digital magazine settembre 2010 SUICIDE Alan Vega e Martin Rev Zola Jesus tutte le sfumature del nero THE N.71 BOOKS linguaggi universali Uochi Toki carta d'identita di un'esperienza wire Four Gang ofseconde vite THE 71 Sentireascoltare n. Turn On p. 4 Heraclite 5 Lost in the Trees 6 Shit Browne 7 Street Drinkers 8 The Daredevil Christopher Wright 10 Nondor Nevai 12 Top Surprise Tune In 14 Zola Jesus 17 Uochi Toki Drop Out 20 the Books 26 the Wire/Gang of Four Recensioni 36 Arcade Fire, Uoki Toki, Zola Jesus... Rearview Mirror 96 Suicide Rubriche 92 Gimme Some Inches 94 Re-boot 100 Giant Steps 101 Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco. Staff: Leonardo Amico, Marco Boscolo, Giancarlo Turra, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Fabrizio Zampighi, Andrea Napoli, Marco Braggion, Filippo Bordignon Guida 2 In spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) the Books G irando per il sottobosco si incontrano sempre belle sorprese. Dalla Francia, terra di math e noise-rock (da Deity Guns a Chevreuil e Passe Montagne) ma che ultimamente ci ha stupito con proposte fuori target come gli Shit Browne, arrivano gli Heraclite, collettivo intento a immortalare follia ritmica e slancio filosofico. Svizzeri, fiamminghi, francesi e greci non solo di sangue, ma anche di parole, i sei apolidi del rock – Gautier Degandt (voce), Nene boom boom (sax), Yan-Ulysse (percussioni), Elie Panzer Cardinal (batteria), Murith de Burgoz (basso), Eric Collet (chitarra) – declamano i versi dell’avversario di Platone, Eraclito appunto, su un tessuto ritmico incessante, cerebrale e muscolare. La base di partenza è una sorta di no-funk in cui confluiscono la spregiudicatezza della no-wave e gli slanci tribali e avant, in pratica come dei Black Eyes sotto tranquillante con in più un leader che declama, cantilena, sussurra e grida in greco antico. Eraclito è come il funambolo estremo Philippe Petit che cammina tra le torri gemelle per il suo compleanno. Un criminale per alcuni, un demiurgo per altri. Afferma Nene, cui fa 4 Lost In The Trees Turn On Turn On Heraclite —Filosofia, fango, rumore e tribalismo...— —Terapia pop— Un collettivo multietnico che fa del groove la sua forza e delle parole del filosofo greco Eraclito il suo moloch. Dalla Francia, gli Heraclite, a breve in tour in Italia. Tra autoterapia e musica, l’universo chamber folk pop di Ari Picker dei Lost In The Trees… eco Gautier, voce e “paroliere” della band: Alcuni sostengono che Eraclito fosse il primo punk, altri un pazzo coperto di fango; per me era il settimo membro di una band apolide del 21simo secolo di cui tu conosci l’autore delle liriche. I transalpini si servono di Eraclito come materiale musicale vivente. Ci dicono che il greco antico è la musica più vicina al rituale, parola quest’ultima che ritorna spesso all’ascolto del loro esordio omonimo che trae origine da un mix di “work songs, blues, industrial, post-punk e afrobeat” che genera, come tengono a sottolineare, il tribal groove. A loro, infatti, importa soltanto di trance e groove, musica che parli al corpo e che si capisca con gambe e chiappe: La nostra musica è una grande, dionisiaca danza coi Neubauten in costume da bagno, James Chance felice, James Brown blue, Leadbelly in vacanza, Fela Kuti col fidanzato Ligeti e Nick Cave coi baffi (come? ce li ha?). E tutto questo per arrivare alle parole, quelle potenti e magiche di Eraclito, il moloch dal quale tutto è partito e al quale tutto ritorna. Stefano Pifferi C i sono artisti che spingono all’estremo autobiografismo e arte, facendoli quasi coincidere, trasfigurandoli in album molto personali. Una forma sia di autoterapia che di espressione artistica, che conta da sempre innumerevoli esempi: l’ultimo nel quale ci siamo imbattuti è il songwriter americano Ari Picker, fondatore dei Lost in the Trees, da Chapel Hill, North Carolina. All’esordio su Anti- con All Alone In A Empty House, già uscito sulla piccola Trekky Records, Ari e il suo ensemble chamber folk pop combinano, come già da un paio di dischi a questa parte, musica classica e folk americano rielaborato e stratificato con il pop e l’indie. Il Nostro, di rigorosa formazione classica, autorinomina Orchestral Folk Music il gruppo, rilevando innanzitutto il suo naturale trasporto verso la composizione classica e svelando alcune cose: “La musica ha molti ruoli nella mia vita, il songwriting copre un lato umanistico, è un meccanismo di difesa nei confronti di relazioni difficili che ho vissuto nell'infanzia: cantare è un modo di lasciare andare certi conflitti; la parte classica ha invece una connotazione più spirituale”. All Alone In A Empty House (in recensioni) è prettamente il classico disco di formazione che vive di contrasti, lirico e drammatico, intimo e oscuro, urlato e sus- surrato e fa dell’espressività e della compattezza il suo punto di forza, come è giusto che sia in album di questo tipo. Ancora Ari: “Le lyrics della title track si riferiscono alla casa dove sono nato, ai rapporti conflittuali tra i miei genitori e a una serie di eventi reali, come mia sorella gemella morta alla nascita, la grave depressione di mia madre, abusi emotivi e sessuali… ho voluto condividerli per trasfigurarli artisticamente e trasformarli in qualcosa di positivo per chi ascolta”. Tra simboli, immagini e metafore, l’album procede tra tenui ed espressive sinfonie per archi e più tipici pezzi indie folk, un mash up che può rimandare sia a Bright Eyes – Conor Oberst sia a introspezioni alla Mountain Goats, Micah P Hinson e Neutral Milk Hotel, e in generale ad alcuni capisaldi di riferimento, da Astral Weeks di Van Morrison a Blue di Joni Mitchell, fino a Brian Wilson. “Ascoltavo alla radio le incredibili mini sinfonie dei Beach Boys, gli arrangiamenti di Eleanor Rigby, il modo in cui Atom Heart Mother si apre con una lunga suite orchestrale e si chiude con tre folk song… la musica confessionale di Joni Mitchell… in generale sono sempre stato alla ricerca di emozioni nella musica”. Un’altra possibile via verso l’arte in musica. Teresa Greco 5 —Madfrenchester— Learning from the Mondays. Wanking on the Roses. Copying the Charlatans. Licking the Carpets. Tra la Parigi di oggi e la Madchester dei