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Volontà e vita: l’evidenza in un caso concreto.
<<Il 18 gennaio 1992 si verificò un incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato
ad Eluana Englaro, che vi era rimasta coinvolta, e che era allora appena ventunenne
(essendo nata il 25 novembre 1970), un gravissimo trauma cranio-encefalico con lesione di
alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò prima una condizione di coma
profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente Stato Vegetativo con tetraparesi
spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni funzione percettiva e
cognitiva e della capacità di avere contatti con l’ambiente esterno>>. Così, l’inizio della
sentenza della Corte d’Appello di Milano, Prima Sezione Civile, che ha decretato in 62
pagine la possibilità di “staccare” la vita, non la spina, della ammalata, non morta, Eluana
Englaro. La ricostruzione dei fatti espletata nella sentenza è chiarissima. Non c’è una svista
o qualche possibilità di errore. Vi è, invece, a modesto avviso di chi scrive, qualcosa a cui
non si era abituati prima d’ora: riconoscendo l’evidenza, si sceglie, con decisione (persino
giuridica, cioè di diritto), la strada della volontà e non quella del riconoscimento della
realtà. Insomma ci saremmo aspettati che per l’essere umano, animal rationale, il giudizio,
fosse ancora quella facoltà che sa parlare del reale predicando qualcosa di qualcosa, cioè
innanzitutto chiamando le cose così come si presentano e, direbbe Heidegger, lasciandole
essere nel loro essere. Leggendo la sentenza di Milano, nella cui prima parte si descrive
perfettamente tutto il tragitto dello stato di salute della ragazza e quello giudiziario, ci si
rende conto che qualcosa cambia. L’essere razionale può decidere anche contra factum; se
riesce a portare ragioni contro l’evidenza o oltre l’evidenza può anche negare l’evidenza
stessa. Infatti, se si dice che Eluana Englaro è entrata in uno stato vegetativo persistente,
stato irreversibile per la letteratura medica, con perdita di coscienza e di possibilità di
relazione con il mondo esterno, stato che dice una vita a livello vegetativo (le sue funzioni
fisiologiche restano integre), si dice un fatto, interpretato, nei termini ora detti, dalla
medicina. Il fatto è che c’è una paziente in uno stato di incoscienza “permanente”. Quindi
che c’è una persona, interamente persona, innanzitutto perché viva. Infatti si parla di “una
paziente”. Nessun cadavere è “paziente”. Questo paziente respira autonomamente, si
ammala anche ulteriormente rispetto al suo già fragile stato (una emorragia ha interessato
la ragazza due mesi or sono), si riprende quasi sorprendentemente. Il fatto è questo! Allora
qualche domanda, che non è polemica né con decisioni giudiziarie, né con opinioni
differenti, è troppo importante farla: fin dove può il volere di un uomo? E la legge fin dove
può garantire questo volere? Si fa appello nella stessa sentenza, ed è quello che oggi viene
tratteggiato quale una novità da introdurre per legge, a “disposizioni anticipate di
trattamento”. Significa che una persona può dire quando è nel pieno delle sue facoltà
fisiche e mentali di non voler essere trattato medicalmente se si trovasse per motivi svariati
in uno stato come quello di Eluana. Il discorso merita una serie di articoli specifici. Qui
diciamo solo che il processo decisionale in un uomo riguardo a situazioni tanto gravi non
ha molto senso fuori dalla sua attualità, cioè fuori dalla cogenza della situazione. Né una
persona comune (che non sia un medico) può essere informato anzitempo di tutte le
situazioni che possono portarlo ad una tale condizione, né dello sviluppo prossimo e
venturo delle conoscenze scientifiche e degli approcci assistenziali mirati che si possono
mettere a punto con il tempo. Facciamo appello qui brevemente ad un semplicissimo
criterio umano, che mette in piedi una famiglia e una società: la buona fede. È tempo di
oltrepassare la logica del sospetto, considerando che l’altro è chi mi limita nella mia
autonomia e nelle mie libertà, l’altro come stato, come vicino di casa, come medico.
Precipuamente con il medico è tempo di ri-costruire un ponte, un’alleanza di valori comuni
che non possono non trovare il loro cemento nella assoluta convinzione (sciolta da ogni
“ma” e da ogni “se”) che tutto si può fare e tutto si può non fare nella chiara e distinta
tutela della vita umana. Processi decisionali situazionali possono produrre l’incrinatura del
“sistema uomo”, individuo e comunità. Inaridito il suolo umano la tensione/passione per
tenere fermi gli steccati che la proteggono da ogni possibile violazione (il diritto e le leggi)
perdono ogni valenza. Ricostruire un pensiero /ricerca del Bene è dunque un’istanza che
appella tutti. Parafrasando il vecchio adagio giurisprudenziale potremmo dire: Vita est.
Dura vita, sed vita.
Rocco Gentile
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