digital magazine settembre 2010
SUICIDE
Alan Vega
e Martin Rev
Zola
Jesus
tutte le sfumature del nero
THE
N.71
BOOKS
linguaggi universali
Uochi
Toki
carta d'identita di un'esperienza
wire
Four
Gang ofseconde
vite
THE
71
Sentireascoltare n.
Turn On
p. 4
Heraclite
5
Lost in the Trees
6
Shit Browne
7
Street Drinkers
8
The Daredevil Christopher Wright
10
Nondor Nevai
12
Top Surprise
Tune In
14
Zola Jesus
17
Uochi Toki
Drop Out
20
the Books
26
the Wire/Gang of Four
Recensioni
36
Arcade Fire, Uoki Toki, Zola Jesus...
Rearview Mirror
96
Suicide
Rubriche
92
Gimme Some Inches
94
Re-boot
100
Giant Steps
101
Classic Album
SentireAscoltare online music magazine
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e
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Stefano Solventi, Teresa Greco.
Staff: Leonardo Amico, Marco Boscolo, Giancarlo Turra, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti,
Fabrizio Zampighi, Andrea Napoli, Marco Braggion, Filippo Bordignon
Guida
2
In
spirituale:
copertina:
Adriano Trauber (1966-2004)
the Books
G
irando per il sottobosco si incontrano sempre belle
sorprese. Dalla Francia, terra di math e noise-rock
(da Deity Guns a Chevreuil e Passe Montagne) ma
che ultimamente ci ha stupito con proposte fuori target
come gli Shit Browne, arrivano gli Heraclite, collettivo
intento a immortalare follia ritmica e slancio filosofico.
Svizzeri, fiamminghi, francesi e greci non solo di sangue, ma anche di parole, i sei apolidi del rock – Gautier
Degandt (voce), Nene boom boom (sax), Yan-Ulysse
(percussioni), Elie Panzer Cardinal (batteria), Murith de
Burgoz (basso), Eric Collet (chitarra) – declamano i versi
dell’avversario di Platone, Eraclito appunto, su un tessuto ritmico incessante, cerebrale e muscolare. La base di
partenza è una sorta di no-funk in cui confluiscono la
spregiudicatezza della no-wave e gli slanci tribali e avant,
in pratica come dei Black Eyes sotto tranquillante con
in più un leader che declama, cantilena, sussurra e grida
in greco antico.
Eraclito è come il funambolo estremo Philippe Petit che
cammina tra le torri gemelle per il suo compleanno. Un criminale per alcuni, un demiurgo per altri. Afferma Nene, cui fa
4
Lost In
The Trees
Turn On
Turn On
Heraclite
—Filosofia,
fango, rumore e
tribalismo...—
—Terapia pop—
Un collettivo multietnico che fa
del groove la sua forza e delle
parole del filosofo greco Eraclito
il suo moloch. Dalla Francia, gli
Heraclite, a breve in tour in Italia.
Tra autoterapia e musica,
l’universo chamber folk pop di
Ari Picker dei Lost In The Trees…
eco Gautier, voce e “paroliere” della band: Alcuni sostengono che Eraclito fosse il primo punk, altri un pazzo coperto
di fango; per me era il settimo membro di una band apolide
del 21simo secolo di cui tu conosci l’autore delle liriche.
I transalpini si servono di Eraclito come materiale
musicale vivente. Ci dicono che il greco antico è la musica più vicina al rituale, parola quest’ultima che ritorna
spesso all’ascolto del loro esordio omonimo che trae
origine da un mix di “work songs, blues, industrial, post-punk
e afrobeat” che genera, come tengono a sottolineare, il
tribal groove. A loro, infatti, importa soltanto di trance
e groove, musica che parli al corpo e che si capisca con
gambe e chiappe: La nostra musica è una grande, dionisiaca
danza coi Neubauten in costume da bagno, James Chance
felice, James Brown blue, Leadbelly in vacanza, Fela Kuti col
fidanzato Ligeti e Nick Cave coi baffi (come? ce li ha?). E
tutto questo per arrivare alle parole, quelle potenti e
magiche di Eraclito, il moloch dal quale tutto è partito e
al quale tutto ritorna.
Stefano Pifferi
C
i sono artisti che spingono all’estremo autobiografismo e arte, facendoli quasi coincidere, trasfigurandoli in album molto personali. Una forma sia di autoterapia che di espressione artistica, che conta da sempre
innumerevoli esempi: l’ultimo nel quale ci siamo imbattuti è il songwriter americano Ari Picker, fondatore dei
Lost in the Trees, da Chapel Hill, North Carolina.
All’esordio su Anti- con All Alone In A Empty House, già uscito sulla piccola Trekky Records, Ari e il suo
ensemble chamber folk pop combinano, come già da
un paio di dischi a questa parte, musica classica e folk
americano rielaborato e stratificato con il pop e l’indie.
Il Nostro, di rigorosa formazione classica, autorinomina
Orchestral Folk Music il gruppo, rilevando innanzitutto il
suo naturale trasporto verso la composizione classica e
svelando alcune cose: “La musica ha molti ruoli nella mia
vita, il songwriting copre un lato umanistico, è un meccanismo
di difesa nei confronti di relazioni difficili che ho vissuto nell'infanzia: cantare è un modo di lasciare andare certi conflitti; la
parte classica ha invece una connotazione più spirituale”.
All Alone In A Empty House (in recensioni) è prettamente il classico disco di formazione che vive di contrasti, lirico e drammatico, intimo e oscuro, urlato e sus-
surrato e fa dell’espressività e della compattezza il suo
punto di forza, come è giusto che sia in album di questo
tipo. Ancora Ari: “Le lyrics della title track si riferiscono alla
casa dove sono nato, ai rapporti conflittuali tra i miei genitori
e a una serie di eventi reali, come mia sorella gemella morta
alla nascita, la grave depressione di mia madre, abusi emotivi
e sessuali… ho voluto condividerli per trasfigurarli artisticamente e trasformarli in qualcosa di positivo per chi ascolta”.
Tra simboli, immagini e metafore, l’album procede tra
tenui ed espressive sinfonie per archi e più tipici pezzi indie folk, un mash up che può rimandare sia a Bright Eyes
– Conor Oberst sia a introspezioni alla Mountain
Goats, Micah P Hinson e Neutral Milk Hotel, e in generale ad alcuni capisaldi di riferimento, da Astral Weeks
di Van Morrison a Blue di Joni Mitchell, fino a Brian
Wilson. “Ascoltavo alla radio le incredibili mini sinfonie dei
Beach Boys, gli arrangiamenti di Eleanor Rigby, il modo in cui
Atom Heart Mother si apre con una lunga suite orchestrale
e si chiude con tre folk song… la musica confessionale di
Joni Mitchell… in generale sono sempre stato alla ricerca di
emozioni nella musica”.
Un’altra possibile via verso l’arte in musica.
Teresa Greco
5
—Madfrenchester—
Learning from the Mondays.
Wanking on the Roses. Copying the
Charlatans. Licking the Carpets. Tra
la Parigi di oggi e la Madchester dei
primi 90s, ci sono gli Shit Browne
T
ra Francia e Inghilterra non è mai corso buon sangue. Così vicini, così lontani – Manica permettendo
– ma troppo orgogliosi e pieni di sé per poter andare
d’accordo. Per lo meno, fino all’Eurotunnel e all’apparizione sulle scene musicale degli Shit Browne, duo/
quintetto parigino d’adozione ma mancuniano fino al midollo che oltre ai fondatori Sebi e Benjamin conta anche
su Denis, Hadrien e Tigrou. Tutti rigorosamente Browne
di cognome.
I ragazzi, in rigorose tute xl e capigliature ianbrowniane, costruiscono un ponte tra la suburbia parigina (e
il suo melting-pot culturale e meticciato) e l’Hacienda di
madchesteriana memoria: l’esordio Every Single Penny
Will Be Reinvested In The Party. Un caleidoscopio sotto xtc di sonorità baggy ed effluivi brit, pompamenti dancehall e produzione Primal Scream. E la domanda, che
sorge spontanea, viene recapitata loro via mail seduta
stante: perché?
Cercando di trovare te stesso, affermano i cinque, capita
di elaborare un sound che sia debitore dei tuoi ascolti. Noi
non ci siamo limitati ad ascoltare solo Aznavour, ma anche
le compilation di skinhead reggae, la techno di Detroit, Betty
And The Werewolves, la Stravaganza di Vivaldi, Robert Johnson, la musica Chaabi, gli Slayer e via dicendo.
Ci convince fino a un certo punto l’atteggiamento
dello spocchioso combo transalpino, ma è quello che
Brown insegna e che gli inglesi vogliono come certificato
d’identità. Durante il piccolo tour albionico di quest’estate i nostri non sono stati picchiati, anzi NME li ha graziati.
6
In pratica, un mezzo miracolo ed è anche merito dell’ironia, quella che ci piace, farcita di riferimenti politici senza
compromessi.
Siamo internazionalisti e anarco-sindacalisti al midollo e
non ce ne frega un granché della nostra frenchness. Abbiamo
sempre ascoltato musica anglosassone, da buoni colonized
kids. Molto più probabilmente, però, la vera ragione è la dipendenza da Marmite di Tigrou.(il tastierista, nda.)
I francesini, strafottenti il giusto e addicted ad un
sound maturo per essere non solo riesumato, ma ripensato, ci stanno dentro anche per questioni anagrafiche
(Abbiamo tra i 25 e i 33 e alcuni di noi hanno vissuto quella
stagione, anche se a dirla tutta la storia non è mai veramente finita. Il 2042 esiste già nel 2010 e il 1904 non è ancora completamente scomparso. Time stretching, bro!) e se
la giocano senza timore coi presunti eredi rave’n’rollers
e next-big-thing in salsa NME di quella mai dimenticata
stagione.
Ma dove finiranno i penny guadagnati con l’esordio?
Vogliamo combattere la depressione, sconfiggere la ricerca
della ricchezza materiale, creare sorrisi gratis e far scuotere
le chiappe alla gente. Siamo per la musica rilassata, perché
essere slow è antiproduttivo e l'antiproduttività è fica, perché
non ce ne frega nulla dei valori di mercato. Siamo outsiders, siamo come Candido. La conquista e la colonizzazione
di Marte sono anch'esse opzioni plausibili, ma in definitiva
non vogliamo smettere di ballare sfattamente. Li vogliamo
in Italia.
Stefano Pifferi
Street
Drinkers
Turn On
Turn On
Shit
Browne
—Il senso profano
del sacro—
Un nuovo adepto del culto di
Goteborg
C
he la Svezia fosse un luogo propizio per il proliferare di progetti harsh e rumorosi, abbiamo avuto
modo di notarlo svariate volte negli ultimi tempi. Con un
occhio di particolare attenzione alla scena di Goteborg,
infatti, non abbiamo mancato di seguire le tetre orme
lasciate da acts quali Sewer Election e Ättestupa, per
non parlare della label Release The Bats e del polivalente
Utmarken. Ora, ad ingrossare le fila dell’agguerrita cloaca, si aggiunge Street Drinkers, sigla sotto cui opera in
solo Viktor Ottosson dei sopracitati Ättestupa.
Il Nostro muove i primi passi circa un anno fa: il tempo di spargere una serie di bozze premature su cassette
in tirature carbonare ed è già il momento di prender
parte alla compilation-manifesto Utmarken, con un
pezzo (Daily Bread) che sembra sottratto alla scaletta di
Filosofem di Burzum: una mistica ritualità ciclica per
tastiere di terz’ordine che inducono in una sorta di trance subacquea. La voce poi è una nenia sommessa tra gli
strati dei riverberi: ce n’è abbastanza per incuriosire i palati più esigenti del recondito sottomondo out. Ancora
un paio di tape (una con i promettenti Lust For Youth
in cui spicca l’imperiosa Chasing The Night) per mettere
a fuoco le idee e si fa immancabilmente avanti Release
The Bats che pubblica l’album split con Skeppet di cui
abbiamo parlato da pochissimo.
Riassunti discografici a parte, quello che ci preme
sottolineare è l’atmosfera liturgica, quasi religiosa, che la
proposta di Street Drinkers è in grado di sprigionare.
Mentre il compagno d’armi Dan Johansson indaga le impervie vie del noise più belluino coi in suoi vari progetti
(Sewer Election, l’abbiamo detto, ma anche White e
Fantasy Sex), Viktor elabora soluzioni più contemplative, ma non per questo meno angosciose e angoscianti.
Un tessuto sonoro a base di meste tastiere e oscure voci
salmodianti, timpani marziali avvolti da una densa foschia
sonica che conferisce un’aura di raccolta austerità, quasi
fosse un cantico proveniente da un antico monastero
sconsacrato. Tutto volto a veicolare un senso di sacralità
ormai perduta e rinvenibile solo nelle trame di musiche
ostiche ed incompromissorie.
Di prossima pubblicazione è la compilation su cassetta The New Wave of Swedish Cosmic Music, per Kosmisk Väg, e se l’ombroso occhialuto continuerà a tenere
così alto il livello dei suoi parti creativi non ci sarà che
da gioire. Almeno per coloro che amano crogiolarsi nel
sudiciume più asfittico, s’intende.
Andrea Napoli
7
Turn On
The Daredevil
Christopher
Wright
—Zip indiefolk ‘00—
Una band di provincia che riassume
temi e stili di molte band targate ‘00.
Dal Wisconsin, con entusiasmo, The
Daredevil Christopher Wright
Q
uando si fa critica di qualcosa si parla spesso per
opposizioni. In realtà, dopo aver citato il bianco e
il nero, il bello sta nel surfare sul grigio, su quel limbo di
mezzo dove avvengono le cose più interessanti.
È con questo spirito che affrontiamo la seguente affermazione: i Daredevil Christopher Wright sono
un prodotto della provincia americana, proprio quella
che si oppone, se non altro per motivi geografici e urbanistici, alle grande metropoli e alle grandi scene cittadine degli Stati Uniti. La storia della band nasce cresce
e si sviluppa nel Wisconsin, terra di progressismo posthippie, cibo organic e freddissime lande precanadesi: atmosfere country un po’ sinistrorse, diciamo così. Ma a
Eau Claire, città dove i fratelli Jon e Jason Sunde sono
nati e cresciuti, non è certo una cosa normale, per i kids
locali, mettere su una band. Jon scriveva canzoni già al
liceo; una volta al college, dopo uno show, conosce Jesse
Edgington, percussionista, e i due iniziano a suonare insieme. Jason, nonostante la ritrosia dei fratelli a sentirsi
legati con un progetto musicale, si presta a suonare il
basso per un concerto del duo: i Daredevil Christopher
Wright ricevono così il loro battesimo.
8
Nel 2005 esce il primo EP (dove, più o meno casualmente, il combo assume il nome di uno dei brani contenuti), per IBS Recordings. Un indie-folk come da tradizione,
spruzzato da una vitalità acerba ma presente. I riferimenti
sono tra le righe, ma col senno di poi già chiari: siamo
a metà decennio ’00 e si inizia ad annusare, anche nella
provincia americana, il gioco tra rock collettivo di oggi e
di ieri (How to Get My Head, Parade of Tigers). Nello stesso
anno, a Brooklyn, la famiglia di Akron sta approcciando
coralità, indierock, synth e atmosfere da comuni hippie, per estrarne un classico dei nostri anni. Nel freddo
Wisconsin non si è ancora pronti a suonare, ma prontissimi ad assimilare. Il processo di metabolizzazione cresce,
si nutre di altri mostri sacri del sound zerozero…
P rocesso
di maturazione
Nel frattempo Eau Claire si rivela una comunità artistica meno stagnante di quello che si potrebbe immaginare. I Daredevil si fanno conoscere, in quei quattro anni
che separano il primo EP dall’esordio sulla lunga durata,
e provano dal vivo gli esiti della propria maturazione. Gli
ascolti seguono il polso del presente. I solchi dell’iPod di
Jon suonano tanto i Beach Boys quanto Elliott Smith,
Leonard Cohen come gli Animal Collective (eccolo, il mostro sacro), i Kinks come i Cryptacize. Di
questi ultimi ravvediamo una comune innata capacità di
sintesi, di assimilazione e riproposizione di un universo
di suoni e riferimenti. Sarà questo il tratto caratteristico
di In Deference To A Broken Back, in uscita a maggio
2009 per la Amble Down, label localissima, sempre di
Eau Claire. Gli studi di canto classico (e un soffio imparentato coi portlandini Parenthetical Girls) fanno
comparsa nelle prime note dell’album, senza ostentazione. Ciò che emerge prepotentemente è l’abilità riassuntiva del meglio dell’indie americano ’00.
Lo faccio notare a Jon, temendo una reazione tiepida,
e invece il Nostro si gongola di soddisfazione.“Mi lusinga
molto la tua impressione. In effetti, abbiamo osservato molti
avvenimenti musicali degli ultimi anni, e ci piace molto l’idea
di incorporare in una band un mix di stili diversi. Amiamo
sentirci senza regole e barriere. Proviamo a scrivere musica
che si muova in mezzo a mille influenze, che non abbia un
suono che ci faccia sembrare limitati o facilmente definibili.
Non sto certo dicendo che sia facile per noi ottenere tutto
questo”, ammette Jon, con modestia, “ma credo in tale
approccio risieda il nostro programma di crescita artistica”.
Con un tale atteggiamento, e con la gioiosità e le vocalità dei live (ancora figlia di Akron/Family), il trio conquista apprezzamenti nell’indie americano. The Daredevil
Christopher Wright esce dalle distese del Wisconsin e
raggiunge le mete principali del nuovo ricco folk del decennio post Novanta. “La nostra relazione con le scene musicali maggiori statunitensi si è notevolmente sviluppata negli
ultimi anni. Siamo musicisti a tempo pieno da un anno o poco
più e abbiamo trascorso almeno sette degli ultimi dodici mesi
in tour. Abbiamo visto quasi tutti gli Stati Uniti, suonato molte
volte a New York e una volta anche a LA. Siamo in realtà
abbastanza vicini alle Twin Towns (Minneapolis e St. Paul), così
come a Chicago, dove ormai abbiamo all'attivo moltissimi live.
Però è anche vero che c'è ottima musica non solo nelle grandi
città. Pensare che per essere un artista si debba stare a NYC
o LA vuol dire minimizzare l'importanza di altri contesti. Io,
per esempio, amo il Midwest e so che qui la qualità delle
produzioni artistiche è molto alta. Sono onorato di poter far
conoscere tramite la nostra musica questa realtà.”
Non passa neanche un anno dalla prima pubblicazione e In Deference To A Broken Back viene ristampato per il mercato europeo (sempre dalla Amble Down,
in collaborazione con Almost Musique). Il momento è
decisivo: tour imminente nel vecchio continente e preparazione in corso del sophomore. Jon, Jason e Jesse,
ci confessano, non sanno cosa aspettarsi dalla diffusione oltreoceano – ma sono emozionati al pensiero. Ciò
che ci piace dei Daredevil è forse questo: entusiasmo
palpabile, un sentirsi mai del tutto arrivati, la soddisfazione per la propria condizione – geografica, ma non
solo – e una curiosità costantemente intatta. Se questa
è la provincia, non possiamo che farci contagiare dal suo
mood.
Gaspare Caliri
9
Turn On
Nondor
Nevai
—Bionic
Kaleidoscope—
Novello Julian Cope avant metallaro,
Nondor Nevai ha unito heavy, classica
contemporanea e fanta letteratura.
Inevitabile con lui un incontro
ravvicinato del terzo tipo...
10
C
on Labyrintha, Nondor Nevai e il compagno
Mick Barr spingevano la materia brutalprog di
gentaccia come Pink & Brown e Lightning Bolt verso l’ignoto spazio profondo. Allora ci colpì quella miscela esplosiva di selvaggio free rock e di ipertecnicismo
avant-metal dai risultati detonanti. Quella stessa carica
che nei Lightning Bolt dell’ultimo album ha lasciato definitivamente il posto a una dimensione giocosa, presente
sin dagli esordi nella band di Providence. Abbiamo quindi contattato Nondor, che questa collaborazione l’ha
fortemente voluta ci siamo trovati di fronte il classico
personaggio con la vita musicale divisa in due: un pre e
un dopo una folgorazione che gli ha fatto trovare nel
metal la massima espressione di una sua particolarissima idea della musica e del mondo.
La prima parte della sua storia è ambientata alla Rhode
Island School of Design dove, fino al 1992, il ragazzo soggiorna e studiacchia mancando di poco l’inizio dell’esperienza Fort Thunder (1995) e la nascita della Load Records
(primi ‘00), il terreno da cui si svilupperanno realtà tra le
più influenti dell’underground USA degli ultimi anni, sia
in ambito musicale (Lightning Bolt, Black Dice, Prurient hanno tutti li almeno i loro esordi) che artistico
(Forcefield, Paper Rad... e l’estetica giocosa e lisergica
che a Providence ha il quartier generale). Quando ero studente a Providence spiega, non c’era affatto audience per l’avantgarde metal. Solo hardcore band come Drop Dead e The
Wurst. E stranamente allora facevo una musica simile a quella che è stata celebrata in seguito con i Lightning Bolt...
Il batterista se ne va dalla scuola di Design e dopo
una breve parentesi nella città natale, NY, prende casa a
Chicago nel pieno del no-wave revival, epoca d’oro per
etichette quali la Skin Graft e la Bulb Records. Incontra Weasel Walter in una delle prime incarnazioni dei
Flying Luttenbachers e i due diventano amici non
solo per via di un comune spirito provocatorio, ma soprattutto per un’insana passione per il metal. Presto iniziano a suonare insieme e, tra i vari progetti minori che
li vedono collaborare (vale la pena ricordare la brutal
no-wave di Hatewave), registrano a nome The Many
Moods Of Marlon Magas con un insospettabile Aaron Dilloway alla batteria, ancora lontano delle apocalissi targate Wolf Eyes. Nel corso di quegli anni, Nondor
focalizza la missione sonica: un misto di heavy metal,
classica contemporanea brutale (Xenakis, Ligeti), letteratura ed arte figurativa (William Gibson, P.K. Dick e
Giger) mettendo finalmente le fondamenta alla classica gnosi sotto droghe lisergiche. Da ragazzo ascoltavo
solamente industrial e elettronica e noi punk e industrial
assholes sfottevamo l’heavy metal taggandolo come stupido
e banale. Poi dopo un esperienza con l’LSD realizzai che il
death-metal era la vera techno: la Techno Bionica. Ho percepito allora che un organismo biologico che fa arte come se
fosse macchina era superiore a un organismo biologico che
usa una macchina per mimare la biologia... Ogni cosa che
ci circonda è un sistema di macchine, ed essere come una
macchina significa imbrigliare le leggi della natura. La più
erronea concezione dell’umanità è che la tecnologia sia antropogenica. Niente è antropogenico e niente è creato. Così
puoi scegliere di usare una macchina per produrre arte o
essere quella macchina che produce arte. La rivelazione è
di quelle à la Julian Cope e simile è quel che ne consegue: da un certo punto in poi – dal suo album Wooden
Music Machine (aliene sonate registrate con un piano
automatizzato) poi il progetto UNDRSKOR (batteria
ed archi) fino al duo con Mick Barr - il batterista è alla
ricerca in musica di quel certo “bionic feeling”. Nel 2004 a Washington DC Weasel condivise una data
con gli Orthrelm e mi disse di questo brutalprog duo e
la loro "musica perfetta". Quando ho ascoltato qualcosa è
stato come se quello che era nella mia testa fosse stato
immediatamente trasmesso, ho capito subito che Mick era
il mio chitarrista.Weasel mi diede il suo numero e io lo chiamai parlandogli eccitato di questa nuova forma di extreme
metal non-ripetitivo che stava scalciando nella mia testa e
invitandolo nel West, ad Oakland dove mi ero appena trasferito. Barr raggiunge Nondor in California ma il nostro
è ancora troppo invasato per combinare qualcosa di
buono e così il chitarrista ne approfitta per stringere
altri mani e strumenti aprendo una parentesi con i più
preparati Flying Luttenbachers e Zack Hill. Ero ancora nel massimo dell’heavy metal lifestyle, ci scrive. Non
dormivo per giorni, giravo porno amatoriali e suonavo la
batteria a tutte le ore. Suonò con loro musica per cui io lo
avevo importato, ma senza di me!, ci maiuscola divertito. è
questione di tempo. Quando i due finalmente prendono
le misure nascono Rhapsodik Bitonality, cinque pezzi
in bassissima fedeltà pubblicati in mp3 per la netlabel
Brutalprog, un Cd-R per ugEXPLODE, Rainbow Supremacy, e infine Labyrintha, decisamente il migliore sia
per qualità di registrazione che per contenuti.
C’è un ineffabile spazio comune tra di noi, che è sia
molto avanzato che adolescentemente regresso allo stesso
tempo. Ogni cosa che suoniamo è improvvisata e non discutiamo mai i particolari musicali durante le sessioni, ma io
penso che "improvvisazione" non sia il termine appropriato
per quello che facciamo. È come se le nostre fossero delle
composizioni automatiche, come una musica che esiste da
sempre di cui noi siamo semplicemente dei mezzi attraverso
cui essa può manifestarsi... Questa è musica devozionale, noi
subordinamo i nostri ego alle forze della natura
Leonardo Amico
11
—Non solo
tropicalismo—
Top Surprise e Pug Records: grunge,
post punk e garage parlano anche
brasiliano
12
Turn On
Top
Surprise
C
on un nome che deriva da una strana compilation
hip hop che girava in Brasile all’inizio degli anni ‘90,
su cui appariva senza alcun senso anche Cannonball dei
Breeders, i Top Surprise sono una delle realtà più
vivaci della scena shit-gaze/wave/grunge del sudest del
paese. Talmente grande il Brasile, da rendere difficile anche solo immaginare di capirlo superficialmente, tante
sono le differenze tra le diverse aree e regioni. Di sicuro
la Pug Records, nata per far uscire l’EP di esordio della
band, finora l’unica cassette-label dell’intero Brasile, è
buon punto di partenza per capire com’è fatto il Brasile
oltre CSS e Bonde do Role.
Per i Top Surprises, i cui membri sono tutti nati
negli anni ‘80, le influenze principali sono sicuramente il grunge dei Dinosaur Jr. e la gioventù sonica di
Thurston Moore e soci, tanto quanto i dischi lo-fi
dei Guided By Voices (a questi ultimi è dedicato un
consigliato album tributo, disponibile sul sito della Pug
Records, che raccoglie oltre venti cover dei Guided By
Voices realizzate da giovani band locali). Per conoscere
più da vicino band ed etichetta abbiamo raggiunto Andre, leader e principale autore dei Top Surprires.
Sembrate molto attivi sulla scena locale, ma
ci racconti com’è la vita delle band in Brasile?
Qui dall’Italia (e dall’Europa in generale) è difficile capirci qualcosa...
In Brasile ci sono migliaia di gruppi, dediti a qualsiasi genere ti possa venire in mente. Dal garage al folk,
dell’electro all’hardcore, dal metal al rock influenzato
dalla musica brasiliana c’è praticamente una band in ogni
angolo. Ci sono anche festival interessanti e alcune etichette di buon livello, ma le cose non sono così semplici
in un paese così grande. La tendenza è quella a costruire
comunità regionali. Per esempio, per noi che viviamo nel
sudest a Minais Gerais, il nord sembra proprio un altro
paese. Suonare fuori dalla nostra regione è tanto complicato quanto credo lo sia per una band italiana suonare in Inghilterra. São Paulo, la più grande città del Brasile,
è un posto pazzesco, pieno di locali, grandi artisti e una
forte scena indie. Rio de Janeiro è davvero folle, con
tutte le sue band e live set praticamente tutti i giorni
della settimana. A Baixada Fluminense, un sobborgo di
Rio, c’è la Transfusão Noise Records di Lê Almeida,
il produttore del nostro EP. È una label DIY essenziale,
ma di grande valore.
Eppure da qui il Brasile è sempre il paese di
Caetano Veloso e Gilberto Gil...
Per molti brasiliani, la bossanova e il tropicalismo
sono davvero importanti e ci sono strade intitolate a
Antonio Carlos Jobim o Vinicius de Moraes. Non
dimentichiamo che Gilberto Gil è stato ministro del
governo Lula. I loro grandi classici passano spesso alla
radio, ma il resto della programmazione è imbarazzante:
giovani emo-band MTV senza idee, rock privo di ogni
sapore, pop plasticoso.
Niente di diverso dal panorama europeo,
quindi. Per quanto riguarda la Pug Records, invece, come vi siete regolati per le vostre uscite? La
scelta della cassetta è una deriva del rinascimento che questo supporto sta vivendo in America e
Grand Bretagna?
Come etichetta ci concentriamo su materiale DIY e
lo-fi, con una spiccata relazione con quello che ci piace
nella musica. Oltre alla Transfusão, non ci sono molte altre etichette che si occupano di questa realtà in Brasile,
nonostante le dimensioni facciano pensare al contrario.
Abbiamo scelto la cassetta perché si sposa bene con la
nostra estetica. È un formato interessante e inusuale,
per certi versi privo di compromessi. Ma i nostri numeri
sono piccoli, siamo poco più che produttori di materiale
per collezionisti. È per questo che abbiamo deciso di
pubblicare tutte le nostre uscite anche in formato digitale sul nostro sito, liberamente scaricabili, in modo che
tutti possano ascoltare le nostre release. Oggi un’etichetta come Pug Records non può avere un orizzonte
locale, non ha nessun senso che sia così.
Marco Boscolo
13
Tune-In
Zola Jesus
—Tutte le sfumature del nero—
Austera e intrigante, l’ex studente di filosofia con la passione per la lirica si prepara
al salto nel mainstream senza perdere di vista le ambizioni artistiche
Testo: Diego Ballani
H
a appena ventuno anni Nika Roza
Danilova, ma può già vantare una
consapevolezza estranea alla maggior parte degli artisti odierni, che la porta a
sentirsi responsabile del messaggio veicolato
con i propri testi.
Schiva, emotiva, eppure affabile e decisa,
Nika ha raggiunto un’autorevolezza nell’utilizzo delle doti canore, che le ha permesso
di toccare nuovi vertici espressivi, facendo
del suo ultimo Stridulum uno dei dischi
più affascinanti dell’anno. Dopo una serie di
opere a base di atmosfere gotiche, sonorità
claustrofobiche e registrazioni casalinghe ha
abbandonando la “coperta di Linus” del lo-fi
e si è presentata al pubblico forte soltanto
14
dell’altera bellezza delle sue canzoni.
Ora abita quella sottilissima striscia di interdizione che
separa la sperimentazione dal mainstream, ma sembra
essere prossima a varcarla, senza compromettere gli obbiettivi artistici.
Questo è quanto emerso dalla chiacchierata avuta in
occasione della pubblicazione di Stridulum II, versione
espansa dell’ep uscito nella prima parte dell’anno per la
Sacred Bones. Ne abbiamo approfittato per cercare di
tracciare un profilo di uno dei personaggi più enigmatici
di questo inizio di decennio. Cosa c’è di meglio, in questi
casi, che partire realmente dall’inizio?
Quali sono i tuoi primi ricordi legati alla musica?
Ho iniziato ad appassionarmi alla musica da quando
ero molto piccola. Mi piaceva improvvisare: ricordo che
quando ero ancora bimba adoravo girare per il giardino
di casa e inventare canzoni su tutto quello che vedevo
intorno a me, sarei andata avanti per ore. Tuttavia non
ho mai registrato nulla fino a che non è nato il progetto
Zola Jesus.
Prima però sono venuti gli studi di lirica...
Sì, ho iniziato a studiare per diventare cantante lirica
quando avevo 8 o 9 anni. Non saprei dirti da dove è nata
questa passione, di certo non dai miei genitori o da qualcuno dei miei parenti, visto che nessuno di loro possiede
alcuna inclinazione musicale.
Credi che in qualche modo la tua produzione
musicale ne abbia risentito?
Non molto, almeno non consciamente. Penso che tutte
le mie esperienze si combinino naturalmente ogni volta
che scrivo una canzone. Quando hai cominciato a creare musica come
Zola Jesus qual era il tuo obbiettivo in quanto artista?
Il progetto è iniziato quando avevo 15 o 16 anni, la mia
intenzione era solo quella di riuscire ad incidere la mia
musica e cercare una strada che fosse chiara e coerente. Quel periodo per me è stato alquanto particolare,
perchè era un momento in cui la musica non faceva più
parte della mia vita. Zola Jesus è stato un tentativo di
riportarvela e di darle centralità. Inoltre è stato il modo
migliore per riprendere confidenza con la mia voce, che
in passato mi ha dato seri problemi a causa dell’ansia e
dell’eccessiva emotività. So che in passato questo aspetto del tuo carattere ti ha provocato problemi di panico da palcoscenico. Come hai fatto a superare questa situazione?
Di solito cerco di distrarmi muovendomi molto. Quando
mi fermo la mente inizia a correre. So che sarebbe tutto
più semplice se non dovessi esibirmi dal vivo, ma come
artista è qualcosa che sono costretta a fare. Anzi, forse
perchè è così difficile che in fondo mi affascina. Mi piacciono le sfide, adoro mettermi continuamente in gioco
e a volte mi capita di infilarmi di proposito in situazioni
difficili. Parliamo un pò dei tuoi ultimi lavori e di come
suonino differenti rispetto alle tue prime produzioni. è stata una scelta semplice quella di abbandonare la bassa fedeltà?
No, tutt’altro. All’inizio è stato difficile perchè non sono
mai stata abituata ad una situazione in cui tutto suonasse perfettamente. Non considero il mio sound migliore
solo per il fatto di avere una produzione più pulita, anzi,
di solito non desidero affatto avere un suono pulito. è
stato solo un tentativo di provare qualcosa di nuovo, di
testare le mie possibilità. Mi sembra di aver fatto tutto
quello che era possibile fare con il lo-fi, perciò, sebbene
lo consideri ancora una parte di me, mi piace la sfida
che comporta il fatto di addentrarsi un produzioni più
raffinate.
Ascoltando Stridulum sembrano molto lontani i
tempi della compilation su Die Stasi. Pensi di avere mai avuto realmente qualcosa in comune con
le artiste che hanno preso parte a quel disco?
Credo che il nostro unico comune denominatore fosse il fatto di essere ragazze che si dedicavano all’home
recording. Non so bene cosa resti oggi di quella scena.
Sono tutt’ora amica con alcune di quelle ragazze, anche
se bisogna dire che provenivamo tutte da background
differenti. Era naturale che la nostra musica suonasse
così diversa.
Il lavoro che fai sulla tua voce ha portato spesso
a paragoni con Diamanda Galas e Lydia Lunch,
mentre a livello strettamente musicale, viene
spesso citata la new wave e certo folk gotico alla
Death In June. Ti senti realmente vicina a questi
artisti?
Sono incredibilmente onorata del paragone con Diamanda Galas ma non credo veramente di meritarmelo. Lei
appartiene ad una razza a parte e mi auguro che continui
sempre a perseguire la sua strada in modo così originale.
Ad essere onesti, quando inizio a scrivere una canzone
non cerco di perseguire un determinato modello, altrimenti questo farebbe della mia musica qualcosa di estremamente derivativo. Posso dire che mi piace giocare con
una melodia o con un suono, elaborarlo fino a che non
diventa una canzone.Vorrei che tutte le mie canzoni avessero forza e potenza. Vorrei che fossero percepite come
qualcosa di molto pesante e impossibile da ignorare.
Ho l’impressione che la solennità e l’austerità
della tua voce su Stridulum fa assomigliare alcuni
15
Tune-In
Uochi Toki
—Carta di identità di un’esperienza—
Fuori dal consumo pre-organizzato, fuori dalle ideologie, fuori dalle facili
categorizzazioni: il consapevole processo di disintegrazione di Uochi Toki
Testo: Fabrizio Zampighi
di questi brani a delle preghiere. A questo punto
mi viene da chiederti qual è il tuo rapporto con
la religione.
Non molto buono, nel senso che credo che la religione porti le persone al diniego. La vita è molto più difficile quando non hai la rassicurazione che qualcuno stia
badando a te. La religione si fa carico di un eccessivo
controllo delle singole persone e delle loro esistenze. è
molto più istruttivo abituarsi ad vivere in un mondo in
cui ognuno di noi ha il totale controllo delle propria sorte, anche se questa idea talvolta può far paura.
Al di là della cupezza di alcune sonorità e del
dolore che a volte traspare dai tuoi testi, mi sembra che ci siano sempre parole di speranza nelle tue canzoni. Come artista di che messaggio ti
senti portatrice?
Non credo nel fatto di porre domande senza suggerire delle risposte. Ci sono situazioni molto difficili nel
mondo. Io cerco di rifletterle nelle mie canzoni, ma cerco
anche di proporre delle soluzioni.Voglio pensare di essere propositiva e non limitarmi a “mettere il broncio”. C’è
molto da dire sul modo in cui l’umanità può progredire e
migliorare se stessa, e come artista è qualcosa che prendo molto sul serio.
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Cosa ci puoi dire a proposito delle tre canzoni
che sono state aggiunte su Stridulum II rispetto
all’ep? Si può dire che siano brani più luminosi rispetto ai precedenti?
Volevo solo sperimentare di più. Sea Talk è la nuova
versione di un brano che avevo già inciso tempo fa, mentre Tower e Lightstick, al di là di come possono suonare,
sono canzoni molto ansiose. L’ultima, in particolare, è stata una sfida per me: è stata registrata usando solo la mia
voce e un pianoforte vecchio e scordato.
I brani di Stridulum mi sembrano perfettamente bilanciati fra appeal pop e sperimentalismo, hai
mai pensato di fare il passo decisivo verso il pop
“tout court”? Pensi che questo sia possibile mantenendo la propria integrità artistica?
Penso di si. Nei prossimi mesi sarò in tournée negli
Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa, dopodichè inizierò a pensare al mio prossimo album. Ti posso dire che
ultimamente sto ascoltando molta musica soul. Marvin
Gaye, Sam Cooke, Candi Staton: gente che comunica
con tutto il corpo e si sente che ogni nota che canta è
reale. Voglio pensare che mantenendo un simile approccio si possa comunicare senza compromettere alcun obbiettivo artistico.
C
ontenitori e contenuto. Generi e classificazioni. Musica. “Uochi Toki”, recita la carta di identità di questo duo
anomalo. E comprendere la natura del progetto, seguirne gli interessi, coglierne i significati è questione di
esperienza, di ascolti, di convergenze comunicative. Non certo di classificazioni a priori o di stereotipi, come
ci fa notare il gruppo hip-hop meno hip-hop di Italia, ché di quelli ne abbiamo fin troppi e a sgolarsi dai pulpiti per rispedirli al mittente si corre seriamente il rischio di perdere la voce. Meglio allora una discografia nutrita e in divenire,
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atipica e non episodica, da considerare come un unico macrodisco in fieri. In cui corrente elettrica (i campionamenti di
Rico) e voce (i testi di Napo) dialoghino creando un’esperienza trasversale e inadatta al consumo pre-organizzato,
elaborata e tesa – nelle intenzioni – verso un non-genere:
“Parlare di nicchia o di genere crea dei contenitori, ma anche
parlare di trasversalità crea dei contenitori. Stiamo osservando
come si evolve questo gioco del mercatino botanico dove gli
acquirenti vogliono portare a casa qualcosa di vivo da tenere
sul davanzale finché non appassisce, per poi lamentarsi con
chi glielo ha venduto. Potete trovarci al mercatino botanico in
comodi vasetti, oppure, se avete voglia di vedere gli alberi, il
bosco è da quella parte. Si consigliano scarpe robuste”.
Evitiamo l’effetto ricircolo, rimandando i maniaci del
compilativo alla discografia riportata sul MySpace del
gruppo. Ci limitiamo a sottolineare come dal quel Laze
Biose del 2006 – forse il primo esempio di uno stile organico e riconoscibile – al Libro Audio del 2009 le cose si
siano fatte maledettamente serie. La direzione intrapresa
è quella della costruzione di un vero e proprio immaginario e non solo di una semplice esperienza musicale. Un
viaggio a tappe – i vari dischi – fatto col fine di appropriarsi di una realtà che vive di richiami, osservazione,
relazionalità, riflessione, autobiografismo e che impone a
chi ascolta un confronto forzato sull’interpretazione del
messaggio. E del “missaggio”, come potrebbe puntualizzare Rico, visto che anche musicalmente siamo ad anni
luce dai linguaggi consolidati e facilmente decifrabili. Tanto più nell’ultimo Cuore amore errore disintegrazione
(La Tempesta, 2010), dove si mira alla destrutturazione,
a una corrispondenza lirico-sonora inedita, ricorrendo
per la prima volta a campionamenti di musica originale
in un gioco delle alterazioni che arriva a toccare i territori della breakcore: “Per sopperire ad una delle mie (Rico,
ndr) più grosse mancanze (il conoscere la musica solo come
evento fisico ignorando le geometrie della composizione) ho
deciso di “rubare” le conoscenze a tre musicisti che avevano
precedentemente registrato nel mio studio. Questa volta non
ho campionato un suono che mi piaceva ma ho lavorato sulla
composizione-improvvisazione di altre persone. In un’ora di
improvvisazione di un musicista come Alessio Bertucci (sitar),
Lucio Corenzi (contrabbasso) o Bruno Dorella (batteria) posso
sentire anni di ascolti altrui. è come se campionassi l’esperienza di una persona, non della semplice musica.”
Testi fiume. Veri e propri racconti stilati in rima col
fine di riflettere su una sfera personale che deborda nel
collettivo per poi tornare nel privato di chi ascolta. Ma
anche istruzioni per l’uso mascherate da frantumazioni
fataliste in grado di indicare la strada da percorrere nel
processo interpretativo del materiale. Come quelle che
si ascoltano in Appena risalito dall’abisso: “smetti di giocare
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al piccolo ermetico / approfondisciti e spiegalo questo imprendibile / ma cosa vuoi spiegare/ il mondo onirico a parole in
modo univocamente comprensibile? / è per questo che dello
scritto bisogna leggere non il significato ma lo spirito / tutto
quello che le parole non dicono / allora perché non stiamo
zitto / diventiamo mimico / tanto l'ascoltatore non distingue
sé stesso dal pubblico / intanto rendiamo pubblico questo gettito / che sarà sempre superficiale / poi chi vuole avrà tutti gli
strumenti per tracciarne l'impianto radicale”. Senza che ci sia
bisogno di conoscenze specifiche legate al mondo del rap
per avvicinarcisi, in virtù di quel suonare multisettoriale
di cui si diceva in apertura e che regge tutto il gioco. Un
po’ come succede con i Massimo Volume, differenti per
stile e riferimenti ma capaci allo stesso modo di trasformare il semplice ascolto in un processo di condivisione,
in un visuale in note, in un autocitazione peculiare che ha
il pregio di straniarti da un qui ed ora ipotetico. Nel caso
degli Uochi Toki il trait d’union per tutto l’immaginario
rimane l’individuo. Circondato dal rumore e racchiuso in
una filosofia di vita che oppone la personalità del singolo alla compartimentazione sociale dei ruoli, il gradiente
delle diversità al conformismo comodo e prevedibile che
ci viene propinato quotidianamente, la libera scelta al timore di essere giudicati: “L’individuo comincia fuori dalle
classificazioni e fuori dalle ideologie. Dopo essere uscito da
classificazioni e ideologie, l’individuo continua, trovando come
prima prova quella della frantumazione dell’identità e prosegue in maniera inspiegabile senza sapere dove andrà a finire.
Anche io (Napo, ndr) ho il gusto estetico per una sorta di
ideologia nel mio stilare questa progressione. Sono ancora allo
step “COMINCIA” e in realtà non so cosa ci sia dopo. Queste
classificazioni servono solo per avviarsi con un’idea vaga nello
zaino”.
A fornire al gruppo un retroterra visivo pensano i disegni di Lapisniger (Napo, ndr), stampati sulla copertina
dell’ultimo disco e in generale (http://lapisniger.blogspot.
com/) spinti sul crinale di un’inventiva visionaria e monocromatica, fantasiosa e onirica. Sintomatici della voglia
di non voler essere codificati e tendendo nel contempo
a un concetto di evoluzione ben preciso: “Evoluzione per
una band? Smettere di definirsi band, smettere di stare in camerino dopo il concerto, smettere di considerare il suonare un
lavoro o un divertimento, smettere con gli ammennicoli tipo
autografi e fotografie. In ogni caso, smettere”. Per ora siamo
al sesto capitolo di un’autobiografia in note tutta da scoprire. Il tempo ci dirà in che direzione dovremo muoverci
per seguirne le successive divagazioni.
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The Books
—Linguaggi universali—
Drop Out
I Books sono tornati, come se non
se ne fossero mai andati. Un buon
motivo per farci altre due chiacchiere e per aggiornare il punto di vista
su una band inconfondibile.
Testo: Stefano Solventi
20
C arotaggi
ultrapop
Li incontrammo cinque anni fa che erano già
un’istituzione, anche se istituzione è parola grossa,
inappropriata al modo d’essere e d’esprimersi dei
Books. Secondo i canoni del pop-rock, Lost And Safe
sembrava il classico punto di consolidamento della
carriera, il momento in cui ciò che si raccoglie inizia
a superare in profondità e quantità quello che si semina. Un buon disco, tutto sommato, da cui esalava
vago manierismo tra le pieghe di una calligrafia ancora
eccitante. Il tempo passato da allora ci permette una
prospettiva diversa, intanto che ascoltiamo l’ultimo
The Way Out.
Possiamo cioè comprendere quanto i Books siano alieni ai consueti percorsi pop-rock, e quanto sia
difficile - e per molti versi inopportuno - valutarli alla
stregua di una band “normale”. Oggi è possibile vedere ogni loro disco come una tappa di un instancabile
percorso di ricerca. Un punto di raccolta e convergenza prima di ripartire con l’indagine. La missione di
Nick Zammuto e Paul De Jong è di quelle ad ampio
respiro, per molti versi precede e trascende sostanza
21
e cronologia dei titoli. Vale più il metodo, la riproducibilità esperenziale
come sostrato dell’acume intuitivo e
della sensibilità espressiva.
Alla base di tutto c’è una magnifica ossessione: cogliere il senso
della soundtrack di suoni naturali e
artificiali che ci accompagna e contribuisce a definirci nel quotidiano.
Il rumore di fondo della civiltà visto
come impronta culturale dotata di
estensione e profondità, su cui i Nostri musicisti/archeologi eseguono
carotaggi sonici per estrapolarne la
testimonianza - per così dire - organica. L’esigenza di rendere percorribile questa metodica ha portato i due
statunitensi ad allestire una nutritissima libreria di documenti sonori della
più varia natura, riconducibili a determinati periodi storici o a particolari
settori del vivere quotidiano (jingle,
spot commerciali, registratori giocattolo, dischi didattici, sermoni radiofonici, sedute di autoipnosi...). Tutto
archiviato e catalogato. Un database
dell’immaginario invisibile. Una coltura di germi, batteri e virus auditivi.
Che, nelle mani giuste, diventa uno
strumento potentissimo.
Come funziona? Scelto l’ambito
di azione, o se preferite il concept, si
selezionano le “entries” ad esso riconducibili, dopodiché inizia il bello:
l’ispirazione e il gioco, l’intuizione e
l’azzardo, la meditazione e la poesia. E
poi la musica, quella che tutto lega e
spiega. Radicata nel folk appalachiano
e sradicata di trame electro, corroborata funky e slackerizzata hip-hop,
col cuore caldo di chi si diverte a fare
sul serio ciò che ama. Il risultato è
un effervescente mistero, un gorgogliare di fotogrammi come tessere di
un puzzle impazzito ma generoso e
a suo modo illuminante. Una chiave
di lettura della realtà, storicizzata e
attuale. Ma anche e pur sempre un
manufatto pop, non a caso godibile
a vari livelli, dall’intrigante disamina
delle correlazioni semantiche al puro
22
e semplice divertimento auditivo.
Ed è quindi con gli strumenti e le modalità del pop-rock che - in questa
sede - li abbiamo giudicati e li giudichiamo. Giusto così. Tuttavia, è evidente
che l’opera dei Books procede con un passo più lungo. Non ambisce a cavalcare la spuma dell’intuizione momentanea, lo spasmo intrigante che racconta
e definisce il qui e ora (anche se ai tempi dell’esordio sembrò a tutti gli effetti
il loro momento), anzi attiva uno stretto rapporto col tempo analizzando
la persistenza e il deteriorarsi dei costumi sonori. è questo il punto: in un
certo senso, la musica dei Books è un pop “oltre”, un oltraggio alle regole
e alla natura del pop, un ultrapop. Nel quale il pop muore nell’attimo in cui
esplora se stesso e le nuove possibilità di esistere in funzione del reale (di cui
è sempre e comunque testimone). Un circolo virtuoso col quale Zammuto e
De Jong potrebbero, se lo volessero, tranquillamente invecchiare. Senza mai
sembrare vecchi.
I ntervista
a
Paul
dei
B ooks
L’ultima volta vi abbiamo visto a Bologna al Circolo della Grada
nel 2007, ora che avete iniziato il tour di The Way Out ci potete
raccontare qualcosa sulle novità dello show?