primi 90s, ci sono gli Shit Browne T ra Francia e Inghilterra non è mai corso buon sangue. Così vicini, così lontani – Manica permettendo – ma troppo orgogliosi e pieni di sé per poter andare d’accordo. Per lo meno, fino all’Eurotunnel e all’apparizione sulle scene musicale degli Shit Browne, duo/ quintetto parigino d’adozione ma mancuniano fino al midollo che oltre ai fondatori Sebi e Benjamin conta anche su Denis, Hadrien e Tigrou. Tutti rigorosamente Browne di cognome. I ragazzi, in rigorose tute xl e capigliature ianbrowniane, costruiscono un ponte tra la suburbia parigina (e il suo melting-pot culturale e meticciato) e l’Hacienda di madchesteriana memoria: l’esordio Every Single Penny Will Be Reinvested In The Party. Un caleidoscopio sotto xtc di sonorità baggy ed effluivi brit, pompamenti dancehall e produzione Primal Scream. E la domanda, che sorge spontanea, viene recapitata loro via mail seduta stante: perché? Cercando di trovare te stesso, affermano i cinque, capita di elaborare un sound che sia debitore dei tuoi ascolti. Noi non ci siamo limitati ad ascoltare solo Aznavour, ma anche le compilation di skinhead reggae, la techno di Detroit, Betty And The Werewolves, la Stravaganza di Vivaldi, Robert Johnson, la musica Chaabi, gli Slayer e via dicendo. Ci convince fino a un certo punto l’atteggiamento dello spocchioso combo transalpino, ma è quello che Brown insegna e che gli inglesi vogliono come certificato d’identità. Durante il piccolo tour albionico di quest’estate i nostri non sono stati picchiati, anzi NME li ha graziati. 6 In pratica, un mezzo miracolo ed è anche merito dell’ironia, quella che ci piace, farcita di riferimenti politici senza compromessi. Siamo internazionalisti e anarco-sindacalisti al midollo e non ce ne frega un granché della nostra frenchness. Abbiamo sempre ascoltato musica anglosassone, da buoni colonized kids. Molto più probabilmente, però, la vera ragione è la dipendenza da Marmite di Tigrou.(il tastierista, nda.) I francesini, strafottenti il giusto e addicted ad un sound maturo per essere non solo riesumato, ma ripensato, ci stanno dentro anche per questioni anagrafiche (Abbiamo tra i 25 e i 33 e alcuni di noi hanno vissuto quella stagione, anche se a dirla tutta la storia non è mai veramente finita. Il 2042 esiste già nel 2010 e il 1904 non è ancora completamente scomparso. Time stretching, bro!) e se la giocano senza timore coi presunti eredi rave’n’rollers e next-big-thing in salsa NME di quella mai dimenticata stagione. Ma dove finiranno i penny guadagnati con l’esordio? Vogliamo combattere la depressione, sconfiggere la ricerca della ricchezza materiale, creare sorrisi gratis e far scuotere le chiappe alla gente. Siamo per la musica rilassata, perché essere slow è antiproduttivo e l'antiproduttività è fica, perché non ce ne frega nulla dei valori di mercato. Siamo outsiders, siamo come Candido. La conquista e la colonizzazione di Marte sono anch'esse opzioni plausibili, ma in definitiva non vogliamo smettere di ballare sfattamente. Li vogliamo in Italia. Stefano Pifferi Street Drinkers Turn On Turn On Shit Browne —Il senso profano del sacro— Un nuovo adepto del culto di Goteborg C he la Svezia fosse un luogo propizio per il proliferare di progetti harsh e rumorosi, abbiamo avuto modo di notarlo svariate volte negli ultimi tempi. Con un occhio di particolare attenzione alla scena di Goteborg, infatti, non abbiamo mancato di seguire le tetre orme lasciate da acts quali Sewer Election e Ättestupa, per non parlare della label Release The Bats e del polivalente Utmarken. Ora, ad ingrossare le fila dell’agguerrita cloaca, si aggiunge Street Drinkers, sigla sotto cui opera in solo Viktor Ottosson dei sopracitati Ättestupa. Il Nostro muove i primi passi circa un anno fa: il tempo di spargere una serie di bozze premature su cassette in tirature carbonare ed è già il momento di prender parte alla compilation-manifesto Utmarken, con un pezzo (Daily Bread) che sembra sottratto alla scaletta di Filosofem di Burzum: una mistica ritualità ciclica per tastiere di terz’ordine che inducono in una sorta di trance subacquea. La voce poi è una nenia sommessa tra gli strati dei riverberi: ce n’è abbastanza per incuriosire i palati più esigenti del recondito sottomondo out. Ancora un paio di tape (una con i promettenti Lust For Youth in cui spicca l’imperiosa Chasing The Night) per mettere a fuoco le idee e si fa immancabilmente avanti Release The Bats che pubblica l’album split con Skeppet di cui abbiamo parlato da pochissimo. Riassunti discografici a parte, quello che ci preme sottolineare è l’atmosfera liturgica, quasi religiosa, che la proposta di Street Drinkers è in grado di sprigionare. Mentre il compagno d’armi Dan Johansson indaga le impervie vie del noise più belluino coi in suoi vari progetti (Sewer Election, l’abbiamo detto, ma anche White e Fantasy Sex), Viktor elabora soluzioni più contemplative, ma non per questo meno angosciose e angoscianti. Un tessuto sonoro a base di meste tastiere e oscure voci salmodianti, timpani marziali avvolti da una densa foschia sonica che conferisce un’aura di raccolta austerità, quasi fosse un cantico proveniente da un antico monastero sconsacrato. Tutto volto a veicolare un senso di sacralità ormai perduta e rinvenibile solo nelle trame di musiche ostiche ed incompromissorie. Di prossima pubblicazione è la compilation su cassetta The New Wave of Swedish Cosmic Music, per Kosmisk Väg, e se l’ombroso occhialuto continuerà a tenere così alto il livello dei suoi parti creativi non ci sarà che da gioire. Almeno per coloro che amano crogiolarsi nel sudiciume più asfittico, s’intende. Andrea Napoli 7 Turn On The Daredevil Christopher Wright —Zip indiefolk ‘00— Una band di provincia che riassume temi e stili di molte band targate ‘00. Dal Wisconsin, con entusiasmo, The Daredevil Christopher Wright Q uando si fa critica di qualcosa si parla spesso per opposizioni. In realtà, dopo aver citato il bianco e il nero, il bello sta nel surfare sul grigio, su quel limbo di mezzo dove avvengono le cose più interessanti. È con questo spirito che affrontiamo la seguente affermazione: i Daredevil Christopher Wright sono un prodotto della provincia americana, proprio quella che si oppone, se non altro per motivi geografici e urbanistici, alle grande metropoli e alle grandi scene cittadine degli Stati Uniti. La storia della band nasce cresce e si sviluppa nel Wisconsin, terra di progressismo posthippie, cibo organic e freddissime lande precanadesi: atmosfere country un po’ sinistrorse, diciamo così. Ma a Eau Claire, città dove i fratelli Jon e Jason Sunde sono nati e cresciuti, non è certo una cosa normale, per i kids locali, mettere su una band. Jon scriveva canzoni già al liceo; una volta al college, dopo uno show, conosce Jesse Edgington, percussionista, e i due iniziano a suonare insieme. Jason, nonostante la ritrosia dei fratelli a sentirsi legati con un progetto musicale, si presta a suonare il basso per un concerto del duo: i Daredevil Christopher Wright ricevono così il loro battesimo. 