorso proposto da: P.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIA S. COSTANZA 27, presso lo studio dell'avvocato ARMANDO MONTEMARANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANDREA SOLFANELLI, giusta delega in atti; - ricorrente contro B. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio dell'avvocato RENATO SCOGNAMIGLIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale atto notar MARIO LIGUORI di ROMA DEL 5 novembre 2001, rep. 126774; - resistente con procura avverso la sent. n. 37753/00 del Tribunale di ROMA, depositata il 28 novembre 2000 R.G.N. 54855/95; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26 novembre 2003 dal Consigliere Dott. Luciano VIGOLO; udito l'Avvocato PERDINANDO MENETTI per delega ARMANDO MONTEMARANO; udito l'Avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO per delega RENATO SCOGNAMIGLIO; udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NAPOLETANO Giuseppe che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione. Svolgimento del processo Con atto 14 novembre 1994, il sig. F.P. ricorreva al Pretore di Roma nei confronti della B. s.p.a. chiedendo che fosse dichiarata l'inefficacia delle dimissioni rassegnate alla stessa il 6 aprile 1990 e accettate dalla Banca il 28 maggio 1990 (v. anche atto di appello), in condizioni di assoluta incapacità di intendere e di volere e che fosse ordinata la propria reintegrazione nel posto di lavoro con attribuzione di un equo indennizzo per le mancate retribuzioni nel periodo intermedio. Con sentenza in data 27 marzo 1995, il Pretore rigettava la domanda e il Tribunale di Roma, con sentenza 17 novembre 1999 /28 novembre 2000, rigettava l'appello del lavoratore. Per la cassazione di questa sentenza ricorre F.P. con tre motivi. Resiste la B. con controricorso, memoria e osservazioni scritte, rispettivamente, ex art. 378 c.p.c. e art. 379 c.p.c. Motivi della decisione Col primo motivo, il ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione, laddove il Tribunale ha, da un lato, dato credito alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio, che aveva ritenuto probabile la presenza dei disturbi sopra indicati anche al tempo della sottoscrizione delle dimissioni, talché "la capacità di intendere e di volere era scemata, essa era agite sotto l'Influenza della fase prevalente del momento, che in ogni caso impediva una valutazione critica obiettiva della realtà e delle eventuali conseguenze"; e, d'altro lato, il giudice di appello aveva poi ritenuto non sussistente l'incapacità all'atto delle dimissioni. Col secondo motivo, deducendo la violazione dell'art. 428 c.c., il lavoratore si duole che il Tribunale abbia rigettato l'appello non essendovi certezza che all'atto delle dimissioni egli versasse in stato di incapacità naturale totale. Per contro, la giurisprudenza è costante nel ritenere sufficiente, ai fini dell'annullamento dell'atto, una menomazione, anche non totale, delle facoltà intellettive, tale da impedire una seria valutazione dei propri atti. Col terzo motivo, il ricorrente deduce errore di fatto quanto alla ritenuta insussistenza dell'incapacità di intendere e di volere e omessa motivazione sul punto, per non avere il giudice di appello motivato il dissenso dalle conclusioni del consulente di ufficio in punto di sussistenza dell'incapacità naturale al momento delle dimissioni (incapacità correttamente Intesa dal consulente nel senso accettato dalla giurisprudenza sopra richiamata). I tre motivi, che per la stretta connessione delle censure meritano trattazione congiunta, sono fondati. Il giudice di appello ha rilevato che il consulente tecnico d'ufficio aveva accertato che nel 1991 il lavoratore presentava i sintomi di un disturbo bipolare, trattato con terapia farmacologica, con sintomi di un disturbo schizoaffettivo, caratterizzato da fasi di eccitamento alternate a fasi depressive, onde, secondo il consulente, era probabile la sussistenza di tali disturbi anche all'epoca delle dimissioni: essi scemavano, ma non annullavano la capacità di intendere e di volere, impedendo al soggetto una valutazione critica della realtà e delle eventuali conseguenze del proprio operato. Siffatta conclusione era, secondo il Tribunale, adeguatamente motivata e si estendeva, seppure in termini probabilistici, alle condizioni del lavoratore al tempo delle dimissioni. Peraltro, ha ulteriormente argomentato il giudice di appello, l'oggettività riscontrata, in termini probabilistici, dal consulente di ufficio, non consentiva di ritenere l'incapacità di intendere e di volere (al momento delle dimissioni), perché gli intervalli tra le crisi depressive e maniacali non consentivano di accertare il grado di intensità della perdita della capacità di intendere e di volere nel corso di ciascuna. Se, dunque, era fortemente probabile la riduzione di detta capacità, non poteva ritenersi con certezza che l'incapacità naturale fosse stata totale all'atto delle dimissioni. Per contro, costituivano sintomi della conservazione di essa a quel momento, l'incidenza della sintomatologia discontinua sul piano dell'affettività, anziché su quello della cognizione, l'attuale stato di remissione e la circostanza che, all'epoca, vi fu la negoziazione di un non indifferente premio finale, caratterizzata da una oggettiva 'normalità formale ed economica dell'atto di