Abbiamo iniziato a suonare dal vivo da gennaio. Siamo stati ad Audiovisiva a
Milano. E abbiamo già iniziato ad integrare il nuovo materiale nello show che
hai visto nel 2007. Ci siamo concentrati maggiormente sull’interazione tra
video e musica e in pratica il 95% del nostro show è fatto di questa sinestesia
audiovisiva. Non abbiamo ancora finito, durante l’estate ci dedicheremo al
making di nuovo materiale per altri video ed è una ricerca faticosa. Non c’è
differenza nel trovare le fonti per una canzone e quelle per i clip, entrambe
le arti hanno bisogno di dedizione e ricerca. Il 50% del nostro output video
è trovato, il resto è fatto da noi. Poi componiamo tutto da soli. Dal vivo
abbiamo aggiunto un nuovo membro si chiama Jin Becks. Suona il violino, la
chitarra, canta e manipola (trad. da trigger) sample con la tastiera. L’obbiettivo è quello di suonare sempre meno elettronici e sempre più live. Usare
un sacco di percussioni presi dalle nostre tape e suonarle con la tastiera. In
pratica ci interessa rendere il tutto più organico. Per quanto riguarda me e
Nick, suoniamo come al solito tastiere, pad e basso. Nick suona la chitarra
e canta mentre io suono il violoncello e ogni tanto canto ma anche qui c’è
molto più spazio per il violoncello e la chitarra nelle nuove gig. Il next step
sarà suonare in quattro.
Cosa è successo in questi cinque anni? Vi siete dedicati alla famiglia? Avevate bisogno di prendervi una pausa?
Un po’ di entrambe le cose. Cinque anni fa entrambi iniziammo a mettere su
famiglia. Abbiamo figli ora e ci siamo trovati case che potevano andar bene
sia per crescerli sia per lavorare. Non è stato facile incidere nuova musica
quando abitavo a New York City, c’era troppo rumore là fuori. Mi chiudevo
nel bagno a comporre e questo mi ha insegnato qualcosa: mi sono trasferito
in campagna in una casa non molto grande ma è stato sufficiente trasferirsi in
un posto tranquillo per ritrovare l’ispirazione.
Un paio di microfoni e un computer. Ma vuoi mettere avere un
enorme studio di registrazione con il quale fare praticamente ogni
cosa?
è bello avere un grande studio a disposizione. Per noi è come un negozio
di giocattoli. Per questo album siamo stati invitati da un assistente di Nigel
Godrich nel suo studio londinese per quattro giorni mentre lui non c’era.
Abbiamo registrato trentasei ore di raw recordings (registrazioni crude) con
quei microfoni e tastiere speciali. Abbiamo già usato qualcosa nel nuovo disco ma abbiamo molto altro da utilizzare nel futuro. In generale lo sforzo di
quest’ultimo lustro è stato quello di creare le condizioni per concentrarci nel
creare la nostra musica e questo è potuto accadere soltanto isolandoci dal
resto del mondo. Altro grande sforzo è stato quello di riordinare la sample
library, ha richiesto molto tempo. Fino al 2007 siamo stati in tour e avevamo
comprato molte cassette audio e video, album.Tutto questo materiale doveva
essere ordinato. Soprattutto doveva essere digitalizzato e tagliato in sample e
diviso in categorie per poter essere utilizzato. Sostanzialmente prendo dalle
registrazioni quello che mi interessa e getto il resto in modo che il sample sia
utilizzabile. Soltanto questa operazione è durata due anni. Il passo successivo
era iniziare a comporre musica con quel materiale. Ora però ne abbiamo così
tanto che il prossimo disco arriverà molto prima.
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Parliamo ora del cuore del lavoro partendo dal suo titolo. The Way
Out parla di tutto quello che vi è successo? C’è anche qualche significato politico o filosofico indagabile?
Ci presentiamo al pubblico con un atteggiamento del tipo “questo è il 50%
dell’idea, l’interpretazione è l’altro 50% spetta a voi crearlo”. Per completarla.
E questo certamente può comprendere significati politici o filosofici. è uno
dei motivi per cui siamo così attratti dal materiale che isoliamo. Lo stesso
motivo per il quale tu hai tratto l’ispirazione di chiedermi cosa è politico e
domandarti cosa è politico di conseguenza. Voglio tenere le cose in questo
modo, in modo aperto, anche il titolo è un qualcosa che tocca personalmente
ognuno di noi. Fa scattare ispirazioni e argomentazioni.
La complessità sembra un po’ la materia dei Books. E generare
complessità in un mondo che ti spinge al conformismo è senz’altro
una cosa importante…
La penso allo stesso modo. è un obbiettivo “challenging”, happy e inspiring,
una bella sfida.
Pensavo anche a un altro lavoro complesso al quale The Way Out
sembra ispirarsi in modo indiretto, My Life In The Bush Of Ghosts.
Ti sorprende la cosa?
Sono onorato che vedi dei paralleli con quel lavoro che ha caratterizzato
moltissimo la vita artistica dei suoi autori. Musicalmente suoniamo in modo
diverso ma la filosofia di base ha certamente molto in comune con noi: principalmente si tratta di prendere sample che sono registrazioni banali, o campioni che sono registrati come incisioni non musicali e trovare, in primo luogo, una separazione dal loro significato letterale trovandone il valore musicale
e così altri significati, i significati letterali, metterli nell’impianto complessivo.
Penso che David Byrne e Brian Eno lo avessero capito benissimo. Ogni
sample è stato lì utilizzato per scopi musicali: un’idea fondamentale.
Registrando My Life Byrne e Eno registrarono molti sermoni dai
predicatori americani televisivi. Il tema del gospel torna poi in tutta la carriera Byrne.Vedi anche il recente spettacolo musicale. Nel
vostro album poi c’è qualcosa di ecclesiastico. Una coincidenza?
Nella traccia Beatiful People c’è un coro gregoriano e questo tipo di church
music è stata incredibilmente importante nella storia e nella teoria musicale.
Usiamo quelle armonie non per scopi cristiani ma per fini più matematici, fisici e universali. Ci sono paralleli con la natura delle religioni e la loro filosofia.
Non sono aspetti estranei gli uni agli altri. è importante stare lungo i bordi e
non superare le linee di confine.
Nell’album c’è certamente del folk, ma vi aprite anche all’house e
al funk…
Cinque anni fa non volevamo ritornare in studio e ripeterci.Volevamo tenere
la nostra identità ma volevamo anche guardarci attorno e scoprire nuovi elementi. La sample library è cresciuta così tanto che ci ha dato lei delle risposte.
Ma è altrettanto chiaro che non volevamo utilizzare suoni mainstream. Se li
avessimo utilizzati lo avremmo fatto in modi politici o filosofici. Inoltre con
molti dei nostri sample con la presenza di strumenti, tutti relativi a uno specifico periodo del tempo, primi Settanta e metà Sessanta, con i radio jingle per
esempio potevamo a momenti costruirci un brano intero. Molti beat vengono
dai Seventies. E molti sono stati presi da quelli terapeutici, self help e meditation records, training autogeno e da dischi per indurre l’autoipnosi.
È interessante questo mondo dell’ipnosi...
24
po della curiosità e della sperimentazione e quello nel quale componi
effettivamente qualcosa, spingendo
quelle idee dentro qualcosa di concreto. Avere famiglia e figli cambia il
modo di concepire il nostro lavoro.
Ci ha maturato e fortificato. Ora che
abbiamo un tempo circoscritto per
lavorare, il setting familiare ci ha dato
la capacità di giudicare quello che è
utile e quello che ha potenziale e ciò
che invece deve essere lasciato cadere. Non è un fatto di compromesso ma di usare la tua intelligenza in
modo diverso.
Una volta vi chiedemmo a quale movimento vi sentivate vicini e ci avete risposto: Simon e
Glitchfunkle. Ora cosa ci dite?
Credo che non cambierò quello statement. Simon e Glitchfunkle è un
gioco ma non lo è affatto in realtà.
Non spetta a noi dire di quale genere
siamo. Invito voi a inventare qualcosa
di nuovo piuttosto!
C’è un portato molto umanista
Abbiamo un sacco di registrazioni di sedute ipnotiche fatte da psicologi e in quello che fate del tipo “la fiterapisti professionisti. All’epoca era un piccolo business ed era molto con- losofia ci salverà”.
veniente fare questo tipo di registrazioni. Abbiamo fatto un grande lavoro di Sono d’accordo! Penso a quello che
selezione di questo tipo di materiale. Cercare una nostra narrativa e cercarci vedo come un’opportunità, che il
la nostra voce dentro in totale libertà. Costruirci la tela e dipingerci sopra ruolo dell’artista sia quello di traduruna specifica storia. Siamo stati in grado più che mai di raggiungere l’obbietti- re la democrazia in qualcosa di più
vo di indagare e approfondire i significati letterali, musicali e di commentario universale, in un linguaggio comune.
sociale di questo oggetto d’analisi.
è la stessa filosofia che sta dietro
Credi dunque che The Way Out sia in questo senso il vostro lavoro alle religioni e alle chiese, creare un
della maturità?
linguaggio universale. Non devi semCertamente, è senz’altro un lavoro più maturo rispetto agli altri. Prima di plificare la filosofia o il concetto ma
tutto perché è meno frammentato ma anche perché la libreria è stata la vera come artista poi tradurre il tuo talenfonte d’ispirazione per la composizione delle liriche. Tutti gli spoken word to, le tue idee in statement universali
sono stati utilizzati alla stregua di “strumenti letterari”. Quanto alle liriche, comprensibili a tutti. Ecco perché più
ci siamo fatti ispirare dai sample piuttosto che prendere quelle che venivano che sentirci legati ad altri musicisti,
fuori dai sample stessi.
ci sentiamo parte di qualcosa di più
Ogni canzone del disco sembra essere un universo a parte, eppure ampio. La relazione tra noi e gli altri è
ogni canzone si lega all’altra. Parliamo di un concept, vero?
quindi a qualsiasi livello.Vediamo anaSì. è questo l’aspetto più interessante del realizzare un concept album. In que- logie con scienziati, filosofi, insegnanti
sto caso prendere un specifico periodo temporale e analizzarne le evoluzioni ecc. Mi sento legato trasversalmenin quaranta minuti che sono il perfetto compromesso artistico per questo te con quegli artisti che cercano un
tipo di operazioni.
common language e quelli il cui obAvete cambiato metodo o regole tra di voi?
biettivo è cercare idee fondamentali,
Sostanzialmente è sempre un lavoro di pazienza e concentrazione. Le re- filosofiche.
gole di base tra di noi rimangono le stesse, la sfida è più bilanciare il tem25
Gang
of four
—Seconde vite—
Drop Out
The
26
wire
“Siamo fatti di tempo e se ci
sottomettiamo a esso, tra le
possibilità ce n’è una che possiamo
scegliere. E se l’accettiamo col
permesso dell’incertezza, non
possiamo perdere.”
(Richard Hell)
Testo: Giancarlo Turra
27
SE NON ORA, QUANDO?
Sosteneva Lukàcs che è compito del genio mettere ordine tra le cose. Il che,
di conseguenza, equivale a riconoscere per l’ennesima volta che artisticamente niente nasce da zero, semmai si tessono tra loro fili esistenti, da scoprire e
connettere all’infinito. Nulla si crea e nulla va distrutto ed è un processo che
ognuno può testimoniare in cinquanta e rotti anni di evoluzione della musica
rock, fascinoso mistero che - nelle sue espressioni più alte - sfugge al tempo
nel momento stesso in cui ne cattura il respiro. Fateci caso: tra le mille altre
cose, gli “anni zero” hanno testimoniato un guardarsi indietro da parte di chi,
in epoche diverse, hanno lasciato il segno: Patti Smith e Sonic Youth che
dal vivo risuonano Horses e Daydream Nation alla luce della mezza età e
oltre; gli Stooges che si riformano e deludono, superati dalla verve dei Radio Birdman; l’ennesimo recupero della new wave causa l’ovvio riaffacciarsi
sulle scene di mostri sacri. Travolto e spaesato, non puoi evitare di pensare
quanto davvero ci sia bisogno di volgersi con tale insistenza al passato. Soprattutto all’evidenza di come sovente basti la forma originale a garantire l’attualità
di certi dischi in un presente arido. Per non uscire dall’ambito di questo articolo, un Entertainment!, un Y, un 154 appartengono con medesimo vigore
tanto all’oggi quanto all’anno che li vide uscire; Marquee Moon, Unknown
Pleasures e Metal Box hanno generato decine di fotocopie formate da giovanotti passati dallo spremersi i brufoli a imbracciare chitarre.
Benissimo se i “padri fondatori” vogliono tornare, anche solo per raccattare quei due soldi che non fecero al tempo perché il mercato non era pronto.
Ciò che inquieta (ci mancavano solo i Primal Scream con Screamadelica…) è che, se intanto l’attitudine è rimasta congelata, la replica di una rivoluzione scade nella farsa o, nella migliore delle ipotesi, in nostalgia utile al mercato discografico per spremere gli over-35. Non basta ascoltare attorno per
la conferma della statura di un classico? Non sono sufficienti i giovani d’oggi
che, non riuscendo a cavare di tasca un loro equivalente di Wire, P.I.L. o Joy
Division, ne replicano in tutto e per tutto stilemi ed estetica senza averne
afferrato l’etica e lo spirito? Tornare su un capolavoro da parte dell’autore,
inoltre, cosa potrà aggiungere se non sfumature ininfluenti? Non sarebbe forse più opportuno indirizzare le energie verso materiale nuovo, anche meno
valido, nondimeno figlio di una risposta al qui e ora? Domande che conducono a una certezza: che così si rischia di cadere nell’immobilismo, vecchi e
giovani insieme. Hanno un bell’affermare i componenti del Pop Group - un
tempo i più duri e puri tranne i Crass; adesso freschi di rimpatriata… - che
“c’è tanto che abbiamo lasciato incompleto, e le cose oggi sono peggio che negli
anni ’80 e noi siamo più incazzati che mai.” Certo. Intanto, però, quella meraviglia di oltraggio sonoro che fu il vostro punk-funk bagnato nel free jazz è stata
oggetto di malriuscita mercificazione da parte dei Rapture (si veda House Of
Jealous Lovers), benché non sia colpa di Mark Stewart e soci ma del “gusto
medio” che tende ad allargare i confini. Tratteggiare il pianeta alla deriva con
pennelli e colori di trent’anni fa, che effetto può mai avere?
Il punto sta in realtà nel limite entro il quale ogni artista può seguitare a essere se stesso senza risultare patetico. Se non si evolve, se non “aggiusta” il proprio operato secondo le esperienze che ha affrontato mescolando vissuto e
mestiere, si consegna alla triste messinscena, all’amarcord da lacrimuccia. Però:
se vi spingete oltre nella lettura, scoprirete che c’è chi suona tuttora fresco
come nel ’79 e chi ha tenuto il cervello focalizzato su quando accaduto nel
frattempo alla musica in termini di produzione, fruizione, gestione. Il segreto
28
è comprendere e adattarsi, così che
- per esempio - puoi ascoltare Send
in coda agli Shellac, o Your Future
Our Clutter in mezzo agli LP dei
Pavement (eccoli, altri che non han
saputo resistere alla tentazione…) e
giorire della loro attualità. Perché gli
artefici - nel trasformarsi lungo i decenni plasmandoli, ingoiandoli, risputandoli - hanno trattenuto l’anima di
quando iniziarono. E così si collocano
al di sopra del tempo, come l’Arte al
proprio meglio.
Gang Of Four
I ntrattenimento !?: G ang
O f Four
Secondo quanto si legge in rete, e a
giudicare dall’alto tasso adrenalinico
degli indie-kids del globo, c’è attesa
attorno alla ricomparsa della Banda dei Quattro. Content colmerà il
prossimo ottobre uno iato discografico che durava dal mediocre Shrinkwrapped, pubblicato in un 1995
che pare più lontano di quel che effettivamente è. A meno di variazioni
dell’ultima ora, il brano che lo chiuderà dovrebbe intitolarsi Second Life, un
titolo che diremmo non avere troppi
legami con la realtà virtuale che impazzava fino all’avvento di Facebook,
quanto piuttosto essere una spia della rinascita della formazione. Già edito su un carbonaro 7” autoprodotto
- impreziosito sulla b-side da un remix di Paralyzed operato dai Tortoise - è tagliente e affilato come ai bei
tempi, vocalmente un filo più melodico e perciò ideale testa di ponte per
una seconda vita dei Gang Of Four.
Smarriti per strada da poco i fondatori Dave Allen e Hugo Burnham,
la loro versione “anni 2000” sarà per
forza di cose faccenda diversa e non
soltanto nella line-up. Difficile se non
impossibile rinvenire la carica sovversiva che segnò Entertainment!:
non che gli animi si siano frattanto
placati, semmai è la realtà circostante
ad essere per forza di cose mutata e
non tutti stanno al passo. La protesta
ha nel frattempo assunto diverse forme e di ciò deve tenere conto uno dei
gruppi ideologicamente più consapevoli e schierati della propria generazione.
Trarre la ragione sociale dal maoismo rappresentava nel Settantasette una dichiarazione d’intenti pesante, una provocazione che Malcom McLaren poteva
al massimo sognare. All’epoca, solo il Pop Group - prossimo al ritorno: tutto
quadra - vantava un impatto così apertamente e anarchicamente extra-musicale, come se si volessero collocare dei paletti tra se stessi, la propria visione
del mondo e delle cose - Carlo Marx più punk inacidito dal tatcherismo, vi
va? - e tutto il resto. Oggi, in un occidente rigiratosi come un calzino più e
più volte, non sapremmo dire se e quanto ciò possa ancora valere. La musica,
quella resta solida come oro.
In realtà gli uomini di Leeds erano tornati cinque anni or sono con Return
The Gift, lavoro che - un terzo compilation, un terzo autotributo, un terzo
lezione ai giovanotti rampanti - risuonava alcuni classici a uso e consumo
delle imberbi generazioni: Damaged Goods, I Love A Man In Uniform, To Hell
With Poverty scorrevano una dietro l’altra con impeto imprevisto per dei cin29
quantenni. L’aspetto che ci interessa qui non risiede però nella riproposizione
di ciò che fu (i più maligni potrebbero dire “per far cassa”) quanto nel CD
bonus, dove l’intellighenzia musicale contemporanea si cimentava in remix e
rielaborazioni tributando il dovuto omaggio ai padri(ni). Amusement Parks On Fire, Others, Rakes, Dandy Warhols, Hot Hot Heat e Yeah
Yeah Yeahs, più o meno bravi e/o originali, si collocavano lontani dal “nervo
scoperto” del quartetto. Si notava l’assenza di coloro che più attentamente
e direttamente stavano chiamando in causa - quando non razziando - repertorio, immaginario e suggestioni della formazione britannica: il cui punk-funk
color metallo, fantastico debordare di astio e vigore li ha consegnati agli annali mentre sanciva la nascita di !!!, Rapture e Radio 4. Loro gli assenti di
cui sopra, punta dell’iceberg di un underground che ha ballato per un paio
di stagioni e per il quale Gang Of Four costituivano una delle pietre angolari,
essendo P.I.L., Pop Group e Wire le altre. Tutti, avrete notato, freschi di
rimpatrio oppure mai scioltisi per davvero.
La nevrosi ritmica, il funk in candeggina, le chitarre affilate miste a paranoia
da giovani bianchi ai ferri conrti con il sistema sono tratti che letteralmente
esplodono, spurgati dalla componente danzereccia e tonificati di un portato
ideologico “di rottura”, dall’epocale Entertainment!. è la sua semplice esistenza
a dimostrare l’attualità di un suono capace di sopravvivere e rivivere a distanza
di un quarto di secolo; di porsi come modello per chi alla sua apparizione non
era nato o al massimo portava i pannolini. Cinquantenni e passa alla pari - ma
The Wire
sarebbe meglio dire “più in là” - dei giovani, che dimostrano di aver capito
cosa è mutato nella “gestione” di un gruppo, della musica che suona e del
mercato che la veicola. La distribuzione di Content non sarà infatti un hype
alla Radiohead ma una suddivisione di rischi e privilegi in scia agli Einsturzende Neubauten: legando i fan alla musica e alla relativa filiera, si attua un
autofinanziamento che taglia finalmente fuori le odiate major, con le quali il
rapporto della Gang non fu per ovvi motivi idilliaco. Così i diretti interessati si sono espressi sull’argomento: “La via tradizionale che passa attraverso le
major non ha più senso. A dirla tutta, l’intera struttura dell’industria musicale non
ha più senso. Le etichette discografiche stanno più che mai sottraendo agli artsiti e
sempre meno dando qualcosa a chi viole ascoltare la loro musica.” Eccoli, i marxisti che osservano con un sorriso il crollo del capitalismo.
Q uestione
di approccio :
Wire
Wire è una parola che risuona nella nostra “formazione” sonora. Un faro illuminato e illuminante del giornalismo musicale; aggiunto di una “d”, il punto di
riferimento cartaceo della curiosità per le tecnologie nuove. Come se il concetto estetico di “cavo” e “cablaggio” richiamasse lo stare al passo coi tempi,
i nostri quantomeno. E, guada caso, esiste una band che ha sancito una svolta
fondamentale nel dopo punk (e successivamente nei pre-Novanta e Duemila)
che di quel nome si fregia e ne assume il carattere di contemporaneità. Gli
Wire furono un gruppo sul serio speciale, di una tipicità che non produce
cartucce lo zeitgeist ma che si esprime a colpi di capolavori. Lo fu il primo
atto Pink Flag, dal quale assistemmo a un crescendo di stupore e innova30
31
scagliato sugli astanti, peraltro già parecchio spaesati e privati dei punti di
riferimento convenzionali dalle gag e pose che - saltando la semplice riproposizione delle canzoni - erano una pura performance artistica. Condotta senza
spocchia ma con livore, per scardinare certi meccanismi tradizionali del rock
(in ciò simili ai coprotagonisti di queste righe Gang Of Four) che il ’77 aveva continuato a celebrare dal punto di vista metodologico dopo averli irrisi.
Ecco dove stava il senso del prefisso post collocato davanti a punk, ed ecco
dove originava molta dell’incomprensione verso il progetto Wire. Il gruppo
progrediva rapidamente, eppure buona parte del pubblico restava indietro,
o nella migliore delle ipotesi cercava i mezzi più adeguati per comprendere
quella nuova onda così diversa dal resto.
Colin proveniva infatti dal retaggio oggi perduto (smantellato da anni di
politica destrorsa…) della scuola d’arte come il suo mentore Brian Eno,
che - Reynolds racconta - nutrì il giovane Newman personalmente lungo i
viaggi in auto da e verso il Watford Art College. Fu probabilmente grazie a
questo e a un felice concorso di cose che prese forma un altro elemento di
grandezza degli Wire, cioè la complessità armonica. Una ricercatezza che i
“nuovi nuovi wavers” hanno smarrito nel rifarsi soltanto a uno, massimo due
referenti sonori del passato. E che forse anche Wire, negli episodi più recenti,
posseggono in misura minore, forse per via dell’età o del più “robusto” abito
sonoro dettato dai tempi in mutazione. Quella caratteristica innestava intelligenza compositiva in un mondo di suo estremamente vivo di idee nuove, e
difatti si conservò - seppur parcellizzata - in alcune gemme del Newman solista immediatamente successive al primo scioglimento e nei Dome guidati
da Bruce Gilbert e Graham Lewis. Ci sembra che i pur avvincenti Read
& Burn abbiano da questo punto di vista subito una sorta di banalizzazione, e
lo stesso dicasi per Send. Object 47 ha poi lasciato ulteriormente per strada
le capacità di fuoco, forse anche perché la band ha sempre vissuto sull’autobilanciamento della coppia Colin Newman/Bruce Gilbert, giustappunto
scioltasi (forse definitivamente) in occasione dell’oggetto sonoro numero
quarantasette. Di bilanciamenti su quel cavo che in inglese significa anche filo
metallico viveva e vive l’essenza degli Wire: melodia e obliquità, Colin e Bruce,
avanguardia e pop. Speriamo di sentirlo vibrare ancora a lungo, quel cavo,
mentre un piede davanti all’altro ne percorriamo la lunghezza, inseguendo
ogni volta un doverso equilibrio sopra le note. La pratica rende perfetti, del
resto.
Metodo, istinto e stile
32
The Wire
In occasione della ristampa Send Ultimate, intervistiamo Colin Newman via mail
Come già dimostrato con le domande rivolte ai Githead, molto più di un lussuoso “progetto parallelo”, intervistare Colin Newman è un autentico piacere.
Nella puntualità e nell’arguzia delle risposte comprendi come costui - e relativi
compagni, al pari di lui vivi e brillanti - non poteva produrre cattiva musica. In ciò
che dice avverti un bagaglio culturale ampio e robusto, la chiarezza d’intenti mai
svanita in più di tre decenni. E, da buon inglese, un punto di vista mordace sugli
argomenti proposti, che puntavano a tirare le somme dell’attualità degli Wire
alla luce di quel post-punk che seguita a influenzare generazioni di musicisti. E che,
secondo Newman, non è neanche esistito.
Colin, gli Wire sono un caso raro: quello di una formazione che è sempre stata capace di raccontare e riassumere il proprio tempo mentre
anticipava il futuro. Che ne pensi?
Che suona grandioso! Di sicuro è sempre stato il nostro scopo, ma dovrebbe
esserlo per ogni artista, no? Ritengo inoltre che vi sia stata molta fortuna nelle
decisioni prese al momento giusto. Quando ti trovi in mezzo a una situazione
non è sempre facile coglierne la completezza: cerco di farmi guidare dall’istinto,
tuttavia vaglio mentalmente diverse opportunità cercando la più genuina espressione delle dinamiche interne del gruppo.
Forse è per questo che è come se non si foste mai davvero sciolti? Potete permettervi di sparire e tornare perché siete al di sopra di ogni
moda. E perché avete idee chiare e fresche, come del resto i Githead…
Suonare in entrambi mi ha insegnato chiaramente che la cosa migliore delle collaborazioni è trovare gli aspetti più conformi a ogni contesto. Se ciò ci collochi al di
sopra dei trend, non saprei dire. I generi possono essere un buona via d’accesso
per artisti nuovi ma, alla fine, i migliori devono oltrepassarli per raggiungere la
grandezza. Credo che ciò dipenda molto da quali sono gli obiettivi di ognuno:
gli Wire hanno avuto periodi in cui i membri non lavoravano assieme, e non so
quanto tali "pause” rendano tutto più attuale. Tanti giornalisti lo sostengono, ma
la freschezza può arrivare anche là dove si lavora incessantemente cercando di
non ripetersi. Volevo dire che gli Wire sono sempre stati un “progetto” mutevole per esempio: quando Robert Gotobed se ne andò, vi siete ribattezzati
Wir per un po’ - influenzando la propria epoca e venendone a sua volta influenzato. Ciò è evidente se si ascoltano i vostri dischi di seguito.
Siamo sempre stati descritti come qualcosa che aveva a che fare col cambiamento; a dire il vero, questo aveva profonde radici nella storia iniziale del gruppo,
quando ci rendemmo conto che una svolta radicale generata da necessità funzionasse bene per il nostro progresso artistico. Ciò implicava anche che, a differenza
di molti altri, il nostro LP d’esordio non fu il risultato di anni spesi a limare il
suono “sulla strada”; viceversa, fu il prodotto dell’anno in cui uscì e fu perciò facile
farne un secondo del tutto diverso. Gli "Wir" invece incarnarono una specie di
sovvertimento consapevole e funzionale; nondimeno, dopo l’abbandono di Bruce
nel 2004, ritrovandoci nel 2006 sentivamo di voler sottolineare la continuità del
progetto. Ora abbiamo quasi terminato il dodicesimo album di studio, molto differente da Object 47 per via del nostro continuo rimetterci in discussione. Nel 2006 affermasti che gli Wire erano “al contempo rock band e oggetto artistico”. Credi che questo sia invariato in ogni vostra incarnazione?
Certamente. Non che ci sia uno schema fisso, però non siamo mai stati al 100%
Colin Newman
zione fino a154, colossale attrattore
e catalizzatore del post-punk che ha
contato davvero; vertice e sintesi di
temi e atmosfere che sottolineavano
i tempi che correvano allora e corrono oggi. Lo fa pensare il ritorno a scadenza quasi decennale dei britannici,
concretizzato nel decennio appena
chiuso dal ciclo di EP Read & Burn,
gli LP Send e Object 47 e l’antologia
fresca di stampa Send Ultimate.
Una reunion nient’affatto passiva,
come era del resto lecito attendersi
da chi influenzò in maniera decisiva
un’attualità che, da par suo, ha risposto con fior di citazioni e parallelismi.
Un gioco di commistione, anche, che
vede la contemporanea presenza sui
palchi mondiali di di zii e nipoti come
Devo e Art Brut, o per l’appunto come Wire e Liars. Il fatto che
Newman e soci (ieri e oggi; e domani?) siano ancora “sul pezzo” è provato dai recenti esperimenti di formazioni “anni zero”. Nel momento
in cui i Liars trovano in Sisterworld
un suono proprio e non più derivativo, paradossalmente incappano in
un gioco armonico stretto parente
di Practise Makes Perfect, gioiello che
faceva mostra di sé su Chairs Missing, pannello mediano del trittico
classico che ha consegnato Wire alla
storia e al saccheggio delle generazioni successive. In precedenza,
servisse un’ulteriore prova, i live di
Angus Andrew e soci mettevano al
centro la performance, non la replica dei brani confezionati su album. E
che dire dei These New Puritans,
il cui atteggiamento - per complessità, atmosfere, approccio compositivo
- ricorda da vicino i Nostri: anche qui
si guardano e utlizzano le tecnologie
come nel ’79. Il velo di oscurità aiuta
a sottolineare la parentela, tuttavia la
questione pare più di approccio, di un
metodo che riconosci come il più importante lascito degli Wire. Insieme
a un nervosismo divenuto leggendario che nella dimensione “live” veniva
33
gruppo rock od oggetto artistico. La chiave sta nell’intento.
Considerate ancora l’esperienza dal vivo come più vicina alla “performance art” che al concerto rock
classico?
Non nell’esteriorità. Sul palco dobbiamo comportarci da gruppo rock: quello è il formato, non necessariamente il contenuto. Ci si può sganciare dal concerto tradizionale quando si “trascende".
Vorrei sapere la tua opinione sulle reunion di Gang Of Four e Pop Group. Quale significato e valore possono avere oggi, musicalmente e culturalmente?
Non so bene cosa stia facendo il Pop Group, ma Gang Of Four, Magazine, PiL sono qualcosa di "storicizzato". Di
sicuro è il modo per fare molti soldi in breve tempo, ma sul medio/lungo periodo ne risenti negativamente dal punto di
vista sia critico che finanziario. Ci abbiamo provato anche noi per 6 mesi nel 2000, ma ci annoiavamo. Non ci sentiamo
a nostro agio col revival, siamo troppo interessati alle novità. Nessun problema a esplorare la nostra storia (in concerto
proponiamo materiale da tutta la produzione, e non sono certo scelte ovvie), però essere solo "pezzi da museo” deve
essere un tale tedio...
Il 90% della musica odierna si volge indietro cercando idee, ispirazione, stile. è dovuto al presente arido o
a passati troppo fertili? Eh, questo è davvero un terreno difficile. Per gli Wire è stato eccezionalmente utile essere considerati una “fonte d’ispirazione” sovra-generazionale poiché significa che a un ampio spettro di gente singolare interessa quello che facciamo. Come
dici tu, c’è tanta grande vecchia musica e ne esiste di nuova che la “rinnova” conferendogli un tocco contemporaneo; certo,
c’è roba vecchia più attuale delle nuove copie. Internet ha aumentato le opportunità di pubblicizzarsi per chi possiede spirito commerciale, tuttavia ha anche ridotto i margini per ricavarne di che vivere, soprattutto per gli artisti nuovi. Chi possiede
molti soldi non è minimamente interessato a investimenti sul lungo termine: ne deriva che tanti devono ricorrere a scelte
sicure per vivere. Dobbiamo anche considerare le nuove tecnologie: abbiamo a disposizione strumenti potenzialmente
infiniti, pertanto non esistono più stili nuovi basati su qualcosa che prima non era fruibile da tutti. Ci sarebbe parecchio su
cui discutere, ma preferisco fermarmi qui…
Per quale ragione, secondo te, la “generazione del 2000” non riesce a produrre dei propri Wire, Gang Of
Four, Fall e deve copiarli senza in sostanza aggiungere nulla? Come vedi il “ritorno” in massa del post-punk
negli ultimi anni?
Beh, il fatto è che non è mai esistito un “post-punk" a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. C’era il punk che era passato di
moda e alcuni che ne sfruttavano l’energia per creare cose nuove: nessuno credeva che Wire, Gang Of Four e Fall avessero granché in comune. Nei primi eighties pressoché ogni cosa che derivava dal punk non era presa in considerazione in
Inghilterra, al tempo dominava il "pop". Mentre cerca un proprio linguaggio, ogni generazione tende ad adottare quello di
una precedente, spesso poco noto. Guarda l’ombra lunga gettata dai Velvet Underground, sconosciuti nei ’60, sui decenni
successivi. Non so che dire di chi “copia”, ma per certo non ho mai ascoltato un fac-simile degli Wire che fosse anche
vagamente convincente (ride, N.d.t.).
Non credi che però servano più figli e meno cloni?
Direi anche figlie, oltre che figli! In giro sento dire bene dei Factory Floor.
A proposito di innovazione: una delle caratteristiche dei Wire è il lavoro sperimentale sulle armonie, che
nel ’77 del punk era un anatema. Lo è ancora?
Per quanto mi guarda, la peculiarità armonica rappresenta un fattore chiave. Esprime l’individualità che possiamo offrire
nella musica e mi piace chi vi mostra una forte personalità. La vostra “lezione” è stata benissimo compresa dal post-rock, che mescolava rock ed elettronica e si basava più sulle tessiture strumentali che su riff e assoli. Il che spiega come Margaret Fiedler dei Laika abbia
potuto colmare lo spazio lasciato da Bruce Gilbert...
è possibile. Credo che Margaret si sia inserita bene nel “live” in quanto coscienziosa e diligente; capisce molta della nostra
dinamica e per questo è stato molto bello lavorare con lei. Per questo nuovo ciclo abbiamo un altro chitarrista, Matt
Simms, che apporta un contributo diverso.
Come nel triennio ’77-’80, oggi abbiamo guai e paure più che sufficienti da esorcizzare e/o tradurre in musica. Forse il post-rock è stato troppo “post” e, a tale scopo, ripetere il passato è tutto ciò che resta?
Sono convinto che, se hai idee, nell’arte ci sia sempre spazio per aggiungere qualcosa di proprio al già detto e tramutarlo
in una cosa diversa. Sul resto hai ovviamente ragione, altrimenti persone come il sottoscritto non farebbero ciò che fanno.
Nondimeno, attualmente gli artisti sono sottoposti a diverse pressioni, forse alcuni non si sentono in grado di aggiungere
34
Colin Newman
del loro. Magari è sempre stato così: nei Settanta per noi aprivano band che credevano di fare cagare, però poi alcuni hanno
fatto strada! In un certo senso non andrai da nessuna parte se non hai una ragione per farlo; e se quella ragione riguarda
l’arte, che senso ha se non hai nulla di nuovo da proporre?
Voi prendevate il kraut-rock, Eno e i primi Roxy Music, la psichedelia dei ’60 e la funkadelia per fonderle in
una mistura unica ed equilibrata. Anche minimale e potente, come se la sua forza derivasse dalla sottrazione, dal ridurre la musica a un essenziale nudo seppure ricco. Attualmente i gruppi giovani hanno facile
accesso alla tecnologia e alla storia della musica, però di rado si spingono oltre un singolo modello di riferimento. La limitatezza dei mezzi stimola sul serio la creatività?
Può darsi, benché restringere il campo per provocare innovazione sia anche un metodo. Sai, ritengo che queste cose siano
soprattutto mentali. Inoltre esiste la tensione dinamica tra agire e non agire: il fatto che tu possa non comporta per forza
che tu debba…
Non sarà la facilità estrema con cui si fanno dischi? L’assenza di filtri mi pare un problema serio, nel senso
che una volta il produttore diventava un membro aggiunto (come il vostro Mike Thorne) e aggiungeva un
prezioso punto di vista. Ora ci si produce da soli e sopravvive il sound engineer, che è meno importante sul
risultato finale eccetto Steve Albini e pochi altri.
è facile fare cose che suonino o sembrino a posto, più difficile è andare oltre. Il problema principale è che nessuno ha più
soldi per allestire un progetto innovativo e promettente: è difficilissimo guadagnare con i dischi, così che la gente li considera un appiglio per l’attività concertistica. Prendi gli Holy Fuck, probabilmente il miglior gruppo che hi visto in azione l’anno
scorso: nei ’70 li avrebbero mandati in studio con un produttore sulla stessa lunghezza d’onda e ne avrebbero tirato fuori
un classico. Per come vano le cose ora, sono al di sotto delle loro possibilità - non so se per scelta o necessità - e i dischi
non ne restituiscono l’impatto dal vivo. Sui miei dischi ci passo mesi, puntando a un’uscita che mostri l’attenzione e la cura
profuse. Se gli Wire dovessero pagare un “third party” per pubblicare dischi, ci rimetterebbero e basta. Il tipo di economia
che trent’anni fa si applicava a contesti come il nostro, adesso vale soltanto per il mainstream.
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Recensioni
— cd&lp
highlight
AA. VV./Brackles - Songs For
Endless Cities Volume 1 (!K7,
Settembre 2010)
G enere : UK bas s
La !K7 non sta con le mani in mano e dopo aver rinnovato la serie di punta DJ Kicks con nomi del calibro di
Kode9 e James Holden, lancia un nuovo prodotto per
l'ascolto di avantronica. Dalle informazioni ufficiali Songs
for Endless Cities è “una nuova serie che si focalizzerà sulle
nuove generazioni di DJ e produttori che hanno un taglio
fresco e originale sull'evoluzione della scena elettronica”.
Primo nome a cimentarsi con il nuovo ambiente è Brackles, ventiquattrenne londinese taggato come uno dei
nomi di punta del cosiddetto future garage. Boss della
Blunted Robots e miscelatore assunto regolarmente da
Rinse FM, il giovane DJ porta avanti le contraddizioni
della diaspora dubstep e le inserisce in una compilation
che ricorda la svolta intelligent della già osannata Fabric
Elevator Music.
La direzione la spiega proprio lui stesso: “Dopo essere stato in full immersion dubstep per molti anni, ascoltare un po'
di UK funky è stato refreshing. Mi piace ancora il dubstep, ma
il funky ha degli elementi di cui sentivo la mancanza dopo
che il Garage UK è morto. Mi ha aperto gli occhi su tutti i tipi
di musica possibile, quindi cerco di inserire elementi dall'house, dal funky e dal dubstep nei miei set”. Promessa mantenuta: il disco varia piacevolmente tra molteplici generi e
nomi di spicco della scena: i noti Flying Lotus, Zomby,
2562 e Dorian Concept e gli emergenti Funkineven
e Breach. Un bel viaggio intorno al suono UK bass che
varia tra hip-hop tagliato bbreak (My Chippy), IDM acida (Peoples Potential), synth-step à la Ikonika (Luv For
KMFH), tribalismo (African Forest) e pulsazioni funk (Must
Move). ’nuum is everywhere...
(7.1/10)
Marco Braggion
AA. VV./Dj Hell - Body Language 9
(Get Physical, Luglio 2010)
G enere : mix house
Hell ritorna a mixare. Questa volta per la prestigiosa
Get Physical che ha già visto passare per la collana Body
Language nomi del calibro di Jesse Rose, Dixon, Junior
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Boys e M.A.N.D.Y.. Il guru capocchia dell'International Deejay Gigolo plana su un decadentismo che ingloba
stili disparati e completamente "fuori moda" confezionando un prodotto 100% New York con tonnellate di
mastodonti (David Sylvian, Depeche Mode, Schulze
e Bowie con il culto This Is Not America), paraculate (vedi
il Balanescu Quartet che rifà i Kraftwerk di The Robot)
e colpacci (il picco è la Detroit di Carl Craig che rifà
Nairobi di Kirk Degiorgio)
DJ Hell non ha niente da ostentare, né vuole farsi bello
con il make up delle star. Hell è già star. E se ne frega.
L'house in fin dei conti è anima, il soul con quel tocco di
futuro. La decadenza è il suo lato B e lui lo sa meglio di
tutti noi. Massimo rispetto. (6.8/10)
Marco Braggion
AA. VV./Surgeon - Fabric 53 (Fabric,
Settembre 2010)
G enere : techno , dubstep
è dal 2007 che non si sente Antony Child su disco. L'ultima fatica del maestro del Birmingham Sound era stata
la compilation technoide This is For You Shits su Warp. In
tre anni il ragazzo ha iniziato ad usare Ableton, si è innamorato del Giappone e ha affinato le armi della sua manipolazione digitale. Oggi approda nel gotha del Fabric
con una compilation che coniuga i mondi del dubstep e
della techno (ormai praticamente in simbiosi) pescando
dal meglio dei due calderoni: Scuba e Starkey per il
primo, Russ Gabriel, T-Polar e Robert Hood (in overdose Detroit) per il secondo. In più si aggiungono delle
tracce autoprodotte dallo stesso Surgeon che spaziano
da un clubbismo spinto deep (Bad Hands) a svisate 8 bit
contemplative (Klonk), da trashitudini mEshy (Compliance
Momentum) a splendidi panorami darkstep (The Crawling
Frog Is Torn And Smiles).
Uno che dichiara di non amare le divisioni in generi e
di considerare la sua musica “tutta techno” non si improvvisa. Child fa della compilation un esperimento che
si allinea alle tendenze del miglior club del mondo, mostrandoci come il dubstep sia stato metabolizzato dal
dancefloor, e come nel contempo si possa degustare il
suono deviato dei sobborghi di Londra anche in camera,
Arcade Fire - The Suburbs (Merge, Agosto 2010)
G enere : wave suburbia
Sobborghi. Periferia. Nel mondo post-tutto non esiste più alcun centro, alla faccia di tutto l'hype che
possa venire da un sottoscala di Brooklyn o da una cameretta di Londra. Ecco il messaggio che colpisce
l'ascoltatore fin dall'iniziale titletrack di The Suburbs e al quale gli Arcade Fire sembrano voler dare
un'importanza primaria. Loro che sono periferici (il Quebec francofono) in un paese periferico (il Canada).
Oggi, nell'imbarazzo dei media e della critica, che per quanto si sforzino di incasellare e categorizzare, in
realtà faticano a inquadrare il flusso magmatico e ribollente di ciò che accade nel mondo fisico e in quello
digitale, il grido folk-rock che apre il loro terzo disco ci ricorda che viviamo tutti nella nostra personale
provincia: geografica, culturale, ideologica, sociale.
Dopo la scossa tellurica - non replicabile - di Funeral e a tre anni dal solido
Neon Bible, gli Arcade Fire avrebbero potuto lasciare da parte ogni forma
di umiltà, sponsorizzati come sono fin dagli esordi da tipi come David Byrne e David Bowie, e sostenuti da un seguito oramai più che consolidato
e in spasmodica attesa. Invece, preferiscono lo scarto laterale andando a
prendere ispirazione nella tradizione. A dire che per loro che vengono da
un'estrema propaggine wave la maturità si può trovare guardando indietro.
Lasciamo al tempo decidere se questa scelta sia dettata da una sincera spinta
artistica o se non sia, invece, il caso di un appannamento, di una vena compositiva che mostri i primi segni di inaridimento. Alcuni indizi fanno pensare il contrario, ma siamo comunque
al cospetto di un passaggio interlocutorio.
Come già si è detto su questo magazine, l'opener The Suburbs va proprio a ripescare i Sixties mai passati
di moda, tra Beatles, Phil Spector e, soprattutto, Van Dyke Parks. Month Of May mantiene la propria
lucentezza, pescando nel sound chitarristico della seconda metà degli anni Novanta. Certo non mancano
episodi che faranno contenti i fan più incalliti: l'incedere circolare di Rococo, barocca come certe parti di
Neon Bible, la melodia ondulatoria di City With No Children tra cori in stile Funeral. Ready To Go è una No
Cars Go che oramai gli Arcade Fire scrivono con il pilota automatico. Accenni dancy emergono nella riuscita
Sprawl II (Moutains Beyond Mountains), cantata da Régine in trip Björk e sottolineata da basi in gita europop.
Altrettanto interessante il synth-pop tra New Order e Abba di Half Light II (No Celebration). Suburban Wars,
invece, è Win Butler più che mai Ian McCulloch: Killing Moon filtrata dal rock di Neil Young.
Nel cercare una via d'uscita da un potenziale cul de sac in cui fan e industria discografica avrebbe voluto
cacciarli, gli Arcade Fire scelgono la strada più antica e fidata: ripercorrere il canone. Qualcuno dirà che 16
brani sono troppi e che si poteva asciugare qualcosa, ma da Blonde On Blonde in poi i musicisti hanno
spesso usato il formato "doppio" allo scopo di segnare punti fermi. Se non assoluti, almeno personali.
In The Suburbs, prodotto dalla band e Markus Dravs (Brian Eno, Coldplay), lo statement principale
sembra essere la ricerca delle radici profonde del loro suono, dal Roy Orbison che aleggia qua e là allo
springsteenismo permeante; senza negarsi venature psych e shoegaze. Come a dire: ecco da dove vengono
il nostro linguaggio e la nostra poetica, ecco le eredità che vogliamo abbracciare. Reinterpretandole dalla
prospettiva che la nostra personale provincia ci suggerisce.
(7.2/10)
Marco Boscolo
37
magari con una smart drug in tasca. La raccolta si lascia
ascoltare senza alcun patema, anzi i remix di Substance
per Orphx (Threshold) e la rivisitazione onirico spastica di Appleblim e Al Tourettes per Planetary Assault
System (X Speaks To X) ci fanno salire l'adrenalina e la
voglia di tornare in pista dopo i falò estivi. Una delle
selecta più intriganti degli ultimi mesi. Made in Fabric,
guaranteed.
(7.3/10)
Marco Braggion
AA.VV. - Beyond Berkeley Guitar
(Tompkins Square, Giugno 2010)
G enere : guitar soli
Anche non leggendo il libretto che lo accompagna, è facile trovare in John Fahey lo spirito guida di questo
disco. Che è il seguito di Berkeley Guitar, raccolta che nel
2006 si incaricava di mostrare quanto la “scuola” della
primitive guitar fosse tuttora viva da che Fahey la fondò
(e con essa, la Takoma Records) in un quieto angolo di
California settentrionale. Scopo raggiunto allora e oggi,
allorchè la distanza dalla dipartita del Maestro cresce e
con essa la portata della sua Arte; a maggior ragione pochi mesi dopo che uno dei suoi più talentuosi discepoli,
Jack Rose, è scomparso prematuramente.
Di blues trasformato in metafisica, qui, troverete tuttavia tracce sporadiche e più che altrove nello sferzare di
corde che si fa aereo della fluviale Ourselves When We
Are Real di Sean Smith, che del disco è anche il curatore. Assenti certi rumorismi o le sarcastiche intrusioni di
surrealismo europeo, come non ve ne sono nei restanti
sei brani offerti da altrettanti chitarristi della Bay Area,
dotati dell'abilità e competenza tipiche di chi riconosce
apertamente le proprie radici e pensa a sé come a un
appassionato prosecutore di un'antica tradizione.
Bandita ogni freddezza, nell'aria si spargono il virtuoso
shuffle blues di Ava Mendoza e il dolce “raga” citazionista di Richard Osborn, il fingerpicking spagnoleggiante di Aaron Sheppard e la familiare tensione sospesa
di Trevor Healy e Chuck Johnson. Non bastassero
gli immaginifici titoli delle composizioni, spetta al Celacanto - pesce ritenuto estinto e riaffiorato all'improvviso
in un melmoso fiume americano, nel quale Fahey amava
identificarsi - sovrapposto in copertina a una chitarra
incarnare l'ennesimo omaggio a un immane Genio.
(7.2/10)
Giancarlo Turra
38
Abdoulaye Traore - Abdoulaye
Traore (Drag City, Giugno 2010)
G enere : M ali blues
A fare ottimo paio con il disco omonimo di Toba Seydou
Traore, l'attenta Drag City immette sul mercato un'edizione digitale della prima di sette cassette pubblicate da
Abdoulaye Traore. Anch'egli originario del Mali rurale e
similmente segnato in giovane età dalla strumentazione dei clan di cacciatori, si rifà tuttavia alla tradizione
Wasulu, basata - a giudicare da questa raccolta - su una
maggiore tensione delle trame sonore, su un'ipnosi consegnata nel corpo pulsante di brani più brevi e anche più
spigolosi. Ennesimo discepolo di Yoro Sidibe, col quale
ha completato la propria formazione due anni or sono,
l'uomo lavora di conseguenza su un groove insistito che
trae origine dall'originaria natura (danza popolare e incitamento all'arte venatoria) di questa musica.
Forzando un poco il discorso secondo termini “occidentali”, queste otto tracce (menzione d'obbligo per il flettersi esemplare di Sadunun e una Danbakèlè intensa più
del resto) stanno al funk come Toba Seydou Traore al
blues: scarnificato e vibrante, essenziale e caloroso. Un
intreccio di corde acustiche e voci che prende spazio
con ferma discrezione, smentendo un'iniziale apparenza
monocolore e invogliando a tornare sull'argomento più
volte. Gustando l'insieme tanto quanto le lievi sfumature,
mentre il minimalismo ritmico secco e irresistibile di James Brown inizia a rispuntare dalla memoria. Provare
per credere.
(7.2/10)
Giancarlo Turra
Agosta - Virus (Halidon, Settembre
2010)
G enere : rock d ' autore
L'unica notizia che avevamo registrato riguardo a Paolo
Agosta era la produzione dell'esordio di Fabio Mercuri, ma l'intraprendente polistrumentista e fotografo
milanese ha già all'attivo due album: L'immensità e Nuove
Strade. Per questo terzo disco, sceglie la strada della vera
e propria band e rinomina il progetto semplicemente
Agosta, per contenere una vene cantautoriale e rock,
che sta dalle parti di Paolo Benvegnù, Morgan e Perturbazione.