8 Nel 2005 esce il primo EP (dove, più o meno casualmente, il combo assume il nome di uno dei brani contenuti), per IBS Recordings. Un indie-folk come da tradizione, spruzzato da una vitalità acerba ma presente. I riferimenti sono tra le righe, ma col senno di poi già chiari: siamo a metà decennio ’00 e si inizia ad annusare, anche nella provincia americana, il gioco tra rock collettivo di oggi e di ieri (How to Get My Head, Parade of Tigers). Nello stesso anno, a Brooklyn, la famiglia di Akron sta approcciando coralità, indierock, synth e atmosfere da comuni hippie, per estrarne un classico dei nostri anni. Nel freddo Wisconsin non si è ancora pronti a suonare, ma prontissimi ad assimilare. Il processo di metabolizzazione cresce, si nutre di altri mostri sacri del sound zerozero… P rocesso di maturazione Nel frattempo Eau Claire si rivela una comunità artistica meno stagnante di quello che si potrebbe immaginare. I Daredevil si fanno conoscere, in quei quattro anni che separano il primo EP dall’esordio sulla lunga durata, e provano dal vivo gli esiti della propria maturazione. Gli ascolti seguono il polso del presente. I solchi dell’iPod di Jon suonano tanto i Beach Boys quanto Elliott Smith, Leonard Cohen come gli Animal Collective (eccolo, il mostro sacro), i Kinks come i Cryptacize. Di questi ultimi ravvediamo una comune innata capacità di sintesi, di assimilazione e riproposizione di un universo di suoni e riferimenti. Sarà questo il tratto caratteristico di In Deference To A Broken Back, in uscita a maggio 2009 per la Amble Down, label localissima, sempre di Eau Claire. Gli studi di canto classico (e un soffio imparentato coi portlandini Parenthetical Girls) fanno comparsa nelle prime note dell’album, senza ostentazione. Ciò che emerge prepotentemente è l’abilità riassuntiva del meglio dell’indie americano ’00. Lo faccio notare a Jon, temendo una reazione tiepida, e invece il Nostro si gongola di soddisfazione.“Mi lusinga molto la tua impressione. In effetti, abbiamo osservato molti avvenimenti musicali degli ultimi anni, e ci piace molto l’idea di incorporare in una band un mix di stili diversi. Amiamo sentirci senza regole e barriere. Proviamo a scrivere musica che si muova in mezzo a mille influenze, che non abbia un suono che ci faccia sembrare limitati o facilmente definibili. Non sto certo dicendo che sia facile per noi ottenere tutto questo”, ammette Jon, con modestia, “ma credo in tale approccio risieda il nostro programma di crescita artistica”. Con un tale atteggiamento, e con la gioiosità e le vocalità dei live (ancora figlia di Akron/Family), il trio conquista apprezzamenti nell’indie americano. The Daredevil Christopher Wright esce dalle distese del Wisconsin e raggiunge le mete principali del nuovo ricco folk del decennio post Novanta. “La nostra relazione con le scene musicali maggiori statunitensi si è notevolmente sviluppata negli ultimi anni. Siamo musicisti a tempo pieno da un anno o poco più e abbiamo trascorso almeno sette degli ultimi dodici mesi in tour. Abbiamo visto quasi tutti gli Stati Uniti, suonato molte volte a New York e una volta anche a LA. Siamo in realtà abbastanza vicini alle Twin Towns (Minneapolis e St. Paul), così come a Chicago, dove ormai abbiamo all'attivo moltissimi live. Però è anche vero che c'è ottima musica non solo nelle grandi città. Pensare che per essere un artista si debba stare a NYC o LA vuol dire minimizzare l'importanza di altri contesti. Io, per esempio, amo il Midwest e so che qui la qualità delle produzioni artistiche è molto alta. Sono onorato di poter far conoscere tramite la nostra musica questa realtà.” Non passa neanche un anno dalla prima pubblicazione e In Deference To A Broken Back viene ristampato per il mercato europeo (sempre dalla Amble Down, in collaborazione con Almost Musique). Il momento è decisivo: tour imminente nel vecchio continente e preparazione in corso del sophomore. Jon, Jason e Jesse, ci confessano, non sanno cosa aspettarsi dalla diffusione oltreoceano – ma sono emozionati al pensiero. Ciò che ci piace dei Daredevil è forse questo: entusiasmo palpabile, un sentirsi mai del tutto arrivati, la soddisfazione per la propria condizione – geografica, ma non solo – e una curiosità costantemente intatta. Se questa è la provincia, non possiamo che farci contagiare dal suo mood. Gaspare Caliri 9 Turn On Nondor Nevai —Bionic Kaleidoscope— Novello Julian Cope avant metallaro, Nondor Nevai ha unito heavy, classica contemporanea e fanta letteratura. Inevitabile con lui un incontro ravvicinato del terzo tipo... 10 C on Labyrintha, Nondor Nevai e il compagno Mick Barr spingevano la materia brutalprog di gentaccia come Pink & Brown e Lightning Bolt verso l’ignoto spazio profondo. Allora ci colpì quella miscela esplosiva di selvaggio free rock e di ipertecnicismo avant-metal dai risultati detonanti. Quella stessa carica che nei Lightning Bolt dell’ultimo album ha lasciato definitivamente il posto a una dimensione giocosa, presente sin dagli esordi nella band di Providence. Abbiamo quindi contattato Nondor, che questa collaborazione l’ha fortemente voluta ci siamo trovati di fronte il classico personaggio con la vita musicale divisa in due: un pre e un dopo una folgorazione che gli ha fatto trovare nel metal la massima espressione di una sua particolarissima idea della musica e del mondo. La prima parte della sua storia