dimissioni, tale da escludere che esse siano state sottoscritte in stato di incapacità naturale. Siffatte argomentazioni del giudice di appello non resistono alle critiche del ricorrente sopra riportate. In realtà, il Tribunale dopo avere ritenuto, secondo il canone corretto di una probabilità molto elevata, la ricorrenza di una riduzione della capacità di intendere o di volere all'epoca delle dimissioni, ha poi ritenuto non provata tale l'incapacità nel momento stesso in cui le dimissioni vennero sottoscritte. Deve essere, a tale proposito, ricordata la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 14 maggio 2003, n. 7485; 15 giugno 1995, n. 6756) secondo cui, "ai fini della sussistenza dell'incapacità' di intendere o di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni) non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, secondo un giudizio che è riservato ai giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato". Questa Corte suprema (v. Cass. 29 luglio 1968, n. 2725) ha altresì affermato che quando esista una situazione di malattia mentale di carattere permanente (e sul punto, l'indagine del Tribunale non ha indugiato nel considerare se il "disturbo bipolare" dal quale era affetto il P. nel 1991 e, verosimilmente, secondo il consulente di ufficio, anche nell'aprile - maggio 1990, avesse le caratteristiche di una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, seppure caratterizzata da fasi alterne) è onere del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in essere durante un lucido intervallo, tanto più che la malattia bipolare, come posto in evidenza anche dal giudice di merito, alla luce della consulenza di ufficio, presenta la caratteristica di alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, di talché (contrariamente a quanto giudicato dal Tribunale) potrebbe non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto In essere nell'una o nell'altra fase, considerato che In entrambi i casi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere, seppure non totale. Anche per la incapacità di intendere o di volere non totale può essere richiamato il principio, generalmente enunciato per l'incapacità totale (Cass. 28 marzo 2002, n. 4539), secondo cui, accertata la incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione "iuris tantum", sicché, in concreto, si verifica l'inversione dell'onere della prova, nel senso che, in siffatti ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo. Vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte la valutatone in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata, ma è proprio l'adeguatezza della motivazione, a tale riguardo, che difetta nella sentenza impugnata la quale è incorsa altresì nella violazione dell'art. 428 c.p.c., nel pretendere che l'incapacità di intendere e di volere dovesse essere totale ai fini dell'annullamento dell'atto. Del pari incongrua è l'ulteriore sottolineatura, da parte del Tribunale, della incidenza della sintomatologia sul piano dell'affettività, anziché su quello della cognizione, senza alcun approfondimento sul punto se vi fosse stata, tuttavia, una incidenza sulla "volizione" delle dimissioni e, a tal proposito, non sono affatto pertinenti, né comunque decisive, le considerazioni del Tribunale circa la complessità della valutazione sulla convenienza di addivenire ad una forma di dimissioni incentivate dalla corresponsione di un premio finale (oltretutto, dopo avere posto in luce che, anche in tale ipotesi, permaneva la caratteristica di atto unilaterale del recesso del lavoratore), non essendosi accertato, sul piano della capacità di intendere, che per il solo fatto della ritenuta complessità delle valutazioni che il lavoratore avrebbe dovuto operare, il soggetto sia stato in grado, malgrado la patologia accertata, di determinarsi consapevolmente con valutazioni adeguate e, sul piano della capacità di volere, che la volontà del soggetto non fosse pregiudicata da una delle fasi caratteristiche del "disturbo bipolare". Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, la sentenza impugnata deve essere annullata e la causa deve essere rinviata ad altro giudice di eguale grado, designato in dispositivo, il quale, tenuto conto dei rilievi che precedono in punto di vizi di motivazione, dovrà riesaminare la controversia adeguandosi ai seguenti principi di diritto: "1) ai fini della sussistenza dell'incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente. 2) Quando esista una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, o protrattesi per un rilevante periodo, è onere del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in essere, In quel periodo, durante un momento di remissione della patologia. 3) In presenza di 'malattia bipolare', caratterizzata dalla alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, può non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, considerato che in entrambe le ipotesi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere". Allo stesso giudice è opportuno demandare anche il regolamento delle spese del giudizio di Cassazione. P. Q. M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza Impugnata e rinvia la causa anche per le spese alla Corte di appello di L'Aquila. Così deciso in Roma, il 26 novembre 2003. Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2004.