Le sue canzoni sono bozzetti spesso notturni, venati talvolta di melodie da mainstream (Piove sopra Milano) e
di rock più corposo (Mantide), che ricorda equamente
Malfunk e Scisma. Ma il leitmotiv che sembra correre
lungo tutte le undici tracce, ora in modo più evidente,
ora solo come una suggestione vaga e lontana, è un personale filtraggio della musica americana degli anni No-
vanta (Nirvana e, soprattutto, Pearl Jam) per piegarla
alle proprie personali visioni. Non un disco che sposterà
di una virgola il panorama musicale italiano di oggi, ma
costruito con sapienza, cultura e buon gusto, e a cui non
manca una certa dose di ironia: basti guardare sul tubo il
video che accompagna la cover di Altrove di Morgan, qui
presentata come ghost track.
(6.6/10)
Marco Boscolo
Alva Noto/Blixa Bargeld - Ret
Marut Handshake EP (Raster Noton
DE, Giugno 2010)
G enere : elettronica
È dal 2007 che Mr. Raster-Noton, cioè Alva Noto, ha
iniziato un progetto di attività live con Mr. Einstürzende Neaubauten, Blixa Bargeld - ed è già qualche
tempo che i due, tramite la label del primo, promettono
di licenziare le registrazioni della loro collaborazione.
Ret Marut Handshake è il primo frutto di questa sinergia: un EP su vinile 12” che introduce al tema, a sua
volta rimandando all'album di prossima uscita, prevista entro qualche mese. Un sistema di anticipazioni, che
rischia di far sfumare l'interesse sul primo prodotto di
ANBB, acronimo che sigla l'intreccio delle due menti.
Eppure è già materiale su cui spendere due ragionamenti. Il primo discende dalla statura delle due personalità,
troppo invadenti, a volte (specie quella dell'ex Bad Seeds), per tirarsi indietro e far parlare con voce propria
le possibilità sommatorie delle idee che ne sprigionano.
One, per esempio, subisce troppo il pilota automatico di
Blixa, siglato, dopo una calda-fredda riflessione cantata a
là ultimi - signorili - Einstürzende, da un gridolino strozzato che lo continua a contraddistinguere come una firma
che forse ha fatto il suo tempo. Funziona meglio la prima
traccia, title-track, un intreccio di incubi ambientali e tenute timbriche (poco industriali) dall'efficacia impressionante, dove AN e BB trovano un senso immediato, quasi
materico, al loro accostamento. In modo simile, è interessante la tematica tragi-cosmica (alla Klaus Schulze)
condotta dai toni di tastiera di Bernsteinzimmer, poi trasformata, all'ingresso della voce di Bargeld, in un sospeso
dramma quasi Nico-iano post-industriale.
A tutti gli effetti questo EP è una dimostrazione, un
prototipo. I pezzi vivono poco della propria autonomia,
hanno scarsissime capacità di affrancarsi dall'ingombro,
nel giudizio, dei due personaggi. Fatta eccezione per la
statura (endogena) di I Wish I Was A Mole In The Ground,
cover del brano tradizional-nichilista del folk americano
di inizio Novecento (conosciuto a partire dall'interpretazione di Bascom Lamar Lunsford) - essa stessa un
terreno di prova, che collega culture (Marcus, Dylan, la
citata rooted-America, oggi il post-industriale). Ret Marut
Handshake sarà pure una demo, ma di quelle che sottolineano come marginali le proprie mancanze e quindi
mostrano ampi margini di crescita.
(7/10)
Gaspare Caliri
Andreya Triana - Lost Where I
Belong (Ninja Tune, Agosto 2010)
G enere : nu soul
Andreya Triana è l'ennesima next big thing del soul britannico. Già vista e ascoltata in un cameo con Flying
Lotus e nell'eccellente partecipazione alle vocals del
disco di Bonobo, rivelazione senza patron (eccetto per
la sua voce intrigante) della Red Bull Music Academy nel
2006, oggi emerge in gran spolvero con il suo debutto su
Ninja Tune. L'etichetta che fa il ventennio la inserisce in
direttissima nella raccoltona celebrativa dell'anniversario,
come a dire che anche se esordiente, Andreya può meritarsi di entrare da subito nella storia del suono UK.
Ma come suona la ragazza? La voce è di quelle che non
strafanno, un misto di delicatezza da bossa nova (Something In The Silence) e di soul da cameretta chill-out
illbient, si regge su radici maturate sui palchi del fumoso
nu-jazz britannico, cita affiliazioni di classe come il Bristol
sound acustico dei Portishead più acustici, la Björk a
cappella, i colori caldi dell'anima e le stampe optical Settanta. Cose da blaxploitation segate in due dalle promesse postmoderne del dubstep (non lo troverete nell'album, ma Andreya è già stata remixata dagli hyppatissimi
Mount Kimbie su A Town Called Obsolete).
Un esordio con i fiocchi per la riccioluta ragazza di
Brighton, che stupisce con l'opener da camera Draw The
Stars, le meditazioni acustiche Darker Than Blue e X e per
finire con la doverosa citazione ai Massive Attack - nel
titolo e nella sostanza - di Daydreamers. Come situarsi a
lato degli strilloni sensazionalistici del pop di La Roux,
ritagliandosi una nicchia che piacerà agli estimatori del
downtempo di Martina Topley Bird, Sade e Tracey
Thorn, tanto per citare tre nomi di classe non ostentata
che bene si accostano alla proposta della promessa già
notata dal guru Gilles Peterson. Andreya keeps it real.
(7.3/10)
Marco Braggion
Arcade Fire - e.p. (Merge, Agosto
2010)
G enere : coral - indie
Da quello che è probabilmente l'evento discografico
dell'anno, cioè il terzo e “decisivo” disco degli Arcade
39
Fire, sono già ascoltabili in rete quattro brani. Per quanto sia difficile dire quanto possano essere indicativi di
The Suburbs (questo il titolo dell'album fuori ai primi di
agosto), resta la domanda su come la formazione possa
gestire il clamore suscitato; se, cioè, riuscirà a entrare
in classifica e non uscire dai cuori dei più esigenti. In tal
senso, infastidisce un po' sapere che il suddetto lavoro
verrà commercializzato in otto copertine diverse, ma
d'altra parte il marketing si muove in maniera tortuosa.
Altra faccenda la musica: se Ready To Start sciacqua l'epica
con caramello e sibilanti tastiere senza convincere, The
Suburbs risponde tramite un appassionato folk-rock in
tempo medio che ragiona sui Beatles prodotti da Phil
Spector però scampati alla morte dei sixties. Il compito di stupire spetta a Month Of May, parafrasi personale
del techno-rock duro e tuttavia elegante escogitato dai
Primal Scream alla fine dello scorso decennio: superata l'incredulità, applaudi. We Used To Wait è viceversa il
nuovo inno, fantasmi di Echo & The Bunnymen sulla
china discendente si impastano di elettronica cupa anni
'90 e inciampano in déjà vu e retorica. Un pareggio, a
conti fatti: per gli eventuali calci di rigore, tocca aspettare
il prossimo mese
(6.7/10)
Giancarlo Turra
Autolux - Transit Transit (ATP
Recordings, Agosto 2010)
G enere : shoegaze youth
Avevamo lasciato gli Autolux cinque anni fa ai tempi
dell'esordio Future Perfect con un suono a metà tra le
pose in negativo dei Sonic Youth e il pop albionico più
trasognato e vicino allo shoegaze, in una formula suonata
a dovere senza tuttavia quel quid da farcela amare.
Ci è successo molte volte nei Duemila: tante ipotesi di
(re)interpretazione di verbi potenti e familiari (un caso
per tutti: i Black Rebel Motorcycle Club), poche idee
melodiche e tante (magre) consolazioni in chi come questo trio losangelino si prendeva comunque la briga d'incidere un album come una volta: in uno studio decente,
con un produttore d'esperienza (T-Bone Burnett) e magari pure con il tempo necessario per editare il lavoro
finito, aggiungendo dettagli preziosi e togliendo amenità
della prima ora.
Non certo memorabile come l'esordio dei Radio Dept.,
Future Perfect era il classico album indie figlio di quei '00
di mezzo che annunciavano il ritorno dello shoegaze e
del noise pop dei maestri (la reunion di My Bloody Valentine e Jesus And Mary Chain) senza tuttavia riuscire
ad imprimere un aggiornamento a quelle sonorità; atteggiamento che Transit Transit, annunciato già due anni fa e
40
poi rimandato almeno due volte per problemi discografici, pare in apparenza ricalcare.
è chiaro che nel maggior tempo a disposizione i tre noti
perfezionisti hanno calcato su dettagli e layer sonici con
una dovizia pari a quella dei Blonde Redhead (citati in
Supertoys, Kissproof e The Science of Imaginary Solutions),
eppure Transit Transit è un album a suo modo coraggioso, fatto di scelte significative che hanno comportato
cambiamenti decisivi: l'attuale formula abbraccia ballate
al piano attorniate da effetti quasi sinfonici (Transit Transit), un uso più sostanzioso dell'elemento kraut attraverso setting ritmici metronomici (la Broadcast-iana The
Bouncing Wall) e un velato approfondimento in direzioni
psych barrettiane (Census) quando non addirittura wilsoniane (Spots).
Ancora un album sorretto da questo impegno e potrebbero godere dello stesso rispetto dei newyorchesi più
cool in circolazione. Soprattutto vantarne una variante
convincente.
(7/10)
Edoardo Bridda
Best Coast - Crazy For You
(Mexican Summer, Luglio 2010)
G enere : 60 s pop
Un hype del genere, condito dall'immancabile fake album
circolato in rete ad opera, sembra, della stessa label, non
si vedeva dagli albori dell'era Napster: centinaia e centinaia di bloggers e downloaders compulsivi posseduti e
incattiviti alla vana ricerca di un link valido da scaricare.
Basterebbe questo - e i vari pezzi piccoli sapientemente sparsi per label di culto - a dare la misura dell'attesa creatasi intorno all'esordio di Best Coast, moniker
che vede esporsi in prima persona la nemmeno 23enne
Bethany Cosentino, pischella californiana dallo charme
notevole e ben nota a chi frequenti le più strambe lande
NNF, Pocahaunted su tutti. Coadiuvata da Bobb Bruno,
a tutti gli effetti ormai membro stabile di Best Coast, la
graziosa chitarrista dimentica le freakerie dei progetti
passati e adempie al proprio, dichiarato compito: quello
di proporre “straightforward pop” inanellando una serie
di zuccherose songs amabili nella loro minuta delicatezza
post-sixties. Nulla di diverso dal solito humus pop in lo-fi
maturato all'ombra dello Smell; ma invece del post-punk
ruvido, tribale e scontroso, Best Coast prende di petto
l'immaginario seminascosto degli '80 noise-pop targati
Vaselines, Black Tambourine e compagnia C86 tutta
e lo trascina verso lande più '50 & '60-oriented, alla maniera di Patsy Cline (prendete la coralità di Our Deal) o
rielaborate alla The Go-Go's di Belinda Carlisle (When
The Sun Don't Shine). Il tutto permeato da un malinconi-
highlight
Daredevil Christopher Wright (The) - In Deference To A Broken
Back (Almost Musique, Maggio 2009)
G enere : alt folk
Glielo scrive anche l'etichetta, e la cosa non è che faccia loro una bella pubblicità: i Daredevil Christopher
Wright sono dei modesti dudes del Midwest, provenienti da piccola town
chiamata Eau Claire nel Wisconsin. La città è stata scoperta dai francesi che
attraversato il Chippewa River pare abbiano escalmato voici l'eau claire una
volta arrivati sin qui. Lì finisce l'aneddoto e le cose da dire sul contesto di
questi tre sfigatelli che si presentano al mondo fotografati sul divano di casa
con sotto il culo una delle peggiori fodere a fiori mai viste in un supermercato. Tanto sfoggio di modestia nasconde naturalmente degli antidoti, o se
non altro delle vie di fuga, e probabilmente anche una strategia. Daredevil, il
darkissimo supereroe cieco, davanti all'ordinario Christopher Wright, non è
nient'altro che una trovata kitch, date certe passioni vicine alla stagione dei "campanellini" folk americani
e al Sufjan Stevens dei concept.
La chiameremmo, semplicemente, provincia, quella che guarda a distanza gli stili duri e puri delle metropoli
e che fa tesoro del meglio degli ultimi anni. Che non decide di fare art-indie-folk, ma finisce per farlo, mettendo insieme un'intro con pose Parenthetical Girls (Hospital), innesti glam, conquiste dei primi Akron
/ Family (senza la variante hippie, altra forma di messa a distanza, ma temporale) - sentite Acceptable Loss
- e liriche naif o fintamente black-humoured. Senza dimenticare i basics (War Stories) che aprono ancor
più gli occhi su una formazione acuta e intelligente, dalla scioltezza invidiabile.
In Deference To A Broken Back, uscito già nel 2009 nel mercato americano e oggi disponibile anche da noi,
non si fa bello soltanto per qualche falsetto arrangiato chamber, ma per la capacità di distillare purezza
complessa dei folk Duemila americani. Forse che la disinvoltura più anti-cool che esista sia diventata
cool?
(7.3/10)
Edoardo Bridda
co immaginario amoroso, come nella micidiale doppietta
iniziale Boyfriend e la title track.
Crazy For You è un album gradevole e apprezzabile
seppur per nulla originale, ma ripulito dalle angherie del
lo-fi fa risalire in superficie melodie cristalline, orecchiabili e incantatrici. Come se il lo-fi fosse stato più che un
modus vivendi, una condizione passeggera superata una
volta avuto a disposizione uno studio vero piuttosto che
scassati marchingegni da usare nelle proprie camerette.
Si veda alla voce Wavves per conferme. Sia come sia,
questo esordio farà comunque strage di cuori, e siamo
pronti a scommettere che quella di Bethany Cosentino
sarà la spiaggia migliore cui approdare in questa estate
indie 2010.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
Big Boi - Sir Lucious Left Foot: The
Son of Chico Dusty (Purple Ribbon,
Luglio 2010)
G enere : nu - bl ack /HH
L'altro André degli Outkast rilascia finalmente il primo
album solista, lungamente lavorato (le registrazioni sono
cominciate nel 2007) e penelopicamente rinviato per
tutto il 2010. Diciamolo subito, Sir Lucious... è un ottimo
lavoro, ma non è il capolavoro - l'epifania nu-black - che
ci si aspettava dopo tanta attesa e dopo tanto strombazzamento. è invece la vetrina su un hip hop commerciale
stralucido (tra r'n'b, funky e trucchi elettronici), prodotto
con tutti i crismi e dal forte appeal pop, con al centro monolitica - la tematica pappona/sessuale delle liriche del
nostro.
Vari i produttori presenti (il Salaam Remi collaboratore della Winehouse, Organized Noise, Lil Jon, Scott
Storch, il compagno Andrè 3000 al lavoro su una scampanellante You Ain't No DJ), come pure gli ospiti, tra i quali
41
spiccano i nomi - e le performance - di Jamie Foxx,
Janelle Monáe e il padrino George Clinton. Numeri
tutti di livello, con una manciata di highlites che vanno
dall'incipitario sketch Daddy Fat Sax (che è anche il titolo del follow up già in lavorazione, annunciato per fine
2011), all'esotismo scuro di Tangerine, al synth-r'n'b di
Night Night, al molle sexy funky di The Train Pt. 2, al pathos
post-disco e Ottanta di Shine Blockas. Aspettiamo adesso
nuove dal duo in quanto tale e dall'altro solista.
(7.1/10)
Gabriele Marino
Björk/Dirty Projectors - Mount
Wittenberg Orca (Autoprodotto,
Giugno 2010)
G enere : a cappell a
Gli intenti sono mirabili, i risultati pure, nonostante una
lunghezza più da ep che da album collaborativo vero e
proprio. Teatralità, coralità e orchestrazione pop-oriented rappresentano da sempre 3 punti fissi per entrambi i
soggetti qui presenti e questa lunga suite da 21 minuti divisa in 7 brevi movimenti - i cui proventi verranno destinati alla National Geographic Society per la salvaguardia
della flora e della fauna marina - non sfugge alla norma.
Centrale la voce eterea della musa islandese, ma Dave
Longstreth & family non sono da meno nell'innervare
un suono scarno, quasi stilizzato al punto da essere effimero e al limite dell'intangibile, di una coralità aliena.
Ne escono fuori brevi bozzetti, frammenti di un unicum,
che toccano lande orchestrali a-cappella (On And Ever
Onward) o quasi da vaudeville dei tempi andati (When
The World Comes To An End con Longstreth a tirare le
fila), mantenendo sempre sul filo del giocoso scambio
vocale la tensione dei pezzi (il simil-loop vocale che fornisce la base a Beautiful Mother) o su quello della teatrale
drammatizzazione (No Embrace). Insomma non un mero
esercizio di stile. Un ottimo assaggio, perciò la speranza
a questo punto è vedere in azione questa eterogenea
collaborazione in un album più ampio e articolato, magari un concept.
(6.7/10)
Stefano Pifferi
Black Mountain - Wilderness
Heart (Jagjaguwar, Settembre
2010)
G enere : '70 rock
Chissà se c'è lo zampino di produttori esperti come
David Sardy e Randall Dunn nel ritorno di un po'
d'equilibrio in casa Black Mountain. Registrato principalmente a Los Angeles, Wilderness Heart vede i due
42
di cui sopra - in curriculum tra gli altri Johnny Cash,
Sunn O))) e Six Organs Of Admittance - affiancare Stephen McBean nel nuovo tentativo di conferire
freschezza a memorie seventies rock fatte di “progressivi”
empirei e riff sabbathiani, di citazioni Deep Purple e
oasi acustiche. Diresti che qualcosa s'è guadagnato nella
discesa in California e nell'aver aggiunto ingredienti a una
ricetta che sinora ha soddisfatto solo in parte con un
esordio disinvolto e il tronfio seguito In The Future. Di
conseguenza, questo difficile terzo album avrebbe dovuto
sciogliere le perplessità sul progetto e nondimeno è una
missione incompiuta, la solita convivenza tra stereotipo,
mestiere e ingegno che rimarca l'impossibile credibilità
di questi linguaggi se non ci si libera dell'ammuffita seriosità originale.
Perché da un lato apprezzi gli scintillanti Black Crowes
aciduli e candeggiati (The Hair Song) e i Mudhoney che
assumono anfetamina con Lord e Blackmore (Let Spirits Ride), piace il singolo Old Fangs che trotta da un raduno di Harley Davidson e la fa franca evocando i Blue
Oyster Cult sull'orrido di Smoke On The Water, convincono le cupezze cosmic-folk Sadie e Radiant Hearts nel
combinare eleganza e robustezza. Però la title track intrappola P.J. Harvey in un pantano kitsch e Rollercoaster
la soffoca sotto clichè hard. Nel mezzo, ballate roots si
barcamenano tra l'ottimo (Buried By The Blues), il buono
ma prolisso (The Way To Gone) e la mera piattezza (The
Space Of Your Mind). Avanti così, tutto è possibile: il capolavoro nel 2014, una totale resa delle armi, l'alternanza
eterna di brutture e colpi d'ala. La schizofrenia come ragione d'arte, e così sia.
(6.8/10)
Giancarlo Turra
Blonde Redhead - Penny Sparkle
(4AD, Settembre 2010)
G enere : dream pop
La rivoluzione “meravigliosamente riuscita a metà” di
Misery Is A Butterfly, primo disco uscito per la 4AD,
qui non si è conclusa, ma anzi, Penny Sparkle, sottolinea la stessa linea già aperta con 23. Preceduto dalla
nenia perfettamente radiofonica di Here Sometimes il disco, prodotto dagli svedesi Van Rivers e Subliminal Kid
(Fever Ray), sembra segnare la definitiva pacificazione
del Blonde Redhead-sound. Se già sei anni fa gli impeti
rumoristici cominciavano a essere condotti al guinzaglio,
fino a essere messi al totale servizio di un suono più
addomesticato e pop, oggi sono praticamente scomparsi,
dando aria a un disco di dream-pop elegante ed etereo,
giocato più sull'atmosfera ovattata che sugli scarti e le
improvvise aperture.
highlight
Dylan LeBlanc - Paupers Field (Rough Trade, Agosto 2010)
G enere : F olk /C ountry
A Dylan LeBlanc certo non saranno mancati gli stimoli, lui, classe 1990, figlio di uno degli session man di
casa Muscle Shoals, Alabama, uno studio di registrazione che nel corso della sua esistenza ha attirato musicisti del calibro di Aretha Franklin, Paul Simon (per Love Me Like A Rock e Kodachrome), Bob
Dylan (Gotta Serve Somebody) e Rolling Stones (Brown Sugar e Wild Horses) a registrare tra
quelle mura. Tanto buona è l'aria che ha respirato fin dall'infanzia e che lo ha
reso un provetto chitarrissta, che non appena raggiunta la maggiore età anche lo stesso Dylan è stato scritturato come musicista. In cambio ha potuto
utilizzare lo studio per registrare le proprie canzoni, che nel giro di poco più
di un anno vengono pubblicate sotto l'ombrello di questo Paupers Field.
Visto il pedegree, le influenze non potevano che essere quelle della tradizione country/folk: Townes Van Zandt, Neil Young e Fleet Foxes, tra quelli
espliciti; Johnny Cash e, non ultimo, il Ryan Adams di Gold, tra quelli
impliciti. Con una voce intensa che per certi versi ricorda quella di Chris
Isaak e un fingerpicking di classe, LeBlanc si muove tra le pieghe del genere con una penna aggraziata,
rispettosa e personale, tanto da rendere ogni brano contemporaneamente suo e universale.
Gli archi di Emma Hartley aprono squarci di spleen notevole, il canto strascicato di Low rende credibile
tutto (nonostante la giovane età) e in 5th Avenue Bar ci si perde già dentro l'estetica del bicchiere (con una
linea melodica paradossalmente simile a Statues dei Moloko). Le tematiche western fanno capolino in Death Of Outlaw Billy John assieme a un mandolino che fa subito Messico e un coro che ricorda gli Appalachi,
mentre gli stop-ang-go di Changing Season la rendono perfetta per un ballo di paese attorno al fuoco.
Un esordio di peso nel panorama country/folk e di sicuro uno dei più convincenti dell'anno.
(7.4/10)
Marco Boscolo
La prima cosa che colpisce è che le chitarre non hanno
un ruolo centrale nelle composizioni, dove prevalgono
accurate armonizzazioni di linee vocali e tessiture synthdark-shoegaze di chiara ispirazione Ottanta. Ma più che
ai primi anni di quel decennio, i fratelli Pace sembrano
aver guardato alla seconda metà, a gruppi come Cocteau Twins, This Mortal Coil e Dead Can Dance,
gruppi troppo spesso associati frettolosamente al synthpop, ma in realtà sperimentatori e per alcuni versi capaci
di anticipare tendenze che li seguiranno, come per esempio il trip-hop. Aspetto che emerge prepotentemente,
per esempio, in Oslo, uno dei brani migliori, che ricorda
i primi Portishead. L'unica vera concessione al sound
del passato è Will There Be Stars, brano cantato da Amedeo Pace e l'unico episodio ad avere un'anima in qualche
modo rock.
Penny Sparkle non è sicuramente uno dei dischi migliori del combo, ma si inserisce nella generale riscoperta di questo genere di sonorità che potrebbe garantire
l'emancipazione dal mondo strettamente indie. D'altra
parte non è nemmeno il disco monotono che può sembrare a un ascolto superficiale. È piuttosto un lavoro elegante, di gran gusto e cultura musicale che ha bisogno di
tempo per trovare spazio di qualità nell'arco percettivo
dell'ascoltatore. Particolarmente adatto all'autunno che
sta per arrivare.
(6.8/10)
Marco Boscolo
Bombay Bicycle Club - Flaws
(Island, Luglio 2010)
G enere : indie folk
Molto hype attorno a questa band di Crouch End, zona
nord della City, al debutto lo scorso anno con un I Had
The Blues But I Shook Them Loose che guadagnò
loro i galloni di miglior band emergente secondo i canoni del NME. Con Flaws tornano oggi a battere il ferro
caldo come è d'uopo, ma - sorpresa - con attrezzi diversi: via l'indie arguto & impetuoso a favore d'una sorta
di pop-rock alternativo a base folk, o per meglio dire
43
inverato dal folk, di quello che si ostina acustico a sembrare cosa viva e attuale. Una scelta che, al netto dello
sconcerto momentaneo, potrà trovare giustificazione (o
biasimo) solo coi prossimi capitoli della loro carriera.
Intanto va preso atto di questo disco non starordinario
ma curioso, nel quale il brio un po' obliquo dei quattro giovanotti gioca a modulare il tasso drammatico ora
prodigandosi in estrosa ballata post-prewar (Ivy & Gold),
poi esalando fervida malinconia (le belle Dust On The
Ground e Leaving Blues) ed ineffabile inquietudine circa
Nick Drake (Jewel), quest'ultima in qualche modo ribadita da una dignitosa rilettura di Fairytale Lullaby (già
opening track dell'album d'ersordio di John Martyn).
In questa specie di ansia da radici che stempera la determinazione a stare in sella al presente, la voce di Jack
Steadman si erge a protagonista pressoché assoluta (con
quel registro tremulo dal vago retrogusto freak, sorta di
cuginetto imberbe di Devendra Banhart). Ma né essa
né l'agilità della scrittura fanno oltrepassare a Flaws la
soglia d'una dignitosa sufficienza: troppo poca la sostanza
ed il senso di vissuto per i canoni folk che hanno scelto
di perseguire. Però non smettiamo di seguirli: c'è aria di
transizione verso qualcosa di più e meglio.
(6.2/10)
Stefano Solventi
Bonobo - Black Sands (Ninja Tune,
Marzo 2010)
G enere : downtempo
Quarto album per il produttore inglese Simon Green.
Che pubblichi su Ninja Tune fa già mezza recensione. Noi
aggiungiamo anche che ci ricorda, nel modo di riprendere la lezione downtempo caricandola di enfasi, il nostro
Ghost-Simon Williamson.
Raffinatezze a iosa, si apre con un Sakamoto anni Novanta e si continua con arrangiamenti di fiati, archi e bassi felpati dal feel caldo e suonato (e suonato benissimo):
il tutto è davvero demodè, ma che stile! Tre pezzi con
l'Andreya Triana da poco uscita col primo solo album,
vocalist vellutata che abbiamo scoperto sul Reset di
Flying Lotus; uno di questi (Eyesdown) azzarda tentazioni - acciaccature - dubstep, ma le affoga in un contesto placidamente trip hop/chill out. Demodè dicevamo,
datatissimo anzi, vedi 1009 (quell'uptempo, quegli archi
così carichi di pathos) e vedi la conclusiva titletrack (un
compendo di cliché). Supermanierismo.
(6.8/10)
Gabriele Marino
44
Budos Band (The) - III (Daptone
Records, Agosto 2010)
G enere : afro soul
Con i suoi 150 concerti negli ultimi due anni, se c'è del
tempo da spendere, la Budos Band preferisce passarlo
sul palco e non di certo in studio. Le session di questa terza prova, avvenute negli House of Soul Studios di
Brooklyn, sono durate appena 48 ore con Bosco Mann,
bassista dei Dap-Kings e produttore di punta Daptone, in
regia.All'ordine del giorno: perseverare nella budos fever
come si affrontasse una missione. E pensare che secondo
il sassofonista Jared Tankel, nei piani c'era di realizzare
la prima uscita doom-rock-psichedelica griffata Daptone.
Fortunatamente però, scongiurato tale modello la cifra
s'è tenuta sulle proverbiali corde afro-soul con The River
Serpentine, Rite Of The Ancients e Golden Dunes assunte a
nuovi classici di genere.
Al contrario dei concittadini Antibalas (con i quali condividono il progetto Menahan Street Band), la band
non risponde ad alcuna chiamata alle armi, qui piuttosto
si respira un aria fastosa e orgiastica nel contempo, tra
un omaggio metal (Black Venom riverisce sì Black Sabbath e Venom ma solo nell'intestazione) e cover vestite
di nero dei Beatles (Reppirt Yad, in pratica Day Tripper in
reverse) declinate come se un combo afro suonasse in
una sagra popolare: sudore, passione e goliardia. La missione continua.
(7/10)
Gianni Avella
Chief - Modern Rituals (Domino,
Settembre 2010)
G enere : FM indie
Quando la pubblicità è l'anima del commercio: per presentare l'esordio di questo quartetto losangelino l'etichetta tira in ballo Neil Young, Tom Petty, The Band,
Crosby, Stills & Nash. Robetta da niente, eh? Racchiuso in una copertina sciatta e fuorviante, il contenuto rivela invece un rock venato di radici però anestetizzato
e ripulito che sbrodola retorica, plastica e melassa da
ogni dove. Elegante e ottimamente prodotto da Emery
Dobyns, volpone con in bacheca un Grammy, Modern
Rituals è una sfilata di luoghi comuni da lasciare allibiti e
non solo per il fatto che l'etichetta sia l'altrimenti seria
Domino.
Per dire: Nothing's Wrong ruffianeggia a passo di folk-rock
tagliato su misura per le FM americane e Summer's Day
suona come un'attualizzazione degli agghiaccianti America. Altrove, Wait For You e Night And Day liofilizzano la
devozione per Brian Wilson dei Fleet Foxes e sono
episodi passabili alla luce di certe ballate che più formu-
laiche e ingessate non potrebbero darsi; infine, per stare
sul sicuro e centrare un bersaglio, ci si gioca la carta del
successo ammiccando ai Verve (Stealing) e plagiando i
Coldplay (In The Valley). Tutto dire. Al bar del quartiere
sostengono che il rock è morto e sepolto: ascoltando
questa immondizia, diresti di sì.
(4.5/10)
Giancarlo Turra
Coil Sea - Coil Sea (Thrill Jockey,
Agosto 2010)
G enere : hard - psych
Concepito come una session hard-psych di classica
scuola Kranky (Hash Jar Tempo, Bardo Pond...), The
Coil Sea altri non è che Dave Heumann, in pausa dagli
Arboretum e qui in jam con alcuni amici. L'album è una raccolta di alcune sedute d'improvised
music con l'eccezione di Abyssinia, unica track ad aver
avuto un riff preparato (suona come un classico giro Jesus Lizard dilatato in un trip ad alto tasso di peyote e
indiani morrison-iani al seguito). Il resto presenta un editing praticamente invisibile e l'episodio migliore, Dolphins
in the Coil Sea, omaggio alla leggenda jazz/noise Sonny
Sharrock, risulta essere l'unico pubblicato in presa diretta (fate conto dei Dirty Three con la chitarra al posto
del violino).
Alla scampagnata hanno partecipato il bassista degli Arboretum Walker Teret, Matthew Pierce (tastiere) e Michael Lowry (batteria) dei Big in Japan, fantomatica band
part-time di attori e musicisti, e altri personaggi ancora
meno noti: Michael Kuhl (percussioni), Jimmy Wallace
(chitarra). Tutti sudati, forse drogati, sicuramente fottuti
professionisti.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Cult Of Youth - Filthy Plumage In
An Open Sea! (Avant!, Luglio 2010)
G enere : dark - folk
Il neo-folk al tempo dello scompaginamento post-cameretta. Questo, con qualche forzatura, potrebbe essere il
sunto di Filthy Plumage In An Open Sea!, mini-lp
con cui il solo-project del newyorchese Sean Ragon debutta per la nostrana Avant! dopo un 7” omonimo e il
molto ben accolto full-length A Stick To Bind, A Seed
To Grow su Dais.
L'attacco di Lace Up Your Boots non lascia spazio a dubbi: corde acustiche affilate come stiletti alla maniera di
un Douglas P incattivito dagli eventi (storie di alcolismo,
tossicodipendenza e crisi interiori) e stremato da sentimenti estremi impossibili da placare. Quando la tensione
si allenta (And The Sky Will Open (For Michael)) e l'interplay
accoglie trombe dark-folk e svisate di synth acidissimi
(Eihwaz), a farla da padrone è sempre la voce quasi baritonale di Ragon, paragonabile per teatralità e profondità
di toni a quella di un Peter Steele (Type O Negative)
giovane, roco e possibilmente più romantico.
Immaginario e referenti sono quelli classici del paganfolk virato goth e dark, tutto ritualità e spiritualismo, ma
c'è un non so che di lacerato che rimanda a panorami
rock&garage, tanto che la conclusiva Bottomed Out - un
numero alla Velvet Underground, storto, sensuale e
suadente, che mai ci saremmo aspettati - tutto sembra
tranne che fuori luogo. Anzi, individua una possibile apertura a qualche sviluppo futuro piuttosto interessante alla
Spiritual Front.
(7/10)
Stefano Pifferi
Daddy Was A Driver - Daddy Was A
Driver (ZipRecords, Luglio 2010)
G enere : country rock
Tra le prime cose che si notano c'è senz'altro la pronuncia: ogni parola scolpita come fosse una sculturina d'aria,
tipico marchio d'inglese imparato bene ma pur sempre
imparato. è un difetto, sì, ma di quelli che convalidano
anziché invalidare, elemento oserei dire filmico che consolida e rimpolpa il sogno-spaghetti dei Daddy Was A
Driver, bolognesi un tempo noti come DeSoto. Sono
quattro ragazzi con l'immaginario piantato da qualche
parte tra il paisley meno furioso, le nostalgie countrysixties dei R.E.M. e una spolverata di surf condito col
peyote (vedi la tarantiniana Riding Day By Day, non a caso
destinata a far parte della soundtrack di Blood & Curry, film diretto da Atul Sharma).
Paesaggi sonici ben noti ed esplorati, che però i Nostri
abitano con quel misto di convinzione, disinvoltura e ironia (prendete l'Elvis di riporto in Please Stop Crying) di
chi ha colmato la distanza che separa il desiderio dal
reale. Un gioco giocato sul serio, volando in quel di Tucson dove la partita puoi disputarla davvero "in casa", registrando (bene) assieme a Craig Schumacher (già dietro
la console per Calexico, Steve Wynn, Neko Case,
Giant Sands...) quei tre quarti d'ora di microcosmo
western ruspante e acidulo, indolente e indolenzito, cazzone ma a suo modo rigoroso e in fin dei conti inattaccabile. Il motore gira come se non dovesse fermarsi
mai. La direzione è ostinata, l'andatura confortevole, la
compagnia buona.
(6.9/10)
Stefano Solventi
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Dargen D'Amico - D' (parte prima)
(Giada Mesi, Giugno 2010)
G enere : poesia tamarra
Dargen è lucidamente consapevole di dove sta andando.
Dalla visione, con relativo piccolo grande botto indie,
di Di Vizi Di Forma Virtù (2008), ha intrapreso un
personale percorso-calvario in cui "ho messo in moto
il ciclo della mia morte artistica, e non riesco più a interromperlo". D' (parte prima), solo digitale, "è il mio
rispettoso omaggio ai neomelodici, al loro mood compositivo". Detto questo, detto tutto. Pasolinianamente
attratto da quei materiali e da quell'immaginario uberverace, ad un tempo provinciale e metropolitano, D si
sporca le mani fino in fondo, immergendo il suo freakcantautorato in una estetica tamarra - tanto sul versante
del rap, quanto su quello elettronico/danzereccio - di cui
sta cercando chiaramente di fissare la poetica. Una frase come "la mia religione è bere qualcosa con te" non
è equivocabile, dipinge alla perfezione tutto un mondo,
tutta una filosofia di vita. Capire Dargen oggi è come
capire Battiato ieri, bisogna essere sintonizzati, vincere
qualche idiosincrasia personale.
Citazioni da Battisti e da Pasolini in Bere qualcosa, con
rime ("Anita Baker/parete") e liriche ("dal cielo di Nutella cade e si glassa una stella") che solo lui può rendere
credibili. Zucchero luminoso (il vocoder che dissolve parole e immagini) nello storytelling di Perché non sai mai,
surreale, e di Malpensandoti, super-romantica (autobiografica?). Ancora, l'assalto uptempo di Van Damme, storia
d'amore violento; l'autoreferenzialismo tra straniamento
("mi riconosco nel mio disco solo se mi rispecchio nel
retro del cd") e cazzeggio dell'appiccicoso motivetto
dance di Prendi per mano D'Amico; il tropicalismo guascone/baccaglione di Ma dove vai. Alla fine tutto funziona
sorprendentemente bene. Bocciamo soltanto, e in pieno,
il sermoncino pro-comunicazione faccia a faccia al tempo
di Facebook di - nota bene, qualunquismo "contro" fin
dal titolo - Nessuno parla più con nessuno, in coppia con
Fibra.
Aspettiamo la seconda parte, annunciata per i primi di
ottobre. Dargen ha preso una china pericolosa, rischia
grosso e lo sa, e noi lo seguiamo con apprensione.
(6.9/10)
Gabriele Marino
Dax Riggs - Say Goodnight To The
World (Fat Possum, Agosto 2010)
G enere : P sycho blues
Say Goodnight To The World, ovvero il disco che non ti
aspetti. è solo dopo un doveroso setaccio della Rete che
vengo a sapere che il Dax Riggs in questione, giunto
46
al traguardo del terzo disco solista, ha collezionato più
progetti di un Mike Patton sotto anfetamina. Fra gli altri è stato leader degli sludge rockers Acid Bath, band
che tormenta ancorai miei sonni con le malevoli sonorità sabbathiane dell'esordio When The Kite String
Pops.Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata, e oggi il
buon Dax, che le note stampa descrivono come un alchimista intento a distillare una miscela di glam, doom e
psichedelia, si presenta con un lavoro che, se la parola
non ci suonasse mortifera, definiremmo "maturo".Sin
dall'opener è chiaro che a trascorrere la giovinezza flirtando col demonio si finisce per restarne segnati. La title
track ci introduce ad un blues rock sulfureo che puzza di
zolfo e fango; una melodia affascinante cantata da Dax in
una sorta di trance lisergica.
Le paludi della Lousiana lanciano il loro tanfo mefitico su
tutto il disco, ma nella lenta e allucinata I Hear Satan, il
clima si fa umido ed irrespirabile. Il panorama cambia appena con Gravedirt On My Blue Suede Shoes, un rock robotico che sembra uscire dalla penna del Josh Homme
più ispirato, mantre il tenero raga di Like Moonlight sposta
gli orizzonti verso un space rock sognante e ipnotico.
Il resto dell'album ci mostra un Riggs sempre più eclettico assumere di volta in volta le pose sciamaniche
del Nick Cave più pacificato, le ascendeze folk rock
di Hank Williams e sposarle con una vena punk lirica
e tormentata. Tutto in poco più di mezz'ora, di cui, a ben
vedere, neanche un minuto andrebbe buttato. (7/10)
Diego Ballani
Dead Confederate - Sugar (Razor &
Tie, Agosto 2010)
G enere : A lternative rock
A pochi mesi dalla pubblicazione europea del disco
d'esordio, torniamo a parlare del giovane combo di
Athens, le cui sonorità sembrano sempre più improntate ad un revivalismo 90s decisamente affascinante, che
tuttavia alla lunga rischia di sminuirne le reali ambizioni.
Dopo un lavoro in cui l'amore per il grunge più sofferto e meditabondo dava l'opportunità al giovane leader
Hardy Morris di esibire un songwriting dolente ed ambizioso, i Dead Confederate stemperano i toni plumbei
con i colori del pop.
Questo Sugar, che sin dal titolo tradisce aspirazioni di
popolarità, sembra uscito da una capsula del tempo sigillata intorno alla metà degli anni 90.Vi si può ascoltare un
gruppo intento a ridefinire il proprio sound incrociando
rumore e melodia, secondo una ricetta che mescola le
sonorità urticanti del noise a stelle e strisce, alle melodie del pop britannico. I Dead Confederate lo hanno
highlight
Humpty Dumpty - Noia e rivoluzione (World Canary Cancerous
Food, Luglio 2010)
G enere : cantutorato wave
Un paio di anni abbondanti dopo il buonissimo Q.B., a pochi mesi dalla coppia di ep A mile From Any
Neighbor e Pianobar dalla fossa, torna Humpty Dumpty ovvero Alessandro Calzavara coadiuvato ai
testi dal sempre più coinvolto e sodale Renato Q., con un album - al solito in
download gratutio - che ribadisce peculiarità e sostanza della proposta. Già
il titolo Noia e rivoluzione fa intuire la marcata vis politica che lo innerva,
anche se l'aspetto interessante è quello sonoro, mai come oggi a fuoco, intenso e definito.
I riff che sferzano come virus electro punk (Marianna), il fuoco frigido delle
trame androidi (Sedizioso), l'essenzialità acidula delle ballad semiacustiche (le
languide insidie neo-psych de Il Duomo di Milano), i derapage kraut avariati
(L'ora delle ghiande): un rosario di perle melodiche tanto più appassionate
quanto aspre, conflitto acceso ad altezza d'uomo crocifiggendo un novero di quotidiane (ed endemiche)
miserie che appestano il civil vivere.
Il "metodo" Humpty Dumpty campeggia evidente ed efficace: costruirsi un bozzolo sonico con molecole cantautorali outsider (Faust'O, Garbo...) e linee d'ombra wave-psych (Julian Cope, Robyn
Hitchcock...), così da smarcarsi in capsule atemporali ripiene di sdegno nutritivo. Che ti si sciolgono
dritte nel cervello senza passare dal via.
(7.6/10)
Stefano Solventi
forgiato in mesi di tour a supporto di Dinosaur Jr. e
Meat Puppets e arrivano all'appuntamento agguerritissimi, puntando su un romanticismo psichedelico che
corroborano con massicce quantità di watt e che, nei
momenti migliori (complice la vocalità di Morris, così affine a quella di Billy Corgan) evoca lo spettro dei primi
Smashing Pumpkins.
Quel che sorprende, almeno chi, come il sottoscritto,
aveva apprezzato il precedente Wrecking Ball, è la
totale assenza di quel roots rock che incarnava brillantemente lo spleen della provincia americana. Oggi un
brano come In The Dark, con i suoi accordi aperti e le
distorsioni luccicanti, ci porta dalle parti del tardo shoegaze; Run From The Gun è una ballata elettroacustica così
malinconica e accattivante che non stonerebbe nel repertorio dei Bluetones.
Purtroppo si tratta dei punti più alti di una scrittura che
si è alleggerita parecchio rispetto all'esordio, che si dibatte alla ricerca di un barlume di personalità e nel farlo
decreta il trionfo della forma sulla sostanza. In questo
senso Sugar è una raccolta di canzoni confuse e felici:
non dice nulla di importante, ma lo fa con stile.
(6.2/10)
Diego Ballani
Dean & Britta - 13 Most Beautiful
(Double Feature, Luglio 2010)
G enere : velvet guitar sound
Bello, questo ulteriore passo di Dean Wareham dopo
l'archiviazione dei Luna: con la moglie - e ultima bassista dei suddetti - Britta Phillips ha sonorizzato tredici
film della serie Screen Test diretta da Andy Warhol. Mossa
più onesta nel riconoscere la propria discendenza dai
padri Velvet Underground non poteva esserci, così
che dopo il relativo DVD del 2009 e la presentazione
del progetto dal vivo, ecco un'ora e mezza (il secondo
CD riprende otto tracce in versioni diverse) all'insegna
del drone ’n' roll, influentissimo suono chitarristico minimale, urbano e chiaroscuro nato con il “disco della banana” e poi assurto a pilastro del krautrock, della new
wave e infine - tramite le tessiture di Spacemen 3 e
My Bloody Valentine - planato sul post-rock.
Date le premesse, non troverete nulla di nuovo o presunto tale: semmai un bel riassunto di uno stile tanto multiforme quanto appare monocorde a un ascolto distratto.
Una raffinata ipnosi, sia essa di corde o pulsazioni sintetiche però umane poco conta, giacché la radice è la medesima e lo spettro analizzato in ogni variante. Dal taglio
alla Yo La Tengo (grossomodo della stessa generazione
47
di Wareham…) di It Don't Rain In Beverly Hills e I Found It
Not So alla classica corda tesa Incandescent Innocent; dalle
mesmeriche Not A Young Man Anymore, Ann Buchanan Theme e Richard Rheem Theme - "autobahn" che da Colonia
portano alla New York dei Suicide attraverso Rugby al romanticismo morboso di International Velvet Redux e
Knives From Bavaria; dalla levità chiesastica con vocalismi
Alan Vega dentro Teenage Lightning (Sonic Boom ne
cura il mix) al twang che vivifica Herringbone Tweed e Silver Factory Theme.
Si gode e si trova un solo neo nella fiacca cover della
dylaniana I'll Keep It With Mine, la Phillips poco incisiva e
lontana sia dalla Nico di Chelsea Girl che dalla Susanna
Hoffs di Rainy Day. Pelo nell'uovo che non inficia l'ennesimo mattone di una tradizione che ancora affascina e si
riverbera nell'attualità a quasi mezzo secolo dall'apparizione. Chiedere, per ulteriori referenze, a favolosi epigoni chiamati Brian Jonestown Massacre, Warlocks e
Black Angels.
(7.3/10)
Giancarlo Turra
Deepchord - Liumin (Echospace,
Giugno 2010)
G enere : T echno dub
A tre anni dal successo di critica del precedente The
Coldest Season (che ottenne il massimo dei voti sul popolare Resident Advisor), Stephen Hitchell e Rod Modell
tornano a professare il verbo techno dub tagliato house
in una classica triangolazione di flavour tra Berlino, Detroit più Chicago che rappresentano l'incarnazione più
profonda del brand Deepchord.
La struttura base rimane anche qui fondante ma la proposta si rinnova dall'interno accogliendo nuove suggestioni e tecniche, unendo lo sguardo dilatato di Pan
American (In Echospace e Burnt Stage soprattutto) ai
field recording di stanza Mille Plateaux (Vladislav Delay), ovvero coniugando l'umbratilità del post post rock
'90/'00 - oramai materia completamente elettronica con le passioni industrial dei glitch-ers dello stesso periodo.
Sul mestiere, al solito ineccepibile, se la giocano le inclinazioni Basic Channel (Summer Haze) e Coco Steel &
Lovebomb (Firefly) di Hitchell, e le visioni tubolari analogiche tipiche del Modell (Sub-Marine, Maglev); parlando
di pura classe abbiamo invece i sample dub rubacchiati
a King Tubby su cassa quattro di BCN Dub che sono la
miglior risposta alle fanfare ipnotiche di Ricardo Villalobos di qualche anno fa.
Leggermente inferiore rispetto al citato esordio, Liumin
è decisamente un ottimo ritorno per l'ineffabile coppia
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che, ancora una volta, sottrae al ballo per donare attenzione all'ascolto. Ascolto che si fa puro ambiente enoiano nelle tracce untitled del bonus cd Liumin Reduced,
tra synth eterei, tape delay e suggestivi field recording
catturati da Modell durante un viaggio in Giappone.
(7.1/10)
Edoardo Bridda
Delays - Star Tiger Star Ariel
(Lookout Mountain Records,
Giugno 2010)
G enere : B rit pop
A ben vedere i Delays hanno sempre avuto le carte in
regola per essere uno dei gruppi più odiati del pianeta
pop.Basti pensare al falsetto efebico del cantante Greg
Gilbert, all'utilizzo non proprio raffinato dei synth, rivolto sempre ad ottenere il massimo del risultato con il
minimo sforzo. Aggiungiamoci pure che il loro è un genere che avrebbe ottenuto facili consensi a metà anni 90
e che già all'epoca dell'esordio (datato 2004), sembrava
aver perso lo smalto dei tempi d'oro.
Nonostante questo non si sono mai levate feroci critiche
al loro operato, anzi, quando c'era da tirare il fiato e passare qualche minuto in allegria, la malìa pop di brani
come Long Time Coming e Valentine ha sempre fatto il suo
sporco lavoro. Sarà proprio per scrollarsi di dosso l'etichetta di "band da singolo", che i quattro provano ora a
misurarsi con canzoni dal respiro più ampio e disteso.
Non che Star Tiger Star Ariel deficiti di pezzi a presa
rapida. I Delays sono campioni della melodia istantanea
e lo ricordano con il pop d'assalto di In Brilliant Sunshine.Il
succo dell'album, però, sta altrove: nella ballate adamantine (come l'iniziale Find a Home) in cui giocano la carta di
una psichedelia tenue, velatamente shoegaze, o nel chitarrismo leggiadro e fluente che sfoderano nella coda
strumentale della title track, quando arrivano addirittura ad evocare lo spettro degli Stone Roses.
Peccato che incomba sempre la spada di Damocle di una
inusitata epicità, pronta a prendere il sopravvento appena il gruppo si distrae più del dovuto. Nel complesso,
però, Gilbert e soci riescono a domare il Freddy Mercury che è in loro a beneficio di un album fra i più riusciti
e gradevoli della loro carriera.
(6.7/10)
Diego Ballani
Der Maurer - Vol. 1 (Trovarobato,
Giugno 2010)
G enere : contemporanea
Personalità poliedrica e artista nell'etica, oltre che
nell'estetica, Enrico Gabrielli ha raccolto nel giro di
pochi anni quello che un musicista indipendente medio
raccoglie in tutta una vita. Nello specifico, una serie di
collaborazioni di rilievo con il mondo major (Afterhours,
Vinicio Capossela, Niccolò Fabi, Morgan), stima ed ottimi riscontri per i progetti in condivisione (Mariposa
e Calibro 35) e uno status di arrangiatore conto terzi
universalmente riconosciuto nell'ambiente musicale nostrano (da Alessandro Grazian a Dente, dai Baustelle
agli A Toys Orchestra). Mancava l'esperienza solista
che ristabilisse i punti di giuntura con una giovinezza accademica messa un po' in disparte: il qui presente Vol. 1
del progetto Der Maurer arriva a colmare quel vuoto.