è ambientata alla Rhode Island School of Design dove, fino al 1992, il ragazzo soggiorna e studiacchia mancando di poco l’inizio dell’esperienza Fort Thunder (1995) e la nascita della Load Records (primi ‘00), il terreno da cui si svilupperanno realtà tra le più influenti dell’underground USA degli ultimi anni, sia in ambito musicale (Lightning Bolt, Black Dice, Prurient hanno tutti li almeno i loro esordi) che artistico (Forcefield, Paper Rad... e l’estetica giocosa e lisergica che a Providence ha il quartier generale). Quando ero studente a Providence spiega, non c’era affatto audience per l’avantgarde metal. Solo hardcore band come Drop Dead e The Wurst. E stranamente allora facevo una musica simile a quella che è stata celebrata in seguito con i Lightning Bolt... Il batterista se ne va dalla scuola di Design e dopo una breve parentesi nella città natale, NY, prende casa a Chicago nel pieno del no-wave revival, epoca d’oro per etichette quali la Skin Graft e la Bulb Records. Incontra Weasel Walter in una delle prime incarnazioni dei Flying Luttenbachers e i due diventano amici non solo per via di un comune spirito provocatorio, ma soprattutto per un’insana passione per il metal. Presto iniziano a suonare insieme e, tra i vari progetti minori che li vedono collaborare (vale la pena ricordare la brutal no-wave di Hatewave), registrano a nome The Many Moods Of Marlon Magas con un insospettabile Aaron Dilloway alla batteria, ancora lontano delle apocalissi targate Wolf Eyes. Nel corso di quegli anni, Nondor focalizza la missione sonica: un misto di heavy metal, classica contemporanea brutale (Xenakis, Ligeti), letteratura ed arte figurativa (William Gibson, P.K. Dick e Giger) mettendo finalmente le fondamenta alla classica gnosi sotto droghe lisergiche. Da ragazzo ascoltavo solamente industrial e elettronica e noi punk e industrial assholes sfottevamo l’heavy metal taggandolo come stupido e banale. Poi dopo un esperienza con l’LSD realizzai che il death-metal era la vera techno: la Techno Bionica. Ho percepito allora che un organismo biologico che fa arte come se fosse macchina era superiore a un organismo biologico che usa una macchina per mimare la biologia... Ogni cosa che ci circonda è un sistema di macchine, ed essere come una macchina significa imbrigliare le leggi della natura. La più erronea concezione dell’umanità è che la tecnologia sia antropogenica. Niente è antropogenico e niente è creato. Così puoi scegliere di usare una macchina per produrre arte o essere quella macchina che produce arte. La rivelazione è di quelle à la Julian Cope e simile è quel che ne consegue: da un certo punto in poi – dal suo album Wooden Music Machine (aliene sonate registrate con un piano automatizzato) poi il progetto UNDRSKOR (batteria ed archi) fino al duo con Mick Barr - il batterista è alla ricerca in musica di quel certo “bionic feeling”. Nel 2004 a Washington DC Weasel condivise una data con gli Orthrelm e mi disse di questo brutalprog duo e la loro "musica perfetta". Quando ho ascoltato qualcosa è stato come se quello che era nella mia testa fosse stato immediatamente trasmesso, ho capito subito che Mick era il mio chitarrista.Weasel mi diede il suo numero e io lo chiamai parlandogli eccitato di questa nuova forma di extreme metal non-ripetitivo che stava scalciando nella mia testa e invitandolo nel West, ad Oakland dove mi ero appena trasferito. Barr raggiunge Nondor in California ma il nostro è ancora troppo invasato per combinare qualcosa di buono e così il chitarrista ne approfitta per stringere altri mani e strumenti aprendo una parentesi con i più preparati Flying Luttenbachers e Zack Hill. Ero ancora nel massimo dell’heavy metal lifestyle, ci scrive. Non dormivo per giorni, giravo porno amatoriali e suonavo la batteria a tutte le ore. Suonò con loro musica per cui io lo avevo importato, ma senza di me!, ci maiuscola divertito. è questione di tempo. Quando i due finalmente prendono le misure nascono Rhapsodik Bitonality, cinque pezzi in bassissima fedeltà pubblicati in mp3 per la netlabel Brutalprog, un Cd-R per ugEXPLODE, Rainbow Supremacy, e infine Labyrintha, decisamente il migliore sia per qualità di registrazione che per contenuti. C’è un ineffabile spazio comune tra di noi, che è sia molto avanzato che adolescentemente regresso allo stesso tempo. Ogni cosa che suoniamo è improvvisata e non discutiamo mai i particolari musicali durante le sessioni, ma io penso che "improvvisazione" non sia il termine appropriato per quello che facciamo. È come se le nostre fossero delle composizioni automatiche, come una musica che esiste da sempre di cui noi siamo semplicemente dei mezzi attraverso cui essa può manifestarsi... Questa è musica devozionale, noi subordinamo i nostri ego alle forze della natura Leonardo Amico 11 —Non solo tropicalismo— Top Surprise e Pug Records: grunge, post punk e garage parlano anche brasiliano 12 Turn On Top Surprise C on un nome che deriva da una strana compilation hip hop che girava in Brasile all’inizio degli anni ‘90, su cui appariva senza alcun senso anche Cannonball dei Breeders, i Top Surprise sono una delle realtà più vivaci della scena shit-gaze/wave/grunge del sudest del paese. Talmente grande il Brasile, da rendere difficile anche solo immaginare di capirlo superficialmente, tante sono le differenze tra le diverse aree e regioni. Di sicuro la Pug Records, nata per far uscire l’EP di esordio della band, finora l’unica cassette-label dell’intero Brasile, è buon punto di partenza per capire com’è fatto il Brasile oltre CSS e Bonde do Role. Per i Top Surprises, i cui membri sono tutti nati negli anni ‘80, le influenze principali sono sicuramente il grunge dei Dinosaur Jr. e la gioventù sonica di Thurston Moore e soci, tanto quanto i dischi lo-fi dei Guided By Voices (a questi ultimi è dedicato un consigliato album tributo, disponibile sul sito della Pug Records, che raccoglie oltre venti cover dei Guided By Voices realizzate da giovani band locali). Per conoscere più da vicino band ed etichetta abbiamo raggiunto Andre, leader e principale autore dei Top Surprires. Sembrate molto attivi sulla scena locale, ma ci racconti com’è la vita delle band in Brasile? Qui dall’Italia (e dall’Europa in generale) è difficile capirci qualcosa... In Brasile ci sono migliaia di gruppi, dediti a qualsiasi genere ti possa venire in mente. Dal garage al folk, dell’electro all’hardcore, dal metal al rock influenzato dalla musica brasiliana c’è praticamente una band in ogni angolo. Ci sono anche festival interessanti e alcune etichette di buon livello, ma le cose non sono così semplici in un paese così grande. La tendenza è quella a costruire comunità regionali. Per esempio, per noi che viviamo nel sudest a Minais Gerais, il nord sembra proprio un altro paese. Suonare fuori dalla nostra regione è tanto complicato quanto credo lo sia per una band italiana suonare in Inghilterra. São Paulo, la più grande città del Brasile, è un posto pazzesco, pieno di locali, grandi artisti e una forte scena indie. Rio de Janeiro è davvero folle, con tutte le sue band e live set praticamente tutti i giorni della settimana. A Baixada Fluminense, un sobborgo di Rio, c’è la Transfusão Noise Records di Lê Almeida, il produttore del nostro EP. È una label DIY essenziale, ma di grande valore. Eppure da qui il Brasile è sempre il paese di Caetano Veloso e Gilberto Gil... Per molti brasiliani, la bossanova e il tropicalismo sono davvero importanti e ci sono strade intitolate a Antonio Carlos Jobim o Vinicius de Moraes. Non dimentichiamo che Gilberto Gil è stato ministro del governo Lula. I loro grandi classici passano spesso alla radio, ma il resto della programmazione è imbarazzante: giovani emo-band MTV senza idee, rock privo di ogni sapore, pop plasticoso. Niente di diverso dal panorama europeo, quindi. Per quanto riguarda la Pug Records, invece, come vi siete regolati per le vostre uscite? La scelta della cassetta è una deriva del rinascimento che questo supporto sta vivendo in America e Grand Bretagna? Come etichetta ci concentriamo su materiale DIY e lo-fi, con una spiccata relazione con quello che ci piace nella musica. Oltre alla Transfusão, non ci sono molte altre etichette che si occupano di questa realtà in Brasile, nonostante le dimensioni facciano pensare al contrario. Abbiamo scelto la cassetta perché si sposa bene con la nostra estetica. È un formato interessante e inusuale, per certi versi privo di compromessi. Ma i nostri numeri sono piccoli, siamo poco più che produttori di materiale per collezionisti. È per questo che abbiamo deciso di pubblicare tutte le nostre uscite anche in formato digitale sul nostro sito, liberamente scaricabili, in modo che tutti possano ascoltare le nostre release. Oggi un’etichetta come Pug Records non può avere un orizzonte locale, non ha nessun senso che sia così. Marco Boscolo 13 Tune-In Zola Jesus —Tutte le sfumature del nero— Austera e intrigante, l’ex studente di filosofia con la passione per la lirica si prepara al salto nel mainstream senza perdere di vista le ambizioni artistiche Testo: Diego Ballani H a appena ventuno anni Nika Roza Danilova, ma può già vantare una consapevolezza estranea alla maggior parte degli artisti odierni, che la porta a sentirsi responsabile del messaggio veicolato con i propri testi. Schiva, emotiva, eppure affabile e decisa, Nika ha raggiunto un’autorevolezza nell’utilizzo delle doti canore, che le ha permesso di toccare nuovi vertici espressivi, facendo del suo ultimo Stridulum uno dei dischi più affascinanti dell’anno. Dopo una serie di opere a base di atmosfere gotiche, sonorità claustrofobiche e registrazioni casalinghe ha abbandonando la “coperta di Linus” del lo-fi e si è presentata al pubblico forte soltanto 14 dell’altera bellezza delle sue canzoni. Ora abita quella sottilissima striscia di interdizione che separa la sperimentazione dal mainstream, ma sembra essere prossima a varcarla, senza compromettere gli obbiettivi artistici. Questo è quanto emerso dalla chiacchierata avuta in occasione della pubblicazione di Stridulum II, versione espansa dell’ep uscito nella prima parte dell’anno per la Sacred Bones. Ne abbiamo approfittato per cercare di tracciare un profilo di uno dei personaggi più enigmatici di questo inizio di decennio. Cosa c’è di meglio, in questi casi, che partire realmente dall’inizio? Quali sono i tuoi primi ricordi legati alla musica? Ho iniziato ad appassionarmi alla musica da quando ero molto piccola. Mi piaceva improvvisare: ricordo che quando ero ancora bimba adoravo girare per il giardino di casa e inventare canzoni su tutto quello che vedevo intorno a me, sarei andata avanti per ore. Tuttavia non ho mai registrato nulla fino a che non è nato il progetto Zola Jesus. Prima però sono venuti gli studi di lirica... Sì, ho iniziato a studiare per diventare cantante lirica quando avevo 8 o 9 anni. Non saprei dirti da dove è nata questa passione, di certo non dai miei genitori o da qualcuno dei miei parenti, visto che nessuno di loro possiede alcuna inclinazione musicale. Credi che in qualche modo la tua produzione musicale ne abbia risentito? Non molto, almeno non consciamente. Penso che tutte le mie esperienze si combinino naturalmente ogni volta che scrivo una canzone. Quando hai cominciato a creare musica come Zola Jesus qual era il tuo obbiettivo in quanto artista? Il progetto è iniziato quando avevo 15 o 16 anni, la mia intenzione era solo quella di riuscire ad incidere la mia musica e cercare una strada che fosse chiara e coerente. Quel periodo per me è stato alquanto particolare, perchè era un momento in cui la musica non faceva più parte della mia vita. Zola Jesus è stato un tentativo di riportarvela e di darle centralità. Inoltre è stato il modo migliore per riprendere confidenza con la mia voce, che in passato mi ha dato seri problemi a causa dell’ansia e dell’eccessiva emotività. So che in passato questo aspetto del tuo carattere ti ha provocato problemi di panico da palcoscenico. Come hai fatto a superare questa situazione? Di solito cerco di distrarmi muovendomi molto. Quando mi fermo la mente inizia a correre. So che sarebbe tutto più semplice se non dovessi esibirmi dal vivo, ma come artista è qualcosa che sono costretta a fare. Anzi, forse perchè è così difficile che in fondo mi affascina. Mi piacciono le sfide, adoro mettermi continuamente in gioco e a volte mi capita di infilarmi di proposito in situazioni