Operazione in bilico tra rivisitazione e omaggio, il disco mescola brani di Steve Reich, Giovanni Gabrieli,
Louis Andriessen e dello stesso Gabrielli, in un vagare
in multitraccia - flauto, clarinetto, wurlitzer, pianoforte,
sax, organo, batteria, tutto suonato dal Nostro - che parte dal 1985, passa per il 1567 e il 1975 per poi arrivare
al 2002. Quattro brani per confrontarsi con la musica
colta e contemporanea senza prese di posizioni troppo
radicali, che da un lato vorrebbero sottolineare lo spessore e la curiosità dell'autore e dall'altro sottintendere
un ruolo quasi educativo per i poco pratici. A quello, crediamo, tendono la ricchezza di informazioni sull'opera
- cartella stampa compresa - e la possibilità di scaricare
gratuitamente il disco dal sito dell'autore (www.enricogabrielli.com). Un particolare, quest'ultimo, che sancisce
ufficialmente lo status di “progetto collaterale” per la
serie Der Maurer.
(6.7/10)
Fabrizio Zampighi
Diskjokke - En Fin Tid (Smalltown
Supersound, Giugno 2010)
G enere : electro / techno
Secondo album per il norvegese Joachim Dyrdahl a seguire l'acclamato esordio Staying In di due anni fa. Il
ragazzo è bravo e le produzioni sono molto ben lavorate, otto lunghi brani per un'unica suite spezzata in più
movimenti, tra riff ossessivi (la title track), scansioni house (Rosenrød) e addirittura minimalismo tropical (1987).
Eppure, il rischio che la cifra che informa tutto il lavoro
trasmetta ripetitività più che omogeneità è forte e a fine
ascolto resta soprattutto quella sensazione come d'esercizio, per quanto ben fatto. Manca qualcosa, e se non è
certo stile, allora è personalità.
(6.4/10)
Gabriele Marino
DJ Shadow - The DJ Shadow
Remix Project (Reconstruction
Productions, Luglio 2010)
G enere : remix hip - hop
DJ Shadow non sta con le mani in mano. Negli ultimi
tempi si è messo a girare l'America con i suoi live. Ogni
data viene registrata e stampata per la sua etichetta/sito.
In più (con l'aiuto del curatore web Mike Fiebach) ha
pensato di lasciare un po' di tracce disponibili per qualche remix (e qualche inevitabile premio collegato): la solita operazione da Web 2.0 direte voi. Submission dopo
submission, la tattica remix ha portato inaspettate gioie,
tanto che oggi esce questa raccolta delle migliori tracce
uploadate dai nerd e fan del buon Josh.
La raccolta non può che comprendere classici rivisitati
secondo le moderne tendenze: ci piace l'electro Novanta di Sonotech (Mongrel Meets His Maker) il mix di Randomatik per Scatterbrain in acido jungle, l'illbient'n'bass di
NiT GRiT (Building Steam With A Grain Of Salt), il funk-soul
di Suonho (This Time) e la bella rivisitazione degli Everything But The Girl di Tiger Mendoza. Gli altri viaggiano
sulle coordinate dell'hip-hop mescolato all'ambient-turntablizm di cui Shadow è uno dei pochi superstiti ancora
in attività degne di nota.
Essendo un classico, lo puoi rileggere quante volte vuoi,
ma non tramonta mai. Anche se potrà sembrare un disco solo per affezionati, Josh ha dichiarato che lo ritiene
un'uscita ufficiale e che utilizzerà le tracce di questi giovani artisti nei suoi prossimi live. Una buona partenza
per capire dove andrà a finire l'hip-hop.
(6.5/10)
Marco Braggion
Donso - Donso (Comet, Giugno 2010)
G enere : electro - african
Si suole affermare che l'unione faccia la forza ed ecco
una dimostrazione pratica. Donso significa “cacciatore”
in una delle lingue del Mali e un campanello vi starà già
suonando nella zucca. Accantonate però il lavoro sulla
tradizione “da dentro” condotto da Toba Seydou Traore e dal suo quasi omonimo Abdoulaye Traore: domina infatti il multiculturalismo in questa collaborazione
tra francesi - il produttore Pierre Antoine Grison
(anche musicista in proprio con l'alias Krazy Baldhead), Thomas Guillaume a percussioni e donso n'goni
- e talentuosi “locals” come il cantante Gedeon Papa
Diarra e Guimba Kouyate agli strumenti a corda.
Aggiungete la kora dell'ospite Ballake Sissoko e un
impiego misurato della tecnologia ad aromatizzare ulteriormente una stilosa unione di acustico ed elettronico,
un felice ricongiungersi sonoro tra primo e terzo mondo
49
highlight
Menomena - Mines (Barsuk, Luglio 2010)
G enere : ultra ( dream ) pop
Tornano a farsi vivi dopo tre anni i Menomena, da quel Friend And Foe che ci aveva intrigati abbastanza senza però imprimersi a sufficienza nella memoria, quasi fosse uno scherzo genialoide, sfoggio di talento
a perdere e poco più. Invece era di più, e questo Mines arriva clamorosamente a dimostrarcelo. Col terzo
disco la band di Portland centra in pieno l'obiettivo, tutte le premesse portate a compimento con l'intensità delle grandi occasioni. Il tiro è sempre quello, un patchwork impetuoso
e sognante di suggestioni contemporanee, ovvero una spiccata predilezione
per il brit estroso dei Blur come una pelle sotto cui si muovono inneschi
post-wave, spurghi power, marachelle electro, post-soul androide TV On
The Radio, enfatiche contrizioni Elbow, mesmerici artifici Mercury Rev,
torve pieghe Morphine (gli sconcertanti barriti del sax), irrequietezza mitteleurpoea vagamente dEUS, slarghi melodici Coldplay, espedienti ritmici
Radiohead e via discorrendo.
Come già nei precedenti lavori, la canzone ne esce come uno spazio in cui il
suono si reinventa riposizionandosi su combinazioni tanto veementi quanto meditate, nulla lasciato al caso
neanche e soprattutto il senso d'immediatezza, un denso, impulsivo e ammaliante qui e ora. In più, oggi,
c'è il voler dare un senso alla canzone, aumentandone il peso specifico al di là del rollercoaster sonoro,
pompando sostanza emotiva nella vena giocosa: ci riescono mediamente bene per tutti gli undici pezzi in
programma, calando assi importanti con Killemall (le cui fregole ultrapop bazzicano epos Arcade Fire e
fregole Patrick Wolf), Sleeping Beauty (da qualche parte tra Flaming Lips e Peter Gabriel) e con le
sfuriate power-psych di Bote. I Menomena sono un frutto maturo e succoso. Il momento di coglierli è:
ora.
(7.7/10)
Stefano Solventi
cui avrebbe giovato giusto un pizzico di concisione. Peccato veniale, dal momento che buon gusto ed equilibrio
non vengono mai meno negli undici brani e specialmente
in una Kono da ingolosire Eno e Byrne e nei sottintesi
krauti di Konya, nella cristallina pulsazione Djama e nel
superbo mesmerismo di Hunters. Saggio di meticciato
del terzo millennio che, competente e caloroso com'è,
non può che assicurarsi il nostro sincero “chapeau!”. (7/10)
Giancarlo Turra
Eels - Tomorrow Morning (E
Works, Agosto 2010)
G enere : alt pop
Lui sostiene che queste tre uscite a raffica - intervallate
da un pugno di mesi - non erano programmate.Tre botte
di vita impreviste e benvenute insomma per il buon Mr.
E, dopo un periodo di riflessione e resa dei conti con se
stesso (che tra l'altro ha fruttato un libro di memorie e
un documentario su di sé ed il famoso padre scienziato).
Personalmente mi tengo il sospetto che si tratti di un
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triplo album dilazionato, però, insomma, è questione di
lana caprina. Di contro, è pur vero che già tra Hombre
Lobo ed End Times intercorrevano sostanziali differenze stilistiche e tematiche, un po' come tra il qui presente Tomorrow Morning ed il predecessore.
Siamo in effetti di fronte ad un lavoro - il nono targato
Eels - più vivace, oserei dire speranzoso, nel quale l'arte
di Mark Oliver Everett si compie nel segno di una essenzialità autarchica ed incisiva. I panni del vecchio slacker
riesumati per giocare una partita elettronica (tastiere e
sample in gran spolvero) come da tempo non accadeva. Il
sound allergico ai fronzoli eppure pieno e intenso come
un pastello espressionista (ci sono anche gli archi, a cura
della apparecchiata per l'occasione Tomorrow Morning
Orchestra). Quanto alla scrittura poi, accade quella specie di prodigio che permette di ripercorrere modi ben
noti senza mostrare stanchezza anzi sciorinando un insopprimibile quid di genuinità e persino di urgenza.
Detto ciò, se è vero che probabilmente nessuna delle
tredici tracce in programma si guadagnerebbe il posto
in un ideale best of, tuttavia parecchie non sfigurereb-
bero accanto alle sorelle maggiori che fecero la gloria
di Beautiful Freak e Daisies Of The Galaxy (con
particolare riferimento a The Morning, What I Have To
Offer e That's Not Her Way). Volendo cercare ad ogni costo la sorpresa, potremmo sottolineare la piega psych di
riporto imboccata da This Is Where It Gets Good e quella
Looking Up che sciorina errebì con un fare sanguigno abbastanza inedito per i canoni eelsiani. Tirate le somme,
Tomorrow Morning è album più che dignitoso anzi
buono. La maturità inquieta degli Eels non ha ancora
imboccato la china discendente.
(6.9/10)
Stefano Solventi
El Guincho - Piratas De Sudamerica
(Young Turks, Luglio 2010)
G enere : indie esotico
In attesa del nuovo disco, Pop Negro, pronto per l'inverno
venturo, il Nostro amatissimo El Guincho (all'anagrafe,
ricordiamo, Pablo Díaz-Reixa) mette in circolo una serie
limitata di eppì in vinile (ma anche sotto forma digitale
via I Tunes) denominata Piratas De Sudamérica. Il progetto
consiste nel coverizzare secondo i canoni dell'Uomo ritmiche africane, armonie sudamericane e chitarre spagnole come un Ariel Pink (ma anche un Panda Bear)
cresciuto a caipirinha e papaya - classici dimenticati o
meno dell'america latina.
In questo primo volume, le nostre preferenze vanno a
Mientes (con la popstar messicana Julieta Venegas alla
seconda voce) del trio cubano Matamoros ed al traditional Cuerpo Sin Alma, i cui appeal fanno subito presa
di contro alle restanti e pur sempre ottime Hindou di
Orefiche Y Valdespi, Frutas Del Caney di Felix Benjamin
Caignet e Marimba di Noro Morales y Miguelito Valdés.
Sono composizioni risalenti alla prima metà del ’900 che
nelle mani del Guincho si godono una nuova ed inaspettata giovinezza. La solita Alegranza.
(7/10)
Gianni Avella
EL-P - Weareallgoingtoburninhell
Megamixxx3 (Gold Dust, Agosto
2010)
G enere : electro ( hop )
Questo disco - assicura l'autore - è stato inserito nella continuity dei suoi Megamix per il "semplice gusto di
poter scrivere finalmente il numero tre su una copertina" e
va quindi considerato un album solista a tutti gli effetti.
Non importa neppure che sia stato annunciato da Gold
Dust come antipasto a un album vero e proprio, ancora in lavorazione. Forse El-P farà come Madlib con il
primo volume del Medicine Show, prima le basi in versioni alternative, poi l'album con i featuring vocali, non
sappiamo, ma per adesso vogliamo dargli ragione. Così
pure intuiamo in filigrana, e nonostante l'assoluta diversità di suono e di approccio, le suggestioni del Donuts di
J Dilla, fonte di ispirazione dichiarata chiamata in causa
però solo implicitamente, attraverso qualche sirena vagamente Mantronixiana messa in secondo piano in un
paio di tracce.
Confermata l'immagine apocalittica che El-P dà di sé, qui
solo più stilizzata. Il disco non ha il blues del primo Wearegoing... (2003, procuratevelo), è meno rappuso/cattivo dell'ultimo I'll Sleep When You're Dead (2007).
Sempre incombente però un senso come di minaccia, in
produzioni fredde, dai toni cupi, dall'impatto massiccio.
El-P si concentra su una austera electro anni Ottanta
metallico-gommosa, tutta linee di tastiere e drum machine marziali, innervata da influenze soprattutto space/
kraut, con un paio di puntate black (fino a lambire territori discofunky - con tanto di vocoder - malatissimi e
psichedelici) e di aperture al colore e a un pathos non
angosciato - tutt'al più melanconico - che hanno il sapore degli ultimi Pixies (ma prodotti da Ghost-Simon
Williamson).
Media alta, due-tre numeri che si impongono sugli altri,
un ottimo disco fuori dalle mode produttive del momento, esplorazione insistita delle diverse sfumature di
una monocromia synth-electro. Per soli fan o beat-freak
però.
(7.2/10)
Gabriele Marino
Electric Sunset - Electric Sunset
(K Records, Settembre 2010)
G enere : D ream , indie
Prima erano in tre e si chiamavano Desolation Wilderness. Erano residenti a Olympia, sede anche della K recs,
etichetta per la quale hanno sfornato due dischi lunghi e
due sette pollici. Poi all'anagrafe della label troviamo Nic
Zwart da solo, e a San Francisco. Lui ci mette la faccia e
si fa chiamare Electric Sunset. Alla stampa afferma di
occuparsi di un misto di ritmi sintetici e tastiere scintillanti. Soprattutto compone il solito pop dream-ato che
va tanto di moda, ma in veste 2.0. Aggiornato ai Vampire Weekend, dopo l'ondata Fleet Foxes. Per renderlo
credibile, ha sostituito in camera le analogiche polaroid
dei vecchi amici con un po' di photoshop scarabocchiato
sopra il suo bel faccione in b/w.
Portatile e moderno, mentre il trio era folky California e
campanellini, l'omonimo esordio Electric Sunset suona in
una parola elettronico, e in vacanza, senza essere glo ma
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highlight
Moritz Von Oswald/Vladislav Delay/Max Loderbauer - Moritz
Von Oswald Trio - Live In New York (Honest Jon's Records, Luglio
2010)
G enere : elettronica live
Il trio che ha riportato in auge le sorti della techno suonata dal vivo con quel visibilio di album che è
stato Vertical Ascent nel 2009, ritorna sul luogo del delitto e licenzia un album
live che documenta la serata di debutto al Le Poisson Rouge di Manhattan
nell'ambito della scorsa edizione dell’Unsound Festival. Se la perfezione del
masterpiece ci poteva far pensare a troppe purezze e confezioni da studio,
il dubbio viene risolto con questo documento dal vivo. I tre sanno suonare,
eccome.
Quattro pezzi denominati Nothing, la solita grafica minimale (e in questo
senso molto Manhattan appunto) fanno del live un viaggio e un companion
all'altezza del missile che ci ha sparato in orbita qualche mese fa le nuove
sorti e progressive del palco techno. Nothing 1 parte con degli squelch mescolati ambient che propongono
il mondo soft e caldo dei tre maestri, accompagnando il tutto con visioni di altri mondi psicocibernetiche,
Nothing 2 passa al tribalismo glaciale di scuola Villalobos, tagliando con inserimenti di rumore rosa e synth
che presumono visioni di inverni berlinesi o nell’ancor più fredda Finlandia di Delay, Nothing 3 si incupisce
e ci porta nel cuore dell’analogico applicato al palco, suonando quasi come la scuola di musica elettronica
degli studi del dopoguerra e scartabellando fantasie progressive. Nothing 4 conclude con l’acido e con le
urla festanti del fortunato pubblico. Oggi la techno non si fa più con Ableton. Provate il palco.
(7.5/10)
Marco Braggion
più banalmente K. La voce di Zwart, quando è a un solo
metro da terra, ci ricorda gli intimismi più ariosi di Chris
Martin (Infinity Avenue), mentre le soluzioni armoniche
se la giocano tra una drum machine post-punk addomesticata, chitarrine wavey, qualcosa (poco) di Ottanta,
caramello Creation, e mestiere.
Zwart suona come il 90% dei combo in circolazione:
canzoni piacevolmente al loro posto, né memorabili né
indimenticabili né fastidiose né banali. Come per i Desolation questa è musica di contesto dove non vale il
singolo episodio ma come ci si sente a fine scaletta. Con
gli Electric Sunset eravamo stufi della nostra felicità, con
i Desolation W. ci rimaneva addosso un po' di quella toponomastica magia. (6/10)
Edoardo Bridda
Elisa Randazzo - Bruises &
Butterflies (Drag City, Maggio
2010)
G enere : folk - rock
Sarà da attribuire al ruolo di cantante e violinista in
studio e dal vivo per i Red Krayola, se Elisa Randazzo
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giunge soltanto adesso al debutto in proprio. Magari è
“colpa” della professione parallela di stilista che porta
via energie, oppure dell'aver pianificato con cura la mossa per quando si sentiva davvero pronta. In ogni caso - al
pari della Lisa Germano con la quale trovi più di un
parallelo - questa girovaga figlia d'arte (i genitori Victoria
e Teddy hanno vergato successi per Zombies, Linda
Ronstadt e Frank Sinatra; mamma è responsabile del
classico garage I'm Five Years Ahead Of My Time immortalato dai Third Bardo) ha la mentre aperta e ottimi
studi alle spalle.
Ha dunque soppesato il passo, così che bene le ha detto darsi a un folk-rock profumato di country che sgorga dal Laurel Canyon dei primi anni '70. Di Judee Sill,
giusto per trovare un referente calzante, non possiede
però - ancora? - l'enigmatico fascino (ma nella cristallina
cascata del capolavoro Waterfall sì…), tuttavia non cede
alla trappola di trovarlo a tutti i costi spezzandosi le ali.
Preferisce offrirne una versione altrettanto vitale, un filo
più raddolcita e terrena (Moonshine,Remember May) e
temperare la Joni Mitchell che fu (Blood To Give) con
le sicurezze bucoliche appartenute a Neil Young (Can't
Afford My Peace Of Mind, Colors); e se è vero che si rifugia
dentro un paio di composizioni “gradevoli e basta” (Circles, Darkerlands), produzione e arrangiamenti rimangono
per tutto il disco impeccabili, certosini eppure spontanei.
Inoltre riallaccia in due canzoni il legame con la cantautrice britannica Bridget St. John, trasferitasi oltreoceano decenni or sono e da poco tornata a calcare le scene.
Mostrare influenze e lignaggio senza alcuna paura è un
gesto degno di chi affila una penna già acuta, di chi offre
un presente da favola nell'ipnotica Wintersong, nel delicato arazzo Goodbye e nella sublime mestizia coheniana
di He Faded suggerendo che il meglio sta dietro l'angolo.
Giusto quello che apprezzavamo nella Germano anni fa.
Se il buongiorno lo vedi dal mattino…
(7.4/10)
Giancarlo Turra
Endless Boogie - Full House Head
(No Quarter, Luglio 2010)
G enere : psichedelia rock
Dopo quasi mezz'ora di musica si è soltanto alla terza traccia. Della serie, non sono proprio parchi questi
Endless Boogie. Dopotutto il nome stesso indica una
tendenza alla dilatazione estrema di un suono che del
boogie forse ha poco o niente, ma che di tradizionale
americano, per converso, possiede molto. Blues e southern rock, ad esser precisi, calati in un modus operandi
da jam psichedelica, reiterata e senza fine, appunto.
Non c'è una-nota-una che non sia reazionaria, ancorata alla tradizione, pedissequa nel riproporre una linea
che dai bluesman del delta passa per Hendrix, si dilata coi Blue Cheer, include desertiche aperture psych
alla 13th Floor Elevator o slanci pompati alla ZZ Top,
giungendo intatta fino a noi sull'onda lunga del wah-wah
e di un senso del groove veramente invidiabile. Prendete
perciò Full House Head per quello che è: un vortice
spazio-temporale che vi risucchierà trasportandovi in un
tempo senza tempo in cui i nomi citati sopra e molti altri
ancora jammano felici e stonati su un palco, ovviamente nel cuore degli states, tra desertici orizzonti e lande
sterminate.
(6.5/10)
Stefano Pifferi
Expo'70 - Death Voyage (Dead Pilot,
Luglio 2010)
G enere : dark - kosmische
Textures decisamente più doom oriented per questo
comeback targato Expo '70. L'attacco della lunga Building
Celestial Tapestries sembra quasi prendere a prestito una
linea di basso circolare e ossessiva dai primi OM per
calarla in un abisso di paranoia che più oscura non si può.
A venir tratteggiate sono da subito ambientazioni più
dark che si segnalano come la cifra stilistica più evidente
di questo Death Voyage, vera e propria colonna sonora da
immaginarie discese acherontee.
Una scelta, quella di Justin Wright, non di poco conto, in
grado cioè di spostare l'asse o per lo meno innervare
di dimensioni “altre” una musica che è per sua natura
“apparentemente” sempre uguale. Prendete le pulsioni
notturne di Metensomatosis e ditemi se non sentite influenze horrorifiche alla Goblin o Umberto (il progetto del qui presente sodale Matt Hill) seppur sempre
dilatate e spacey alla maniera della kosmische più liquida
e visionaria. La sensazione generale è dunque che Expo
'70 sia in una fase di mutazione, seppur lieve. Il suono
nei 60 minuti di Death Voyage risulta più pieno, carico e
corposo, irrobustito dal contributo al basso di Hill, tanto
da trascinare l'ascoltatore in un vortice che, complice
pure l'artwork da film horror di serie z opera proprio di
Wright, è per forza di cose discendente verso gli inferi.
Ennesima bella prova per uno dei progetti più quotati
della nuova kosmische.
(7/10)
Stefano Pifferi
Faresoldi - Houstria (Riot Maker,
Aprile 2010)
G enere : electrohouse
Copertina che cita Dj Shadow per il mini davvero mini
di Luka e Pasta, tre pezzi più una strumentale. Motivetti
efficaci rivestiti con i suoni giusti, puntando stavolta forse
più su assemblaggio, arrangiamento di inserti e potenza
di suono che sulle melodie. Sempre nel segno dell'electro, Stambulia è un energetico funky, Guerrino uno stomp
disco deep, Pompa o non pompa - il cuore dell'EP - uno
stardustin' discofunky che cita la mitologica apparizione
a L'Istruttoria di Ferrara, anno di grazia 1992, di Lory D e
Leo Anibaldi (cercatela sul Tubo).
(7/10)
Gabriele Marino
Faust - Faust Is Last (Klangbad,
Giugno 2010)
G enere : experimental - rock
Voci insistenti di abbandoni definitivi circondano questo
ennesimo lavoro targato Faust, formazione che tra alti
(moltissimi) e bassi (qualcuno, specialmente in quest'ultimo periodo dopo le vicissitudini legate al brand) calca
i palchi da un quarantennio buono e la cui storia non è
riassumibile in una recensione. Per approfondimenti, il rimando alla nostra retrospettiva con intervista di Caliri è
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d'obbligo.Tornando a Faust Is Last, continuità e contiguità
col primo mitico disco e con una storia musicale fattasi leggenda sono evidenti sin dalla cover, riproposizione
attualizzata del celebre fist che dà nome all'intero progetto, passato ai raggi x. Diversamente però dall'originale
Faust, il pugno di questo disco è lievemente più aperto,
quasi a mostrare metaforicamente il rilascio e l'abbandono, dopo decenni di tensioni interne ed esterne.
L'epitaffio faustiano consiste di due cd (o due vinili) in
cui i nostri - o meglio, il nostro visto che l'unico reduce
è Hans Joachim Irmler, mentre Zappi e Peròn portano
avanti il loro progetto denominato Faust (!?!) - danno
fondo a tutta la propria essenza musicale, condensando
nel primo cd “A” l'intero background free-form industrial
drone-rock accumulato in decenni di presenzialismo nella storia della musica (gli assalti rumorosi e provocatori
di Feed The Greed e I Don't Buy You Shit No More).
Il secondo disco - significativamente denominato “Z”
per rinvigorire l'idea totalizzante e definitiva dell'album è invece appannaggio delle rielaborazioni/ristrutturazioni di Z'ev. Non remix, ma vere e proprie composizioni
editate e trasformate dal sound-artist californiano, che
smuovono la materia faustiana verso lidi di glaciale rarefazione (Ozean), di tribale accensione ritmica (Karneval)
o di liquide improvvisazioni psichedeliche (SofTone). Verve e sperimentazione non mancano, così come curiosità
e inventiva, e si stenta a credere alla press-sheet e al
passare dei decenni.
Più che un gruppo storico e storicizzato, questi Faust
sembrano infatti ragazzini volenterosi di mostrare al
mondo di che pasta sono fatti. Tanto che verrebbe quasi
da dire “lunga vita ai Faust!”.
(7/10)
tempo, quello per il quale si parlò di “lavori in corso”, alla
seicorde come strumento elettronico, al suo suono trattato in layer/strati al laptop, il riverbero noise a conferire
forme psych o ambient e infine l'industrial a permettere
i crescendo liberando la forza espressiva dei tre, il cui
terzo elemento, il drummer, è come ce se lo si aspetta:
minimale e jazzy, concreto e spaziale. Per appassionati di
Kranky e Thrill Jockey, appunto.
(6.9/10)
Stefano Pifferi
Marco Braggion
Fennesz/David Daniell/Tony Buck
- Knoxville (Thrill Jockey, Agosto
2010)
G enere : noise , ambient
Registrato live il 7 febbraio del 2009 al Big Ears Festival
di Knoxville, Tennessee, l'album contiene la testimonianza del primo incontro in assoluto tra il noto chitarrista e
manipolatore elettronico Christian Fennesz, l'avant chitarrista chicagoano David Daniell e il batterista australiano Tony Buck. Visto il successo dell'esibizione, Thrill
Jockey ha deciso di pubblicarne ora un mini album di
32 minuti divisi in quattro tracce nelle quali troviamo i
sinfonismi noise dell'egregio austriaco di Black Sea tuffarsi in un passato di sperimentazione ascrivibile in buona
parte ai suoni Windy City della fine dei '90.
Le chitarre ritornano così nel mood magmatico di un
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Edoardo Bridda
Film School - Fission (Hi-Speed
Soul Records, Agosto 2010)
G enere : indie , shoegaze
Tornano per la quarta volta i californiani Film School.
Senza rinunciare alla loro ossessione per le atmosfere pastello e le chitarre in delay che caratterizzavano
le visioni di My Bloody Valentine, Jesus and Mary
Chain e più recentemente dei British Sea Power, la
loro immobilità torna di moda nel solco sunny glo-fi e
guardacaso proprio alla fine dell'estate (il disco esce infatti il 31 Agosto).
Mossa strategica o meno, non interessa particolarmente all'ascoltatore casuale, che può crogiolarsi in maniera
egregia sulle loro pad melò, con la bella voce della cantante Lorelei Plotczyk in odore di synth analogici à la
Stereolab (Heart Full Of Pentagons) o delle atmosfere
dark degli inevitabili Cure (Find You Out, When I'm Yours).
Il bioritmo rallentato dello shoegazing pulsa ancora e
i Film School sono al posto giusto al momento giusto.
Anche se non faranno il botto, qualche ascoltata in loop
gliela possiamo dare.
(6.6/10)
Floored By Four - Floored By Four
(Chimera Music, Settembre 2010)
G enere : avant - rock
Tempo di ricredervi se come chi scrive avete sempre
nutrito diffidenza verso i “supergruppi”. Di rado, infatti,
l'ego e la chimica hanno funzionato a dovere e prodotto risultati rilevanti. Nello specifico aiuta i Floored By
Four l'appartenere alla storia del punk, dell'avanguardia e
dell'indie più arguto senza aver mai mostrato un grammo
di spocchia lungo le rispettive carriere: se di Mike Watt,
Nels Cline e Yuka Honda sappiamo tutto, dell'abile
batterista Dougie Bowne giova ricordare il ruolo di sideman per nomi diversi come John Cale e Cassandra
Wilson, Iggy Pop e Lounge Lizards più l'attività di
jazzista in trio con John Medeski e Fred Hopkins.
Assemblato da Watt - che compone l'intera scaletta -
in occasione del “Summerstage”, evento gestito da M.
Ward tenutosi al Central Park, l'ensemble si è chiuso
per tre giorni in studio prima dell'esibizione ed ecco
un poker di escursioni sonore che non rappresentano
il solito inutile divertissement di lusso. Estese nella durata, si situano grossomodo da qualche parte tra Tago
Mago e Bitches Brew, benedette da una disinvolta ironia e
dall'amalgama di gruppo responsabile di fugaci obliquità
lounge e venature funkedeliche, della rivisitazione postpunk di parentesi ambientali e impennate blues-rock. Vi
regnano il senso della misura e l'interazione tra retroterra sonori che non riscontri ogni giorno ma che ti aspettavi dai nomi coinvolti. Intellettuali che non si negano i
muscoli e il sorriso: bene così.
(7/10)
Giancarlo Turra
Fonderia - My Grandmother's
Space Suit (Bizarre, Luglio 2010)
G enere : pop post prog
Fino al precedente Re>>enter i Fonderia scomodavano (a partire dal nome) link un po' tortuosi ma abbastanza
robusti con certe fucine prog periodo seventies, di cui
aggiornavano il linguaggio in chiave post post-rock, con
particolare predilezione per le suggestioni ambientali tipiche delle soundtrack. Col terzo album My Grandmother's
Space Suit il quintetto romano sposta il punto di fusione,
abbracciando istanze electro-funk e dando sfogo ad una
vena melodica che sfocia in ben due tracce cantate, le
prime del loro repertorio: trattasi della palpitante Loaded
Gun, per la voce di Barbara Eramo, e della sarcastica I Can't
Believe This is Just a Pop(e) Song, affidata al canto del belga
Emmanuel Louis (vocalist dei Funk Sinatra).
Il resto è tutto un gravitare spacey e frizzante, il retaggio
jazzy nelle pennellate di tromba, gli intrecci sincopati delle ritmiche, il ghigno asciutto e sferzante della chitarra, le
tastiere che spandono immaginifica aura eighties, il tutto organizzato in arrangiamenti rigorosi, mai appesantiti
dalle pur numerose trovate (un plauso doppio, visto che
le incisioni si sono svolte live negli studi della Real World
a Box, nel Wiltshire). Va detto che oltre la confezione
la band cala sul piatto una scrittura di buon livello, con
una nota di merito particolare per Doctor's Hill e A Billion
electric Sheep. A tratti ti sembrano gli Yes colti da estasi
Buddha Bar, altrove uno scherzo Tortoise risucchiato
in un sogno elettrico quasi Air. Ma non è così facile descrivere e circoscrivere una proposta tanto complessa
che ha trovato la via della semplicità e ne dà sfoggio con
l'entusiasmo del caso.
(7.2/10)
Francesco Dacri - Che cosa sei
(Autoprodotto, Settembre 2010)
G enere : 70 s rock
Cresciuto musicalmente nel giro delle cover band milanesi, Francesco Dacri esordisce con un disco di nove
tracce tutte dedite al suono rock classico degli anni Settanta, da qualche parte tra Ligabue, Bruce Springsteen e i Blues Brothers. Il disco soffre di arrangiamenti a
volte sovraccarichi, mentre il suo animo sarebbe di canzoni semplici e dirette. Fin troppo semplici, a volte, come
traspare dai testi, punto più debole dell'operazione: "su
una collina verde con fiori di stelle/sfioro la tua pelle bacio
la tua pelle" (da Passione) o "che se l'amore è un'utopia/
rimane il sesso l'unica via" (da Vivo). (5/10)
Marco Boscolo
Frank (Just Frank) - The Brutal
Wave (Wierd, Agosto 2010)
G enere : dark - synth - pop
Chris nasce nel New Jersey e cresce con l'altro, il mezzosangue indiano Kirti, nella Francia del Sud, prima di
spostarsi entrambi a Londra e tornare a Parigi. Assieme
sono Frank (Just Frank), duo che va di coldwave a palla senza essere brutal come da titolo, e che rappresenta
l'ennesima nuova sensazione di casa Wierd, etichetta che
si sta ritagliando una personale nicchia d'interesse in ambiti latamente wave.
I due producono raffinati quadretti che sfiorano lande
pop, in virtù di un cantato che, pur sfruttando lo straniante accento francese, rimanda a mostri sacri della wave
più elegante e popular (qua e là reminiscenze Echo And
The Bunnymen, addirittura echi dei migliori Bauhaus
e The Church, ma ovunque un mood malinconico vivo
e appassionato) come a slanci dark-goth classici (l'opener Beneath, l'ottimo incedere Batcave di Mr. Itagaki, la
malinconia autunnale di Crisis).
Anche l'interplay, per quanto synthetico (drum machine
e synth che fanno tappeto alle chitarre), mantiene un
calore estraneo alla cold-wave tipicamente intesa per
avvicinarsi a territori limitrofi a leggende più o meno
note nel sottobosco wave dei tempi andati: da Cocteau
Twins a Clan Of Xymox, per arrivare alle chitarre degli
Smiths disseminate a destra e a manca.
Non un disco epocale, piuttosto il lato gentile e pop della rinascita dark-wave di questi ultimi anni, quella che da
Blessure Grave arriva ai prossimi hypers Salem.
(6.9/10)
Stefano Pifferi
Stefano Solventi
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Frazey Ford - Obadiah (Nettwerk
Music Group, Luglio 2010)
G enere : folk soul
Con una voce così, la canadese Frazey Ford non poteva che dedicarsi al country soul: il timbro vagamente
sabbioso di chi spazza memorie e visioni da front porch,
le venature profonde e dilatate di stampo memphisiano.
Per questo, dopo oltre un decennio passato a maneggiare con successo bluegrass e folk nel trio The Be Good
Tanyas, il presente debutto solista Obadiah suona
come una specie di compimento. Tredici tracce che si
concedono facilmente all'ascolto eppure in qualche
modo indomite, arrangiate con la semplicità generosa di
chi ha idee e intenzioni ben chiare, come ad esempio
citare Roberta Flack e Ann Peebles tra i modelli di
riferimento oppure concedersi la cover di One More Cup
Of Coffee ovvero il Bob Dylan ibrido altezza Desire.
Ti sembra che Frazey affronti con naturalezza quello che
per l'ultima Cat Power è una sorta di espiazione: ok, il
tasso d'inquietudine di Frazey non è paragonabile a quello
di Chan, eppure nella sua diffusa dolcezza non smetti mai
di avvertire l'amaro che nobilita il drink. Le cose vanno
meno bene quando si sbilancia troppo sul versante black,
come in quella Blue Streak Mama dove fa un po' la figura di
quella fuori posto, ma finché si mantiene in equilibrio sulla
linea d'ombra che dicevamo (vedi le splendide Firecracker
e Goin' Over) è un piacere restare in sintonia.
(6.9/10)
Stefano Solventi
Gerardo Frisina - Join The Dance
(Schema Records, Giugno 2010)
G enere : l atin jazz bos sa
Osannato a Tokyo e praticamente sconosciuto in patria (se non per i soliti amanti della nu-bossa di Nicola
Conte), Frisina è il compilatore che ti cambia la serata
con 2 tracce. Che ti mette il pezzo giusto al momento
giusto. Ovvio che se non ti piace la bossa devi farti un
refresh ed entrare nel suo mondo, ma stai sicuro che
non è poi così difficile farsi ammaliare dalle nuances, dagli
arrangiamenti classico-chic e nel contempo trascinanti,
mai pesanti.
Il seguito di Note Book (Schema, 2007) parte con l'arrangiamento di Will You Walk A Little Faster (un classico di Neil
Ardley) cantata dalla rediviva e intensa voce dell'interprete originale Norma Winstone, passa poi a I'm Gonna Go
Fishin' di Duke Ellington con la sorpresa della nostra
Francesca Sortino (già collaboratrice di Pieranunzi, Fresu
e Di Battista), e si chiude poi con la rivisitazione di Titoro di
Billy Taylor in salsa cuban. Questo per i classici. Gli originali
poi, arrangiati con l'aiuto di Luca Mannutza, vanno dalla
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movimentata aria caraibica di Joy Shout (con il bell'assolo di flauto di Alfonso Deidda) alle atmosfere smooth di
Waltz for Emily, dalla carica classica di One More Swing alla
visionarietà world con un vibrafono in orbita (suonato dal
bravo Pasquale Bardaro) di Mille e una notte.
Un buon diversivo live che può sostituire le anodine
compilation sintetiche di chill out o l'asfittico panorama delle insonorizzazioni da cocktail grazie a un suono
compatto e caldo, sudato e mai ostentato. In più, una
conferma di come il suono bossa sia ormai minimo comune denominatore applicabile a qualsiasi mood, non
necessariamente laid back, tanto che l'arrangiamento di
Ardley è stato promosso nientemeno che dal guru Gilles Peterson nella sua trasmissione Worldwide su BBC
Radio 1. Italians do it better, also in jazz.
(7.01/10)
Marco Braggion
Giuseppe Ielasi - 15 tapes (Senufo
Editions, Giugno 2010)
G enere : P ost - digital
Desolazione pura, l'ultima coppia di Ep di Ielasi. Desolazione compiuta.
Giuseppe Ielasi, già da tempo, riprogrammava i propri
codici passando dalla macro-poetica elettroacustica degli albori ad una micro-fisiologia digitale, chirurgica per la
sua esattezza formale, e glaciale per l'assenza sostanziale
di melodie.
15 tapes è come un grande parco naturale incapsulato
all'interno di una cpu autistica quanto dislessica. 15 brevi
traccie, meme-riduzionistiche - per forma e pachidermica sostanza - si susseguono in maniera ammutinata, per
istantanee, con suoni talvolta (bi)cicli(ci), di superfici rettrattili o insetti captati o varchi ambientali. Del Ielasi prima maniera, si percepiscono la dislocazione spaziale, gli
ammutinamenti sonori quasi ginnici, la gravitazione della
massa sonora. Di nuovo c'è la durata dei singoli interventi: corta non solo per brevità, quanto per semplificazione. Assente di cinematica, e per questo percepibile per
sensi più intellettuali che visivi, gli spazi perlustrati tra un
nanosecondo e l'altro delle sue scansioni si riempiono di
suono puro. Un codice senza più codificazione.
In quest'utopica riduzione delle forme, i romantici ci
scorgerebbero l'assenza della poesia, i puristi dell'elettronica un mero allinearsi di campioni in voga in certe
produzioni teutoniche di una decina d'anni fa. Noi, come
la chiamerebbe Blanchot, leggiamo LA forma neutra: una
meccanica spogliata di materia, una metafora della vita
attuale, l'istantanea della totale assenza di dialogo.
(7/10)
Salvatore Borrelli
Giuseppe Ielasi - Tools (12k, Giugno
2010)
G enere : P ost -M aterial
Gli Ep sono come cortometraggi, punti di sospensione
tra il prima e il dopo. Giuseppe Ielasi ne presenta contemporaneamente due: 15 tapes, dalla natura più statica,
e questo Tools più dinamico ma meno ricco di dettagli.
Abbandonati i panni del droner digitale dall'orientamento poetico, l'ultimo Ielasi rincorre circuiti chiusi, forme
digitali dalla struttura rigida e neo-formale in una ricerca
dal gusto timbrico scarno i cui materiali lasciano poco
spazio all'elettroacustica di Gesine.
Tools è composto da sette momenti, e da 15 tapes trattiene l'uso di un suono puro, oggettivamente individuato
(Metal Rod, Polystirene box, Paper Lamp) e copiato/scannerizzato dall'oggetto stesso in bilico tra ritmica-aritmia.
La differenza tra i due Ep, è che siamo su 12k, e dentro
vi ritroverete timbriche care sia a Christopher Willits quanto agli amatori dei solid-textures. Il passaggio
terminologico esistente tra il “vecchio” pattern e il più
fashionable Tools, o Object (di cui si parla nelle note) è
qualcosa che nessun serializzatore di definizioni potrà
oramai storicizzare. Si tratta di un uso più tecnocratico,
per cultori di piattaforme Max/Msp, che logico. Ed infatti
in Tools, l'unica novità resta extradiscografica, e consiste
nel vedere definitivamente compiuto il passaggio di Ielasi
nel dancefloor minimale, più volte toccato, o avvicinato
con cautela. Sebbene di nuovo ci sia veramente poco
(Veiculo dei To Rococo Rot del 1997 già conteneva tutto questo in maniera esemplare).
Ciò che all'interno dell''universo neo-formale di Ielasi
appare come una liberazione dai canoni compulsivi della
vecchia e cerebrale elettroacustica, per un neofita, Tools
apparirà come un'operazione fredda, estranea, mancante. E c'è un concreto rischio che tutto sfumi sotto la
scure della serialità.
(6/10)
Salvatore Borrelli
Gogol Bordello - TransContinental Hustle (Side One
Dummy, Maggio 2010)
G enere : F olk - punk
Con una copertina dagli stessi colori di quella di Clandestino, tornano Hutz e soci, a tre anni da Super Taranta
e dopo la celebrazione di Live from Axis Mundi.
Finora il combo gipsy-punk si era sempre scrollato di
dosso i sospetti di esotismo da salotto che potevano
nascere dalla nota amicizia con Madonna grazie alla verve genuina del loro terzomondismo sincretico (a partire
dalla formazione) e agli esplosivi concerti; non questa
volta, dove è proprio il piglio sagace dei Nostri a scarseggiare al punto che pure i brani migliori, contenuti per
lo più nella prima metà della scaletta (Companijera, Rebellious Love, Pala Tute), risultano sottotono.
In proverbiale assenza di hits (peraltro mai richieste), la
semplicità armonica della loro musica, tratto distintivo
del genere, comincia a suonare semplicemente ripetitiva
scoppiettando al minimo sindacale. La produzione, scolastica, di Rick Rubin è più che indiziata, ma ci si chiede se
si tratti di un semplice errore di scelta o di un biglietto
verso la normalizzazione.
A questo punto sarà il tempo a dire se si tratta di una
momentanea, fisiologica flessione o l'inizio di un più pericoloso svuotamento di significato.
(6.6/10)
Giulio Pasquali
Grass Widow - Past Time (Kill Rock
Stars, Agosto 2010)
G enere : indie - wave
Le vedove bianche sono un trio all female da San Francisco e questo Past Time segna il loro ritorno dopo un
brillante esordio omonimo su Make A Mess e il 12” per
la superhype Captured Tracks. Stavolta è la Kill Rock
Stars a mettere la prestigiosa firma sull'eccitante scarsa
mezzora che Raven Mahon (chitarra, voce), Lillian Maring
(batteria, voce) e Hannah Lew (basso, voce) ci servono
sul finire dell'estate.
Le tre ex riot grrrls pentite ci offrono intarsi vocali e una
apparente semplicità strumentale - un po' sulla falsariga
delle New Bloods (sempre su KRS) - svariando come
niente fosse dalla scala di grigio della minimal wave fino
a uno screziato immaginario post-indie punk. Ecco così
che le ritroviamo a citare indifferentemente e elegantemente passaggi dei Sonic Youth più ossianici e neri
(Fried Egg) o grunge-addicted alla maniera delle Breeders senza elettricità (Uncertain Memory) o, ancora più
in generale, ipotizzando una versione 2.0 del post-punk
scarno e disidratato delle Kleenex/LiLiPUT, primaria
fonte di ispirazione citata dalla band.
A farsi notare sono le circonvoluzioni vocali, quid corale e sfaccettato che ne esalta la varietà stilistica e che
permette loro di mettersi al tavolo del lo-fi pop al femminile di Best Coast, Vivian Girls e compagia sixties.
Aggiungeteci dichiarazioni anti-gender e vedrete che in
Past Time c'è molto più di quello che in apparenza potrebbe sembrare. Qui conta la musica e non il sesso di
chi suona, anche dopo ripetuti ascolti.
(7/10)
Stefano Pifferi
57
highlight
of Montreal - False Priest (Polyvinyl Records, Settembre 2010)
G enere : F unkedelic pop
La mutazione è terminata.Anzi, sarebbe più corretto dire che la mutazione è permanente, cosa che fa della
creatura di Kevin Barnes una delle poche compagini in grado di stupire ad ogni nuova uscita, gli unici capaci
di partire dalla psichedelia vittoriana a 78 giri di album come The Gay Parade, per approdare a questo
distillato di freakedelia funky lisergica.
Azzardiamo un'interpretazione della loro storia più recente. Dopo un album superbo come Hissing Fauna, Are You the Destroyer?, per chi scrive il più tondo e compiuto fino a questo momento, quello che
lasciava intravedere possibilità di penetrazione verso platee che non avevano
mai sentito parlare di Elephant 6 Collective, arrivava Skeletal Lamping:
un commercial suicide in piena regola, contorto e labirintico come la mente
di chi lo aveva generato.Nel frattempo facevano scalpore le sorprendenti
dichiarazioni di una certa Beyoncé Knowles, che manifestava apertamente
il proprio amore per la band e gettava su Barnes e soci un cono di luce che
apriva scenari succulenti.
Ecco dunque che False Priest, sancisce con il connubio fra i vagheggiamenti
disco beatlesiani degli of Montreal e il mondo dell'r'n'b. Un'improbabile
crossover sigillato dalla collaborazione con la minore delle sorelle Knowles, Solange, nonché con la nuova
starlette della musica nera, Janelle Monae, già ribattezzata dalla stampa l'anti Lady Gaga.
Magicamente il discorso riprende dove lo avevamo lasciato con il capolavoro del 2007, ma con un groove
sexy decisamente più marcato. La follia dadaista di Barnes viene applicata ai vorticosi giri funkadelici di I
Feel Ya Strutter e Godly Intersex. è sufficiente un piccolo aggiustamento di rotta perché tutto acquisti una
forma più compiuta: i falsetti isterici, la gaiezza cool e la malia glam che graffia sul riff del singolo Coquet
Coquette. Tutto è al servizio di melodie finalmente intellegibili e godibili anche da menti finite come la
nostra.
Il combo di Athens sa di giocarsi parecchio con questo album e non si limita a baccagliare con la bassa
fedeltà come degli Ariel Pink qualsiasi: la produzione è limpida, il suono dei synth è cromato e tirato a
lucido. Posto che quello di vedere la band in classifica è un sogno destinato a rimanere tale ancora per
molto tempo, c'è solo da restare ammirati dal modo in cui il gruppo plasma la materia pop, scegliendo
sempre, fra le possibili strade, quella più impervia.
In ogni brano c'è sempre l'elemento obliquo, la scala improvvisa, il sottofondo disturbante. Si procede per
giustapposizione, per stratificazione sonora, ma il risultato è compatto e avvincente.
Come dire: danzate pure, ma non rilassatevi troppo. In pratica, l'album definitivo degli of Montreal. Per
adesso.
(7.5/10)
Diego Ballani
gotica pervadente e anche un po' sbrigativa, la dose minima per garantire l'efficacia senza sbrodolamenti. Questione di mestiere, certo, e qui - come v'immaginerete
- ce n'è tanto: suoni che sanno come suonare, dinamiche
come scapaccioni ma anche trame che biascicano tremori (vedi la trepida What I Know), la scrittura che tira
dritto e azzecca svolte come suggerito dal navigatore
esperenziale.
è un teatrino che ti percuote ma non ti scuote davvero,
t'intrattiene ghignando e sferzando, e se ti sembra anche
sanguigno - un po' lo è - magari il motivo sta in un vissuto rock che ha pochi eguali e giocoforza viene fuori.
Malgrado tutto, quindi, un disco gradevole.
(6.5/10)
Stefano Solventi
Happy Skeleton - Coffee &
Cigarette Club (Red Birds,
Settembre 2010)
G enere : 90 s rock
Un incidente in automobile sotto la pioggia e la necessità di scrivere canzoni, ringraziando il destino per non
aver posto fine a un'esistenza ancora giovane. Si tratta di
quella di Davide Delmonte, classe 1988, che musicalmente parlando si nasconde dietro al moniker Happy
Skeleton: scheletri e teschi fumettosi come per l'epopea dei Tre Allegri Ragazzi Morti (sul myspace si cita
invece il videogame Grim Fandango, pubblicato sul finire
degli anni novanta) e una passione incontenibile per gli
anni Novanta, dalle parte degli Smashing Pumpkins.
Non basta qualche tentativo di trip-hop (Le Rouge) per
sparigliare le carte: il disco rimane acerbo, frutto più
dell'urgenza comunicativa che di una meditazione artistica. Siamo poco lontano dal calco grunge e post per quarantotto minuti di teenage angst che fanno di Coffe &
Cigarette Club un ritrovo per nostalgici dei Novanta
e per tutti coloro che li hanno cominciati a frequentare
come prima tappa di un viaggio all'indietro nel tempo.
(6/10)
Marco Boscolo
Grinderman - Grinderman 2 (Mute,
Settembre 2010)
G enere : garage psych
Il gioco si fa sempre più fumettistico e feroce per i compagni di merende riuniti nell'accolita Grinderman,
giunta oggi al capitolo secondo. Si divertono come matti,
Cave, Ellis, Sclavunos e Casey. Ma da professionisti. Curano anche il contorno chiamando John Hillcoat - apprezzato regista di The Road - a dirigere i clip promozionali, sorta di allucinazioni lucide e insidiosi spaesamenti
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iperreali. Che ben si attagliano al tasso acido di questo
Grinderman 2, in sensibile aumento rispetto all'esordio che pure non scherzava quanto a chitarre esasperate
di wah-wah ed organi fuzzanti come frustate d'inferno.