difficili. Parliamo un pò dei tuoi ultimi lavori e di come suonino differenti rispetto alle tue prime produzioni. è stata una scelta semplice quella di abbandonare la bassa fedeltà? No, tutt’altro. All’inizio è stato difficile perchè non sono mai stata abituata ad una situazione in cui tutto suonasse perfettamente. Non considero il mio sound migliore solo per il fatto di avere una produzione più pulita, anzi, di solito non desidero affatto avere un suono pulito. è stato solo un tentativo di provare qualcosa di nuovo, di testare le mie possibilità. Mi sembra di aver fatto tutto quello che era possibile fare con il lo-fi, perciò, sebbene lo consideri ancora una parte di me, mi piace la sfida che comporta il fatto di addentrarsi un produzioni più raffinate. Ascoltando Stridulum sembrano molto lontani i tempi della compilation su Die Stasi. Pensi di avere mai avuto realmente qualcosa in comune con le artiste che hanno preso parte a quel disco? Credo che il nostro unico comune denominatore fosse il fatto di essere ragazze che si dedicavano all’home recording. Non so bene cosa resti oggi di quella scena. Sono tutt’ora amica con alcune di quelle ragazze, anche se bisogna dire che provenivamo tutte da background differenti. Era naturale che la nostra musica suonasse così diversa. Il lavoro che fai sulla tua voce ha portato spesso a paragoni con Diamanda Galas e Lydia Lunch, mentre a livello strettamente musicale, viene spesso citata la new wave e certo folk gotico alla Death In June. Ti senti realmente vicina a questi artisti? Sono incredibilmente onorata del paragone con Diamanda Galas ma non credo veramente di meritarmelo. Lei appartiene ad una razza a parte e mi auguro che continui sempre a perseguire la sua strada in modo così originale. Ad essere onesti, quando inizio a scrivere una canzone non cerco di perseguire un determinato modello, altrimenti questo farebbe della mia musica qualcosa di estremamente derivativo. Posso dire che mi piace giocare con una melodia o con un suono, elaborarlo fino a che non diventa una canzone.Vorrei che tutte le mie canzoni avessero forza e potenza. Vorrei che fossero percepite come qualcosa di molto pesante e impossibile da ignorare. Ho l’impressione che la solennità e l’austerità della tua voce su Stridulum fa assomigliare alcuni 15 Tune-In Uochi Toki —Carta di identità di un’esperienza— Fuori dal consumo pre-organizzato, fuori dalle ideologie, fuori dalle facili categorizzazioni: il consapevole processo di disintegrazione di Uochi Toki Testo: Fabrizio Zampighi di questi brani a delle preghiere. A questo punto mi viene da chiederti qual è il tuo rapporto con la religione. Non molto buono, nel senso che credo che la religione porti le persone al diniego. La vita è molto più difficile quando non hai la rassicurazione che qualcuno stia badando a te. La religione si fa carico di un eccessivo controllo delle singole persone e delle loro esistenze. è molto più istruttivo abituarsi ad vivere in un mondo in cui ognuno di noi ha il totale controllo delle propria sorte, anche se questa idea talvolta può far paura. Al di là della cupezza di alcune sonorità e del dolore che a volte traspare dai tuoi testi, mi sembra che ci siano sempre parole di speranza nelle tue canzoni. Come artista di che messaggio ti senti portatrice? Non credo nel fatto di porre domande senza suggerire delle risposte. Ci sono situazioni molto difficili nel mondo. Io cerco di rifletterle nelle mie canzoni, ma cerco anche di proporre delle soluzioni.Voglio pensare di essere propositiva e non limitarmi a “mettere il broncio”. C’è molto da dire sul modo in cui l’umanità può progredire e migliorare se stessa, e come artista è qualcosa che prendo molto sul serio. 16 Cosa ci puoi dire a proposito delle tre canzoni che sono state aggiunte su Stridulum II rispetto all’ep? Si può dire che siano brani più luminosi rispetto ai precedenti? Volevo solo sperimentare di più. Sea Talk è la nuova versione di un brano che avevo già inciso tempo fa, mentre Tower e Lightstick, al di là di come possono suonare, sono canzoni molto ansiose. L’ultima, in particolare, è stata una sfida per me: è stata registrata usando solo la mia voce e un pianoforte vecchio e scordato. I brani di Stridulum mi sembrano perfettamente bilanciati fra appeal pop e sperimentalismo, hai mai pensato di fare il passo decisivo verso il pop “tout court”? Pensi che questo sia possibile mantenendo la propria integrità artistica? Penso di si. Nei prossimi mesi sarò in tournée negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa, dopodichè inizierò a pensare al mio prossimo album. Ti posso dire che ultimamente sto ascoltando molta musica soul. Marvin Gaye, Sam Cooke, Candi Staton: gente che comunica con tutto il corpo e si sente che ogni nota che canta è reale. Voglio pensare che mantenendo un simile approccio si possa comunicare senza compromettere alcun obbiettivo artistico. C ontenitori e contenuto. Generi e classificazioni. Musica. “Uochi Toki”, recita la carta di identità di questo duo anomalo. E comprendere la natura del progetto, seguirne gli interessi, coglierne i significati è questione di esperienza, di ascolti, di convergenze comunicative. Non certo di classificazioni a priori o di stereotipi, come ci fa notare il gruppo hip-hop meno hip-hop di Italia, ché di quelli ne abbiamo fin troppi e a sgolarsi dai pulpiti per rispedirli al mittente si corre seriamente il rischio di perdere la voce. Meglio allora una discografia nutrita e in divenire, 17 atipica e non episodica, da considerare come un unico macrodisco in fieri. In cui corrente elettrica (i campionamenti di Rico) e voce (i testi di Napo) dialoghino creando un’esperienza trasversale e inadatta al consumo pre-organizzato, elaborata e tesa – nelle intenzioni – verso un non-genere: “Parlare di nicchia o di genere crea dei contenitori, ma anche parlare di trasversalità crea dei contenitori. Stiamo osservando come si evolve questo gioco del mercatino botanico dove gli acquirenti vogliono portare a casa qualcosa di vivo da tenere sul davanzale finché non appassisce, per poi lamentarsi con chi glielo ha venduto. Potete trovarci al mercatino botanico in comodi vasetti, oppure, se avete voglia di vedere gli alberi, il