Sostrato e additivo psichedelico, sì, però bidimensionale, senza altra visione che una goliardica furia abitata da
spettri e lazzi, scintille d'un fuoco che un tempo si chiamava Birthday Party prima e poi Bad Seeds. Giusto
le scintille, appunto: pagliuzze incandescenti nell'occhio
mannaro l'attimo prima di farsi cenere. Soffia una brezza
Hiroshima Rocks Around - III
(Escape From Today, Luglio 2010)
G enere : noise - rock spastico
Mette subito tutto in chiaro il sibilo in distorsione che
apre questo comeback dei romani Hiroshima Rocks
Around. Rumore bello spesso e lurido, quello che i quattro squilibrati (Toni Cutrone, Jabba Boy, 'Ndriu Marziano
e il defezionario Vincent Filosa) ci mettono sul piatto in
questo che è sì, il nuovo album, ma che colleziona anche
tracce da precedenti, limitate release come lo split-album
con Bipolar Bear (Kill Shaman / No=Fi Recordings,
2009) o 7” introvabili (The Matter Of Face su S-S).
Rumore dicevamo, di quello che girava a casa AmRep
una ventina esatta di anni fa: marcio al midollo, puzzolente, scanzonato, sboccato e slabbrato. Roba repellente
per le verginelle orecchie degli indie-kids di oggi e acqua
fresca per chi ha il marchio della label di Minneapolis
tatuato a fuoco sulla pelle, III è in costante distorsione,
sfora il limite della decenza sonica, frantuma ogni ipotesi di destrutturazione, svisa verso territori arty senza
essere presuntuosamente arty, sostenuto com'è da un
impatto materico, carnale come la percussività tribale
ossessiva e ossessionante e gli eccessi rumorosi degli
strumenti portati al punto di collasso. Una sana iniezione di noise-rock reiterato (Raw Aids), urbano e malato
(Disfunzioni Intestinali), incessante e irrefrenabile (Der Kanaro), addirittura “ballabile” (la groovey Not Right), innervato di blues deturpato nella peggior tradizione dei nineties (Wallace), decomposto come se lasciato a marcire
in una fogna dall'anno di grazia 1991 fino ai giorni nostri.
Prendeteli come esploratori della melma rumorosa del
passato pronti a insozzarvi tutti. Grandi!
(7/10)
Stefano Pifferi
His Clancyness - Always Mist
(Mirror Universe Tapes, Maggio
2010)
G enere : dream - pop
Jonathan Clancy, bolognese di Ottawa, era il cantante
e chitarrista dei Settlefish, ora negli A Classic Education. Da qualche anno è anche Sua Clancysità, succo
concentrato di indie coolness che più di così si muore. Una cassetta-demo ultralimitata e un cd-r su Secret
Furry Hole, l'interessamento nientemeno che di Pitchfork (tre pezzi in streaming, uno di questi la ruffianissima
cover di So Bored dei ruffianissimi Wavves) ed ecco il
debut vero e proprio. Sempre su cassetta limitata, per
carità, e su quella Mirror Universe Tapes che ha nel suo
nastro-roster anche un pezzo da novanta come Toro Y
Moi (lo si è capito già da un po' che questa storia del
revivalismo analogico non è esclusiva dei soli noisers).
Ovviamente la cassettina è già sold out.
Il titolo del lavoro e quel "dream-pop" che campeggia
come genere di riferimento sul Myspace sono i perfetti
addendi di una equazione che si chiude da sola. Nove miniature tic tac, produzione casalinga, suono squillante ma
impastato, voce lontanissima. Ecco spiegata quella nebbia
onnipresente (nebbia che lascia Surriento addirittura,
fisarmonica e mandolinismi, nella strumentale Clear The
Mist). Pop a candeggio nel latte, genealogia surf (Just Like
59
Mondays), psych Sessanta (il cabaret Kinksiano di Vampire Summer) e Paisley (ma anche un certo retrogusto slacker-Beckiano in Nothing And Nowhere To Go), arpeggini
tra folk e candore XTC (Piece Of Cake, Night And Fables),
microcavalcate "emo al tempo del Beat" (Misinterpret My
Words, uno dei pezzi migliori).
Radicalsciccheria indie dicevamo, ma un approccio cantautoriale che altri, meglio prodotti e suonati, non hanno
e un paio di pezzi sopra la media.
(6.4/10)
Gabriele Marino
Hundred In The Hands (The) - The
Hundred In The Hands (Warp
Records, Settembre 2010)
G enere : D ream pop , alt rock
Dopo un EP di belle speranze, l'intervista e il nostro speciale di qualche mese fa, le aspettative dietro all'esordio
lungo di The Hundred In The Hands erano moderatamente alte. Ci piaceva l'equilibrio di synth pop, postpunk e disco che quella manciata di brani sapeva citare,
confezionare e, perché no, cavalcare.
A Jason Friedman e Eleanor Everdell la banalità pareva di
fatto non appartenere e invece in quest'omonimo di ovvietà 4AD fuori tempo massimo e superflui tasselli Ottanta (Pigeons, Commotion) ce n'è eccome, quasi come se
i due avessero proprio voluto - o non avessero proprio
potuto - nascondere la voglia di moda a tutti i costi.
Nel mix di dream, synth e fine 80', Friedman ed Everdell non possiedono la classe dei Blonde Redhead il cui ultimo Penny Sparkle si muove decisamente meglio nel solco 4AD -, eppure le tracce maggiormente
rarefatte (Killing It, la finale The Beach) risultano le più
convincenti, quelle cioè che asciugano la tecnica (leggi:
pilota automatico) e mettono al primo posto l'atmosfera, la grande assente del disco.
I HITH bruciano le tappe: al sophomore ci arrivano con
il disco d'esordio, ma si è sempre in tempo a invertire la
tendenza.
(5.5/10)
Gaspare Caliri
Hypernova - Through The Chaos
(Narnack, Luglio 2010)
G enere : emul - rock
L'emul-rock dell'emul-rock. Ormai a tanto siamo arrivati nel raschiare il barile della (mancanza di) creatività.
Atmosfere gloomy, sonorità sul dark, batteria minimal se
non in modalità human drum-machine, interplay bassochitarra con accento sul primo e voce drammaticamente
baritonale: questi gli Hypernova che però, come molti
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avranno già capito, non si rifanno ai Joy Division, quanto
agli emuli di quel sound riverniciato per gli anni '00 come
Editors, Interpol e compagnia cantante.
Non c'è nulla di sofferto, struggente, lirico nelle musiche
di questo quartetto, tanto meno di originale, così come
non ce n'è in quelle dei suddetti. C'è soltanto l'insinuarsi
vivido - ben praticato e con nulla da eccepire sul piano formale - nel solco tracciato da altri, in altri tempi e
con altre dinamiche. L'innesto di accenni dark-techno,
di qualche slancio dance - o alternative-rock, di qualche
variante sul canovaccio goth alla Sisters Of Mercy o
Psychedelic Furs, non altera la percezione iniziale. A
parziale scusante, la provenienza esotica del quartetto,
fuggito da un presente fatto di repressione e secret gigs
in quel di Teheran (si noti l'autobiografica Viva La Resistance) per rincorrere l'illusione di un futuro migliore
negli States.
(5.8/10)
Stefano Pifferi
Ige*timer - Ice Cold Pop
(Everloving, Giugno 2010)
G enere : A vantgarde
Già attivi da qualche anno, gli Ige*Timer sono un duo di
stanza berlinese dedito a musica che si potrebbe definire
avant-noise da camera. Abituati a sonorizzare installazioni e spazi, il motore di tutto l'impianto sonoro è sempre e comunque la suggestione del luogo e del tempo
in cui i due si trovano a suonare. Si tratta di connessioni
analogico-digitali tra il contrabbasso di Klaus Janek e le
manipolazioni elettroniche di Simon Berz. Ne esce una
creatura variegata, come di una pellicola fotografica pesantemente rielaborata digitalmente, ma in tempo reale.
Di questa macchina fotografica, gli Ige*Timer puntano
l'obiettivo in uno spaziotempo diverso e vedono quello
che ne salta fuori. Nel caso dei tre brani che compongono Ice Cold Pop si è trattato di tre città americane
(Baltimora, New Orleans e Philadelphia), dove i rispettivi
brani sono stati catturati live.
Di pop, in realtà, non v'è nulla, avendo i due negato da
tempo la melodia come elemento portante delle proprie composizioni, ma l'interplay tra i due musicisti ne fa
talvolta emergere, quasi in modo casuale, qualche brandello. É il caso della lunga New Orleans (che, va detto, non
dice quasi nulla nemmeno del jazz), che diventa trascinante nell'ultima parte, quando incomincia una cavalcata
in crescendo che tra tastiere atonali e drum machine,
assomiglia a un traditional macinato post rock. Più brevi
Baltimore e Philadelphia, la prima più spirituale, quasi a
ricercare l'acquacità dell'Inner Harbour sporcata da una
violenza sottesa (Baltimora è pur sempre una delle città
highlight
Paban Das Baul - Music Of The Honey Gatherers (World Music
Network, Giugno 2010)
G enere : folk indiano
Va bene il riportare le proprie radici all'oggi, mescolarle con la modernità,
farne un unicum temporale e parcellizzarlo in unguenti popular - siamo pur
sempre nell'era dell'eterno presente no? Il passato nostalgico e il futuro
minaccioso schiacciati nel qui ed ora -. Ma quando ad incontrarsi sono radici nettamente diverse fra loro eppure accomunate dalla stessa profondità
temporale succede la magia, il ribaltamento ventrale, l'ascesi nel sangue, nei
nervi, nei muscoli.
I Baul sono dei cantori erranti indiani, gli unici induisti laggiù a non riconoscere le caste e a promuovere l'uguaglianza di tutti i culti. Facile ritrovarli
allora a mescolare questi culti e le loro musiche soprattutto, in un misticismo che sincretico non è e
cosmopolita neppure, ma molto molto altro e molto molto diverso.
Paban Das Baul di questo popolo vagabondo è colui che ce l'ha fatta, è arrivato in occidente, ha cantato
le sue radici, le ha sporcate (con Sam Mills fra gli altri) e poi ha deciso di tornare ad uno stato di purezza.
E così Music Of Honey Gatheres è il primo parto di una musica che ha Tantra, Vaishnavismo, Sufismo
e Buddismo come sorgenti.
Una musica che è trance lenta e corporale, preghiera inneggiante all'alto del cielo e al basso della terra,
forma di catarsi svuotante lontana da ogni nichilismo e pretesa di obnubilamento. Paban è alla voce ma
si occupa anche di strumenti percussivi come il dubki e il khamak ed esegue melodie innervanti energia
con il dotara, una specie di chitarra a cinque corde. Insieme a lui altri quattro musicisti tra cui Nathoolal
Solari al tamburo nagara.
Mentre ascoltate fatevi un giro in rete a scoprire quali siano le credenze di questi musicisti del Bengala
rurale e capirete meglio che con tante descrizione il perché di una musica così libera, verticale eppure
così straordinariamente sostanziosa.
(7.7/10)
Luca Barachetti
a più alto tasso criminale degli USA, guardare la serie tv
Wire per credere), mentre la seconda è ancora più oscura e tremendamente notturna, costruita com'è su spettri
di voci e frequenze elettromagnetiche disturbanti.
A seguire gli Ige*Timer ci si può perdere in paesaggi sonori inattesi e in grado di regalare ad ogni ascolto nuovi
elementi per intraprendere nuovamente il viaggio. Forse
i brani non vi faranno venir voglia di visitare le città, ma
questo è pur sempre il loro viaggio, non il nostro.
(6.5/10)
Marco Boscolo
Imaad Wasif - The Voidist (Tee Pee,
Luglio 2010)
G enere : psichedelia
È un gran bel concentrato di psichedelia west-coast deviata, stoner desertico non sempre a pieno regime di
volumi e traditional americana tutta sofferenza e strug-
gimento, il nuovo album del chitarrista americano Imaad
Wasif.
Le cronache musicali lo danno all'esordio solista qualche anno addietro con Imaad Wasif, un self-titled di
folk acustico e minimal in the vein of Skip Spence/Syd
Barrett, addirittura su Kill Rock Stars, a coronamento di una carriera underground costellata anche da un
briciolo di notorietà. Wasif era infatti la metà esatta dei
Lowercase, duo chitarra-batteria in tempi non sospetti
e con una discografia piuttosto corposa nei secondi nineties per etichette come Amphetamine Reptile, Punk In
My Vitamins e, appunto, KRS.
Il sophomore autoprodotto Strange Hexes del 2008
(prossimo alla ristampa proprio per Tee Pee) vede alcuni cambi strutturali: non più in solo, ad accompagnare il nostro ci sono i Two Part Beast, ossia Adam Garcia
alla batteria e Bobb Bruno (già Goliath Bird Eater e
ora metà Best Coast) al basso, mentre dal punto di
61
highlight
Shit Browne - Every Single Penny Will Be Reinvested in the Party
(Asphalt Duchess, Agosto 2010)
G enere : R ave and roll
In questo periodo di ravers rinnegati (Klaxons) e postpunkers alla deriva col pilota automatico, revival
to revival, Club to Club, non può che farci piacere l'ennesima band che riscopre la stagione Madchester
e ne fa manifesto, forse filosofia e fa un disco come se fosse nel 1992, anno
magico come non mai visto a posteriori (vedi anche alla voce Zomby).
Parliamo della Manchester baggy e strafatta di pillole, indie-rock e soul, quella Manchester che se la batteva tra Happy Mondays dopo sballo e pose
bucoliche Stone Roses, un giro all'Hacienda di Tony Wilson e lo svacco sul
couch a scacchi fino al venerdì e poi di nuovo in pista sotto i palchi e dentro
la discoteca fino al mattino.
Per una volta, protagonista di questa storia non è il solito gruppo brit che
rifà strafattisimo la tradizione dei cugini, ma cinque ragazzi mangia mostarda
originari di Dijon ora trasferiti a Parigi, città nella quale stanno divulgando un verbo che, a ben vedere, non
è così calligrafico come potrebbe sembrare. Troverete i Primal Scream recenti in brani come Winter
Collection e Browne And Proud, i primissimi Oasis in odor di shoegaze, le tastiere dei New Order in Chairman Meow e pure gli attualissimi Art Brut a tutta gag e narrativa (She's A Party e Sweetback) in questo
fresco e intelligente esordio firmato Shit Browne.
Un pentagono di nerd french che suona più eclettico che strafatto, più in technicolor come piace a Bobby
Gillespie che in sculetto r'n'b Happy Mondays, più con l'arpeggio facile - e ben angolato - alla John Squire
piuttosto che in candeggio folky à la Ian Brown. C'è un po' di tutti loro ma in ordine sparso dunque, con
la scioltezza doppio zero necessaria e un senso della ripetizione non distantissimo dalla francesissima
produzione Kitsuné (ancora Winter Collection che tira in ballo anche gli Hot Chip sul finale) e un fare
contagioso che nel recente passato è stato soltanto degli Art Brut.
Capita l'antifona? Non siamo alle prese con il solito postmodernismo veloce da una botta e via. Vengono
dalla Francia i vostri rave'n'rollers del 2010.
(7.3/10)
Edoardo Bridda
vista musicale le atmosfere si fanno più trippy, dilatate
e dense di riferimenti tra psych-rock a stelle&strisce
e influenze orientaleggianti. Per The Voidist, Wasif fa
le cose in grande. Oltre a confermare la backing band
di cui sopra, si fa aiutare da personaggi del calibro
di Dale Crover (Melvins) e Greg Burns (Red Sparowes) allargando così ancor di più lo spettro delle
possibilità: chitarre acustiche e delicate si alternano a
svisate lisergiche e drogate, ora memori della primigenia infatuazione per lo stoner della Coachella Valley,
ora di quella psichedelia mistico-spirituale alla Om
che tanti cuori rapisce in questi anni '00. Nello stesso
modo ballate in punta di plettro, delicate e umorali, si
alternano a assalti chitarristici tanto groovey quanto
densi e violenti.
Una eterogeneità che è quasi impercettibile e che rap62
presenta il grosso pregio di un album di “classica” psichedelia post-moderna.
(7.2/10)
Stefano Pifferi
Interpol - Interpol (Matador,
Settembre 2010)
G enere : W ave , dark
C'è un attaccamento romantico nei confronti degli Interpol che trascende la loro stessa musica. Le ragioni sono
evidenti: coincidono con un gruppo e una stagione che è
rimasta nel cuore di tre generazioni: i Joy Division e la
wave (allegandoci il portato di quel binomio dirompente); il romanticismo dark caratteristico di una certa età
della vita; il nichilismo, l'abbandono, l'amore per la pelle
bianca e i vestiti neri, per le cravatte scure e gli anni '30
di celluloide, persino la fascinazione per i regimi totalitari. I difensori a caldo degli Interpol - davanti al naufragio
di Our Love To Admire - trovano così una loro collocazione giustificando una band che sin lì si era conquistata un
merito di pochi: coniare in soli due album una propria
variante nel suono dark rock degli eighties.
Bank alla voce aveva plasmato quella di Curtis traghettando i suoi testi in una coolness più portatile targata
Willamsburg, piena di ombre e amarezza post-ground
zero, Sam Fogarino aveva piegato la sei corde di Bernard
Sumner all'umbratilità sciutta dei Chameleons lanciando in strada un veicolo armonico ora angolato (e tipico
primi Duemila) ora a picco sul vuoto, come se l'uomo
s'affacciasse da un grattacielo di NY in un misto di coraggio e tentazioni suicide. Per finire la dialettica old style
di Sam e Paul, uno di quei dialoghi che scaldano il cuore
con delicatezza e garbo, ovvero il basso di Carlos e la
batteria di Daniel. I quattro di un perché sonico riconoscibile dalle prime note.
Quattro non più quattro (dal vivo con loro c'è temporaneamente David Pajo al posto di Carlos) che a dieci
anni dall'inizio di carriera si presentano con un nuovo capitolo, il quarto, omonimo come a voler superare l'opacità di Our Love e la ferma intenzione di iniziare daccapo.
Dalle interviste di quest'ultimo anno sono emerse soprattutto le ammende e le buone intenzioni, soprattutto
la volontà di voler tornare all'indimenticabile esordio di
Turn On The Bright Lights, l'unico album amato da
tutti, nessuno escluso. Interessanti inoltre, gli aneddoti di
Fogarino: ha provato per ore da solo in un capannone
cercando di "riprendersi il suono di un tempo”, evocato
dall'attacco del singolo Lights e in altri episodi di un lavoro che si guarda bene dal lanciarsi fuori dal finestrino
della limousine.
A parte le leggende per la stampa, gli Interpol di un Banks dalle liriche incartapecorite (lo si era visto anche con
Julian Plenti, lo si nota ora nel pretenzioso e funereo
trittico finale) rifanno Our Love trattando la tragico-epica
passione verbale e chitarristica in strati sovrapponibili, e
non più cercando goffe complessità senza sbocchi. Soprattutto ci mettono la maturità di dieci anni da musicisti risultando meritatamente classici. Classici precoci
però. La loro proposta è fondata cioè su compromessi
difficili da digerire, gli stessi che allontanarono gli U2
dalla fragranza primigenia e dai fan della prima ora. Quegli stessi U2 per i quali la band apre una manciata di
concerti ed il cui No Line On The Horizon riecheggia
in quest'omonimo lavoro di passione controllata, angoli
smussati, eleganza brevettata: un'ulteriore demarcazione
con il passato che pure nel loro caso senza grosse hit
(Lights convince ma non del tutto, l'angolata Barricade do-
veva dare la botta che non ha dato), garantirà il successo
del medio-grande pubblico e la lontananza da quello “di
nicchia”.
In entrambi i casi, il cuore ne sta fuori. E sarà anche vero
che Ian Curtis se fosse arrivato in america avrebbe fatto
dei Joy Division il primo gruppo wave da stadio; altrettanto sicuro che, oltre un certo (magico) periodo, l'essere dark, romantic, vampires, non è che una maschera o
un decadente desiderio d'eternità. O un mestiere come
un altro.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Isobel Campbell/Mark Lanegan Hawk (V2 Music, Agosto 2010)
G enere : alt folk blues
E venne anche il terzo album per il sodalizio CampbellLanegan, in breve divenuto una specie d'istituzione del
pop-rock alternativo. In occasione di questo Hawk i due
provano a variare la portata incrociando coordinate
country-blues, con particolare riferimento alle due cover di Townes Van Zandt, una brumosa Snake Song e la
splendida No Place To Fall, quest'ultima cantata da Isobel
in coppia con Willy Mason, giovane folksinger newyorkese. Non mancano ovviamente le prove sul terreno
dell'errebì dolciastro e paludoso, nel quale il chimismo
della coppia si esalta con un'efficacia quasi irritante (vedi
la trepida Time Of The Season o la cupa You Won't Let Me
Down Again), salvo poi giocare a ritagliarsi spazi propri al
punto che fai fatica a percepire la presenza dell'altro (ad
esempio, se la languida To Hell & Back Again è pura farina
del sacco Campbell, il mezzo pasticcio gospel di Lately è
tutto ascrivibile a Lanegan).
Affiora insomma la sensazione di un certo automatismo
(vedi la piattezza disarmante del duetto in Come Undone), assieme al sospetto che la confezione del prodotto
abbia sopravanzato tutte le altre istanze in ballo. Tuttavia,
momenti come la ruspante Get Behind Me o l'assorta We
Die And See Beauty Reign ci ricordano l'intrigante peculiarità di questa accoppiata, che probabilmente ha ancora
qualche bella cartuccia da sparare.
(6.7/10)
Stefano Solventi
Jaill - That's How We Burn (Sub
Pop, Agosto 2010)
G enere : guitar pop
Brucia, ma non fa male, questo esordio major-indie
dei Jaill, band di Milwaukee già attiva dal 2002 e nata
dall'amicizia dei due membri fondatori Vincent Kircher e Austin Dutmer. Come vuole l'estetica di ogni
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indie-band che si rispetti, anche Kircher e Dutmer hanno
cominciato a suonare le loro canzoni al calduccio delle
proprie camerette, hanno poi cercato di mettere in piedi
una formazione per l'attività live, soprattutto in seguito
all'esordio dello scorso anno There's No Sky (Oh My My).
Quel disco di schietto college rock arriva all'orecchio
di un talent scout Sub Pop e così si passa al gioco da
grandi.
In realtà, musicalmente parlando, si tratta di musica vieppiù scanzonata, a metà strada tra i We Are Scientists
e il suono nostalgico degli anni Sessanta che va tanto
di moda (Morning Benders, Best Coast). In questi
32 minuti suddivisi in 11 tracce c'è una costante ricerca
della melodia appiccicosa, a volte pregne di reminescenze 90s (le chitarre di On The Beat), altrove sporcata di
rock più classico e maschio (Demon) o di country and
western (Thank Us Later, ma non preoccupatevi: il Ryan
Adams in formazione non è quel Ryan Adams). Il brano
migliore rimane probabilmente l'iniziale The Stroller, un
brano wave tiratissimo che gli Interpol non scriveranno
mai più e che promette, purtroppo, molto più di quanto
poi non venga mantenuto.
Non siamo di fronte a opportunisti che decidono di saltare sul carro della moda, ma nemmeno in compagnia
di fini pensatori del pop-rock contemporaneo. I Jaill rimangono fedeli alla loro dimensione da college band, da
friday-night performers, e farà sempre piacere andare a
trovarli per uno show e un drink.
(6.7/10)
Marco Boscolo
James Pants - New Tropical
(Stones Throw, Giugno 2010)
G enere : tropical electro
Seven Seals è una perla di new wave psichedelica in
salsa Residentsiana. Ma è anche uno di quei classici disconi veramente underground che per vari stupidi motivi
- Pants non è un nome, non è manco un figo e - non
ultimo - ha deciso di pubblicare nel nefasto periodo di
passaggio dicembre-gennaio - non trovano spazio quasi
da nessuna parte. Adesso cambia registro e passa ai suoi
amori electrofunk/danzerecci, con la solita dose di ispirazione pop e di malattia.
Sei brevi pezzi di electro ruvida e tropicale, giocosa e
sinistra come gli si conviene: voce urbantribal, basso
szanzarante, effettacci vari e rullante ad anticipare (Driftwood); capatina in un mercato arabo anni Ottanta (1988);
electrofunk ottuso e superbassy (Hanama Beat e This
Crazy Sound); percussioncine e motivetto tropicalreggae
(Diamond Head); voce ragga su tappeto toy-synth (Say
Yes). Pants merita decisamente più attenzione, le sue
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produzioni sono una goduria. Per feste in spiaggia veramente alternative.
(7.2/10)
Gabriele Marino
Jason Edwards - Doldrums (Kill
The DJ, Luglio 2010)
G enere : folk lunare
Doldrums è il secondo lavoro per Jason Edwards, francese dalle discendenze angloamericane (e infatti canta in
inglese), uno che si porta a spasso la musica attraverso
frontiere e oceani, per forza poi che il suo folk suona così
apolide e strascicato. Qualcosa dell'incedere languido e
stranito del Beck col piede nella fossa, uno spalmare
sogni aciduli alla maniera di Elliott Smith buonanima,
il gusto di strattonare e imbrunire le trame di fiati blues
vagamente Morphine, giusto un pizzico dell'estro Robyn Hitchcock con le spine staccate, la grazia stralunata di Howe Gelb e un'ombra del nomadismo etnico
Piers Faccini: ecco allestito un programma dolcemente
malmostoso, ipnotico come un mantra mormorato sulla
linea d'ombra che separa la sera dalla notte, il viaggio dal
destino.
Il fascino si deve forse più alle situazioni che alla validità
delle canzoni, anche se almeno No Name e Oo azzeccano
una bella combinata di scrittura e interpretazione. Disco
e artista da tenere nella debita considerazione.
(6.8/10)
Stefano Solventi
John Zorn/Fred Frith - Late Works
(Tzadik, Aprile 2010)
G enere : impro
Zorn e Frith suonano assieme da più di trent'anni, dal
vivo e su disco, in formazione e in duo. Questo Late
Works è però il primo lavoro impro a loro intestato ad
essere registrato in studio. Niente di nuovo sotto il sole,
per carità, ma la coppia si impegna, l'interplay c'è, i trucchi pure e c'è persino un pizzico di ispirazione, cosicché
ne viene fuori un lavoro che merita l'ascolto.
Tra la solita emendabile roba impro con il pilota automatico (il casino isterico di Baffled Hats, il noir concretoambientale di Movement of Harried Angels, le espansioni e
contrazioni di Slow Lattice, le voci trovate e gli schizzetti strumentali della conclusiva Ankle Time) e dell'ottimo
mestiere di genere (l'attacco quasi-metal di Foetid Ceremony, gli szanzaramenti di Mosquito Slats, le alternanze
di atmosfere - comunque free - di Horse Rehab, i botta
e risposta di Legend of the Small, le agonie meccaniche
prima e poi animali di Creature Comforts), spicca un gioiellino come The Fourth Mind: un brano intensamente lirico,
rigoroso (sembra scritto) e austero (in un senso cameristico e, come dire, teutonico), con un Frith plumbeo,
atmosferico, violinoso e uno Zorn elegantissimo, in un
primo momento vicino ai suoni di una cornamusa, poi
decisamente masadiano. Bellissimo.
Nel complesso, un buon ripasso delle prassi rumorose
dei due.
(6.8/10)
Gabriele Marino
Jules Chaz - Toppings (Wagon
Repair, Settembre 2010)
G enere : vintage wonky
Da anni Jules Chaz, trentunenne di Victoria, è attivo
nel sottobosco musicale canadese - in mille progetti tra
musica suonata, djing, produzioni e hip hop - a stretto
contatto con la crew dei Cobblestone Jazz e con Danuel Tate in particolare. Arriva adesso al primo disco a
nome proprio, in pratica un best di quello che ha registrato negli ultimi tre anni più alcuni materiali realizzati
per l'occasione.
Chaz suona batteria, vibrafono, percussioni, tastiere e
Moog, campiona rumori e voci trovate, campiona i suoi
dischi preferiti (a un certo punto - il ragazzo ha buon
gusto - si sente chiaramente l'inciso di Absolutely Free
di Frank Zappa) e sorprende con la qualità dei suoi
assemblaggi e delle sue testure sonore, il tutto senza
un'oncia di laptop "se non per inviare i file .wav a chi si
occupa del mastering". Lo spirito Dada di cui alla copertina - con Hugo Ball al Cabaret Voltaire - si riflette in un
collagismo spinto e in una sperimentazione cazzona che,
tra le altre cose, gli fa mettere in mano al figlioletto di
cinque anni alcuni pad con suoni pre-settati. Il risultato
finale è un frullato wonky dall'evidente retroterra e retrogusto jazzy, non troppo personale (si sentono ancora
ingombranti i modelli, uno per uno: Luke Vibert, J Dilla,
Madlib, Prefuse 73 e Flying Lotus), ma orchestrato
davvero in maniera sapiente. Siamo alla quarta generazione?
Una goduria per i wonky-lovers e un esordio che ci presenta la figura di un nuovo versatile produttore.
(7/10)
Gabriele Marino
Klaxons (The) - Surfing The Void
(Polydor, Settembre 2010)
G enere : W ave , pop
Nel 2007 gli allora tre Klaxons avevano vinto tutto. Si
erano accaparrati il prestigioso Mercury Prize strappandolo a Bat For Lashes e Amy Winehouse, ottenuto numerosi bagni di folla in tutta Europa, avevano unito sotto
lo stesso tetto diverse tipologie di ascoltatori, sparato
alte in classifica una manciata di bombe e per loro era
stata coniata un'etichetta ad hoc, nu rave. Label che capitanavano e di cui erano i soli protagonisti di un successo
che fatturava milioni al di qua dell'Atlantico e insospettiva abbondantemente al di là di esso.
I ragazzi all'epoca non vinsero proprio tutto. Mancò loro
il plauso degli States, proverbialmente scettici davanti
all'ennesimo hype della stampa inglese e ancor più dubbiosi su Myths of the Near Future, un esordio che
disinvoltamente trattava la materia funk punk e pseudo
rave che li aveva resi famosi più come parte del loro
passato che del presente. Allora i Klaxons portava lo scifi ballardiano in una gay disco tutta falsetti e visioni pop
fine Ottanta, lontana mille miglia dai singoli sotto anfetamina Atlantis to Interzone e Gravity's Rainbow. In definitiva,
agli yankee e a noi, il fenomeno Klaxons ammaliava ma
non convinceva del tutto: la polpa era molto meno succosa di act quali Faint e El Guapo (entrambi americani,
vabbé).
Lungo i tre anni di gestazione, di conferme a questa teoria ne abbiamo avute a bizzeffe grazie a una sequenza
di dichiarazioni sgangherate (“investiremo i soldi del nostro
primo album in telepatia… …le nostre nuove canzoni saranno
un misto di dupstep, dance, folk e soprattutto prog… …il nuovo
album parlerà del significato apocalittico del 2012... ...crediamo in una coscienza collettiva e nel dissolvimento delle
barriere tra gli individui per il raggiungimento di una comune
armonia collettiva”) e conseguenti problemi con la casa
discografica (nel 2009 Polydor li obbliga a ri-registrare
metà delle session considerandole troppo sperimentali),
difficoltà in produzione (scartano tre produttori,Tony Visconti, Focus e James Ford dei Simian Mobile Disco,
quest'ultimo anche batterista durante le session) e relativi problemi d'organico (il disco richiede una band vera
e propria). Last but not least, nel 2008 ai Brit Awards i
ragazzi sono la backing band di Rihanna (missando la
loro Golden Skans con Umbrella) e quest'anno, ad anticipare l'atteso nuovo lavoro, abbiamo i due brani dalle
pericolose voglie Muse (The Flashover) e precoci ricicli
di melodie note (Echoes è troppo simile alla parte finale
di Golden Skans).
Quando tutto sembra confermare la teoria di una catastrofe annunciata, Surfing The Void gioca proprio con
il paradigma e immerge l'ascoltatore in una densissima
nuvola prog wave (allora non erano proprio tutte cazzate), apocalittica (i testi sono più allucinati che mai) e
perfettamente equilibrata tra tribalismo e psychedelia,
rock e wave. Un mezzo miracolo insomma che si regge
su basi pop proprio come voleva la casa discografica. Un
disco che mette in dialettica i (tutt'ora) fastidiosi falsetti
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in nuove canzoni di successo (Venusia è il nuovo superhit,
Twin Flames non è da meno...), più strutturate e dosate
tra calore e vertigine, melodia e potenza.
Contrariamente a ogni previsione, la produzione di
Ross Robinson è stata la migliore delle scelte possibili
per dei rinnovati e solidi Klaxons, che allo speed hanno
preferito l'ayahuasca facendo così del taglio finale (più
compresso) di Echoes (e di episodi come Cypherspeed e
la title track) un viatico tra i primissimi singoli e la svolta
Eighties di Golden Skans, aggiornandoli al quadro cyber
del nu metal e alla struttura a suite del prog, congiungendo così due mondi solo in apparenza lontanissimi quali la
techno belga e l'hard rock degli Zeppelin adulti.
Surfing the Void è un bel viaggio sciamanico. Un album
con il quale sono i Klaxons stessi a chiederci d'intentare
una nuova etichetta che lo descriva. Me(n)tal wave?
(7.2/10)
Edoardo Bridda
La Otracina - Reality Has Got To Die
(Holy Mountain, Luglio 2010)
G enere : psych - metal
Qualcosa si era subodorato già con le ultime uscite - dal
lp/cd-r The Risk Of Gravitation in poi - ma ormai siamo al
punto di non ritorno: La Otracina è a tutti gli effetti un
gruppo metal. Prog-metal con una spruzzata di psych, ad
essere precisi, e con tutto il corollario di circostanza: andamento stomp e pomposo, svisate cervellotiche, doppia
cassa e virtuosistici assoli di chitarra più una voce, quella
di Adam Kriney, vergata su un qualcosa a metà tra Metallica e Black Sabbath (coi dovuti distinguo).
Di quella weirdness di matrice psych e post-kraut che
caratterizzava i primi passi del progetto di Adam Kriney
(Love, Love, Love su tutti) che aveva favorevolmente impressionato, resta ormai ben poco, se si escludono
gli 11 abbondanti minuti della title track, carsica e liquida litania strumentale che rievoca ossessioni e reiterazioni dei tempi andati mettendoci in mezzo anche una
spruzzatina di jazz, o in coda all'altrettanto estesa traccia
conclusiva, Mass Meteoric Mind. Per il resto un ammasso
hard-rock nemmeno malaccio in alcune sue aperture (i
passaggi orientaleggianti di Hail Fire o alcuni momenti
prog-jazz della edita Crystal Wizards Of The Cosmic Weird),
ma che non c'entra nulla con l'immaginario che conoscevamo e apprezzavamo. Dunque se il precedente Blood
Moon Riders (sempre per Holy Mountain) chiudeva una
fase, questo Reality Has Got To Die ne apre un'altra,
apparentemente scialba e poco interessante.
(5.5/10)
Stefano Pifferi
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Light Pollution - Apparitions
(Carpark, Luglio 2010)
G enere : indie - shoegaze
Provocheranno più di una night pollution questi Light
Pollution, specialmente agli aficionados dello shoegaze
indie più corposo e meno etereo. Sono in quattro, vengono da Chicago, città che ci ha abituati a ben altre esperienze musicali, e Apparitions è il loro primo album: un
9 tracce in cui mettono a macerare lo shoegaze di cui
sopra in un bel pastone indie primi nineties. In più i giovani vanno di ibrido, indirizzando la propria attenzione a
quelle solari melodie sixties che fanno molto indie-fuzz
odierno (da Harlem agli ultimi Woods passando per i
Ganglians, per capirsi) depurato dalle istanze garage e
ad atmosfere e soluzioni meno scontate che sfruttano
stratificazione e dissolvenze.
Drunk Kids è un ottimo esempio di questo procedere
eterodosso: trattiene in sé la forza evocativa dello shoegaze più dreaming e dilatato, ma la incastona in una
architettura sonora pienamente indie, ottenendo come
risultato una versione sixties-pop di un ibrido Animal
Collective/Deerhunter. Altrove i tempi si dilatano oltremisura e le atmosfere si sfocano, come da immaginario legato al moniker, tratteggiando bozzetti instabili e
claudicanti, sognanti e slabbrati come Deyci, Right On o
lande di agreste psycho-pop, delicato e sfasato come in
Bad Vibes o nella liquida stasi della conclusiva ed onomatopeica Ssslowdreamsss.
Apparitions è un buon esordio, in grado di coprire tutto
l'arco di queste giornate estive: dalle sferzate mattutine
energiche e appiccicose (Oh, Ivory, una All Night Outside
molto Broken Social Scene, il glo-fi anni '80 di Fever Dreams) ai lascivi tramonti delle suindicate tracce.
La speranza è che superi la soglia del ricordo una volta
arrivato il cambio di stagione.
(6.9/10)
Stefano Pifferi
Locks - Suicides Don't Commit
Themselves (Static Station, Giugno
2010)
G enere : art - wave - rock
Theo Katsaounis e Patrick Scott, in arte Locks: un passato
nella scena punk-hc di Chicago e un presente in duo - anzi
come “a co-dependent, self indulgent, 2 man solo project”,
come evidenziano sul myspace - a mostrare il rock sotto
le forme di uno sperimentalismo acceso e mai domo. In
questo primo full length, i due screziano un art-rock bello
corposo con innesti che sanno di libera attitudine jazzistica e melting-pot 2.0, frullando con fare eclettico e privo
di barriere suoni, rimandi e influenze in un contenitore ad
highlight
Uochi Toki - Cuore amore errore disintegrazione (La Tempesta
Dischi, Settembre 2010)
G enere : hip - hop
Poli che si attraggono e un titolo che riassume in quattro parole il contenuto di questo sesto disco a
nome Uochi Toki. Del primo concetto sono come al solito rappresentazione vivente Rico e Napo, entità
indivisibili ma autonome votate rispettivamente all’elettronica spuria l’uno e
alla favella fluente l’altro. Del secondo parla un'opera che analizza i rapporti
personali e affettivi, partendo dal binomio nazional popolare "cuore-amore"
e approdando al uochitokese “errore-disintegrazione”. In un crescendo poco
lineare - e per questo affascinante - di emotività frattale, stimoli disgregati,
pensieri latenti, ipocrisie polverizzate, in cui l’antesignano monologo diventa
dialogo filtrato dal metodo scientifico e dal più prosaico sogno.
Il Libro audio di due anni fa si fa mash-up di parole e fraintendimenti, i campionamenti debordano travolgendo regolarità e forme tradizionali, in un accavallarsi frammentario e apparentemente ingovernabile di suoni e rumori che fa il paio con lo sviluppo
semantico del testo. Tra ironia e lucide dissertazioni sulla natura umana, esperienze dirette e filosofia del
quotidiano, partorite da un io narrante schizofrenico, sdoppiato, sottomesso a una tempesta di relazionalità che genera stili di vita e visioni differenti. C’è musica suonata - il contrabbasso di Lucio Corenzi,
la batteria di Bruno Dorella o il sitar di Alessio Bertucci -, ci sono la breakcore e l'hip-hop a fare da
“collante”, ma ci sono soprattutto gli Uochi Toki: riconoscibili, smanettoni, maestri nel tagliecuci sonoro e
nell’assemblare parole miliari. Oltre che capaci di ribadire una statura comunicativa con pochi eguali, meno
legata alla narrazione logica rispetto al passato ma tesa verso un imprendibile personale e decisamente
avventuroso.
(7.4/10)
Fabrizio Zampighi
alto voltaggio ritmico: capita così di ritrovarsi tra le orecchie slanci di stampo Oneida travisati in teatrali psicoanalisi (Language Song) o una lingua di fuoco di hip-hop bianco
che scorre sottotraccia (That Will Never Get Blood Out Of A
Clown Suit), una tensione noise-rock che si slabbra in vuoti
cosmici per librarsi su lande jazz acide (More Boring Heroes) o undici, intensissimi minuti di reiterate dilatazioni
wavish (Whatever It Takes To Sleep).
Conta poco il “cosa” per i due Locks; conta il “come”,
tanto che Suicides Don't Commit Themselves è un disco che
è newyorchese al midollo, zona williamsburg per capirsi,
strambo e scostante, eterogeneo nella prassi quanto uniforme nella filosofia. Le due cover poste in conclusione
(e bonus nel dwld coupon della versione vinilica) dimostrano ancora l'eclettismo del duo oltre che un omaggio
ad artisti influenti nel proprio universo sonoro: Crack The
Bell dei Wall Of Voodoo e Priest di J Church. Della
serie, belle sorprese dal mondo.
(7/10)
Stefano Pifferi
Lost In The Trees - All Alone In A
Empty House (ANTI-, Agosto 2010)
G enere : chamber folk pop
Sotto il moniker Lost In The Trees si cela Ari Picker,
da Chapel Hill, North Carolina, all'esordio su Anti- con
All Alone In A Empty House, già uscito sulla piccola
Trekky Records.
La mente fervida dell'ensemble chamber folk pop mescola da un paio di album, servendosi di un gruppo
allargato a seconda delle circostanze, il rigore della
musica classica con il folk americano rielaborato e
stratificato con il pop e l'indie. Ne risulta musicalmente un ibrido tra chamber e cantautorato, tra Bright
Eyes - Conor Oberst e l'essenzialità di Mountain
Goats, l'espressività di Micah P. Hinson, umori sparsi Neutral Milk Hotel e in generale una liricità e
un'unità stilistica che rappresentano al meglio il valore
aggiunto del gruppo.
Il Nostro possiede un buon talento compositivo, e fa
della rielaborazione autobiografica nemmeno troppo na67
scosta la chiave di lettura dell'album, che rimane oscuro
il giusto, drammatico e intimo, tra delicate sinfonie per
archi e numeri indie folk. Urlato e sussurrato al tempo
stesso, orchestrato e anche nudo, All Alone In A Empty
House vive essenzialmente di continui contrasti, di luci e
ombre e ha la sua ragione d'essere, come tanti debutti
e alcuni sophomore, nell'espressività e nell'essere prettamente un disco di formazione, come già rilevato tempo
fa per il bel debutto dell' irlandese Villagers. Un centro
sicuramente.
(7.2/10)
Teresa Greco
Lucertulas - The Brawl
(RobotRadio Records, Giugno 2010)
G enere : noise - rock
The Brawl riprende il discorso interrotto con Tragol De Rova - e iniziato ancora prima, quando si chiamavano Superlucertulas - e lo estremizza ancor di
più. I tre lucertoloni spingono infatti sull'acceleratore
in una maniera inusitata, quasi volessero dimostrare
al mondo che la musica è una guerra e di prigionieri
non sanno proprio che farsene. Un titolo del genere,
lascia poco spazio a dubbi e immaginazione, dopotutto.
Articolazioni strumentali mobili e architetture sonore
ondivaghe, nonostante la densità specifica di ogni singola nota, sono lì a dimostrare capacità di introiezione e di storicizzazione dei canoni del noise-rock, ma
è la cruda e irrefrenabile violenza unsaniana a destare
scalpore. Pensavamo fosse impossibile lasciarsi andare
così, superando la soglia di brutalità del predecessore Tragol De Rova, ma queste 9 tracce ci lasciano a
bocca aperta: assalti al fulmicotone senza compromessi
in cui il blues e il rock vengono deturpati alla maniera
del trio newyorchese, di cui sono non solo eredi, ma
vere e proprie reincarnazioni. Stesso senso di nausea,
stessa sensazione ripugnante, stessa idea concentrata
di violenza fatta musica. Insomma, in linea totale con
quel noise-rock di stampo americano (e newyorchese)
che da almeno due decenni è croce e delizia dei nostri
padiglioni auricolari.
Inoltre, The Brawl merita un paio di note di merito in più.
La prima è la cura maniacale con cui RobotRadio e Macina
Dischi confezionano l'album, prova di un sentire musicale
che è anche esperienza tattile e visiva, oltre che sonora: al
cd, infatti, si accompagna un vinile pesante in elegantissima
quanto povera confezione in cartone riciclato con un lato
etched e quattro pezzi in italiano. La seconda è relativa
proprio a queste 4 canzoni: riletture di pezzi presenti nel
cd o inediti propongono nuove e inattese vie di fuga per
il terzetto in grado di giocare sul terreno del noise-rock
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in italiano (vedi alla voce Teatro Degli Orrori) senza
timori reverenziali ma con gran classe.
(7.2/10)
Stefano Pifferi
Luciano Ligabue - Arrivederci,
mostro! (Warner Music Group,
Maggio 2010)
G enere : pop rock
In Caro il mio Francesco, forse non a caso traccia centrale
del suo ultimo lavoro, Luciano Ligabue si rivolge al
collega Francesco Guccini, confezionando una sorta
di lettera aperta pendant alla celebre L'avvelenata. Per
l'occasione, si toglie da stomaco, cuore e scarpe un po'
di sassolini, di quelli che - a sentir lui - gli provocano angosce notturne da diluire con un quanto mai gucciniano
bicchiere di vino. Nel mirino c'è l'ambiente del rock e
quel che gli ruota intorno, una cricca ipocrita e superficiale, opportunista e cialtrona. è un pezzo di una franchezza quasi imbarazzante.
Ma perché tanta angoscia? Da chi si sente tradito il buon
Luciano? Tra le altre cose, s'intuisce che non gli va giù
l'atteggiamento della critica più propriamente "rock", da
un bel pezzo a questa parte maldisposta o indifferente
rispetto alla sua musica. I tappeti rossi srotolati regolarmente dai media più diffusi non bastano a consolarlo,
perché il Liga ci tiene alla cosa, sente di farne parte, si
sente ancora - romanticamente - rocker. D'altro canto il
pezzo di cui sopra, per il tono e per il fatto di tirare in
causa proprio L'avvelenata, rivela sempre più scoperte
propensioni cantautorali.
Ok, veniamo al punto: a venti anni esatti dall'esordio, Ligabue è uno strano ibrido di successo, in redditizio equilibrio tra estro rock residuo (mainstream con guarnizioni alternative), accomodamenti popular e ambizioni di
profondità. Da qualche parte tra Bruce Springsteen,
Dinosaur Jr (volendo scialare) e 883. Tra Sorrisiecanzoni, la Repubblica e Mucchio Selvaggio. Il nono album
Arrivederci, mostro! allarga queste forchette poetiche e formali alternando scossoni rock (forse mai tanto turgidi), melodie carezzevoli e disamine in forma di
ballata, ferma restando la consueta calligrafia a base di
vocalizzi impastati ed estesi, quelli che fecero, fanno e
faranno la gioia ed il conforto dei fan. A tal proposito,
veniamo al problema: il Liga sembra rivolgersi solo a loro,
li blandisce con prevedibili variazioni sui temi arcinoti e
giusto qualche escursione fuori standard (il basso quasi
trip-hop in La verità è una scelta, il divertissement pseudo-Abba di Un colpo all'anima, l'errebì sbracato di Taca
Banda...). Quasi che col tempo - nel tempo - si fosse calato e infine identificato nella parte di uno zio che tante
ne ha viste, tante ha da dirne e graziaddio ha un bel po'
di nipoti cui raccontarle. E su cui contare.
Ce ne passa dal Ligabue che debuttava trentenne con
un piglio da "ora ve lo do io, il rock", urlando al cielo
un campionario di storie e personaggi maturato tra bar,
celluloide, lambrusco, circoli Arci e via emilia western.
Entusiasta e volitivo fino alla sbruffonaggine, rappresentò
un festoso scossone elettrico al fronte pop-rock d'Italia, la rivalsa della provincia con le radici irrequiete e lo
sguardo lungo un oceano. Intendiamoci, musica pur sempre provinciale ma fiera di esserlo e con ragione, scafatasi aggirando i bolsi codici metropolitani, sfigata sì ma
consapevole, il sussulto impettito che sbotta: noi siamo
quelli che non ci caschiamo. Invece, ahinoi, lo splendido
cinquantenne d'oggi c'è cascato, scambia troppe volte il
rock con se stesso, s'impantana sulla linea sottile che divide il punto di vista dall'autoreferenzialità, con l'aggravio
di certi azzardi d'autore che non può permettersi.
è ancora in grado, quando va bene, di dribblare la retorica grazie a qualche guizzo d'ingegno (come in La linea
sottile e La verità è una scelta), ma con sempre maggiore
fatica. è invece emblematico come fallisca il bersaglio in
Quando mi vieni a prendere, cavando sentimentalismo appiccicoso da una vicenda simile a quella che ispirò l'anthem Jeremy ai Pearl Jam (il paragone, lo so, è abbastanza impietoso). Il resto, spiace dirlo, è mestiere con una
bella produzione.
(5/10)
Stefano Solventi
Luisenzaltro - La situazione è un
pop grammatica (Autoprodotto,
Luglio 2010)
G enere : avant pop
Col qui presente siamo al quinto album autoprodotto da/di Luisenzaltro, probabilmente il suo migliore.
Quello che vede la fregola pop-wave contagiarsi di brume psichedeliche mentre i consueti giochi verbali sembrano farsi carico del non certo felice stato delle cose,
esalando amarezza e uno strisciante sgomento dalla raffica di sensatissimi - e spesso irresistibili - nonsense. è
sempre più agile la scrittura, una padronanza disinvolta
da cantautore sgrassato post-punk (o - per dirla con le
sue stesse parole - da fautore del "cantelettrautorato
melogrammatico"), quasi un Luigi Tenco messo a marinare nell'intingolo arguto Bluvertigo (vedi Miss Cervello,
cantata assieme alla sodale Lacuori), con le novità rappresentate da quel ciondolare quasi barrettiano (Distruzioni per l'uso), dal languore meditabondo à la Riccardo
Sinigallia (Le cose migliori) e da una propensione per la
power ballad indolenzita degna d'un Jason Lytle (Tutti
quanti sono pronti a tutto quanto).
Che Alessio Luise da Sesto San Giovanni fosse un geniaccio lo sapevo, l'ho già scritto tempo fa e lo ribadisco.
Oggi, al di là del fisiologico DIY, sembra pronto per produzioni e platee più importanti. C'è qualcuno là fuori?
(7.3/10)
Stefano Solventi
Madlib - Madlib Medicine Show #7:
High Jazz (Stones Throw, Luglio
2010)
G enere : jazzfunk
Mentre Stones Throw e Intelligentsia lanciano il Madlib's
Espresso Blend (sì, la miscela di caffè che "da tre anni a
questa parte tiene sveglio il Beat Konducta abbastanza a
lungo da fargli produrre qualcosa come un disco al giorno"), ecco che arriva il settimo Medicine Show, ennesimo
esempio di jazzmegalomania madlibiana.
L'uomo si fa aiutare da Kariem Riggins (batteria) e da
James Poyser (tastiere; sulle tracce bonus LP-only troviamo anche Catto degli Heliocentrics), ma si perde
ancora una volta - Slave Riot su tutto - tra i fumi delle
proprie fisse. Metà dei pezzi è puro velleitarismo madlibiano (il Sun Ra latin di Electronic Dimensions, il solo
di percussioni di Pretty Eyes, le pause della title track e
via così tra rumori, rumorini e pseudosperimentazione).
Spiccano invece in bellezza il lirismo di Conquistador, il
tribalismo di Tarzan, il latin di Kimo e qualche numero di
caldo grassume funk, jazzfunk e spacefunk. Ma è davvero
troppo poco. Speriamo che il caffè sia più buono.
(5.9/10)
Gabriele Marino
Magic Kids - Memphis (Matador,
Settembre 2010)
G enere : C hamber pop
Il 2010 è ufficialmente l'anno del Beach Boys revival.
Mai come in questo periodo il canzoniere di Brian Wilson e compagni ha subito un saccheggio così sistematico
da parte dei nuovi act indipendenti. I Magic Kids, il cui
esordio era atteso dopo le gustose anteprime ascoltate
in rete, sono solo gli ultimi del lotto. Qui però, rispetto
al languidi landscape californiani dei Best Coast e alle
sfuriate surf di Wavves, il discorso è più complesso e
decisamente più raffinato.
L'esordio di questo combo del Tennesse si ascrive di diritto a quel pop barocco che parte dalle immaginifiche
orchestrazioni di Pet Sound per colorarsi dei raffinati
arabeschi orachestrali di Scott Walker. Un pò come
dei Sufjan Stevens più prosaici, i Magic Kids hanno il
grande merito di non perdere mai di vista l'obbiettivo
69
della pop song. Archi e fiati e si sposano alla perfezione
con le melodie briose e spedite di Phone e Superball: brani che si consumano in meno di tre minuti senza perdersi in opulente aspirazioni cinematiche.
Sarà per la voce di Bennett Foster, che quando si fa soffusa suona così simile a quella di Gruff Rhys, ma canzoni
come Hidehout ricordano da vicino la fase wilsoniana dei
Super Furry Animals, al tempo in cui i gallesi disegnavano anelli intorno alla Terra.Altrove gli arrangiamenti aerei sfiorano il twee meno monocromo degli ultimi
Belle And Sebastian. Ad ogni modo tutte, ma proprio
tutte le canzoni, godono di un'innocenza che, per quanto
artefatta, colpisce al cuore al primo ascolto.
Forse è ancora presto per guardare a loro come ai nuovi
custodi della purezza del pop, tuttavia Memphis è il miglior biglietto da visita che ci si potesse attendere in vista
di prove più mature e, forse, appena più personali.
(7/10)
Diego Ballani
Magic Numbers (The) - The Runaway
(Heavenly, Luglio 2010)
G enere : indie pop
Se tre è il numero perfetto, forse non lo è per i Magic
Numbers, qui al terzo album con l'arrangiatore Robert
Kirby a fare da specchietto per le allodole di un'uscita prescindibile. Oltre all'indimenticato alleato di Nick
Drake, mancato nell'ottobre 2009, il lavoro si caratterizza più per l'elegante lavoro di produttori come Valgeir
Sigurdsson (Bjork, Bonnie Prince Billy, Múm) e Ben Hillier (Doves, Elbow, Blur) che per una vera sostanza. Il set
presenta una serie di formule collaudate tra folk trasognato in stile Mojave 3 (Hurt So Good) e Lambchop
(Only Seventeen), e soul barocco sulla scia di Jens Lekman (The Song That No One Knows) che sulle prime stuzzicano ma nella sostanza stancano. In The Runaway c'è
troppo garbo, troppo stile e non senza macchia.
(5.5/10)
Gianni Avella
Major Lazer - Lazers Never Die
(Mad Decent, Luglio 2010)
G enere : nu - dancehall
L'EP che segue a ruota il terzo e hyppatissimo album della reginetta agit-prop M.I.A. conferma Diplo e Switch
come spin doctors dell'hype musicale contemporaneo
(tra le altre cose i due sono reduci pure da un mixtape
con La Roux). I produttori più in voga del momento
raccimolano le idee e battono il chiodo sull'incudine calda del dancehall, elemento che sottende da anni il loro
successo planetario e le derive dell'electro di molti pro70
duttori di nuovo conio (Toddla T e Ramadanman su
tutti).
Due inediti: il dancehall da balera Kingston (Good Enuff
rivistata in gran spolvero da Cash Flow con le vocals di
Collie Buddz e Lindi Ortega), e il singolone Sound Of
Siren che riporta M.I.A. su un accogliente cameo/ritornello melodico, coadiuvata dal buon rapping giamaicano
di Busy Signal. Tre remix per farcire la torta: la carica tribal dei Buraka Som Sistema per Bruk Out, gli innesti
bbreakz di K.L.A.M. per Can't Stop Now e addirittura la
mano di Thom Yorke (tanto per dire a che piani riescono ad accedere i due...) su una stupenda Jump Up in
acido techno ragga-minimal.
Un biglietto da visita da usare nei parties dell'hot summer
2010. Divertimento assicurato e spensieratezza calcolata a tavolino. Il Maggiore Laser è una spia a servizio dei
giamaicani. Il loro obiettivo è ormai palese: la conquista
del mondo ’finto-chic-finto-freak' delle passerelle alternative UK. Per l'occasione rispolverate pure i catenoni
dorati, le canottiere imbrattate di sudore e il pacchetto
di cartine Rizla. Al resto pensa l'A-Team del dancehall.
(7/10)
Marco Braggion
Mark Olson - Many Colored Kite
(Rykodisc, Luglio 2010)
G enere : A mericana
Suscita rispetto la storia di Mark Olson. Andatosene dai
maestri Jayhawks fondati con Gary Louris per scansare l'incipiente mainstream, si teneva strette le radici con i
Creekdippers che, in combutta con la moglie Victoria
Williams e il violinista Mike Russell, optavano per un
folk scarno sciogliendosi dieci anni e un divorzio dopo.
Cercando l'America in Europa, l'irrequieto Mark trovava
nel 2007 l'album solista The Salvation Blues, il riabbraccio di due anni successivo con Louris per Ready For The
Flood e infine la fidanzata - norvegese, qui ai cori - Ingunn Ringvold. Penseresti dunque a un nuovo lavoro
di sintesi delle suddette esperienze e insieme l'ennesimo
azzardo di chi, nell'ambito più tradizionalista possibile, ha
sempre osato.
Lo è, ma non nel senso che volevi: registrate con Beau
Raymond (Chris Robinson, Devendra Banhart) e
pochi amici (Neal Casal, Danny Frankel, il nostro
Michele Gazich), le undici composizioni soffrono di
una scrittura fiacca (a dispetto di arrangiamenti degni di
lode: trame acustiche, archi delicati, ritmica sullo sfondo)
e della voce sfiatata di Olson. Più di metà scaletta si trascina senza nerbo, per quanto le iniziali Little Bird Of Freedom (ospite Jolie Holland) e Morning Dove (spartana e
obliqua) facessero presagire ben altro, e quando persino
highlight
Zola Jesus - Stridulum II (Souterrain Transmissions, Settembre
2010)
G enere : G othic pop
Piccolo riassunto ad uso e consumo dei meno attenti: mesi or sono Stridulum EP faceva registrare il passaggio della talentuosa chanteuse Nika Roza Danilova dal cripto goticismo degli esordi ad una sorta di
pop apocalittico, versione 2.0 di quel folk ancestrale reso celebre da progetti
come Death In June e Swans.
Se vi siete persi quel concentrato di altera bellezza vi viene ora incontro la
Souterrain Transimission, che pubblica gli stessi brani per il mercato europeo,
aggiungendovi per l'occasione tre nuove composizioni (toccate, è il caso di
dirlo, dalla stessa grazia) e rinominando il disco Stridulum II.
I tempi della Crimson Wave sono lontani: c'è chi, come U.S. Girls, si trastulla sferragliando con garage minimale, celando la mancanza di ispirazione
sotto strati di melma noise, e chi, come Nika, eleva preghiere laiche, concentrandosi su un lavoro di ricerca che parte dalla propria raffinata vocalità. L'accompagnamento austero, per
lo più sintetico, occhieggia alla wave più eterea e ad un electro pop dalle ritmiche solenni, ma è l'invidiabile
padronanza dei propri mezzi da parte di questa ventunenne del Wisonsin ad incantare.
I brani che arricchiscono questa nuova edizione si segnalano per minime ma significative differenze che se
confermante rappresenterebbero l'avvisaglia di un'ulteriore virata verso un pop d'avanguardia. In particolare su Sea Talkil consueto salmodiare di Nika è rifinito da strati di tastiere aeree, che disegnano cieli tersi
simili a quelli di Atmosphere dei Joy Division.
In chiusura Lightstick abbandona la monoliticità dei tappeti sintetici e si avvale di un accompagnamento
pianistico: una sequenza di accordi insistita che maschera l'assenza di ritmica e si apre a scenari assai più
rilassati e solari. Una via, questa, che se percorsa con decisione segnerebbe l'inizio di un'ulteriore esplorazione dei confini fra mainstream e sperimentalismo
(7.1/10)
Diego Ballani
Vashti Bunyan fallisce nell'infondere vita in No Time To
Live Without Her, diventa chiaro che qualcosa sia andato storto. Non capendo dove, cerchi nella movimentata Bluebell Song e nel conciso dramma More Hours altri
appigli di un possibile riscatto, di fatto impossibile per il
troppo che non va da nessuna parte.
(5.5/10)
Giancarlo Turra
Martina Topley Bird - Some Place
Simple (Honest Jon's Records,
Luglio 2010)
G enere : pop acustico
Terzo disco per l'ex cantante di Tricky (sull'immortale
Maxinquaye) e collaboratrice (fra gli altri) di Massive
Attack e Gorillaz. Incoraggiata dall'amico Damon Albarn, Martina riarrangia le hit dei suoi precedenti Quixo-
tic (2003) e The Blue God (2008) in chiave semiacustica,
sottolineando con pochi strumenti la sua voce semplice,
che mima i migliori episodi intimisti di Suzanne Vega,
imbrigliando la sua londinesità con strumentazioni insolite (ukulele, balafon, glockenspiel e clavicembalo) e con
un range vocale che non sfora mai nel pomposo.
Registrato in presa diretta, questo nuovo disco è un buono punto di partenza per una cantante che è sempre
stata sommersa dagli ego dei suoi collaboratori. Quando si mette a pensare con la sua testa, la Topley Bird sa
sfruttare al meglio le nuances della sua voce esile, mai
esagerata e nel contempo suadente. 4 pezzi nuovi tra cui
si distinguono Orchids per la bella vocalità che ricorda
le ultime vette di PJ Harvey e lo swing in jam session
di All Day. Phoenix, influenzata dalla musica anni Sessanta
cambogiana, è la perla che ci fa capire come la ragazza
sia sulla strada di una maturità imminente. Spensieratamente pop, Martina ha le carte in regola per diventare
71
un fenomeno. Dovrebbe crederci un po' di più, magari
togliendo le innocenti ninne nanne inglesi (Kiss Kiss Kiss,
Harpsichord Kiss) che al secondo ascolto diventano prescindibili.
(6.7/10)
mo aspetto. Assieme al nuovo The Books è un altro di
quegli album da portarsi a casa senza incertezze. Diversamente da quel lavoro qui c'è più accademia e meno
poesia. Ad ogni modo, grande artigianato.
(7/10)
Marco Braggion
Edoardo Bridda
Matmos/So Percussion - Treasure
State (Cantaloupemusic, Luglio
2010)
G enere : T rance , exotica
Il nuovo lavoro dei Matmos nasce da una collaborazione con So Percussion, un quartetto di percussionisti/concretisti di stanza a New York con i quali il duo è
attualmente in tour. Differentemente dai live dove l'ensemble allargato si presenta più corale e free (su you
tube ci sono già alcune performance), Treasure State è
invece frutto di un lavoro certosino che ha coinvolto numerosi altri ospiti e richiesto diversi interventi in postproduzione, quali l'editing di Wobbly e in particolare
l'overdubbing del produttore Lawson White coadiuvato
dal Matmos M. C. Schmidt.
Il risultato si situa in una terra di mezzo tra i lavori più
“americani” del duo di S. Francisco quali The West (per
la trama aperta) e The Civil War (per la suite elettroacustica) lasciando comunque spazio alle passioni sintetiche
più recenti del duo e soprattutto al retroterra stevereichiano (quello di Music for 18 Musicians in particolare) del quartetto che da queste parti suona con
un'inevitabile retrogusto Tortoise per quel misto di jazz
solfureo e serie cicliche concatenate in movimenti armonici e melodici.
I So Percussion si sono fatti conoscere proprio suonando per il famoso minimalista la cui lezione ritroviamo
alla base di suite come Treasure o Water dove è proprio
il rigore percussivo di strumenti esotici quali glockenspiel, steel drum (e found instruments manipolati come
la stessa acqua) a permettere alle parti di tromba (Dave
Douglas), chitarra o sitar (Mark Lightcap degli Acetone) di creare ancora una volta l'incanto matmosiano. Altro apporto dei newyochesi, oltre al tribale e il gamelan,
è il funk di Cross - bassi cavernosi al laptop, chitarra wave
filtrata, tocchi di piano e vari effetti - che mostra il lato
più groovy di un progetto pensato a traccia e dove la
fluorescenza collettiva è di gran lunga più importante del
colpo di genio dei singoli.
Water è senz'altro la traccia migliore per esecuzione e
resa timbrica, mentre tracce come Shard o Flame, con
ospiti rispettivamente gli inventori e compositori Dan
Trueman (PLorK,The Princeton Laptop Orchestra)
e Walter Kitundu, si godono soprattutto per quest'ulti72
Matthew Dear - Black City (Ghostly
International, Agosto 2010)
G enere : D avid B yrne + house
Quando non fa il post-Plastikman sotto il moniker
di Audion (il principale dei suoi tre moniker dance),
Matthew Dear, il texano più berlinese del mondo, fa il
crooner sotto il proprio nome vendendo il funk bianco
lavorato da Brian Eno, David Byrne, altezza trilogia
fine Settanta del Duca Bianco, sotto le mentite spoglie
di un'house - ma anche minimal - malleabile e di pronta contaminazione. Se già con Asa Breed l'operazione
aveva dato i suoi frutti (e suscitato in noi alcuni dubbi),
Black City rimette le carte sul tavolo allontanandosi ancor di più dagli espedienti dance e ritornandoci la sagoma di Tarwater cadaverici appena sporcati di blackness
dell'ultimo Jimmy Edgar e tanto motorik al ralenti stile
Kraftwerk '00.
Del resto il camaleontico Dear ai più sgamati non è mai
sfuggito di essere per com'è: un David Bowie dei nostri
tempi che capta, fiuta, rimodella. Lo si è visto nell'episodio Body Language dove annusava il ritorno del funk e
del soul nelle piste da ballo, lo si vedeva in Asa Breed che
anticipava i mood dark del Tiga di Ciao!, e lo si nota in
questa sede dove l'americano riporta ancora una volta e con più decisione - le più potenti fascinazioni dell'LCD
Soundsystem su un piano super cool.
Dalla wave berlinese indietro all'amata Detroit (alla quale dedicò il suo primo singolo, Hands Up For Detroit nel
1999) tutto torna tranne l'amore. Ascoltatevi soltanto
una ballata commiato come Gem per comprendere la
differenza: Bowie era Lupin, Dear il Tom Cruise di Missione Impossibile.
(6.4/10)
delineare un'eredità che parte dal minimalismo storico
e arriva fino ai giorni nostri. Il suono post-00 è un'accozzaglia di fonti che pescano dalle più svariate realtà: la
classica è solo una di queste. Proporre al popolo rock
un disco che prevede una sonorizzazione per un balletto (rappresentato nel novembre 2008 alla Royal Opera
House di Londra) non fa - per fortuna - più scandalo.
infra riprende le idee di The Blue Notebooks e Songs From
Before, utilizzando Michael Nyman come riferimento
per il piano e chiosando con il Philip Glass delle colonne sonore di Koyaanisqatsi per quanto riguarda le
cavalcate di archi, magari riempiendo tutto con degli intermezzi di field recording un po' raffazzonati. Atmosfere languide, malinconiche, che piaceranno ai fan di Allevi
ed Einaudi. Non aggiunge molto a quanto già detto in
precedenza, ma si lascia ascoltare, eliminando di fatto il
confine tra classica, chill-out e pop. Che sia un bene?
(6/10)
Marco Braggion
Mike Doughty - Sad Man, Happy Man
(ATO, Giugno 2010)
G enere : folk - pop
Mike Doughty cantava nei Soul Coughing, bella promessa di metà '90 persasi dopo un ottimo debutto e in-
fine scioltasi nel 2000. Piacevano le loro canzoni, obliqua
mescolanza di jazz e sentire hip-hop con rime da beat
generation che - un tot di chili in più e di capelli in meno
dopo - latita in questo terzo disco solista (secondo per
la ATO di Dave Matthews) del nostro uomo, portatore di un tentativo di fuga dal cantautorato tradizionale
amalgamando voce e chitarra acustica con scorie di ritmi
urbani e il violoncello dell'abile Andrew Livingston.
Timbro di chi fa del proprio meglio per mascherare
evidenti limiti, Doughy ricorda un Elvis Costello più
folk e americano del solito senza possederne la calligrafia, avvicinandosi semmai a un valentissimo discepolo
come Chris Elliot però solo sporadicamente (Year Of
The Dog, Nectarine). In poco tempo Mike resta senza fiato e la monotonia (Lord Lord Help Me Just To Rock Rock
On, He's Got The Whole World In His Hands) si alterna al
vano inseguimento della programmazione FM e di MTV
(I Keep On Rising Up, You Should Be Doubly Gratified). Spiace sentirlo imitare Jack Johnson dopo essersi misurato
a testa alta con “quella” Casper The Friendly Ghost e aver
cavato di tasca la tesa sincerità di When I Box The Days
Up. Che decida da che parte stare: noi ci comporteremo
di conseguenza.
(6.3/10)
Giancarlo Turra
Edoardo Bridda
Max Richter - infra (130701, Luglio
2010)
G enere : cl as sica pop
Questo ennesimo album del compositore tedesco Max
Richter ci fa capire come sempre di più i suoni un tempo
etichettati come 'classica' siano entrati nella palette sonora dei rockettari, tanto che la Fat Cat, storica etichetta
rock inglese, ha fondato per lui la 130701. Non serve richiamare Sigur Rós, Eleh e Bedroom Community per
73
Movie Star Junkies - A Poison Tree
(Voodoo Rhythm, Giugno 2010)
G enere : G arage B lues /F olk
A Poison Tree è un album meno irruento e più umbratile
di Melville. è crepuscolare, decadente nell'accezione romantica e pure il volume dei suoni (acustici e raffinati),
insolitamente basso per le produzioni odierne, sa molto
di gag vintage dal fosco appeal retrò.A due anni di distanza da quell'esordio, ma con una serie sterminata di pezzi
piccoli e furibondi live di qua e di là dell'oceano, i piemontesi Movie Star Junkies rilanciano il coordinato di
credenziali che da sempre vive sottotraccia al progetto,
ovvero tutta la tradizone del blues cimiteriale che dai
Gun Club passa per Nick Cave e Tom Waits per
arrivare ai Chrome Cranks. Fin dall'attacco di Under
The Marble Faun si capisce però che non hanno nessuna
intenzione di deporre l'ascia di guerra, seppur usando
toni più blandi, eleganti e raffinati (la murder ballad The
Walnut Tree e la title-track) quando non pop (il jingle di
Hail).
Trame scure si rilevano in Leyenda Negra e nell'interminabile incedere finale di All Winter Long a ricordare a tutti di
che pasta sono fatti i nostri. I testi, ancora un volta, fanno
man bassa di letteratura celebre (Blake e Hawthorne su
tutti) e minoritaria (Almost A God riprende una poesia di
Emanuel Carnevali, già noto al sottobosco musicale italiano via Massimo Volume), oltre che di storia, tradizione,
mitologia e superstizioni. Una nuova gemma targata Italia
che fa coppia con l'imparentato progetto Vermillion Sands, a dimostrazione di un gusto e di una sensibilità con
pochi pari nei patri confini (e non solo).
(7.3/10)
Andrea Napoli, Stefano Pifferi
My Jerusalem - Gone For Good (One
Little Indian, Agosto 2010)
G enere : A lt - folk /FM rock
Sebbene si tratti di un debutto, Jeff Klein non è un esordiente in senso stretto, avendo già prestato le sue capacità di musicista a diversi nomi di spicco del panorama
rock dell'America degli ultimi anni, tra i quali vale la pena
di ricordare Ani DiFranco, Twilight Singers e Gutter Twins. My Jerusalem è però un progetto di vera e
propria band, dove la vena di songwriter di Klein viene
messa al servizio di un insieme di musicisti capaci e già
maturi (anche nel loro caso, infatti, si tratta di turnisti e
musicisti già noti nel giro grosso).
Gone For Good è intriso dello stesso mood sanguigno che
trasuda dai dischi del suo mentore, Greg Dulli: rock
classico pieno di soulfulness e venato di americana, blues
e tutto il sudore del sud. Ma rispetto a Twilight Singers
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e Gutter Twins, i My Jerusalem fanno abbondante uso di
fiati e archi per stemperare le atmosfere, mai davvero
cupe, ma piuttosto caratterizzate da una agitata malinconia. Un occhiolino viene strizzato anche all'airplay, con le
voci raddoppiate e stratificate nello stile che caratterizza
gli Arcade Fire, e tra le dodici tracce del disco non c'è
da annoiarsi davvero, tra la sofferta ballad Proposition, la
brillante Valley Of Casualties e l'ottima Spleepwalking.
Gone For Good è un disco riuscito, ben suonato e interpretato, ma ha il terribile difetto di assomigliare sempre
a qualcos'altro di già sentito, a partire dalla musica di
Dulli e Mark Lanegan.
(6.5/10)
Marco Boscolo
No Age - Everything In Beatween
(Sub Pop, Settembre 2010)
G enere : N oise pop
I Jesus And Mary Chain (Life Prowler), le chitarre dei
primi Flaming Lips (Glitter), il bubblegum punk Ramones-iano (Forever Dreaming), la strada degli Husker du
(Depletion) ecc. Sappiamo tutto del suono che viene dalle
loro chitarre. E sappiamo ogni piega melodica che quel
tipo d'approccio può comportare. Lo sa il pubblico che
magari non snocciola tutti i nomi ma sa, conosce, ha già
sentito da altre parti, scaricato, captato nelle discoteche
punk e oltre soulseek. E lo sanno pure loro. Non c'è
nulla da stigmatizzare: Glitter è degna dei Mary Chain e
c'aggiunge un formidabile tocco lipsiano. Il processo è
sempre il medesimo e guarda al pop in un modo sempre
più nitido. I fratelli Reid guardarono ai roots americani
per togliersi dai cliché, i No Age - tipico per questi tempi - diversificano l'offerta tirando dentro tutti i padri del
caso. Facendo del djing di se stessi.
Il loro gusto ci piace. Amiamo sentirli basic punk, ripetere Keep On Dreaming tirando in ballo tutta New York
(Ramones, Sonic Youth) perché le loro canzoni sono
più cool che memorabili. Di una coolness calibrata al
centesimo però. Sospesa in un limbo di comodo tra nicchia (non lo sono più) e upper side (ma quale cazzo
sarà? Pitchfork lo è). Sentiteli in Valley Hump Crash come
si avvicinano agli Strokes partendo però da Cobain.
Sentiteli come non gliene frega un cazzo, dopotutto, di
come andrà. L'unica certezza - sopravvivenza - è che con
i Wavves, i Male Bonding e il noise pop emerso attorno, questo è il momento di parlare ai più piuttosto che
rintanarsi dietro a un muro di fuzz.
Il compromesso tiene: Everything In Beatween rappresenta la scala di grigi hardcore melodica degli Ottanta, ed è sempre il dopo in questi casi il problema. Chem
Trails chiude in bellezza mettendoci dentro l'america di
provincia filtrata dagli eterni My Bloody Valentine. Un
cerchio si chiude. La polaroid è scattata.
(7/10)
Edoardo Bridda
No Guru - Milano Original
Soundtrack (Bagana Records,
Settembre 2010)
G enere : no wave / rock
Psicopatologia della metropoli. Quasi si trattasse di un
Mingus periodo Pithecanthropus Erectus con il suo jazz
selvaggio e rumoroso, (in)civilizzato e legato indissolubilmente ai suoni della città. Solo che qui si parla il linguaggio delle chitarre elettriche, tra Contortions e Dead
Kennedys, sax sguinzagliati in stile Zu e schegge punk,
fuori dalla New York di fine Cinquanta e dentro l'attualità alla cocaina del capoluogo lombardo. Anche se poi una
New York spunta davvero in Milano Original Soundtrack:
quella no wave. Con tanto di sprazzi free, tempi dispari,
scambi incandescenti tra elettriche e batteria vergati da
musicisti come il borderline per scelta/sperimentatore
per attitudine Xabier Iriondo. Quest'ultimo colto a incrociare le armi con il quartetto Scaglia-MarcheschiTalia-Briegel, un gruppo di lavoro che ai vecchi fan dei
Ritmo Tribale dovrebbe come minimo far saltare le
coronarie.
Tornano i Novanta. E se in Neve sembra di stare ai tempi
dell'Edda capellone, in Amore mutuo fa capolino un disco
come Germi mentre in generale si respira un senso
di déjà vu controllato e quasi inevitabile. Un'approccio
che è marchio registrato di questa generazione di musicisti, tanto da apparire credibile oltre ogni previsione
nell'unione instabile col nichilismo newyorkese e talvolta
persino capace di rinnovarsi (come nel caso della fusion
strumentale di Perle ai Porci o nei rimbalzi spigolosi del
singolo Fuoco ai pescecani).
Insomma alla fine di ritorno si tratta. Ma degno e sensato.
(7/10)
Fabrizio Zampighi
NO MOR MUSIK - NO MOR MUSIK
(ugExplode, Giugno 2010)
G enere : F ree -J azzcore
Disco d'esordio per il trio di weirdi Weasel
Walter/Nondor Nevai/Kenny Millions sotto il moniker NO MOR MUSIK (evidente il riferimento alla
No New York di cui Weasel è ben noto cultore), per un
inedito progetto free-jazz-core sgangherato e rumoroso.
Già noti noti alle cronache sono Weasel Walter (basso)
e Nondor Nevai (batteria), mentre Kenny Millions, chi-
tarra, sax e clarinetto, è un 63enne musicista, ora titolare
di un ristorante in Florida, che come molti dei collaboratori di cui si attornia ultimamente Walter, è reduce da
uno dei periodi d'oro del free-jazz americano: quando a
NY, negli anni '70, divideva la sua vita facendo il tassista
di notte e l'agitatore culturale di giorno, organizzando
concerti improvvisati nel suo minuscolo appartamento.
Un vecchio freak ben poco celebrato e altrettanto poco
incline a sofisticatezze colte che in NO MOR MUSIK
soffia posseduto dentro i suoi fiati e percuote la chitarra
senza nessun buon senso, come fosse un proto-punk amplificato prima del tempo. Il resto del disco, la declinazione -core della musica del trio, è costituita dal massiccio
riffage di Walter sul suo basso a 6 corde e dal selvaggio
drumming di Nondor. A loro il compito di tenere in piedi
la struttura sghemba delle 6 jam brutali che costituiscono il disco, in uno scontro di ritmi senza esclusione di
colpi lungo metriche spesso non convenzionali.
Energia allo stato brado, che fatica a contenersi e che
forse in questa mancanza di direzione trova anche il suo
maggior difetto. Ma senza dubbio, quell'obiettivo di cui
parla Nondor nella traccia d'apertura: “I don't want another fucking day of conceptual bullshit!” è pienamente
centrato.
(6.8/10)
Leonardo Amico
Nobraino - No Usa! No Uk!
(Martelabel, Maggio 2010)
G enere : rock
Slabbrati e semiseri come i conterranei Granturismo,
parenti alla lontana di un'autorevolezza quasi baustelliana, ben disposti verso una musicalità variegata che vive
delle storie di un Italia da bar sport. O meglio, di quelle
vergate da una romagna alticcia e poco vacanziera vista la provenienza della formazione, che in No Usa! No
Uk! parla con la voce da dandy di Lorenzo Kruger e
gli intrecci strumentali chitarra elettrica-basso-batteriatromba di Bartok, Vix, Nestor Fabbri e David Barbatosta. Dieci giorni in una casa di campagna, Giorgio
Canali a curare produzione artistica e missaggi e un
terzo disco che conferma le buone capacità di scrittura
di una band decisamente sui generis. Il cui merito maggiore rimane quello di non cedere alle facili tentazioni
privilegiando invece una formula in cui alla cura per i
testi si unisce la capacità di moderare tessiture sonore
che fanno da buon complemento.
A dimostrazione il Sud America di Western Bossa, l'incedere marziale da balera di Grand Hotel o una La signora
Guardalmar in cui riconosci dei Libertines casarecci e
perfetti. Brani in cui si mescolano disillusione da falsi vi75
veurs (“Questa sera suono al Grand Hotel, ma l'applauso
in sala è per lo chef, e la musica si perderà, tra la crema dei
bignè”), ironia ("Se il narcisismo fosse un handicap, qui tutti
avrebbero il parcheggio assicurato anche in città, ma quanta gente c'è alla toilette, eppure sembro il solo a dover far
pipì") e un'irridente cinismo da perdente in una società
di perdenti (“Rinnoverà la biancheria, con i punti del cus cus,
prenderà le malattie solo se annunciano il virus, e nel letto
ascolterà, due politici su tre, tanto parlano di sogni e se non
fanno a pugni presto dormirà”).
Insomma, bravi. Bianconi è avvisato.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
Noise Trade Company - Just
Consumers (N Label, Agosto 2010)
G enere : electro - harsh - pop
Supportati da Valerio Cosi (sax), Fabio Orsi (chitarra
trattata), Paolo Cillerai (chitarra elettrica) e Luca Lenzoni (basso), Gianluca Becuzzi (voce, elettronica) e Chiara
Migliorini (voce) allargano la prospettiva del loro “electro
harsh pop for electro harsh people” verso un'indagine
più ampia sulla società dei consumi evidente sin da titoli
come Miss Anorexia, Download Your Identity, Brand My Skin
(Without Your Logo).
Se Crash Test One si configurava come una sorta di test
della nuova/vecchia direzione musicale di Becuzzi, Just
Consumers ne è una perfetta applicazione ideologica ancor più che musicale, una sorta di disfunzione spaziotemporale, un ritorno al futuro. Le rielaborazioni degli
stilemi del post-punk, dell'electro-ebm e dell'harsh-industrial primigeni rientrano in un contesto mai nostalgico,
bensì futuribile e puntando sulle potenzialità della forma
canzone danno vita a un doppio album che mette in riga
synth-poppers e electro-addicted contemporanei.
Basterebbero pezzi come Drastic Plastic - voce celestiale
e ossessività synth-ritmica - o i trattamenti acidi di chitarre e sax in No Tears per rendere l'idea, ma è l'intero
lavoro a meritare un ascolto reiterato. Ancora una volta,
questa è musica “riconoscibile e nuova, sintetica e viscerale,
cerebrale e danzabile”.
(7.2/10)
Stefano Pifferi
Noyz Narcos - Guilty (Propaganda
Records (Milano), Gennaio 2010)
G enere : italo horrorcore
Noyz è, come si dice, un personaggio controverso. Membro di spicco del collettivo romano TruceKlan, una biografia che comprende episodi clamorosi come un videoclip
praticamente pornografico e il coinvolgimento in storie
76
di droga (denunciato a piede libero durante l'operazione
ribattezzata dai carabinieri "La calda notte", dal nome del
suo disco in coppia con il rapper Chicoria, arrestato per
spaccio). Guilty è il quarto album, prodotto da Sine e
con almento tre feat di richiamo, Club Dogo, Fabri Fibra e Marracash (e con l'intro dell'americano Necro,
modello etico ed estetico del nostro).
L'italo horrorcore di Noyz è qui forse al suo picco per
cupezza e incazzatura (crude descrizioni di degrado urbano ed esistenziale, autoapologia spinta fino all'insulto
alla polizia e allo Stato italiano), musicalmente piantato in
un crossover di hip hop commerciale (ed enfatico), metal
e tastierazze gotiche. Le basi potrebbero essere molto
meglio e così pure il profilo del cantato, senza gli incisi di Duke Montana. Noyz obiettivamente, a tratti, spacca.
L'hip hop è spesso e volentieri una questione di attitudine, e lui, lontano anni luce dalle autoparodie involontarie
del compagno di banda Metal Carter, l'attitudine ce l'ha.
(6/10)
Gabriele Marino
Ojm - Volcano (Go Down Records,
Settembre 2010)
G enere : hard
A lavorare con gente come Michael Davis (MC5) e David Catching (già collaboratore di Eagles Of Death Metal, Queens Of The Stone Age e qui chiamato a produrre)
i trevigiani Ojm qualcosa hanno imparato, considerando
anche che sono al terzo disco della loro carriera - se si
eccettua l'ultimo Live In France - e che già l'esordio del
gruppo Heavy trovò il modo di farsi distribuire all'estero
dall'inglese Cargo.
In Volcano si parte dal binomio Blue Cheer / Black
Sabbath per sparare mezz'ora di chitarre elettriche su
un muro di amplificatori valvolari e riflussi di bassi distorti, batteria e delay, col fine di rinverdire i fasti di un hardblues desertico che in prospettiva ha più di un punto di
contatto con la produzione di formazioni come Kyuss
e Unida. C'è da dire che le cose migliori si ascoltano
quando i tempi si fanno meno serrati e la componente
psichedelica prende il sopravvento - gli intrecci di organo
e sei corde che troneggiano nell'ottima Oceans Hearts o
l'acidume filtrato dai wah wah di una I'll Be Long che cita
in più di un passaggio la Gimme Shelter degli Stones - ,
anche se è tutto il disco a godere di una razionalità agguerrita e nostalgica.
(6.3/10)
Fabrizio Zampighi
One Way Ticket - Ora Et Implora
(CNI, Luglio 2010)
G enere : rock
Oval - O (Thrill Jockey, Settembre
2010)
G enere : G litch revival
Rock cantautorale. Cosi definiscono la loro musica gli
One Way Ticket da Bari e a farci due conti non si sbagliano poi di molto. Sempre che con il termine si intenda
un approccio alla scrittura vecchio stampo, di quelli che
andavano in quei Novanta ormai sbiaditi in cui il rock in
madrelingua cercava di darsi un tono e conquistare fette
di mercato mediando tra melodia e chitarroni. Tornano
in mente i Ritmo Tribale, di rimando i Soundgarden
(Sondaggio d'opinione), ma soprattutto i Timoria del Renga pre-sbornia sanremese, richiamati dalla voce evocativa
e intensa di Maurizio Maremonti e da un impianto
strumentale sospeso tra wah wah e riffoni granitici, batterie in stile Metallica e flanger mediamente isterici.
Nella pratica abbiamo a che fare con un'alternanza di ballads rassicuranti (Quello che resta), episodi più sostenuti e
qualche sporadico punto esclamativo (gli archi pregevoli
di Accade tutto mentre dormi), in cui si bada più a suonare
credibili piuttosto che a confezionare immaginari avventurosi e formalmente eccitanti. La scelta pare azzeccata,
poiché coerente con le intenzioni di chi suona e in linea
con le reali capacità messe in campo.
(6.3/10)
Il ritorno di Markus Popp al primigenio Oval, stando ai
comunicati della Thrill Jockey, sembrerebbe un nuovo
esordio, così diverso da giustificare sia il primo Ep-assaggio Oh e poi questo doppio di settanta tracce. Le novità,
pare vadano cercate dallo straniamento per l'universo
digital-elettronico di Popp, il suo de-pensamento della
techné da cui si sentirebbe oramai lontano, il bisogno di
formattare software ed algoritmi digitali.
Eppure dai lidi erronei dell'era-glitch, Oval non si è mai
distaccato veramente e così ad emergere nei suoi piccoli
microuniversi è più il restyling formale che il sorpasso
ossessivamente annunciato. I gap tra un passaggio e l'altro, il rigore e l'astrazione, Kant e zen, restano la sua firma caratteristica; niente è veramente cambiato: ciò che
appare diversa è la performabilità, fare glitch più con gli
strumenti che col laptop.
Se i suoi primi lavori, Dok e 94 Diskont, erano opere
di caos e iperboli digitali, O prova la carta della formula processing-chitarristico insieme a sottili interventi di
sintetizzatore, con improvvise quanto devianti sezioni di
batteria. Proprio quest'ultima, tra contorsionismi freejazz dall'imprescindibile vicinanza a Chicago Underground Duo, poteva essere l'antitodo e l'arricchimento
che un disco come questo, pieno di esercizi triti e ritriti,
necessitava. La weltanschauung di Popp invece è ancora
permeata di quel glitch che molti dei suoi colleghi sono
stati capaci di rinnovare con approci più complessi e felici
(Fennesz, Matmos, Vladislav Delay...).
Sarebbe stato buono esattamente una decina d'anni fa...
(6.2/10)
Fabrizio Zampighi
Optimo - Fabric 52 (Fabric, Giugno
2010)
G enere : optimo techno
Pensavamo che non tornassero più a far parlare di sè i
due DJ scozzesi JD Twitch and Jonnie Wilkes, dopo che il
loro show da resident al Sub Club di Glasgow aveva chiuso i battenti. Invece li ritroviamo qui sulla vetta del Fabric
a dire ancora una volta la loro. Non solo: fra i progetti
annunciati per il futuro i due si imbarcheranno in remix,
nuovi dischi e la gestione di una label.
Il disco riprende le mosse dall'estetica col gusto retrofilo
(Fad Gadget, Basic Channel, UK funky, l'omaggio ai
New Order di The Tyrell Corporation, un nome ereditato nientemeno che da Blade Runner) miscelata con un
savoir faire da maestri su lidi ubereclettici: l'house pacchiana di Roska, gli anni Ottanta al neon di Roni Griffith, la world tribale di Cumbia Moderna De Soledad e la
deep-uptempo acustica di Matias Aguayo. Non sai mai
come e dove trovino questi accostamenti così disparati,
sta di fatto che ogni mix è un regalo quando la firma è
Optimo. Per molti palati, non necessariamente technofili
ma dal gusto sopraffino.
(7.3/10)
Marco Braggion
Salvatore Borrelli
Pale Sketcher - Pale Sketches
Demixed (Ghostly International,
Agosto 2010)
G enere : remix , glitch
Cambia moniker con la stessa regolarità con cui cambia
le mutande, Justin K. Broadrick. Eppure il prime-mover
del rumore inglese (da Napalm Death a Jesu, passando
per Head Of David, Godflesh e Greymachine) mantiene sempre una certa linea di continuità sottotraccia che
a volte appare più evidente, altre meno. Pale Sketcher,
ennesima incarnazione del fare musicale di Broadrick appartiene di diritto alla prima linea, essendo sin da moniker e titolo piuttosto evidenti le finalità del progetto,
figlio illegittimo della compila di inediti Pale Sketches.
Un veicolo, nelle parole dell'inglese, con cui esplorare
“the electronic side of Jesu”, quell'anima che nella dicotomia
77
elettronica/chitarre che caratterizza Jesu sin dai primordi,
ha mano a mano perso parte del proprio peso. Da lì la
necessità di riesumarne l'aspetto meramente elettronico
virandolo verso certi lidi non dissimili dalla glitchtronica '00 tutta increspature e arricciature, bassa battuta e
sensualità gelida su quel magma di shoegaze ascensionale
che ha fatto la fortuna della casa madre.
Una slow-motion a tratti entusiasmante: l'incedere claudicante di Don't Dream It (Mirage Mix), i delay vocali di
Supple Hope (2009 Mix), gli incroci di synth kosmische di
Dummy (Bahnhoff Version) danno la misura delle partiture
di Jesu una volta ripulite dal rumore di chitarra.
Alla lunga, l'atmosfera si fa troppo unidimensionale e,
senza colpi d'ala memorabili, finisce con l'appiattire la
già scarsa tavolozza di colori usata per Jesu. Il problema,
come già detto più volte, risiede più nel background del
nostro e nelle aspettative dell'ascoltatore che nella bontà
della proposta in sé.
(6.5/10)
gle pop agrodolce vale da sola il prezzo del biglietto, o le
languide distorsioni in odor di Big Star di Something For
You. Il resto è elegante e confortevole ordinaria amministrazione.
(6.3/10)
Diego Ballani
Phil Selway - Familial (Bella Union,
Settembre 2010)
G enere : folk pop
Il solista che non ti aspetti dall'aurea combriccola Radiohead. Come gli altri componenti la band, e forse anche
più degli altri, Phil Selway ha sale in zucca e cuore generoso, tanto da impegnarsi per l'associazione benefica
Samaritans e nel progetto 7 Worlds Collide. è proprio
in quest'ultima circostanza che ha perfezionato la collaborazione con Lisa Germano, Sebastian Steinberg
dei Soul Coughing e i due "wilchiani" Glenn Kotche
e Pat Sansone, gli stessi che lo hanno incoraggiato a deStefano Pifferi buttare in solitario. Tuttavia pare che la spinta decisiva sia
dovuta alla scomparsa della madre Thea nel 2006, mentre
era in tour con Yorke e compagni: la qual cosa potrebbe
Pernice Brothers - Goodbye, Killer
spiegare la sostanziale mestizia che pervade tutte le die(One Little Indian, Giugno 2010)
ci tracce in programma di questo Familial, profluvio di
G enere : I ndie folk
Quando raggiungi la maturità e inizi a pensare che la pre- morbide solennità folk pop, perlopiù acustiche - chitarra
vedibilità di un arrangiamento ne costituisca talvolta il e voce - ancorché fornite di misurate guarnizioni orcheprincipale valore, ti rendi conto che esistono gruppi me- strali e/o elettroniche.
ravigliosi come i Pernice Brothers. Goodbye, Killers è il Difficile trovare parentele con le direttrici estetiche della
sesto album in studio per i fratellini Joe e Bob, impegnati band madre, al più qualche eco delle più trepide ballate
da quasi tre lustri a perfezionare l'arte della bella calligra- altezza The Bends (ad esempio in All Eyes On You) e parfia ad uso e consumo di quell'America meno facilona, che ticelle d'inquietudine Ok Computer in filigrana (Beyond
apprezza i Cohen (così come i Cohen hanno più volte ri- Reason). Semmai viene in mente una versione (parecchio)
badito di apprezzare per i Pernice) ma non sa rinunciare soft di John Martyn, oppure un Damien Rice tenuto a
bada da una fregola Nick Drake, ma al di là delle iperboli
alla torta di mele e al Super Bowl.
I loro album sono quasi tutti uguali: power pop tenue e il discreto talento del Selway cantautore è di quelli che
uno sguardo che abbraccia gli spazi aperti della provincia, ne puoi sentire ad ogni pié sospinto. Tanto che neanche
pop elettroacustico e una voce soffice come una piuma. gli ospiti - i suddetti incoraggiatori - riescono ad esprimeUna formula che fino ad ora ci ha consegnato lavori pre- re valore aggiunto. Consideriamola una parentesi tediogevoli e di raro equilibrio, e di cui, in tempi così poco samente piacevole, che probabilmente avrà un seguito:
decifrabili come quelli attuali, sentivamo la mancanza. Re- adesso però torna ai tamburi, Phil.
gistrato il fatto che anche questo disco è impermeabile (5.9/10)
alle tendenze degli ultimi trent'anni di musica, il resto va
Stefano Solventi
da sè.
Personalmente l'ho trovato appena meno ispirato del Plastic Made Sofa - Charlie's
precedente Live A Little, che gonfiava il petto mostran- Bondage Club (Smoking Kills,
do qualche ambizione sinfonica in più. I nuovi brani sono Maggio 2010)
asciutti e diretti come una pacca sulla spalla, mescolano G enere : pow wave
con nonchalances suggestioni da ballata west coast, spi- I numi tutelari Beatles, si veda la copertina rivista stigliati folk'n'roll e accattivanti influenze british. In mezzo le collage ispirata palesemente a Sgt. Pepper's Lonely
vi si trovano alcuni dei pezzi più divertenti e divertiti che Heart Club Band, presiedono al disco d'esordio dei
il gruppo abbia sfornato, vedi l'opener Bechamel, il cui jan- bergamaschi Plastic Made Sofa, un EP all'attivo usci78
to l'anno scorso; partendo allora da questo biglietto da
visita, il pop melodico inglese di base viene ampiamente
mescolato a sonorità rock da questa e dall'altra sponda
dell'oceano (Libertines, Strokes e affini…), con dosi di
Franz Ferdinand e pop wave in quantità. Si aggiungano
ancora spezie garage e psych rock che emergono e qualche buon hook qua e là e il gioco è fatto.
Una melodicità di fondo non scontata e un'unità stilistica che percorre tutto l'album fanno di Charlie's Bondage
Club un esordio più che discreto, in attesa di ulteriori
sviluppi.
(6.8/10)
Procedure Club - Doomed Forever
(Slumberland, Luglio 2010)
G enere : noise - pop
Di nuovo bedroom-pop col marchio Slumberland in bella
mostra. Siamo alla noia, direte voi, ma in questo caso il
duo di New Haven, Connecticut, non propone il solito
gelato misto ai gusti shoegaze e lo-fi pop, ma spinge sul
versante del noise, aiutato da una scelta, quella di affidare le ritmiche ad una drum-machine tanto stitica quanto
vintage, che connota sin dall'esordio Feel Sorry For Me
direttive di base e obbiettivi di fondo.
Andrea B., voce heavenly come d'ordinanza, e Adam MaTeresa Greco lec, emigrante polacco e polistrumentista in combutta
con l'ospite, produttore e amico Tim Borkowski, mettono in scena un teatrino che ricalca il trend del momenPocahaunted - Make It Real (Not
to in ambito dream-pop in lo-fi, ma nello stesso tempo
Not Fun, Maggio 2010)
spruzzano l'offerta di un velo neanche tanto invisibile di
G enere : psych - dub
Prima manifestazione ufficiale da un paio d'anni a questa rumore e dissonanza. Non proprio alla maniera primiparte, se non andiamo errati, tanto che per la sigla origina- genia dei padrini Jesus And Mary Chain, tanto meno
riamente di Amanda Not Not Fun Brown e Bethany Best in quella sanguinaria dei My Bloody Valentine, ma in
quanto a modus operandi ci siamo molto vicini; solo
Coast Cosentino l'aria era quella della dismissione.