bosco è da quella parte. Si consigliano scarpe robuste”. Evitiamo l’effetto ricircolo, rimandando i maniaci del compilativo alla discografia riportata sul MySpace del gruppo. Ci limitiamo a sottolineare come dal quel Laze Biose del 2006 – forse il primo esempio di uno stile organico e riconoscibile – al Libro Audio del 2009 le cose si siano fatte maledettamente serie. La direzione intrapresa è quella della costruzione di un vero e proprio immaginario e non solo di una semplice esperienza musicale. Un viaggio a tappe – i vari dischi – fatto col fine di appropriarsi di una realtà che vive di richiami, osservazione, relazionalità, riflessione, autobiografismo e che impone a chi ascolta un confronto forzato sull’interpretazione del messaggio. E del “missaggio”, come potrebbe puntualizzare Rico, visto che anche musicalmente siamo ad anni luce dai linguaggi consolidati e facilmente decifrabili. Tanto più nell’ultimo Cuore amore errore disintegrazione (La Tempesta, 2010), dove si mira alla destrutturazione, a una corrispondenza lirico-sonora inedita, ricorrendo per la prima volta a campionamenti di musica originale in un gioco delle alterazioni che arriva a toccare i territori della breakcore: “Per sopperire ad una delle mie (Rico, ndr) più grosse mancanze (il conoscere la musica solo come evento fisico ignorando le geometrie della composizione) ho deciso di “rubare” le conoscenze a tre musicisti che avevano precedentemente registrato nel mio studio. Questa volta non ho campionato un suono che mi piaceva ma ho lavorato sulla composizione-improvvisazione di altre persone. In un’ora di improvvisazione di un musicista come Alessio Bertucci (sitar), Lucio Corenzi (contrabbasso) o Bruno Dorella (batteria) posso sentire anni di ascolti altrui. è come se campionassi l’esperienza di una persona, non della semplice musica.” Testi fiume. Veri e propri racconti stilati in rima col fine di riflettere su una sfera personale che deborda nel collettivo per poi tornare nel privato di chi ascolta. Ma anche istruzioni per l’uso mascherate da frantumazioni fataliste in grado di indicare la strada da percorrere nel processo interpretativo del materiale. Come quelle che si ascoltano in Appena risalito dall’abisso: “smetti di giocare 18 al piccolo ermetico / approfondisciti e spiegalo questo imprendibile / ma cosa vuoi spiegare/ il mondo onirico a parole in modo univocamente comprensibile? / è per questo che dello scritto bisogna leggere non il significato ma lo spirito / tutto quello che le parole non dicono / allora perché non stiamo zitto / diventiamo mimico / tanto l'ascoltatore non distingue sé stesso dal pubblico / intanto rendiamo pubblico questo gettito / che sarà sempre superficiale / poi chi vuole avrà tutti gli strumenti per tracciarne l'impianto radicale”. Senza che ci sia bisogno di conoscenze specifiche legate al mondo del rap per avvicinarcisi, in virtù di quel suonare multisettoriale di cui si diceva in apertura e che regge tutto il gioco. Un po’ come succede con i Massimo Volume, differenti per stile e riferimenti ma capaci allo stesso modo di trasformare il semplice ascolto in un processo di condivisione, in un visuale in note, in un autocitazione peculiare che ha il pregio di straniarti da un qui ed ora ipotetico. Nel caso degli Uochi Toki il trait d’union per tutto l’immaginario rimane l’individuo. Circondato dal rumore e racchiuso in una filosofia di vita che oppone la personalità del singolo alla compartimentazione sociale dei ruoli, il gradiente delle diversità al conformismo comodo e prevedibile che ci viene propinato quotidianamente, la libera scelta al timore di essere giudicati: “L’individuo comincia fuori dalle classificazioni e fuori dalle ideologie. Dopo essere uscito da classificazioni e ideologie, l’individuo continua, trovando come prima prova quella della frantumazione dell’identità e prosegue in maniera inspiegabile senza sapere dove andrà a finire. Anche io (Napo, ndr) ho il gusto estetico per una sorta di ideologia nel mio stilare questa progressione. Sono ancora allo step “COMINCIA” e in realtà non so cosa ci sia dopo. Queste classificazioni servono solo per avviarsi con un’idea vaga nello zaino”. A fornire al gruppo un retroterra visivo pensano i disegni di Lapisniger (Napo, ndr), stampati sulla copertina dell’ultimo disco e in generale (http://lapisniger.blogspot. com/) spinti sul crinale di un’inventiva visionaria e monocromatica, fantasiosa e onirica. Sintomatici della voglia di non voler essere codificati e tendendo nel contempo a un concetto di evoluzione ben preciso: “Evoluzione per una band? Smettere di definirsi band, smettere di stare in camerino dopo il concerto, smettere di considerare il suonare un lavoro o un divertimento, smettere con gli ammennicoli tipo autografi e fotografie. In ogni caso, smettere”. Per ora siamo al sesto capitolo di un’autobiografia in note tutta da scoprire. Il tempo ci dirà in che direzione dovremo muoverci per seguirne le successive divagazioni. 19 The Books —Linguaggi universali— Drop Out I Books sono tornati, come se non se ne fossero mai andati. Un buon motivo per farci altre due chiacchiere e per aggiornare il punto di vista su una band inconfondibile. Testo: Stefano Solventi 20 C arotaggi ultrapop Li incontrammo cinque anni fa che erano già un’istituzione, anche se istituzione è parola grossa, inappropriata al modo d’essere e d’esprimersi dei Books. Secondo i canoni del pop-rock, Lost And Safe sembrava il classico punto di consolidamento della carriera, il momento in cui ciò che si raccoglie inizia a superare in profondità e quantità quello che si semina. Un buon disco, tutto sommato, da cui esalava vago manierismo tra le pieghe di una calligrafia ancora eccitante. Il tempo passato da allora ci permette una prospettiva diversa, intanto che ascoltiamo l’ultimo The Way Out. Possiamo cioè comprendere quanto i Books siano alieni ai consueti percorsi pop-rock, e quanto sia difficile - e per molti versi inopportuno - valutarli alla stregua di una band “normale”. Oggi è possibile vedere ogni loro disco come una tappa di un instancabile percorso di ricerca. Un punto di raccolta e convergenza prima di ripartire con l’indagine. La missione di Nick Zammuto e Paul De Jong è