Non è dato sapere se questo Make It Real sia il can- che qui synth, effettistica povera e distorsioni di chitarra
to del cigno per il duo californiano, visto il prevedibile sporcano l'evocato immaginario shoegaze del duo forsuccesso del solo-project di Bethany, o un nuovo inizio nendone una sorta di paradossale e incestuoso mix tra
come i cambi strutturali (con tanto di formazione allar- Suicide e C86 (Nautical Song), o tra Black Tambourine
gata a quartetto in cui spicca Cameron Sun Araw Stel- e Velvet Underground più scassoni e roboticamente
lones) e strumentali farebbero presagire. Quale che sia malati. Tanto che forse per questo duo si può giustificare
il futuro di Pocahaunted (bisogna dirlo, uno dei moniker l'odiosa e onnicomprensiva etichetta nu-gaze. Per quel
più geniale dell'underground mondiale) e data per scon- che può valere, ovvio.
tata la rinuncia della Cosentino, limitiamoci al presente. (7/10)
Proposta normalizzata e di molto, rispetto agli esordi in
Stefano Pifferi
cui l'allora duo se la faceva con reietti del droning del calibro di Robedoor senza sfigurare affatto con un blob di Puma - Half Nelson Courtship
psych deviante. Ora ad essere messa in scena è una sorta (Rune Grammofon, Agosto 2010)
di dub psichedelico corposo e groovey, memore tanto di G enere : I mpro , free rock
certi lavori meno nervosi del post-punk delle origini (la Dice bene la scheda della loro label: i norvegesi Puma
linea di basso portante dell'opener Touch You) quanto di sono partiti come dei cugini più giovani dei Supersiaperture afro e tropical degne dei compagni di label (la lent per poi approdare a un revisionismo di marca King
title track, i duetti vocali di All Of Is Of, il tribalismo goes Crimson epoca Starless and Bible Black aggiornato, agouter space di U.F.O.).
giungiamo noi, alle microwave, i glitch e le istanze più
Il risultato è un concentrato di funkedelia clintoniana noise-ambient del metal di Sunn O))) e KTL.
dai ritmi rallentati e oppiacei, di tanto in tanto smossa Primo album su Rune Grammofon, Half Nelson Courtship
da tempeste di suoni multiformi e caleidoscopici ma dal è il terzo lavoro sulla lunga distanza nonché il più compiumood genericamente sfatto e dilatato, tanto che l'album to e messo a fuoco del terzetto, la cui strada per conquisembra un ponte immaginario in grado di unire la Cali- starsi un posto nell'agguerrita scena sperimentale scanfornia più free e freak alla grande madre Africa, passando dinava (vedi Mats Gustafsson e i suoi mille progetti) è
per il lato oscuro della Giamaica. Meno destabilizzante oramai spianata. Øystein Moen (synth ed elettroniche),
rispetto a ciò che la sigla ci aveva abituati a sentire. Buon Stian Westerhus (chitarra ed elettroniche) e Gard Nilsinizio per una probabile seconda fase.
sen (batteria) danno il loro meglio nella traccia omonima
(6.8/10)
di dieci minuti tra micro-improvvisazioni, un crescendo
Stefano Pifferi catastrofico e infine la catarsi dronica finendo col situarsi
79
qualcosa di eccitante, anche per chiari parallelismi con i
Battles. Eppure i Pivot che guardavano indietro al math,
post-rock, jazz-rock, oppure che tentavano coniugazioni sempreverdi con il kraut, davano comunque la netta
impressione di stare ancora provando, compromettendo
Edoardo Bridda continuamente una freschezza di base comunque palpabile. La nuova prova cambia ragione sociale e filosofia
(fatta eccezione per la citazione esplicita di Kraftwerk
Puttin' On The Ritz - White Light/
I in Community, quasi un addio al passato), scegliendo il
White Heat (Hot Cup, Luglio 2010)
formato canzone e virando su un variegato synth pop
G enere : cabaret - rock
Sì, avete letto bene. Il titolo del somophore dei Puttin' chiesastico/pagano, con un'ammissione di colpa e conOn The Ritz, ennesimo progetto in cui è coinvolto Ke- seguente restringimento del campo d'azione, senza che
vin Talibam! Shea, rimanda proprio a quello dell'epocale alcuni vizi di fondo vengano superati.
esordio dei Velvet Undergound. Sì, perché è la rendi- I PVT rimangono ottimi aggregatori e abili chirurghi di
tion di quell'album, completamente coverizzato dal pro- laptop tronica in partiture suonate, e più di ogni altra
getto che Shea condivide col cantante BJ Rubin. Quello cosa sembrano maestri nell'evitare i loghi comuni di ciò
che era un capolavoro di rumore chitarristico e depra- che rielaborano. Se in questa puntata la vera novità è stata
vazione, in grado di mostrare al mondo lo spessore di il canto spirituale, i PVT hanno evitato le armonie pseu4 artistoidi drogati totalmente addicted to noise, molto do gospel à la Depeche Mode e optato per un revival
prima che il noise divenisse categoria musicale interpre- della wave pacificata, dream-ata ed etnicheggiante di fine
tativa e privilegiata, viene riletto in formazione e attitudi- Ottanta. Preferendo una sezione ritmica Einstürzende
Neubauten alle tronfie pose etno rock di alcuni prone cabarettistica dal duo newyorchese.
Per l'occasione, la formazione si allarga a vera e propria tagonisti di quel nefasto periodo, hanno inoltre sposato
brass band sui generis col padrone di casa Hot Cup, Moppa eleganza e accoratezza e rinunciato alle pose caricaturali
Elliott al basso, Jon Irabagon al sax, Sam Kulik al trombone, del post-punk e del goth di qualche anno prima.
Nate Wooley alla tomba e il sodale Matt Mottel ospite alle In un canto rimangono i sussulti horror dei Suicide (cotastiere nella conclusiva cavalcata di Sister Ray. Claudicante munque citati apertamente in Chruch With No Magic) e si
e ubriaco, tentacolare, parossistico e alieno nel costruirsi in viaggia su un terreno spugnoso tra This Mortal Coil
assenza di una strumentazione classicamente rock, il Whi- e l'emozionalità di Echo & The Bunnymen (Crimson
te Light/White Heat dei newyorchesi sorprende per la Swan, Circle Of Friends) salvo aggiornamenti attraverso vosua capacità di essere al tempo stesso un ovvio e sentito calizzi simil Patrick Wolf (via lallazioni Laurie Anderomaggio, ma anche la sua incredibile destrutturazione ol- son) e cose ancor più radio friendly come The Quick Mile.
tre che una personalissima reinterpretazione a base di fiati è l'anima bianca della song synthetica l'abile scelta strateimpazziti, filologia maniacale e scazzo in quantità industriali. gica dei PVT, ottimi architetti senza canzoni vere, raffinati
Se vi state chiedendo quale può essere la molla per una tessitori d'emozionalità wave senza volto. è l'ennesima
così insana attrazione per quel disco, beh, la risposta la transizione, ma verso dove?
fornisce BJ Rubin stesso, ricordando come quel disco in (6.5/10)
cassetta fosse in heavy rotation nel suo walkman appena
Edoardo Bridda
trasferitosi a NY. Consigliatissimo.
(7/10)
Raekwon - Cocainism Vol. 2 (Ice
al confine tra free rock, free jazz e ambient. Altrove il
terreno si fa sommesso, i segnali si fanno oscuri e sbuca
qualche incertezza. Nulla da condannare, piuttosto da far
crescere con gli ascolti.
(7/10)
Stefano Pifferi
PVT - Church With No Magic (Warp
Records, Agosto 2010)
G enere : A dult wave
I PVT altri non sono che i Pivot di O Soundtrack My
Heart, formazione di tre menti scafatissime che ci erano
piaciute per scelte e riferimenti stilistici, senza riuscire a
convincerci del risultato.
Detonazione e tecnica, suonato e sintetico, riff radioattivi
ai synth e momenti più mediati, facevano della formula un
80
H2O, Maggio 2010)
G enere : hip hop
Dopo il successo di pubblico e di critica (Pitchfork lo ha
messo al quinto posto nella sua classifica di fine anno) di
Only Built 4 Cuban Linx... Pt. II (settembre 2009), Raekwon
propone adesso un mixtape golosissimo - venti tracce,
grande varietà nelle basi (tra i produttori, Alchemist) che è soprattutto uno showcase delle sue qualità come
rapper.
C'è un po' di tutto: funksoul, HH electronico/commerciale (e siamo dalle parti di Big Boi), minimalismi (percus-
sioni, inserti di piano, sexy incisi femminili, palm muting
di chitarra), un pizzico di Beat Konducta in India (City Of
God), ottoni strombazzanti, cantabilità pop in odore SaRa (la conclusiva Sunset Strip). Pezzi potenti, produzioni
corpose, rappati semplicemente ottimi (e tra i feat c'è
anche Mobb Depp). Raek è tanto bravo che riesce a
infilarci pure l'autotune senza risultare osceno (Keep On).
Occhio, non esiste un Cocainism Vol. 1.
(7.2/10)
Richard A Ingram - Consolamentum
(White Box, Maggio 2010)
G enere : soundscapes
Chitarrista e tastierista della band emo-prog (...) Oceansize (sotto lo pseudonimo di Gambler), il mancuniano Richard A. Ingram ha avviato lo scorso anno anche la
carriera solista, con il cdr di sperimentazioni pianistiche
e soundscape Lullaby. Il percorso continua con questo
primo vero e proprio album Consolamentum, che
Gabriele Marino l'autore vorrebbe nebuloso e impressionistico concept
ispirato alla setta dei Catari. Come confermano - "a ritroso" e per sottrazione - due uscite successive al disco
Rangda - False Flag (Drag City,
in questione (la compilation Keys su American Typewriter;
Giugno 2010)
la cassettina autoprodotta in 50 esemplari Piano Test, per
G enere : impro - rock
Supergruppo. Dicesi di formazione comprendente, fra i piano preparato/trattato), Ingram si colloca nell'affollato
suoi ranghi, celebrità, più o meno artisticamente dotate, incrocio tra ambient, elettroacustica ed elettronica orgache nel mondo delle sette note hanno avuto certo succes- nica, ma ha il pregio non comune di sottolineare la natura
so. Rangda è un supergruppo. Un termine che può essere concreta dei materiali di cui si serve e di organizzarli con
ritrovato in diversi ambiti: fisica, geologia, fumetti. Qui però rigore e gusto quasi cameristici, conferendo ai brani un
il supergruppo è da intendersi (concettualmente) come fascino che è poetico nel doppio significato di lirico e di
quelli storico-epici dei gloriosi anni Sessanta (al loro termi- creativo/immaginifico.
ne) o dei confusi anni Settanta (al loro nascere). Non rock Tra distensioni ambient, droni, rumori presi dalla natura,
né jazz, ma qualcosa lì in mezzo che si incolla con l'improv- pulsazioni e oscillazioni archeo-tecnologiche, una timida
chitarra acustica-folk, ecco allora una title track che dipinvisazione. Ma torniamo al 'nostro' supergruppo.
Tre guitti tre, invischiati con la creatività (strictu sensu) ge come una marcia di transistor, via via sempre più dociancor prima che con la musica. Ben Chasny, Chris Cor- le, addomesticata e una traccia di chiusura che vive tutta
sano e Richard Bishop vantano ciascuno un curriculum di vibrazioni - di onde - che, se condensate, se rapprese,
invidiabile. Facciamola stringata: Chasny è legato (fra gli andrebbero a formare una testura esotico-minimalista.
altri) ai marchi di fabbrica Six Organs Of Admittan- Tutti questi giri per dire Consolamentum, per quanto in
ce e Comets On Fire, Richard Bishop vi riporterà agli maniera molto diversa, trasmette un'idea di ricerca del
immensi Sun City Girls e Corsano è il battitore libero senso sonoro molto simile al Black Sea di Fennesz.
del terzetto (Dredd Foole, Jandek, Sunburned Hand (7/10)
Of The Man, Kim Gordon, ecc.). Aspettatevi un freeGabriele Marino
noise di tutto rispetto quindi. Chitarre alla velocità della
luce, sferzate free-jazz in marasmi d'improvvisazione hard Rose Elinor Dougall - Without Why
che neanche i Flying Luttenbachers (Waldorf Hyste- (Scarlett Music, Agosto 2010)
ria), Mick Barr che incontra gli Unsane col Santana di G enere : P op
Abraxas (debitamente stuprato) alla chitarra (Bull Lore), le Rose Elinor Dougall è uno dei nomi su cui sembra aver
piccole smenate psych-folk che fanno tanto Six Organs puntato la stampa specializzata di USA e UK per la stanel finale (15 minuti 15) di Plain Of Jars (i Kaleidoscope gione autunno/inverno che sta per venire. La giovane non
di Beacon From Mars - 1968 - in agguato). Rapide discese è certo digiuna del music-business, avendo militato nelle
nella psichedelia atmosferica, intensificata di jazz, sono Pipettes fino allo scorso anno. Oggi se ne ritorna con il
presente in Sarcophagi, che i Cold Bleak Heat avrebbe- primo disco intero, anticipato da un singolo apprezzato
ro certamente fatto loro.
ecumenicamente sulle due sponde dell'Atlantico. Si tratLa Drag City l'ha finita con le cagatine folk'n'something? ta di Start/Stop/Synchro, che apre Without Why: suoni
Deo gratia, speriam di sì. Nel frattempo questo super- elettroacustici e un basso pulsante a sostenere una megruppo, frammentario e dispersivo quanto ci vuole, ci ri- lodia che sembra una versione semplificata di un brano
porta ad un concetto di far musica che è essenzialmente degli ultimi Fiery Furnaces, ma con una vocazione pop
un 'disfarsi in musica'.
d'alta classifica, modello Cardigans, e sorretto da un vi(7.2/10)
deo black and white che per un attimo, a chi come noi
Massimo Padalino c'era, fa pensare a Tanita Tikaram.
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In un mercato discografico in cui sembra che si riesca a
vendere un po' di copie se si è partecipato a un talent
show, la giovane inglese (classe '86) sembra aver calcato
in un suo modo vagamente originale la stessa strada e
ora sforna 11 tracce melodiose e - a tratti, come nel caso
del singolo - trascinanti, pensate più per l'airplay che per
fondate ragioni artistiche. Di sicuro non c'è nulla che non
suoni perfettamente a là page, in questo album, citando
ora i Brakes (con i quali la Dougall ha anche collaborato), ora il tipico suono Sessanta che oramai sta monopolizzando tutte le serate di qualunque club del mondo.
Insomma tubino scuro, bianco e nero fortemente contrastato e il labbrino imbronciato. Probabilmente bucherà
MTV, musicalmente non dice niente di nuovo.
(6/10)
Marco Boscolo
Röyksopp - Senior (Wall Of Sound,
Settembre 2010)
G enere : A mbient - tronica , IDM
Consapevoli di non poter replicare il capolavoro indietronico Melody A.M. e dell'aver scontentato non pochi
fan con la virata '80 di The Understanding prima e di
Junior poi, i due nordici che dettero origine alla norvegian invasion mediatica, ritornano parzialmente sui loro
passi con l'escamotage del gemello adulto del sopracitato
terzo lavoro.
Senior raccoglie una serie di tracce strumentali tra ambient, psichedelia e new age che servendosi di strutture
pop, folk e narrative IDM cercano di raccontare storie,
umori e sensazioni in note sintetico-ambientali su un sottofondo spacey ed esotico. Su tutte tornano preponderanti le lezioni di riferimento di sempre: Vangelis, Air e
i migliori Orbital (The Drug).
è chiaro che la scelta fortemente tastieristica e soundtracky della raccolta si poggia sulla scia delle krauterie cosmiche di Further dei fratelli chimici e di tutte le uscite sul genere del sottobosco mondiale. L'esperienza e il
consueto buon artigianato elettroacustico (si ascoltino
The Alcoholic e Forsaken Cowboy tra arpeggi di chitarra, cinguettii campionati e un main riff al sintetizzatore degno
dei Boards Of Canada e gli archi sampled di Senior
Living) tengono in piedi l'operazione con classe.
Il quarto lavoro dei Röyksopp è un lavoro pieno di mestiere che poco regala alla storia: peccato, le intuizioni
sono ancora lì (molto buono il tocco Serge Gainsbourg tirato in ballo in Coming Home), più stilose che mai.
(6.4/10)
Edoardo Bridda
82
Rubik - Dada Bandits (Talitres
Records, Settembre 2010)
G enere : new popedelic
Esistono dischi che, a prescindere dal valore artistico, paiono fatti apposta per “tarare” l'influenza di questo o quel
gruppo sulle generazioni attuali e questo è uno di quei
casi. Il quartetto finnico Rubik giunge al secondo album
mescolando epica Arcade Fire a malintese devianze di
Flaming Lips (Indiana) e Broken Social Scene (Radiants, You Jackal !!), talvolta tirando a lucido caciare folk
(Karhu Junassa) o freak (Goji Berries) oggi norma e regola, nondimeno finendo per ricostruire a memoria quel
vacuo pop-rock “pseudo alternativo” che fece capolino
ai piani alti delle classifiche nella seconda metà degli '80
(Altitude, Wasteland).
A casa loro, infatti, sono entrati nei Top 10 col predecessore Bad Conscience Patrol e c'è da supporre che Dada
Bandits lo imiterà in forza di sonorità laccate ed espanse
ma pur sempre filo-indie.Ad eccezione della briosa Richard
Branson's Crash Landing e della tenue Follow Us To The Edge
Of The Desert, il resto è completamente privo non solo di
ironia, ma pure di spunti compositivi apprezzabili, affossato da arrangiamenti barocchi e una scrittura sopra le
righe che viene subito a noia. Come i discorsi di un amico
che, tutto preso da se stesso, passa un'ora a raccontarti
cosa ha fatto di bello. E che quanto parli tu, ovviamente
non ti ascolta.
(5/10)
Giancarlo Turra
Scott Morgan - Scott Morgan
(Alive Naturalsound Records,
Giugno 2010)
G enere : rock ' n ' soul
Avevamo lasciato Scott Morgan due anni or sono nei
Solution, persuasivo progetto in compagna di Nicke
Royale degli Hellacopters, e lo ritroviamo oggi solista
dal cuore profondo di Detroit. La quale, giova ricordarlo,
era anche - e da molto prima - una delle culle della soul
music. Si tende a scordarlo pensando agli MC5, trascurando quanta negritudine “spirituale” vi fosse in loro e
in altre formazioni locali, dall'urlatore Mitch Ryder ai
Rationals allora guidati da questa leggenda vivente. Che,
guarda caso, chiuderà il cerchio nei Settanta fondando
con Fred "Sonic" Smith la Sonic's Rendezvous Band.
E cosa può fare un veterano nel freddo Midwest, se non
scaldarsi con del sanguigno rock urbano a fianco di abili concittadini, dal bassista Jim Diamond che registra e
produce alle sei corde di Matthew Smith (Outrageous
Cherry, Volebeats) e Chris Taylor, passando per il batterista Dave Shettler? Ne cava così un riassunto di car-
repliche, sono le riletture di classici Bowieani - solo chitarra & voce, cantati in portoghese (ma non propriamente in stile bossanova) - che Seu Jorge ha realizzato per
Wes Anderson e il suo Le avventure acquatiche di Steve
Zissou (2004). Detto questo, il debutto dell'attore e musicista brasiliano per Now Again (nonché primo disco ad
avere una distribuzione regolare fuori dal paese natale,
grazie a Stones Throw), sempre composto da cover, non
mantiene le promesse - implicite - di quel progetto così
semplice eppure così speciale e neppure si assesta tutto
sul livello della rendition di Everybody Loves The Sunshine
di Roy Ayers, bellissima, utilizzata come singolo.
Forse Seu non ha ingranato al 100% con la nuova band
(Antonio Pinto al basso, Lucio Maia alla chitarra, Pupilo
alla batteria); forse arrangiamenti, missaggi e addirittura
le stesse interpretazioni risultano alla fine troppo asciutti,
desertici; forse "è colpa" del repertorio, disomogeneo per
Giancarlo Turra tipologia e qualità. Fatto sta che il tocco magico di cui,
quando vuole, sa disporre appare un po' appannato.
Bene allora il funky di Cristina (Tim Maia), la bossasamScuola Furano - Tribute EP (La
ba in salsa Los Lobos di Cirandar (Paul Lima), la lenta
Valigetta, Maggio 2010)
ballad notturna Tempo de Amor (Baden Powell), la grinG enere : oldskool house
«Penso uscirà un EP a breve, tipo ad aprile, e poi il disco in tosa Pai João (Tribo Massáhi), il funkypop di Rock With You
estate, taglio underground, più house, meno pop del primo». (sì, Michael Jackson), il funkyblues di Girl You Move Me
Così ci aveva detto Borut a gennaio. Tempi discografici (Cane & Able), l'epica Juizo Final (Nelson Cavaquinho), e
dilatati, l'EP esce a fine maggio. Dell'album non sappia- ovviamente la già citata cover da Ayers. Ma il resto della
mo, si vedrà. Intanto, un fresco mangia&bevi per l'estate, scaletta, compresa The Model dei Kraftwerk (un pezzo
quattro pezzi soltanto, quattro bombe, altrettanti omaggi che si offre magnificamente al coverizzatore di turno),
oldskool. è qui che sta l'essenza underground del disco è piuttosto sottotono, come incompleto. Disco uscito a
(perché i pezzi sono di una godibilità assoluta), nel taglio luglio ma da fine estate, più che agrodolce, inaspettataquasi filologico di un omaggio che senti subito essere mente amaro. Scaccia via la saudade Seu.
(7/10)
quello di un superappassionato.
Rispetto all'esordio, niente canzoni, niente pop e niente
Gabriele Marino
hip hop (se non nel richiamo a quei primissimi anni Ottanta in cui gli idiomi electronici erano ancora felicemente Shit Robot - From The Cradle To The
confusi), focus tutto sull'house, musica sempre luccicante, Rave (DFA, Agosto 2010)
festaiola, generosa. La chiave sono i motivetti, irresistibili, G enere : D ance
rivestiti poi dai suoni giusti. Il riff funky, il lungo bridge Marcus Lambkin ovvero Shit Robot. La degradazione
unto wah-wah e l'inserto disco di The Heaven And Back; del suono house classico di Chicago. Roland impoverite,
l'intro percussivo tropicalia, il basso che pompa, le tastie- drum machine base, claps vintage, tastierato italo, vocioni
re spernacchianti di Colorado Strings (quasi sicuramente negroidi ultra cool e via di ortodossia con gli occhi rivolti
in scaletta al Wintercase, ma non potevamo saperlo); lo indietro (fino ai Kraftwerk) e un pizzico di nerdaggine
stardustin' stomp funky di Pina Colada; l'electro/freakhou- import britannica che fa tanto primi Novanta (Forgese deep, notturna e cattiva di Flashback. Goduria.
masters).
(7.3/10)
Così si presenta al mondo, nel 2006, Shit Robot per DFA.
Gabriele Marino Da allora a oggi poca roba: singoli, remix (tra gli altri No
Time per i compagni d'etichetta Juan Maclean) fino a questo piuttosto strombazzato From The Cradle To The
Seu Jorge - Seu Jorge and Almaz
Rave, primo album sulla lunga distanza di un ragazzo che
(Now Again, Luglio 2010)
ribadisce il verbo grazie al classico compendio di guest
G enere : brasilian bl ack
Una delle cose più belle del mondo, non ammettiamo e il mixing da parte dello stesso boss della label, James
riera, che tempra con classe l'amato errebì con un garage
che si fa hard screziandosi di blues e funk.
Materia classica e - poiché eseguita da un “caposcuola”,
sebbene di culto - mai banale; anzi, genuina tanto quanto
è muscolare e ricca di stile. Che si misuri con brani altrui (Something About You, vibrante mid-tempo sottratto
ai Four Tops; la hendixiana Mississippi Delta di Bobbie
Gentry; una Nina Simone resa splendidamente acidula per Do I Move You?) o porga originali di buona fattura
(Lucy May: robustezza indecisa tra '65 e '72; la quintessenza detroitiana Highway; gli Stones ancheggianti nella
“Motor City” per Summer Nights), respiri l'autorità che
le giovani leve non posseggono ma che andrebbe loro
trasmessa. Impossibile ricrearla con alchimie di studio,
ma questo vecchio leone con i denti ancora aguzzi lo sa
benissimo.
(7/10)
83
Murphy, che a Shit Robot ci tiene particolarmente.
La prima traccia Tuff Enuff, di fatti non mente: è praticamente una B side degli LCD Soundsystem ridotti a
sole Roland. E gran parte del resto della tracklist - ancora
feat. di Murphy in Triumph - è una sfilata della crew del
vitellone di New York, da Nancy Whang (tastiere e cori
negli LCD Soundsystem) che canta nella "sooo eighties"
Take 'Em Up in odor di ultimi Röyksopp, ai citati Juan
MacLean (la carpenteriana Grim Receiver), più l'inconfondibile voce degli Hot Chip, Alexis Taylor, nella bella
song Losing My Patience o al grande spoken di Ian Svenonius nella ultra classica house Simple Things, fino a cose
più easy come il canto di Planningtorock in Answering
Machine, o la dance maranza fine Ottanta della Londra
in cerca di emancipazione di I Got a Feeling (con Saheer
Umar e campanacci Liguid Liquid a corredo).
Shit robot sono il piacere per il groove sporco, sexy e
cattivo dell'analogica ortodossa con sopra un canto bello
wave e cool come piace a Dj Hell. è tutto fantastico,
come si sente lontano un miglio che è Murphy l'artefice
di gran parte della musica di queste tracce. Ed è un Murphy revivalista. Devoto. Troppo devoto.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Skream - Outside The Box (Tempa,
Luglio 2010)
G enere : pop - step
Ollie Jones ritorna dopo il debutto di 4 anni fa a casa
Tempa. Lui è praticamente il producer dubstep più costoso sulla piazza. Chiamarlo in Italia costa troppo e nessuno da queste parti vuol azzardare qualcosa di diverso
dall'house o dalla minimal rischiando una pista deserta.
Negli UK le cose stanno in una prospettiva decisamente
diversa: Skream è un marchio che tira e la mossa del feat.
è di quelle da outside the box appunto.
Il ragazzo ripropone il pre di tutta la faccenda che ha
generato il buzz del dubstep: melodie 2 step (Where You
Should Be con Sam Frank in autotune à la Kanye West)
e half step (How Real con Freckles) condite con un po'
d'umoralità Robert Owens, IDM (CPU), grime (8 Bit Baby),
r'n'b à la Moby (I Love The Way) e persino jungle (Listening
To The Records On My Wall) e drum'n'bass (The Epic Last
Song), in pratica sfoggio di skill da grande producer, sul
piatto, servite fredde e con suonini 8 bit a prezzemolo.
Poi c'è un presunto cuore della faccenda, lo Skream che
tenta lo scarto come cantautore nello stile di I Care
Because You Do in una manciata di track (Fields Of
Emotion, Metamorphosis, Perferated, Reflections) che provano a lasciarsi alle spalle i giochetti di gioventù nel tentativo di raccontare la scena di ieri (e l'altro ieri) con
84
amore e disincanto. A dir il vero, sono tracce riempitivo
che speculano sul revival IDM di questi anni e distolgono
l'orecchio dai due veri flop del disco, i feat. di La Roux
e Murs, mancate hit di un furbo calderone di citazionismi
dall'ardkore continuum.
Forse la mossa "mainstream" di Rusko è stata oltremodo profetica. Riascoltatevi piuttosto gli inserti jazz del Jones altezza 2006 in Skream!, quel tocco che qualcuno
paragonò addirittura a Derrick May. Nostalgia vera vs.
nostalgia in provetta. E ombre pure sull'atteso progetto
Magnetic Man con gli amici Artwork e Benga che,
ascoltata la sua Wibbler, potrebbe suonare come una versione cartoon di Terror Danjah.
(5/10)
Edoardo Bridda
Sparklehorse/Danger Mouse - Dark
Night Of The Soul (EMI, Luglio 2010)
G enere : R.I.P. psych rock
Oltre a essere un produttore e musicista di primo livello, Danger Mouse sembra oramai specializzato in
operazioni di promozione della propria immagine che a
volte sembrano un po' più che furbette. Era già successo
quando nel 2004 il famoso Grey Album, un mash-up
bastard pop del White Album dei Beatles e il Black
Album di Jay-Z, finì direttamente nel circuito del peerto-peer internettiano senza passare dal via della release
ufficiale, osteggiata per motivi di sample non autorizzati.
Già allora Brian Joseph Burton aka Danger Mouse
decideva di saltare il fosso della distribuzione via label,
diventando così uno degli uomini del music-business più
in vista di quel momento, generando un hype che frutterà
anche la collaborazione con Damon Albarn e i Gorillaz dell'anno successivo.
Lo scorso anno la storia è sembrata ripetersi, quando la
collaborazione di Danger Mouse e Mark Linkous, più
noto con il moniker di Sparklehorse, doveva tradursi
in un progetto su più livelli, a cominciare dal disco, cui
si somma il sito web (www.dnots.com) e il contributo
di David Lynch che cura le immagini del sostanzioso
libretto. Dark Night Of The Soul è il titolo del progetto
che nel 2009 veniva distribuito direttamente in Rete da
Burton e Linkous, dopo che la EMI ne aveva osteggiato
l'uscita ufficiale, limitandosi a far uscire il libretto fotografico in allegato a un cd-r vuoto. Salto del fosso numero
due e nuovo hype per l'artista che si mette “contro” il
potere delle major.
Solo che poi il banco salta, quando Mark Linkous decide
di farla finita, e per Danger Mouse (ed EMI) è il momento
di raccogliere il seminato. Così a un anno dall'uscita pirata esce anche il cd uffuciale, tributo a un amico musicista
troppo fragile per questo mondo. E la musica? Sembra
essere, come sempre in questi casi, un corollario di poco
interesse. Non solo perché il bailamme è spostato su
questioni extra-musicali, a cominciare dalla costruzione
della leggende sulla morte di un musicista passando per
una finta attitudine punk da “fight the power”, ma anche
perché di davvero memorabile non v'è nulla o quasi.
La collaborazione tra i due musicisti, supportati da una
pletora di nomi altisonanti alla voce (tra gli altri: Wayne
Coyne dei Flaming Lips, Julian Casablancas, Nina
Persson, Vic Chesnutt che nel frattempo ha deciso di
farla finita, Black Francis e Iggy Pop) non si segnala
per originalità, dando origine a un disco che non è ai
livelli dei primi episodi Sparklehorse, ma nemmeno degno delle migliori intuizioni di Danger Mouse, sebbene
si lasci ascoltare. L'atmosfera generale è di malinconia
virata grigio scuro che ben si accompagna all'immaginario di Lynch. Sorprende positivamente la varietà, da una
psichedelica Revenge con Coyne a un dinamica Little Girl
cantata da Casablancas, passando per torch song dolenti
(Grain Augury con Vic Chesnutt, Everytime I'm With You con
Jason Lytle), ballate horror (la titletrack). Il meglio, probabilmente, lo danno le due tracce affidate alla Persson, la
cui lievità vocaldà quel tocco di assoluto e agrodolce che
le rende universali. L'operazione necrofaga sarebbe da 4,
il disco si assesta su un onesto
(6.5/10)
uditivo. Ogni tanto, Westerhus al lirismo sinistro, affianca
una fracassante dose di ultraviolenza, e così, quasi senza
volerlo, trova un'evoluzione chitarristica ai suoni digitali
Mego-Glitch (vedi la sferragliante Music for Leaving).
Non si tratta di un disco semplice, considerando la sua
accidentalità, le interruzioni e le pause simil-zen che
attraversano il frastuono e gli incendi, ma può stare in
mezzo al Loren Connors di Hell's Kitchen Park e Ktl,
facendo la sua bella figura.
(7.3/10)
Salvatore Borrelli
Sufjan Stevens - All Delighted
People Ep (Asthmatic Kitty Records,
Agosto 2010)
G enere : ultrafolk
L'ultimo vero album risale ad un lustro fa, ai tempi del
buon Come on Feel the Illinoise, quando ancora questo genietto fragile e generoso sosteneva che avrebbe
dedicato un album ad ogni stelletta della bandiera USA.
All'epoca un po' ci credevamo e, chissà, forse un po' ci
crediamo ancora. Ma da allora si sono avvicendate solo
raccolte di outtakes e progetti irrimediabilmente collaterali rispetto ad una strada maestra che sembrava tra
le più gravide in circolazione. Oggi - folgorato sulla via
dei The National, coi quali ha stretto un sodalizio tanto
imprevedibile quanto fruttuoso - è il tempo del rientro
Marco Boscolo in carreggiata. Con correzione di rotta. E un surplus di
potenza. Tanto che quale antipasto al nuovo album The
Age Of Adz, in uscita ad ottobre, Mr. Stevens può perStian Westerhus - Pitch black
mettersi di apparecchiare il qui presente EP.
star spangled (Rune Grammofon,
Mica roba leggera: otto tracce per un'ora di musica. OvMaggio 2010)
vero un album bello e buono, signori miei. All'insegna di
G enere : P itch bl ack guitars
Stian Westerhus, norvegese di Oslo, al secondo su un sogno folk seventies che tratteggia bozzetti bucolici,
Rune Grammofon ritorna alla chitarra solista in contem- scava solchi acidi e intreccia trame epiche, la barra del
poranea ai suoi mille projects quali Puma, Nils Petter songwriting tenuta salda e trepida attraverso le schermaMolvaer Group, Bladed, Crimetime Orchestra, glie moderniste ed il fortunale para-prog. La titile-track è
una suite in piena regola - si parla di apocalisse, si omagMonolithic.
Pitch black star spangled, più che concept, è personalis- giano i Simon And Garfunkel di Sound Of Silence - prosimo campionario solipsista sul tema del dissestamento posta in due versioni: una "original" lunga quasi dodici
delle sei corde. Un labirintico percorso le cui movenze minuti tra vampe corali, squilli orchestrali ed elettricità,
fantasmatiche, o post-apocalittiche, quasi distraggono e e una "classick rock", più breve (otto minuti abbondanti)
fanno a meno della memoria di un secolo d'improvvi- e dal passo più blando come un miraggio laterale The
sazione chitarristica. Quello di Westerhus è un edificio Band con additivi Grateful Dead. C'è poi una Djohaabbandonato, casermone dagli abitacoli segreti ed oscu- riah - è il nome di una sorella del Sufjan - che ti sbatacchia
ri, posto sulle rovine della musica d'avanguardia. Si pas- in un flusso di aspro e soave psych-folk per una dozzina
sa dagli sbranamenti e/o rimbrottamenti da giungla della di minuti prima che arrivi la canzone vera e propria: c'è
title-track, alle acuminate e paradisiache striature di Sing sentore di eccesso voluto, il retrogusto della posa, ma alla
with me somehow, ai flussi psycho-stridenti di Trailer trash fine il pezzo si compie in equilibrio sul filo di un'espresballad attraverso overdubbing, piezoelettrica e cristalli sività calda, urgente e sbrigliata. Cose che capitano negli
modificati, manipolazioni quasi-genetiche del condotto- ep, appunto, da sempre luogo di azzardo, deviazione e
85
divertimento, ben più che nella "istituzionale" dimensione
dell'album.
Quanto agli altri episodi, sono al più lirici e meditabondi,
non privi di nutritiva stranezza (come il sirtaki sghembo
di Arnika), di dolcezza lisergica (Enchanting Ghost, tipo un
apocrifo del giovane David Crosby), di ineffabile pensosità (la bellissima The Owl And The Tanager, che non
spiacerebbe ad Antony). Tutto ciò in attesa di un lavoro
lungo - ahem - che dovrebbe assestarsi su coordinate
electropop. Ok, ha tutta l'aria d'una situazione bizzarra a
dir poco. Come dire, Sufjan Stevens è tornato ed è - sembrerebbe - in grande forma.
(7.4/10)
Stefano Solventi
Sun Kil Moon - Admiral Fell
Promises (Caldo Verde Records,
Luglio 2010)
G enere : acoustic slow core
Admiral Fell Promises è il quarto album da quando nel 2003
Mark Kozelek adottò l'alter ego Sun Kil Moon, e come
gli altri porta con sé la stimmate della malinconia. La novità, a questo giro, è che il Nostro è in solitudine davanti a
un microfono con in braccio una chitarra spagnola, corde
di nylon che accarezza con notevole padronanza. Lì il senso di un lavoro che nella calligrafia non mostra viceversa
evoluzioni di sorta: sempre tenue l'esposizione, in scia a
Nick Drake o - dati anagrafe e passaporto - al Mark
Eitzel meno tormentato; ancora intatte talune lungaggini
strumentali nelle quali Kozelek si è sempre crogiolato.
è del resto uno cui piace il rock anni '70 e non ne ha mai
fatto mistero, come dimostravano in passato le cover di
AC/DC o la partecipazione al film Almost Famous. Stavolta, in coda e nel cuore delle sue pigre e sognanti ballate
(su tutte la latineggiante Sam Wong Hotel e il romanticismo delicato però teso di You Are My Sun, una magistrale
The Leaning Tree declinata tra anse e pieghe emotive e
il cantilenare in scia a Kristin Hersh perChurch Of The
Pines) non vi sono impennate d'elettrica ma cristallini, sovente flamencati arazzi.
Che talvolta si impicciano in questioni di scrittura - buona benché distante dal sensazionale Ghosts Of The Great
Highway - e zavorrano le belle Australian Winter e Alesund.
Peccato veniale, dal momento che altrove il divagare strumentale si integra alla composizione e riporta la grazia
naturale tipica del personaggio. La prossima volta, però,
gradiremmo più concisione: sappiamo che Mark sia un
“manico”, tuttavia a noi è l'autore a interessare.
(7/10)
Giancarlo Turra
86
Tame Impala - Innerspeaker
(Modular, Giugno 2010)
G enere : P sych rock
Se ne parlava in sede di Turn On e mi tocca ribadirlo in
questa recensione. Quello dei Tame Impala è uno degli
esordi più convincenti dell'anno, per lo meno in ambito
rock.
Il gruppo di Perth vi arriva dopo aver scaldato i muscoli aprendo per gente come Black Keys e MGMT. Da
questi ultimi, in particolare, hanno imparato a smussare le
asperità presenti sul primo ep, uscito un paio di anni fa e
conosciuto come Antares Mira Sun.Hanno limato, riverniciato e cromato con effetti e tastiere analogiche un
suono che guarda al passato, ad un punto imprecisato dei
tardi 60s in cui la psichedelia flirtava con il primo prog.
Ne hanno saputo fare qualcosa di appetibile al grande
pubblico, eppure bizzarro e creativo.
Provate ad ascoltare l'elegante singolo Solitude Is Bliss:
la voce lennoniana, i riff circolari, le aperture sognanti
e la tensione drammatica, ne fanno qualcosa di originale
e immediatamente riconoscibile, una sorta di freak pop
mutante. C'era un'espressione, "flash rock", inventata in
tempi remoti per dare un senso all'imprevedibilità della musica degli Yes, nome che a molti lettori di SA farà
accapponare la pelle, ma che nei suoi momenti più visionari e meno velleitari ha non pochi punti in comune con
l'opera del combo australiano.
Il resto appartiene alla farina del sacco del giovanissimo
Kevin Parker, detentore del timone del progetto, e di un
certo Dave Friedman, la cui lunga mano in fase di produzione apre una curiosa breccia fra l'universo onirico della
band e quello folle e colorato dei Flaming Lips.Guardarvi
attraverso è fonte di piaceri insondabili e inevitabili vertigini.
(7.6/10)
Diego Ballani
Taprikk Sweezee - Conversea (Musik
Aus Strom, Giugno 2010)
G enere : post - techno soul
Nikolai Von Sallwitz, berlinese cresciuto ad Amburgo, è
un cantante sulla piazza elettronica dai primi Duemila,
prima in team con il produttore post-techno/IDM Michael Fakesch (metà del duo Funkstörung - assieme a
Chris De Luca - e titolare della label Musik aus Strom),
poi impegnato in progetti solisti sotto vari nomi (Roals
Roaster, Gizmog, Fussel, pubblicati sulla sua minilabel personale Zoikmusic).
Conversea, registrato sette anni fa, è il suo primo solo
EP a nome Taprikk Sweezee e lo battezza anche come
produttore. Quattro pezzi - ma Nothing è un bonus desti-
Heart Procession (Pall Jenkins) e Pinback (Zach
Smith) nella seconda metà dei 90s sostituirono, mano a
mano, la casa madre. Non nei cuori degli aficionados, ovviamente, che oggi vedono coronata una rincorsa durata
qualcosa come un decennio e rotta solo dalla manciata di
minuti del 7” Planets di qualche mese fa, anticipazione
gradita ma troppo breve di questo atteso lavoro.
L'attacco di Battle fuga ogni legittimo dubbio. Vedere riformati gruppi che hanno raggiunto lo status di gruppo di
Gabriele Marino culto, sull'onda di una manciata di dischi epocali ma soprattutto di uno iato pluriennale, racchiude sempre delle
insidie. La voce melo di Jenkins e un andamento quasi
Tender Trap - Dansette Dansette
swingato, spazzano via 3 lustri come fossero bruscolini. I
(Fortuna Pop!, Giugno 2010)
Three Mile Pilot sono tornati come se niente fosse. CerG enere : T wee pop
I figli e il lavoro avranno rarefatto le uscite discografiche, to, gli spigoli sono più smussati e la malinconia, quel gusto
ma non hanno certo trasformato l'ultimo progetto degli amaramente esistenziale che trasudava da lyrics e interex Heavenly e Talulah Gosh in un gruppo da dopola- play sembra lievemente affievolito, ma l'età porta consivoro: tornano anzi con formazione estesa, che permette glio e acquieta anche gli animi più travagliati. C'è di buono
armonie vocali senza sovraincisioni, e con un disco che però che questa reunion - se di reunion si può parlare,
dato che il trio non si è mai ufficialmente sciolto - non
non vuole passare inosservato.
Già perché nel bailamme dell'indie odierno non si ripren- puzza di opportunismo e l'album mostra entusiasmo e
de più il twee-pop anni '50, bensì il suo revival, quello freschezza, spazzando via le insidie “passatiste” più che
che ci fu nei tardi '80. I nostri però all'epoca c'erano già, lecite in partenza.
e allora tornano ai sacramenti del genere: in copertina I pezzi-bomba forse non ci sono (dopotutto non ci sono
il tempio, ossia il giradischi portatile che sottrasse alle mai stati) ma la media è alta: il controcanto di Left In Vain,
orecchie dei genitori gli ascolti dei primi giovani r'n'r, e il piano incalzante e le aperture “solari” di Same Mistake,
in apertura la title track, che da quel "dansette" prende l'agorafobia meets San Diego sound di What's In The Air o
il nome e che nel ritornello nomina una trinità fatta di la lenta ballad storta di One Falls Away si fanno preferire,
ma sono giusto scelte personali. Insomma, The Inevitable
Sandy Shaw, Lesley Gore e le Supremes.
Così, grazie anche a una felice ispirazione compositiva, i Past Is The Future Forgotten ci fa tornare in mente i classici
nostri riaffermano il loro lignaggio e la loro centralità nel della discografia della atipica band di San Diego. Come a
genere, tra un singolo geniale come Do You Want a Boy- dire, 15 anni passati così, senza accorgersene.
friend? (la citazione dei Jesus and Mary Chain sembra (7.3/10)
voler includere anche i Raveonettes tra i discepoli da riStefano Pifferi
chiamare all'ordine), il western di Girls With Guns con
qualche bordone punk rimembranza dell'inizio carriera Toba Seydou Traore - Toba Seydou
filtrato Velvet Underground, e una consapevolezza sia Traore (Drag City, Giugno 2010)
della tradizione che dei ruoli sessuali (argomento di molti G enere : M ali blues
dei testi) che, contro le apparenze sonore, riporta il disco Piace che un'etichetta esemplare per catalogo e ampiezza
al 2010.
di vedute come la Drag City scandagli l'Africa in cerca di
(7.1/10)
materiale. Per chi traffica con post-rock, indie del più arGiulio Pasquali guto e nuovo cantautorato, è un significativo riconnettersi alle radici risalendo fino a prima del blues, incontrando
sonorità ancestrali al nostro orecchio e tuttavia vivissime,
Three Mile Pilot - The Inevitable
che delle dodici battute mantengono struttura pentatoniPast Is The Future Forgotten
ca e respiro umano, ulteriormente rafforzate da un senso
(Temporary Residence, Settembre
per l'ipnosi e la dilatazione. Esponente della generazione
2010)
nata dei primi ’60,Toba è cresciuto a stretto contatto con
G enere : indie
Are we really here? Is this really happening? Così si apre la le tribù dei cacciatori, le cui cerimonie e racconti mitolopress-sheet, sintetizzando lo stupore di ogni singolo fan gici la musica del donso ngoni accompagna.
della band di San Diego da quando i side-project Black Divenuto adulto e lasciata la famiglia, ha frequentato il
nato alla sola versione mp3 - molto interessanti, anche se
molto legati ai modelli di riferimento (a occhio e croce,
Super Collider e Chelonis R. Jones), basi electroniche arrancanti e sporcate di glitchitudine, scure e fumose,
e sopra la sua bella voce out-soul. Nikolai è già al lavoro
su un nuovo EP, una collaborazione con diversi produttori americani, tedeschi e francesi, che dovrebbe uscire a
fine anno.Vi terremo aggiornati.
(7/10)
87
maestro Yoro Sidibe e imboccato poi un approccio
personale, intersecando questo liuto a sei corde con ritmi ripetitivi che inducono una trance visionaria; dove il
panorama è solcato da fugaci flauti e dove domina una
voce colma di intensa esaltazione - per certi versi simile a
quella di Nusrat Fateh Ali Khan - sorretta da “call and
response” tanto efficaci quanto più sono spartani. In una
scaletta che impressiona per compattezza d'esposizione
e costanza della poesia, tratteggia il perfetto paradigma di
quanto sopra la favolosa meditazione pre-blues Samafaga
Mugu. Apice di cinquanta minuti che racchiudono un intero mondo e spazzano via l'apatia quotidiana.Vi basta?
(7.4/10)
Giancarlo Turra
Tokyo Police Club - Champ (Mom
And Pop, Giugno 2010)
G enere : wave
Dopo che nel 2006 incendiò le camerette degli indie-kids
di mezzo mondo con il folgorante Ep A Lesson In Crime e
nel 2008 scalarono le classifiche con il debutto sulla lunga
distanza (Elephant Shell), la band canadese ritorna con una
raccolta di brani che poco si discosta dal proprio passato. La miscela che ha portato i musicisti di Newmarket
(Ontario) ad essere un piccolo caso dell'indie dei 2000
è l'attitudine rock à la Strokes. In più di un passaggio il
cantante/bassista e front-man Dave Monk imita proprio
la vocalità del miglior Casablancas e le undici tracce si
srotolano senza sussulti.
Nessuna rivoluzione, quindi, per i canadesi, ma nonostante il passaggio nella serie TV Desperate Housewives
e la qualità delle proprie composizioni non si discosti
troppo da quella delle origini, sarà difficile che facciano il salto in alto che molti, alla prim'ora, immaginavano o speravano. Rispetto a A Lesson In Crime, qui manca
l'urgenza dell'esordio, la necessità di sfogare la propria
teenage angst che rendeva quei diciotti minuti davvero
coinvolgenti. In questo Champ, più compassato e ricco di
mid-tempo rispetto al passato, una citazione a metà tra
Editors e Interpol (Big Difference) o un tentativo skapop (Gone) non bastano a fare la differenza.
(6.3/10)
Mary Chain, ma anche per chi vive in un paese - il Brasile - che normalmente viene associato a samba e bossanova. È il caso dei Top Surprise da Minas Gerais, sudest
del paese, dediti a un sound DIY che non tace la propria
passione per le band appena citate, a cui aggiungeremmo
almeno Meat Puppets (evidente nel country-rock di
Shoot The Devil) e qualche influenza dalla new wave più
vicina ai Caraibi (nell'unico brano cantato in brasiliano,
Lagarto Drugs).
Il resto del programma messo insieme da Andre, Boo,
Daniel e Fil per questo EP d'esordio, distribuito in download dal sito o in cassetta, prevede garage rock venato
di fuzz e riverberi (Samsara), grunge al confine con lo
shitgaze (Saturn (The Season), Home), college rock come
se gli Weezer fossero andati a male (More Than Cool),
un'inaspettata ballata acustica dal sapore elliotsmithiano
(80 Comes). Forse nessuna idea davvero originale in questo esordio, “registrato in un paio di giorni alcolici nell'appartamento di Andre e Daniel”, ma il piacere per chi ascolta di
scoprire una scena vivace, sostenuta da una passione vera
e un'estetica precisa (la cassetta non è - ovviamente - un
caso) in un paese che troppo spesso da qui si percepisce
solo attraverso gli stereotipi.
(6.6/10)
Marco Boscolo
Utah Jazz - Vintage (Vintage, Luglio
2010)
G enere : D rum ' n ' bas s
La mano fresca del debutto It's A Jazz Thing che puntava sicura sul periodo aureo della scena, e naturalmente
tutto il tam tam degli addetti (che da due anni a questa
parte martellano e premono per un revival della cassa
rullante), hanno certamente fatto gioco al giovane Luke
Wilson, un ragazzo sveglio che sin dai primi vagiti aveva
avuto il beneplacito dei nomi grossi della scena (Goldie
e Fabio su tutti) dando forti segnali come producer ancor
più che come dj. Due anni passati a girare il mondo sui
dancefloor ne hanno confermato le doti live con set di
classici e nuove produzioni d'n'b (la Sub Focus banger), e
tra altre strette di mano e remix (Tricky) il sophomore
lo presenta con un corollario di feat. da dj superstar nello
Marco Boscolo stile, fatte le dovute proporzioni, dell'ultimo Skream.
Se It's A Jazz Thing mirava al cuore, al magico triennio '93
'96, mescolando un po' di Reinforced e un pochino di
Top Surprise - Everything Must Go
Metalheadz, ovvero giostrando tante spezie black con il
EP (Pug Records, Maggio 2010)
giusto di tech, come una sorta di versione aggiornata di
G enere : garage / shit gaze
Nati negli anni '80 e affascinati dalla musica degli stessi Black Secret Technology, Vintage guarda alla cassa rullante
anni: oramai è un binomio classico di questi anni zero. con lo scarto indispensabile per tenere la testa nel preNon solo per chi viene dagli stessi paesi di Sonic Youth sente e facendosi i giusti conti in tasca. Come da cliché
e Dinosaur Jr, My Bloody Valentine e Jesus And c'è un bel po' di singing (la bluesy Bring Backthe Love con
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Version, il remix di Dreaming con il mitologico Jonny L,
i vocalizzi androgini dell'ancor più famoso Chelonis R
Jones in Avoiding Puddles) del meticciato ragga (i Ragga
Twins nella funambolica e forse migliore Enter The Jungle), dell'hip hop scazzato (il rapping à la Diagable Planets
di Could You Handle per mano dei DRS) come dei flavour
da soundtrack '60 (Bunny Boiler) infilati dentro ad arrangiamenti lussureggianti per chitarre new agey (e jazzy),
parti per piano, pseudo archi (Take No More) e una buona
varietà di campioni di batteria.
Vintage è, in pratica, il disco vetrina di Utah Jazz, un disco
settato sulle prestazioni e le skill di un producer che sta
dicendo al mondo che, dal party al salotto, è su di lui che
bisogna investire. La prossima volta al marketing preferiremo la passione.
(6/10)
Edoardo Bridda
Vaselines (The) - Sex With An X (Sub
Pop, Settembre 2010)
G enere : indie rock
Passerà alla storia per I Hate The 80's, song dal ritornello
divertente e scanzonato, naïf come solo i Vaselines, indie che più indie non si può. Leggero come dev'essere
un ritorno che non assuma i contorni della nostalgia. Gli
Ottanta di Frances e Eugene non erano soltanto Duran
Duran: c'erano loro, c'era la Sarah Records, la generazione C86, la provincia che si opponeva alla babilonia sintetica e ai bandanati di Los Angeles. Quella con l'odor di
erbette sotto il naso e gli stivali sporchi di terra. La provincia lenta e noiosa che moriva quotidianamente davanti
al solo canale tv che vomitava i soliti quattro londinesi
usa e getta.
Per te che - come tuo zio - volevi qualcuno che ti suonasse i Velvet, Lou Reed e un po' di sano rock'n'roll, il
punk era stata una cosa fastidiosa. Eccessiva. Una parte di
quell'ingranaggio dei Settanta che aveva gonfiato le tasche
di rockstar diventate dei fenomeni da baraccone. Il rock
americano viene dalla provincia. è roba genuina e On The
Road.Vederlo dall'angolazione del Nord dell'Inghilterra ti
dà pure quello scarto un po' scazzato e campestre che
poi è il mondo che ti circonda.
A distanza di due decadi abbondanti dall'esordio, i Vaselines ritorano con lo stesso Jamie Watson con il quale
lavorarono su Dum Dum, più due Belle And Sebastian
cresciuti a pane e indie rock Ottanta, Stevie Jackson e
Bob Kildea, rispettivamente alla chitarra e basso. Michael
McGaughrin dei 1990s siede per finire ai tamburi.
Lo senti subito che il piglio americanista dei nuovi Vaselines è un aggiornamento invisibile di quello loureediano
di una volta: c'è un pochino di country, c'è un tantino di
hillybilly, tutte birbonate un po' kitsch tipiche dei Nostri.
Sex With An X va su tante volte lasciandoti sempre il
sorriso in bocca. E finalmente, per una volta, non c'è bisogno di citare chi-sapete-voi-chi per parlare di loro. Indie
rock forever senza rimpianti nè forzature. Il piglio amatoriale e quel modo naturale di approcciare il rock'n'roll
erano e sono ancora la loro forza. Bentornati.
(7.2/10)
Edoardo Bridda
We Love - We Love (BPitch Control,
Agosto 2010)
G enere : S ynth pop , dream
We Love è un progetto italiano che ha avuto il privilegio
di uscire per la Bpitch Control di Ellen Allien, ammaliata
dal mix di arti messo in gioco dai suoi protagonisti. Il loro
ingresso per l'etichetta berlinese è un po' una novità: non
c'è tantissimo in comune con il rigore minimal di Ellen,
piuttosto con il portato di IDM e synth pop dell'amico di
lei, Apparat.
In pratica, quest'esordio parla la lingua dell'indietronica
guardando soprattutto alla Svezia dei The Knife - e senza dimenticare tutta la sezione remix degli ultimi Depeche Mode. Dal duo autore di Silent Shout, Giorgia
Angiuli, già conosciuta con il progetto Metùo e Piero
Fragola (ovvero Werk Ddesign), designer e videoartist,
hanno acquisito le atmosfere al calor bianco e quel gusto per la sperimentazione oltre il sintetico. Tra le note
apprendiamo che il duo s'è fatto costruire un midi controller per ricreare un calore tutto analogico. La macchina è stata pagata da un'azienda di fashion design italiana:
la moda torna anche nella cura per l'abbigliamento dei
We Love, che si presentano in rigorose tute futuristiche
bicromatiche, di fatto l'immagine coordinata di un progetto inteso come sinestetico. E sarà forse per l'ambizione dell'output complessivo, unita ai pochi mesi di vita
(un anno e poco più), che la qualità di quest'esordio non
va oltre la riproposizione di modelli, assimilati piuttosto
bene, ma restituiti praticamente identici e perciò assimilabili a un aggiornamento del synth pop anni Ottanta alle
atmosfere nordiche '00.
Rispetto alla forza espressiva di Karin Dreijer Andersson,
Giorgia si muove misurata tra trame semplici e filtri efficaci, ma questo le nega la possibilità dell'hook melodico
(debole Even If). Dal punto di vista dell'arrangiamento,
hanno ragione loro: non sono l'ennesima elctro band; del
resto incorporare molteplici stili non significa farne uno
nuovo e citazioni come Our Shapes (il cui riff iniziale ricorda da vicino Enjoy The Silence) o Escape Destination
(molto simile a un famoso brano dei Daft Punk) non
aiutano a togliersi l'idea che più che per gli ascoltatori più
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esigenti questo sia un album per sfilate di moda. Non mi
stupisce che White March, cassa (finalmente) dritta, riff al
synth filtrato/svagato/perfetto, leggeri glitch e bisbigli, sia
il loro brano più easy, ma anche il più autentico.
(6.5/10)
Edoardo Bridda
Weasel Walter/Marc Edwards Blood Of The Earth (ugExplode,
Giugno 2010)
G enere : F ree J azz
Stakanovista Weasel Walter. Negli ultimi due mesi ne
abbiamo parlato ben tre volte in altrettante release di
progetti per ugExplode. “Ci sarà tempo di riposare, quando
sarò nella tomba” spiegava in una qualche intervista l'ex
The Flying Luttenbachers, e dunque eccolo qui, dopo
oltre 20 anni di attività, a sfornare dischi senza tregua.
Registrato da Colin Marston nella Thousand Caves di
NYC, Blood of The Earth è firmato a nome Weasel Walter - Marc Edwards e accanto ai due batteristi, vede
una formazione composta da tre fiati e un contrabbasso.
Con il ben noto canovaccio ritmico alla velocità della
luce di Walter, potenziato a suon di BPM da Edwards, la
tromba di Forbes Graham, il sax di Darius Jones e
di Elliot Levin, con in più qualche inserimento di flauto
di quest'ultimo, rispondono soffiando lunghi sustain, con
una forte predilezione per i suoni slabbrati di ayleriana
memoria e gli squeak figli di Pharoah Sanders.
Free Jazz più orientato verso la ricerca di suoni liberi e
non ad una liberazione delle partiture, senza per questo
concedersi di tirare il fiato (leggi alla voce Nmperign) .
(6.9/10)
Leonardo Amico
Wild Nothing - Gemini (Captured
Tracks, Maggio 2010)
G enere : indie , G lo fi , 4 ad
Tipico fenomeno del Pitchfork 2010 in ansia da nuovi volti slavati sull'onda glo-fi, dreampop e shoegaze, l'esordio
della one man band Wild Nothing è esattamente quello che ci voleva per far tornare due conti alla Captured
Tracks, etichetta trendissima che ci aveva regalato due
bei prodottini come Bitters e Beach Fossils e ora s'appresta a vendere un po' di copie in più grazie al virginiano
Jack Tatum in questione.
Con quel misto di Radio Dept e Atlas Sound sotto candeggina Washed Out, la sua creatura ha tutte le
carte in regola per riassumere un crocevia di indie-ness
Ottanta/Novanta, includendo nella fragile formula pop sia
l'Inghilterra di provincia degli Shop Assistants sia quella
da immaginario collettivo di Smiths (O, Lilac, Summer Ho90
liday, Our Composition Book), immancabili New Order alle
tastiere e imprescindibili Cure (giri di basso e qualche
arpeggio Gallup).
Il pregio maggiore sta comunque nello sbiancare l'umbratilità della 4AD dei Cocteau Twins (Drifter), trattamento che tuttavia confluisce nella più anonima gassosità, e
quindi intercambiabilità, tipica dei ragazzi dell'America di
provincia di questo biennio.
Il cavallone non si è ancora abbassato, l'estate di Jack
splende tanto quanto quelle dei colleghi glo, soltanto che
il suo Gemini risulta un tantino più prevedibile e sulla
scia del loro successo. In scrittura sicuramente più interessante His Clancyness.
(7/10)
Edoardo Bridda
Windsor For The Derby - Against
Love (Secretly Canadian, Giugno
2010)
G enere : post - rock
Negli anni '80, citando i Simple Minds, avremmo esclamato:“Alive and kicking!” alla notizia dell'uscita di un nuovo disco dei Windsor For The Derby. Nei quattordici
anni scanditi da otto long playing di acqua sotto i ponti ne
è passata davvero tanta, sono apparsi e scomparsi interi
generi e ambiti di riferimento, e si è conclamata la crisi
di quel mondo post-rock da cui loro stessi provengono.
È giunto quindi il momento, per chi come il combo americano, è ancora in corsa di ritrovare se stessi. I Windsor
For The Derby lo fanno guardando al loro passato, quello
più luminoso, a cavallo degli anni '90 e 2000, da cui escono dodici tracce ipnotiche, alcune cariche di riverberi e
drone che sembrano guardare, invece, agli anni '80 di cui
sopra, altre invece sognanti viaggi acustici.
Apre una oscura titletrack, un semplice bozzetto strumentale che serve a dare il mood del disco, nero, scuro,
con riferimenti alla luna; un'atmosfera ben rappresentata
anche dalla copertina. Poi in successione i pezzi migliori:
l'ipnotica e psichedelica Autumn Song, l'acustica After Love
e il singolo Queen of the Sun, dove si manifesta anche qualche riferimento agli Yo La Tengo più pop. Fa sorridere il
successivo strumentale, Singer 1968 (sarà un riferimento
alla macchina da cucire?), seguito da un altro intermezzo,
Moon Shadow, di sicuro effetto, ma poco più che un accenno di brano. Siamo a metà del programma e abbiamo
trovato già tre riempitivi: qualcosa non torna.
L'impressione generale, confermata dalle informazioni ufficiali, è che il disco sia stato lavorato nelle pause tra una
data e l'altra di un lungo tour mondiale, e che quindi il
lavoro sia un po' tirato via. Non che Dan Matz e Jason
McNeely non sappiano scrivere buone canzoni, anzi: lo
confermano l'assolata Dull Knives e purela claustrofobica
Hips. Come non è vero che il lavoro sui suoni non sia
notevole (sentire la già citata Queen of the Sun). Il problema è che Against Love assomiglia a puro mestiere, con
qualche piccola prescindibile vetta. Forse bastava un EP.
(6.4/10)
Marco Boscolo
Zola Jesus/LA Vampires - LA
Vampires meets Zola Jesus (Not
Not Fun, Luglio 2010)
G enere : D ark -W ave E terea
Collaborazione sotterranea tra due delle dark lady più
amate del panorama out (ma sempre più spesso anche in)
a stelle&strisce, rispettivamente Nika Roza Danilova, ormai nota col moniker Zola Jesus, e Amanda Brown, cotenutaria della cult-label Not Not Fun e chanteuse lo-fi
già attiva in progetti quali Pocahaunted e Topaz Rags,
qui alla seconda tappa della sua nuova divagazione solista
LA Vampires. Proprio al materiale a suo tempo uscito a
nome Capricorn Born Again, si avvicina la proposta di
questo succoso dodici pollici in edizione discobag.
I fan della novella Siouxsie resteranno quindi un po'
perplessi sulle prime, dato che il contributo della loro
beniamina sembrerà piuttosto ridotto; tuttavia ad un secondo ascolto non potranno non lasciarsi avvolgere dal
manto notturno di cui sono intessute queste eteree trame sonore, dove spettrali voci femminili si ricorrono in
lontananza lungo minimali strutture elettroniche, ravvivate sporadicamente da un tromba o da fredde note di
tastiera (Bone Is Bloodstone). Solo sette brani, in cui ballate
desertiche in pieno stile Not Not Fun (In The Desert,Vous)
si alternano a passaggi più grevi (Looking In) e a melodie
perse nel tempo e nelle pieghe della memoria (No No
No). Forse un'uscita solo per i fan più die hard, tuttavia un
bel compendio di mistici inni per le notti estive.
(6.9/10)
Andrea Napoli
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91
Gimme Some
Inches #8
Passata l’estate torniamo coi giri di vinile. Protagonisti stavolta preziose edizioni artigiane e più spartani 7” per No
Age, Crocodiles, Spectrals, Sissy Spacek,
Sewer Election and more...
Fa piacere ritornare dalle vacanze e sentir dire alla radio da
Ernesto Assante che a brevissimo
tutti – e sottolinea “tutti” con voce
stentorea – i supporti fisici per libri, giornali, dischi spariranno. No
perché, mentre il Chris Anderson
meets Simon Reynolds all’amatriciana dice la sua, qui a Gimme Some
Inches scartiamo il pacco arrivatoci in questo stanco agosto dalla
MacinaDischi con lo split a 10” tra
Kelvin – casa madre di Woolter e
Anna, responsabili dell’home based
label – e Speedy Peones. Il vinile è
in un bellissimo colore azzurro, ma
non è questa l’unica particolarità del
packaging: il disco è infatti contenuto in una lastra di alluminio serigrafata e numerata a mano, rivestita da
una pellicola per aerografie, perché
“vorremmo fare delle produzioni a
360° che abbiano una linea riconoscibile”, come ci confessano i due. Mu92
sicalmente c’è un turbinio punk che
smuove i due lati: quello dei Kelvin
va di quello virato noise alla maniera
di casa AmRep, con annesso omaggio ai Melvins (If I Had An Exorcism);
quello targato Speedy Peones va di
follia garage su un sostrato psychwave-pop da invertebrati, proprio
come in Karel Thole.
Settembre poi è tempo di ritorni. Non solo dalle vacanze, ma anche
a livello discografico in anticipo sui
comeback. È il caso di Panda Bear,
che col 7” Tomboy su Paw Tracks
inaugura una serie di pezzi piccoli
che avvicineranno lentamente al fulllength autunnale, o dei No Age che
tornano con Glitter, preludio a Everything In Between. Doppia uscita
a 7 e 12”: su entrambi i lati A brilla
Glitter, iridescente e malevolo shoegaze-noise estratto dall’album, mentre sui lati b troviamo Inflorescence,
sul 7”, e la doppietta In Rebound/Vision II, sul 12”. Nulla di nuovo oltre
il solito noise-punk a grana grossa,
con Vision II che si fa preferire per le
folate rumoriste e ossessive che la
attraversano.
Un altro combo che gioca d’anti-
cipo con le misure piccole è Crocodiles: i due men in black rilasciano
Sleep Forever, singolo a 7” per la
casa madre Fat Possum che mette in
preallarme per il nuovo album. Suono più pulito, vocals intelligibili e una
variante psych che nel pur ottimo
esordio Summer Of Hate sfuggiva all’ascolto, sepolta com’era sotto
strati e strati di feedback chitarristico alla J&MC. Merito della sapiente
mano del producer di lusso James
Ford (Simian Mobile Disco)?
Beh, non che ora la nebbia di rumore chitarristico sia svanita, anzi. C’è
solo una maggiore consapevolezza
dei propri mezzi (la title track) e una
minore serietà rispetto all’esordio:
volete mettere la cover di Groove Is
In The Heart dei Dee-Lite rifatta da
questi nero-vestiti? Sballo. Prima di
passare a zone più melmose una segnalazione d’obbligo per quella che
potrebbe essere la next-big-thing
del sottobosco in lo-fi. Esce per
Slumberland, sinonimo di qualità, il
7” 7th Date di Spectrals, one-man
band inglese dedita a melodie 50s
zeppe di ahh-ahh e chitarrine jinglejangle che gli fanno meritare questa
azzeccata definizione da Drowned
In Sound: Spector-goes-surfing inspired
lo-fi pop.
Passata in rassegna l’ala “solare”
dell’underground, tocca ora immergere le mani nel putrido sottobosco.
Partiamo da casa nostra ed esattamente dalla A Dear Girl Called
Wendy, label milanese che si sta facendo un nome sul versante noiseconcreto. Dopo l’ottimo 10” a nome
Olyvetty, tocca a mostri sacri del
rumore come Sissy Spacek di mr.
John Wiese pubblicare un doppio 7”,
riedizione dei primi passi del noiseduo americano. Messa la puntina sul
vinile non resta che piegarsi alla pura
violenza ruvida e materica dei due,
completamente sottomessi ai maestri del rumore da hc imputridito.
Kvavd di Sewer Election e Het
Potatis di Testicle Hazard non
migliorano la situazione. Le ruvidezze etimologicamente metalliche del
progetto svedese di Dan Johansson
(del giro Ättestupae Utmarken)
e il rumore bianco puro dell’accoppiata Lasse Marhaug e Tommi Keränen triturano l’udito di chi ascolta e
collocano la Wendy Prodz sul trono
delle label incompromissorie del
momento.
Proseguiamo oltre con gustose
novità in ambito post-punk, synth ed
elettronica DIY. Dalla Francia arrivano al secondo vinile i parigini Spectrometers, con sei pezzi per un 10
pollici – 1/2 Mechanism 1/2 Organism, questo il titolo – dall’edizione
spartana e minimale. Caratteristiche
che si ritrovano anche nella musica
dei nostri, un tappeto sonoro a base
di drum machine monche, loop, flanger e chitarre riverberate stile Moon
Duo. Il tutto senza voce, ma il mood
creato è sufficientemente ammaliante per non farci caso. Dal cuore della
grande mela, invece, arrivano al secondo singolo gli esoterici White
Ring che, dopo un primo split con i
non meno sibillini oOoOO, rilasciano il loro brano migliore. Suffocation
vanta un groovy beat electro a reggere una spiritata voce femminile
che farà la gioia dei fan di Zola Jesus
& Co. Sul lato B del 7 pollici un remix
del medesimo brano, questa volta
un versione meno angosciosa e più
acustica. Sempre da NY e ma su toni
decisamente più soft si pone l’EP di
debutto di Balam Acab, progetto
solista con cui il giovane Alec Koone mischia pulsazioni downtempo,
paesaggi liquido-ambientali alla Ducktails/Julian Lynch e immaginari subacquei che tanto vanno da un paio
di estati a questa parte. A produrre
il 12 pollici dal titolo See Birds ci
pensa la neonata label di elettronica
deviata Tri-Angle.
Chiudiamo alzando un po’ il livello del rumore con il singolo di
debutto dei Grave Babies, trio di
Seattle dedito ad una dark-wave dalle tinte quasi gaze, che richiama in
più punti i fratelli maggiori Blessure
Grave.Trecento copie in vinile tirate
dalla danese Skrot Up per poco più
di cinque minuti di malessere.
Stefano Pifferi, Andrea Napoli
93
Re-Boot
#7
L’estate sta finendo.Tornano a riempirsi i garages, le cantine, sale prove più
o meno attrezzate per i soliti sogni di
rock’n’roll. Che proviamo a raccontare.
L’orobico Vincenzo Bianco si
spaccia per Chenzo quando gli
prende l’estro di farsi in proprio i
propri affari rock, electro, folk-pop,
dark e quel che altro può capitare
in una cameretta del terzo millennio. L’insostenibile pesantezza del
tessere (autoprodotto, 7.1/10) è la
sua prima autoproduzione e a dire
il vero ci senti un po’ di tutto, ma
è un miscuglio ben mescolato, la
tensione tesse le fila e la voce effettata lo-fi vagamente Damon Albarn
tengono il tutto ben aggrappato a
quella che diresti una visione sospesa tra periferia e mitteleuropa,
retaggi trip-hop stemperati eighties
(Afrodite amante di Ares), dichiarate decadenze letterarie (Mallarmé,
Rimbaud...) e malmostose inquietudini vagamente Manuel Agnelli
(L’oroscopo di Emanuele). Piacevole
e stranamente intenso. Quanti ai
Pocket Chestnut, a sentir loro
Bedroom Rock’n’roll (autopro94
Un mese di ascolti
emergenti italiani
dotto, 6.9) è stato registrato un po’
ovunque, tra Monza, Milano, Mortara & Vigevano, persino a Fort Wayne
nell’Indiana. Per quello che ci è dato
di sentire, contiene musica che ha
viaggiato e ama viaggiare: folk blues
da strada e marciapiede, da palchi
spersi ma baldanzosi, piccoli turbini
alt country e scrosci underground
(meglio se paisley), ciondolanti molecole Pixies e un lirismo malinconico chiesto alla polvere calpestata
dai Wynn e dai Grant Lee Phillips
(sentitevi la bella Nowherwille). Si
paga il pegno ad una pronuncia che
forza un po’ l’interpretazione ma si
riceve resto e mancia di un entusiasmo terrigno che tiene in piedi nove
pezzi originali più una rilettura teneramente laconica del tradizionalone
Long Black Veil. Fragranti come una
pagnotta di ieri, ma gustosi come
quella che ti è rimasta nello zaino
quando pensavi di non averne più.
Cercano l’esatto punto di equilibrio
fra libertà espressiva e costrizioni
da canzone pop (seppur nobilitata)
i VOV, al secondo Davide Arneodo (già spalla dei Marlene Kuntz
sul palco) e Marta Mattalia. Arrivati
al terzo Ep (Autoprodotto, 6.7/10)
virano verso sentori da new-wave
siderale e metropolitana (l’interpoliana Marta è morta su Marte), vestendola d’abiti alteri e raffinati ma
perdendo qualcosa in quanto a forza comunicativa, pure quando ne Il
piccolo fratello (con Luca Bergia alla
batteria) vagano fra i languori vigorosi degli ultimi Marlene. Tuttavia la
loro è una ricerca pregna di dignità e
passione, il prossimo passo – decisivo – potrebbe riguardare il coraggio
d’essere anche lievi. Crooner della
metropoli precaria, indole scanzonata di un Sergio Caputo che prova
la zampata Paolo Conte, a Davide
Zilli viene soprattutto da fare una
proposta. Ovvero: viste le jazz ballad traballanti sugli obblighi abitativi
dei trentenni e oltre nel suo Coinquilini (Corte Manlio, 6.7), viste le
bosse in smoking e scarp del tennis
de I compiti delle vacanze e il leggero
brivido costelliano di una calligrafia come Nel vagone meno affollato,
perché non concretizzare davvero la
promessa di Jazzabestia messa poco
dopo la metà di questa sua prima
prova? Aggiungendo martellate pia-
nistiche tipo Dresden Dolls e un
po’ più di sangue sull’asfalto il gioco
potrebbe essere fatto, e potrebbe
essere parecchio interessante. D’altro canto un verso come “la vita
moderna non perdona / ci godiamo la
vista sul mcdonald” non vi fa immagine un Brondi in overdose dixielandcabaret?
Frutto dell’esperienza di musicisti già attivi in altre realtà piuttosto
affermate del circondario modenese (tra cui i Fragil Vida), gli Eleven
Fingers se ne escono con un Ep
d’esordio in bilico tra folk e indie
americano di frontiera. We lost
Everything Just To Find Ourselves (autoprodotto, 6.8) recita il titolo del disco, tanto per chiarire
che le malinconie suffuse un po’ à
la Kings Of Convenience (White
Boots) e un po’ à la Sparklehorse
(We Fall In The Sea) che ci trovate
dentro sono affare piuttosto serio
e non il parto di qualche emulo in
vena di riciclo. Chitarre, pianoforte,
batteria, basso e tromba e un suono
equilibrato figlio dei particolari e di
un eleganza formale che non scade
mai nella maniera. Per una ventina
di minuti crepuscolari e intensissimi.
Di tutt’altro genere l’immaginario
preso in prestito dai torinesi Carbona Abusers e dal loro “bubblegum’n’roll”. Un misto di garage in
stile Nuggets e beat nostrano anni
Sessanta con qualche richiamo a una
psichedelica di facciata (Bolle) che
suona convincente e tutto sommato
originale, considerate le premesse.
Rosa, come la copertina di questo
Cicles (autoprodotto, 6.8), per richiamare con il titolo il nomignolo
utilizzato dai “ggiovani” per riferirsi
ai chewingum. Dettagli che la dicono lunga sul target anagrafico e le
reali intenzioni di una formazione
perfettamente a suo agio tra coretti
irresistibili, testi ironici e pestare di
batteria.
Ci hanno favorevolmente colpito i messinesi Marika e i Milioni
di Muschi visti live in recentemente in Sicilia, per la resa teatrale e il
loro indie venato di umori sparsi, tra
folk-rock d’oltreoceano e sapori di
chanson francese. Su tutto, un’ ironia
contagiosa che li caratterizza e finisce per essere il loro punto di forza. “Ci piace l’idea di narrare le nostre
storie, i nostri piccoli ritratti e stralci di
vita sognata” così autocommentano,
e proprio i loro bozzetti diventano
l’occasione per racconti surreali e
spesso sopra le righe. Nei momenti
più percussivi ci hanno ricordato Il
Pan Del Diavolo e la tradizione
cantautorale nostrana anche recente; su disco (omonimo, autoprodotto, 6.8) si stemperano in favore di un
songwriting più pacato e variegato.
Rimanendo ancora sul filo dell’ironia, ci spostiamo tra Siena e Roma
per incontrare i Mitici Gorgi e il
loro elettro punk irriverente. Forte
di due voci femminili ben amalgamate, il gruppo si muove essenzialmente su territori di new wave Ottanta
italiana e non solo, ripercorrendo
quei lidi con una verve tra l’acido e
il destabilizzante. Il risultato, nel primo album (I Demoni part.1/2, 7.0)
è apprezzabile per il mix riuscito di
musica e parole, e nel suo genere
funziona molto bene, snocciolando
una serie di performance tra il divertito e il divertente. Scatenati e
promettenti.
Stefano Solventi, Teresa Greco,
Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti
95
Rearview Mirror
—speciale
Alan
Vega
P rologo
Suicide
Martin
Rev
Suicidio. O far voltare pagina a tutti
A ridosso della loro unica data italiana, raccontiamo
da capo la storia di Alan e Marty partendo dall’inizio.
Dalla loro NY
96
Testo: Gaspare Caliri
New York City, inizio Settanta. Una città allo sfacelo, degradata. La culla dell’arte – scelta da colui che più
di ogni altro ha influito sull’arte del Novecento, Marcel Duchamp, quando ancora la città era poco più che
provinciale, ma già curiosa; la patria del delirio e della
libertà architettonici, descritto retroattivamente come
un manifesto da Rem Koolhaas; il sogno ricorrente di
ieri e di oggi, in quel momento vedeva – in superficie
– un momento di implacabile deterioramento. È poco
più di un ragazzo Alan Vega quando ci arriva, nei primi
Seventies. Deve trasferirsi di continuo, costretto alla fuga
da gang locali e piccoli poteri e pericoli di quartiere. Si
ferma a SoHo, il quartiere delle gallerie d’arte, del resto.
Allora come sempre, NYC faceva a gola a un aspirante
contemporaneista. Alan aderisce prima all’Art Workers’
Coalition, gruppo socialista di militanza artistica, in quegli
anni molto “in” – così come quel Che Guevara che poi
diventerà protagonista del brano che chiuderà il primo
album messo a segno da Alan. Poi fonda il Project of Living Artists, sempre a SoHo. Un posto dove si andava per
aggirarvisi. Vega – che si faceva chiamare, come artista,
Alan Suicide – confezionava sculture – prima in plastica
trasparente, poi con luci al neon, premessa dell’epilessia
che riuscirà a comunicare a breve, con la musica.
Un giorno nei locali dei Project arriva questo strano
personaggio bianco con la pettinatura afro. In questo episodio forse si condensa tutta la capacità di una città che
fa da catalizzatore. Bastava – basta? – andare nei posti e
stare lì. Frequentarli. Poi le cose accadevano. In quei mesi
Alan già pensava a creare una band o qualcosa di simile.
Iniziò a suonare con un certo Paul, detto anche Cool P.,
chitarrista. Al provava a buttare aria dentro un sassofono
– che ha poi abbandonato, ma grazie al quale imparò a
tirar fuori la voce dallo stomaco, non dalla gola, e quindi
a urlare (per trent’anni) senza devastarsi le corde vocali.
Non possiamo che pensare al grido che dopo qualche
anno si sarebbe materializzato nello strazio di Frankie
Teardrop, il prototipo di un modo di esprimere il dolore,
l’angoscia, la sofferenza di un suicidio, e ovviamente l’impatto musicale.
La voglia di band non era affatto uno sfizio d’artista.
Si capì presto che divenne l’opzione necessaria, per Vega.
Qualche anno prima, egli ebbe la prima avvisaglia delle
potenzialità del rock in un concerto degli Stooges che
gli cambiò la vita. Iggy Stooge si buttava dal palco, era indemoniato: su di lui Lester Bangs cucì il termine “punk”,
usato forse per la prima volta con quell’accezione che
poi avrebbe dominato il mercato dizionariale. Alan ha gli
occhi bene aperti: capisce che, per quanto lo stage diving
e la carica di Iggy siano arte relazionale allo stato puro e
della più efficace, il suo compito sia provare a fare altro. E
che però forse vale la pena di restare dentro a quel vago
contenitore chiamato rock.
Per il primo concerto dei Suicide, all’OK Harris
(inizio ’71), Alan scrive sui volantini “Messa di Musica
Punk”. Nel frattempo nella band si è insediato anche
Rev. Inizialmente Vega suona anche le parti elettroniche, ma dopo aver intuito il talento di Marty gli lascia
il campo. Si dedica al canto, e gli viene quasi naturale
trovare una versione cataclismatica e ansiogena delle
voci rock’n’roll che ascoltava da bambino (di nascosto
dai genitori, cultori “colti” della musica). In primis Elvis,
come da copione, e tutto il rock anni Cinquanta, lo
psychobilly che poi Alan continuerà a seguire anche nei
suoi dischi solisti: innanzitutto nel trittico Alan Vega,
del1980, Collision Drive, di due anni dopo, e Saturn
Strip, dell’83, con Rick Ocasek dei The Cars, ormai
compagno di etichetta alla leggendaria ZE Records.
Una sinergia, quella tra Suicide e ZE, di cui abbiamo una
recente testimonianza nella compila sui trent’anni della label mutante curata dai soliti cercatori d’oro della
Strut, dove compare una versione distesa e prodotta
in punta di dita (ancora da Ocasek) di Keep Your Dreams (già sulla ristampa francese Celluloid di Suicide, del
1980), qui intitolata Dream Baby Dream (Long Version). I
Suicide a fecero da apripista per i no-wavers e per tutto ciò che ne conseguì. La stessa Lydia Lunch venne
quasi adottata da Marty Rev. Ma, tornando ai precedenti, c’è ancora molta strada da fare, per i Suicide, per
la città, e per la storia del rock, prima che si arrivi agli
episodi mutant disco e all’inquadramento di Vega/Rev
nei correntoni post-no wave.
Qualche anno prima del ’77 i Suicide si chiamavano
ancora Satan Suicide (come il titolo di un album del
fumetto Ghostrider, il cerchio che si apre e si chiude…).
Martin Rev aveva recuperato una drum machine da accatto, di quelle usate per fare le basi ai matrimoni, e decise subito di portarla alle massime conseguenze. Paul,
Alan e Marty si lanciano in tempeste di improvvisazioni,
chilometri di musica da cui inizia ad affiorare qualcosa.
L’astigmatismo è ormai corretto. Dal vortice di creatività newyorchese è pronto un capitolo fondamentale. Nel
fondamentale contesto di riferimento tutte le precondizioni sono pronte per sfornare un discrimine fondamentale. Prima Cheerie, poi Ghostrider, poi tutti gli altri pezzi
che confluiscono in Suicide, licenziato nel Settantasette
dalla Red Star. Formalmente un esordio, di fatto una risultante di quelle condizioni, di anni di lavoro, di una pagina voltata per sempre.
97
In
sella ai fantasmi metropolitani
Riguardo alla ricezione e all’accoglienza che i Suicide ebbero, da parte del pubblico, esiste ormai da anni
una vulgata, nata probabilmente a partire proprio dalla
ri-pubblicazione del dirompente disco d’esordio su compact disc, anzi in doppio CD, a fine Novanta. Sul CD1, la
versione estesa di Suicide. Sul CD2, un live al CBGB’S del
’77 e il celeberrimo brano 23 Minutes Over Brussels, che fa
il paio con il contenuto scritto del booklet – un’intervista
a Vega e Rev del ’96, fatta dall’ex manager Marty Thau,
della Red Star Records. Trattasi del concerto del 16 giugno 1978 in cui Al e Marty aprivano per Elvis Costello,
in un inspiegabile binomio ottenuto da Thau. La registrazione testimonia della rissa che i due provocarono nel
locale, e di cui pagarono le conseguenze. Eppure questa
storia non parla di una prerogativa dei Suicide, di un loro
tratto distintivo.
I pomodori (quando andava bene) che ricorda Alan
Vega hanno investito tanti – tutti? – i no wavers, e prima
ancora accompagnavano con costanza i Velvet Underground, quando portavano in tour Velvet Underground
& Nico e registravano in concomitanza White Light/
White Heat. Certo, Vega racconta persino di un’ascia
che lo sfiorò a Glasgow, nel ’78, mentre aprivano per i
Clash – cosa di cui non si accorse lì per lì, ma che gli
confessarono anni dopo i Jesus And Mary Chain, tra il
pubblico quella sera. La questione era però evidentemente di pubblico: la follia di associare Vega e Costello non è
tale, è uno stimolatore di tensione che serviva all’adrenalina di quei concerti dirompenti del duo Vega / Rev. Il
pubblico, incapace di accettarne le istanze concettuali, e
forse meno l’assenza di una chitarra, era parte della performance.
Ciò che però risulta ancor più straordinario, a chi
scrive, è la carica che il disco d’esordio di Alan e Martin riesce ad avere nei confronti dell’ascoltatore di oggi,
quello ben disposto, cosciente, autocosciente e in qualche modo “esperto”, abituato alla musica postatomica ed
epilettica. Nella formazione musicale dei Duemila (come
fu nei Novanta) Ghost Rider e co. sono ancora un discrimine fondamentale. Un taglio netto tra prima e dopo.
Ma lo furono, in generale, anche in quel ’77, di per sé già
affollatissimo di capolavori e di dischi che cambiarono le
carte in tavola, anche nella stessa NYC (Marquee Moon,
’77...) così come in USA in generale (The Modern Dance…).
Nella stessa carriera dei Suicide, tutto quello che è
stato fatto dopo a Suicide appartiene a un altro discorso,
a un discorso sul post-qualcosa. Di conseguenza, è molto
più sensato ascoltare e analizzare American Supreme
- disco del 2002 che ha segnato il ritorno del duo sul
98
mercato discografico – confrontandolo con tutto ciò che
venne a partire da Alan Vega / Martin Rev (Ze, 1980) in
poi. Le cadute di stile dei due – da soli insieme – o le produzioni nuovamente interessanti sono tali in un circuito
che si riferisce ai Suicide del dopo Suicide.
Come dice Simon Reynolds, “il punk aveva ripristinato lo status del rock come centrale elettrica della cultura
moderna”, e i Suicide lo riassunsero e fecero un “archetipo
della collisione newyorkese tra arte e rock”. I 7 pezzi del
first album ebbero una capacità di sintesi folgorante, una
formula perfetta stupefacente, perché ottenuta alla prima
manifestazione.
In realtà conosciamo come tutto questo derivi da un
processo precedente, già parzialmente descritto. Il “Big
Bang” in cui i (tre, inizialmente) Suicide passavano le giornate in infinite jam session da cui piano piano presero
forma le canzoni. Chi ha avuto la fortuna, recentemente, di sentire un concerto dei Talibam! (guarda caso,
altri newyorchesi), forse avrà l’avvisaglia di un paragone
da tentare. Sentendo dal vivo il duo di Kevin Shea e Matt
Mottel, si ha proprio l’impressione di un turbine free-jazz
da cui ci si aspetta da un momento all’altro che maturi un
“brano”.Tutto nei Talibam! avviene però nella dimensione
dal vivo. Il marasma, la formazione dei pianeti e delle orbite, il Big Bang successivo. I dischi di Shea e Mottel sono
una riproposizione di questa dinamica. In Suicide, invece,
la sintesi significa l’estrazione di una crème lancinante,
che garantisce elementi separati tra loro. Forme isolate.
Canzoni. Tutto registrato in una sola sera, quasi integralmente in presa diretta, e poi missato per decine di giorni,
nella direzione che ormai si era intuita come la migliore
e la più efficace.
È la possibilità di un discernimento – da parte del pubblico – una delle chiavi per capire i Suicide. I pomodori
e i tomahawk venivano lanciati perché il pubblico forse
sentiva che era a un passo dal capire, ma voleva solo fare
il pubblico. Il fatto di non avere di fronte una chitarra,
un basso e una batteria era giustificazione sufficiente
per incaponirsi sui due allampanati alieni. Alan e Marty
non cercavano una nicchia da cui essere compresi, ma
il limite di accettabilità di un certo overground. Lavoravano sull’immaginario. Provarono successivamente – dal
secondo album – ad affrontare le atmosfere più morbide
del synth pop, che in realtà avevano contribuito a creare.
L’effetto fu, da lì in poi, tutto uno sguinzagliare di generi:
synth pop, appunto, ma anche techno, psychobilly, rockabilly, furia trance. Da dinamiche d’artista a dinamiche arty.
La confezione dei Suicide post-Suicide divenne leggibile
negli ingredienti, anzi: l’impatto veniva dopo gli ingredienti, e con essi si leggeva subito anche la data di scadenza.
La
nostra vera nostalgia
Si fanno spesso discorsi sulla creatività in musica, e
altrettanto di frequente essi portano a parlare della musica che fu e dell’incapacità della musica che è di essere
incisiva come la musica che fu – con una serie di incisi
che potrebbero essere assolutamente infiniti. L’universo
di ciò che chiamiamo nostalgia del passato (patologia immensamente diffusa nella critica musicale, più di quanto
si creda) trova nei Suicide l’appiglio per un’analisi. Con
i due di NYC è pensabile una spiegazione – che li accomuna a Throbbing Gristle, e che in generale è forse
uno dei grandi lasciti del post-punk, su cui riflettere, ora
che la storicizzazione del post-punk è a sua volta storicizzata.
Ciò che fu particolarmente caratteristico di quel periodo non è tanto che i musicisti venissero dalle scuole
d’arte (o meglio, è un tratto caratteristico, ma in sé non
spiega nulla), ma che molti musicisti, prima di diventarlo,
dovendo decidere una forma d’arte al passo coi tempi, incisiva, caparbia, innovativa, scegliessero la musica (il
rock, in senso lato). Questo oggi non accade più, anzi,
non più a un livello tale per cui il risultato possa parlare
a tutti – pur trovando le sue nicchie, ma con un tale
impatto (anche qui, tipico del post-punk) capace di comunicare qualcosa a tutti.
Forse la nostra vera nostalgia dipende dal fatto che
oggi gli artisti non scelgono più di fare musica pop, ma
si dedicano – e abbiamo tanti casi anche in Italia – al
noise, all’elettroacustica, cioè a generi che, per quanto
non lontani dal punk per approccio incompromissorio e
disinvoltura, rimane comunque legata indissolubilmente
alla musica colta. Allora non c’era assolutamente questo
legame.
Anche allora Arto Linsday e Mark Cunningham,
per menzionare due pilastri della no wave, venivano dal
teatro sperimentale, dalle arti performative. Ma capirono l’entità del rock e tentarono questa via, senza più
uscirne. Cosa che in questi anni capita assai meno. Detto
questo, è inutile cercare di capire se è colpa dei musicisti,
degli artisti che non scelgono più la musica, del mercato
musicale, o del suo pubblico, che sarebbe meno ricettivo, incapace di accogliere la creatività. Come sempre
c’è un concorso di cause; farsi certe domande è come
ripristinare l’assenza di via d’uscita di certi quesiti: è nato
prima l’uovo o la gallina?, e chi controlla i controllori?
Perché oggi ci sono solo cloni? E gli artisti che fine hanno
fatto?
Certo abbiamo delle eccezioni, per esempio il nostrano Nico Vascellari con la sua neonata etichetta Von
– epperò il Vascellari è arrivato e non partito dall’arte
contemporanea, e adesso percorre entrambi i sentieri.
C’è poi la parabola dei Pan Sonic. I due finnici – che
girano anche nel circuito dell’arte contemporanea, come
sappiamo – sono sicura progenie dei Suicide. E lo sono
non solo alla luce delle tante collaborazioni (desiderate
dai due nordici, viste con affetto da Alan), così come del
live recentemente avvenuto con Martin Rev che apre
per l’ultima tournèe del duo di Kulma. I Pan Sonic hanno
geni di Marty e Al come dei Throbbing Gristle, che a loro
volta scelsero la musica, a partire da un percorso artistico già ampiamente avviato, convincente, riconosciuto
già all’epoca, con un percorso proprio. Per quanto producessero suoni indigeribili, quella di Genesis e co. era
musica che usciva in UK, in qualche modo pensata per
urtare un bacino di utenza, non per assecondare i gusti di
una nicchia. Un approccio di stima di un impatto, ancora
una volta, di spostamento e scuotimento di immaginario,
che per molti è la base dell’arte contemporanea.
Cose a cui già si è accennato. Ma è bene ribadirle.
Anche perché ci fanno pensare all’attualità, e al motivo
per cui si è deciso di rileggere e ridiscutere dei Suicide,
in pieno 2010. C’è alle porte, ovviamente, il concerto di
rinnovata reunion del duo. E c’è la sicumera del pubblico
dei club indie che andrà a rendere omaggio a loro santità elettro-psicoattiva. Il live del locomotiv di Bologna
poco meno di due lustri dall’ultima apparizione del duo,
stessa città e club a sua volta leggendario (il Link). Nella
differenza tra i due contesti di ricezione vive un po’ il
divario che sta dietro alla nostra vera nostalgia, inscindibile dalla chiusura e auto-consapevolezza del mondo
underground odierno. American Supreme rinfocolò il
mito della no wave e del post-punk arrivando fino al Dj
Hell di N.Y. Muscle.
L’indie odierno come accoglierebbe un nuovo lavoro
di Al e Marty? Nello stesso modo in cui accoglie i loro
live, probabilmente. Un discorso tra intimi (stesso dicasi
per Stigmata, ultima fatica del solo Rev). Una spaccatura
tra condivisione e propria coscienza. Eppure la spaccatura è congenita ai Suicide. Hanno diviso, creato catastrofi
che allontanassero i poli di una categoria. Questa è la
loro storia.
99
(GI)Ant Steps #41
classic album rev
Ornette Coleman
Talking Heads
Free Jazz (Atlantic Records, Dicembre 1960)
Fear Of Music (Sire, Maggio 1979)
A cinquant'anni dall'esordio sulle scene musicali, a
quattro dall'ultimo album in studio, Ornette resta un
grande mistero. Probabilmente a torto, sia chiaro. Carattere timido, sguardo tenero, notevole - ma innocuo curriculum di stranezze artistico-biografiche (il sassofono di plastica bianca, la fissa per il violino, l'abbigliamento
spesso e volentieri infantilmente bizzarro), eternamente
incapace di spiegarsi a parole anche quando interrogato
su quella che pure considera la sua più grande invenzione: Franco Fayenz ha sbobinato i discorsi di Ornette
sull'armolodia, concludendo che si tratta di un'accozzaglia
di mezze teorie musicali, tutte per altro già note prima
di lui. Probabilmente il padre del free jazz è davvero la
personalità naïf che sembra essere, un placido ma determinato eccentrico, "quello che suona sbagliato" (la
definizione è di Mingus), che ha avuto la giusta intuizione
e - soprattutto? - la giusta dose di testardaggine per perseguirla e svilupparla, de facto, in un mondo che lo ha a
lungo reputato, a seconda dei casi, un pazzo, un incapace,
un fallito, un truffatore (esattamente come era capitato a
quel pittore il cui White Light campeggia opportunamente
sulla copertina del disco in questione: Jackson Pollock).
è stato invece - inconsapevolmente? - uno dei pochi veri
rivoluzionari del jazz: semplicemente, il propugnatore di
una sensibilità musicale diversa. John Coltrane era affascinato da quello che suonava Ornette, ma non lo capiva.
Solo dopo qualche anno di frequentazione e di pratica
si convertì al verbo free e, in coincidenza con le session
del suo magmatico Ascension (fortemente debitore di
questo Free Jazz colemaniano), spedì a Ornette un telegramma con dentro trenta dollari, tangibile segno di
riconoscenza.
Tra i titoli lanciati come proclami dal sassofonista
texano tra fine anni Cinquanta e i primissimi Sessanta
(Something Else!!!!, Coleman Classics Vol. 1, Tomorrow Is the
Question!, The Shape of Jazz to Come, Change of the
Century, This Is Our Music, The Art Of Improvisers), questo è
100
certamente quello più programmatico, fortunato, importante, non il più bello: Free Jazz, con la sua unica traccia
lunga quaranta minuti, è il primo album di sola improvvisazione della storia. Ornette si autoassegna la corona
di primo equilibrista jazz a percorrere il filo senza rete
(il supporto armonico), manda alle ortiche il pianoforte
e organizza una battaglia tra due quartetti fortemente
orientati in senso percussivo, lambendo le soglie dell'atonalità. Lui guida la formazione con Don Cherry alla pocket trumpet, Scott LaFaro al contrabbasso e Billy
Higgins alla batteria (e che sta sul canale sinistro dello
stereo); Eric Dolphy, al clarinetto, quella con Freddie
Hubbard alla tromba, Charlie Haden al contrabbasso
e Ed Blackwell alla batteria (sul canale destro).
Il free è uno dei modi musicali più largamente fraintesi
(e banalizzati e traditi), ma solo uno sciocco può davvero
pensare che quello che c'è qui dentro sia rumore disorganizzato: è esattamente il contrario. Free Jazz è libertà
delle trame melodiche - ispide, arruffate, grumose quanto si vuole - che si intersecano, nell'alternanza tra parti
scritte - e sono i momenti di unisono che ritroviamo
sottolineati nella First Take pubblicata nelle ristampe cd e parti improvvisate, con gli strumenti che si rincorrono
sopra una base ritmica perennemente fluttuante. Sgraziata eleganza. Ma si swinga molto, a tratti, e così pure
si sente chiaro e forte da dove venga Ornette (blues e
bebop) e dove cercherà di andare (la contemporanea),
con profezie sonore quasi incredibili, eppure incredibilmente vivide, innegabili: si sente chiaramente il Captain
Beefheart di Trout Mask Replica.
Come le tele di Pollock, Free Jazz non si chiude: comincia
e finisce - dopo un solo di batteria - con lo stesso schizofrenico e sinistro tema, che resta però come sospeso.
Proveranno altri a chiuderlo, goffamente, figli degeneri.
Se oggi si osserva nel complesso l’opera delle Teste Parlanti, appare evidente come ogni disco rappresenti una
sorta di “reazione” al predecessore. Quasi si trattasse
di un continuo rispondere per via sonoro e testuale
nell’ambito di un’altrettanto perenne messa in discussione del progetto. Cosa che oggi i gruppi non fanno
(quasi) più, vuoi perché non ne hanno il coraggio e vuoi
perché l’industria discografica allo sfascio non glielo consente. In tal senso si può, al di là delle questioni stilistiche,
tracciare un sensato parallelismo con i Radiohead, con
una tensione che peraltro ha sinora indagato in maniera
assai simile l’alienazione dell’individuo. E che viene fuori con una robustezza a tratti feroce in Fear Of Music,
pannello mediano del trittico allestito in combutta con
Brian Eno. Il quale, retroterra e interessi affini a David Byrne, arrivava da un’altra trilogia, quella berlinese
bowiana, portandosi dietro metodi poco tradizionali e di
conseguenza perfetti per colorare una tela sino a quel
momento interessante e con tutto ciò monocromatica.
Se More Songs About Building And Food nacque da brani in
buona parte vecchi di due anni ripresi in diretta per restituire l’impatto sonoro dei newyorchesi, qui è il senso
critico a farla da padrone. Rivolto verso il mondo che
cambia e non in meglio, verso ipotesi di successo planetario da gestire oculatamente, verso rischi (evitati) di
autoreferenzialità.
E verso la musica medesima, infine, della quale - come
annuncia un titolo programmatico come pochi altri - si
“ha paura”. Perché sono true stories, queste composizioni
favolose che accomodano dallo psicanalista il caos quotidiano e ne cavano ragionamenti foschi, che rispecchiano
una fine di decennio in cui le certezze svaniscono e il
domani è da vagliare. Impadronitisi dei meccanismi creativi e formali della canzone, i Talking Heads li smontano e
ricompongono con inedite fattezze, mettono in disparte
la souledelia e il funk candeggiato, si gettano a capofitto in
materiali totalmente nuovi quanto a scrittura, trasformano tortuosità e titoli laconici in magia dalla scorza dura.
Apri l’ostrica e dentro trovi soltanto perle abbaglianti: visioni d’Africa con Robert Fripp (I Zimbra) e fisicità dissonante (Mind); trappole che imprigionano i sixties (Air,
Paper) e la negritudine (Animals, Cities); Roxy Music in
paranoia kraut (Memories Can’t Wait) e inni paradigmatici
per le nuove generazioni (Life During Wartime). Quanto
serve per entrare nella Storia e lasciarvi il segno, a farla
breve, salvo uscire dalla porta sul retro e indicare vie
nuove (ancora!) con i vapori incubotici di Drugs e lo spleen ironico di Heaven. Interrogativi che emergono ovunque e dopo tre decenni non smettono di inquietare, di
fungere da stimolante per il cervello. Non fosse altro che
per quegli oscuri paesaggi da “vita in tempo di guerra”
in cui ti scopri giorno dopo giorno a vivere. Preconizzati
in questo preludio a un altro Capolavoro di ultraterrena
trascendenza chiamato Remain In Light
Giancarlo Turra
Gabriele Marino
101
Top of the pop.
Festival internazionale | 8° edizione
Bologna, 30 ottobre - 6 novembre 2010
www.genderbender.it