di quelle ad ampio respiro, per molti versi precede e trascende sostanza 21 e cronologia dei titoli. Vale più il metodo, la riproducibilità esperenziale come sostrato dell’acume intuitivo e della sensibilità espressiva. Alla base di tutto c’è una magnifica ossessione: cogliere il senso della soundtrack di suoni naturali e artificiali che ci accompagna e contribuisce a definirci nel quotidiano. Il rumore di fondo della civiltà visto come impronta culturale dotata di estensione e profondità, su cui i Nostri musicisti/archeologi eseguono carotaggi sonici per estrapolarne la testimonianza - per così dire - organica. L’esigenza di rendere percorribile questa metodica ha portato i due statunitensi ad allestire una nutritissima libreria di documenti sonori della più varia natura, riconducibili a determinati periodi storici o a particolari settori del vivere quotidiano (jingle, spot commerciali, registratori giocattolo, dischi didattici, sermoni radiofonici, sedute di autoipnosi...). Tutto archiviato e catalogato. Un database dell’immaginario invisibile. Una coltura di germi, batteri e virus auditivi. Che, nelle mani giuste, diventa uno strumento potentissimo. Come funziona? Scelto l’ambito di azione, o se preferite il concept, si selezionano le “entries” ad esso riconducibili, dopodiché inizia il bello: l’ispirazione e il gioco, l’intuizione e l’azzardo, la meditazione e la poesia. E poi la musica, quella che tutto lega e spiega. Radicata nel folk appalachiano e sradicata di trame electro, corroborata funky e slackerizzata hip-hop, col cuore caldo di chi si diverte a fare sul serio ciò che ama. Il risultato è un effervescente mistero, un gorgogliare di fotogrammi come tessere di un puzzle impazzito ma generoso e a suo modo illuminante. Una chiave di lettura della realtà, storicizzata e attuale. Ma anche e pur sempre un manufatto pop, non a caso godibile a vari livelli, dall’intrigante disamina delle correlazioni semantiche al puro 22 e semplice divertimento auditivo. Ed è quindi con gli strumenti e le modalità del pop-rock che - in questa sede - li abbiamo giudicati e li giudichiamo. Giusto così. Tuttavia, è evidente che l’opera dei Books procede con un passo più lungo. Non ambisce a cavalcare la spuma dell’intuizione momentanea, lo spasmo intrigante che racconta e definisce il qui e ora (anche se ai tempi dell’esordio sembrò a tutti gli effetti il loro momento), anzi attiva uno stretto rapporto col tempo analizzando la persistenza e il deteriorarsi dei costumi sonori. è questo il punto: in un certo senso, la musica dei Books è un pop “oltre”, un oltraggio alle regole e alla natura del pop, un ultrapop. Nel quale il pop muore nell’attimo in cui esplora se stesso e le nuove possibilità di esistere in funzione del reale (di cui è sempre e comunque testimone). Un circolo virtuoso col quale Zammuto e De Jong potrebbero, se lo volessero, tranquillamente invecchiare. Senza mai sembrare vecchi. I ntervista a Paul dei B ooks L’ultima volta vi abbiamo visto a Bologna al Circolo della Grada nel 2007, ora che avete iniziato il tour di The Way Out ci potete raccontare qualcosa sulle novità dello show? Abbiamo iniziato a suonare dal vivo da gennaio. Siamo stati ad Audiovisiva a Milano. E abbiamo già iniziato ad integrare il nuovo materiale nello show che hai visto nel 2007. Ci siamo concentrati maggiormente sull’interazione tra video e musica e in pratica il 95% del nostro show è fatto di questa sinestesia audiovisiva. Non abbiamo ancora finito, durante l’estate ci dedicheremo al making di nuovo materiale per altri video ed è una ricerca faticosa. Non c’è differenza nel trovare le fonti per una canzone e quelle per i clip, entrambe le arti hanno bisogno di dedizione e ricerca. Il 50% del nostro output video è trovato, il resto è fatto da noi. Poi componiamo tutto da soli. Dal vivo abbiamo aggiunto un nuovo membro si chiama Jin Becks. Suona il violino, la chitarra, canta e manipola (trad. da trigger) sample con la tastiera. L’obbiettivo è quello di suonare sempre meno elettronici e sempre più live. Usare un sacco di percussioni presi dalle nostre tape e suonarle con la tastiera. In pratica ci interessa rendere il tutto più organico. Per quanto riguarda me e Nick, suoniamo come al solito tastiere, pad e basso. Nick suona la chitarra e canta mentre io suono il violoncello e ogni tanto canto ma anche qui c’è molto più spazio per il violoncello e la chitarra nelle nuove gig. Il next step sarà suonare in quattro. Cosa è successo in questi cinque anni? Vi siete dedicati alla famiglia? Avevate bisogno di prendervi una pausa? Un po’ di entrambe le cose. Cinque anni fa entrambi iniziammo a mettere su famiglia. Abbiamo figli ora e ci siamo trovati case che potevano andar bene sia per crescerli sia per lavorare. Non è stato facile incidere nuova musica quando abitavo a New York City, c’era troppo rumore là fuori. Mi chiudevo nel bagno a comporre e questo mi ha insegnato qualcosa: mi sono trasferito in campagna in una casa non molto grande ma è stato sufficiente trasferirsi in un posto tranquillo per ritrovare l’ispirazione. Un paio di microfoni e un computer. Ma vuoi mettere avere un enorme studio di registrazione con il quale fare praticamente ogni cosa? è bello avere un grande studio a disposizione. Per noi è come un negozio di giocattoli. Per questo album siamo stati invitati da un assistente di Nigel Godrich nel suo studio londinese per quattro giorni mentre lui non c’era. Abbiamo registrato trentasei ore di raw recordings (registrazioni crude) con quei microfoni e tastiere speciali. Abbiamo già usato qualcosa nel nuovo disco ma abbiamo molto altro da utilizzare nel futuro. In generale lo sforzo di quest’ultimo lustro è stato quello di creare le condizioni per concentrarci nel creare la nostra musica e questo è potuto accadere soltanto isolandoci dal resto del mondo. Altro grande sforzo è stato quello di riordinare la sample library, ha richiesto molto tempo. Fino al 2007 siamo stati in tour e avevamo comprato molte cassette audio e video, album.Tutto questo materiale doveva essere ordinato. Soprattutto doveva essere digitalizzato e tagliato in sample e diviso in categorie per poter essere utilizzato. Sostanzialmente prendo dalle registrazioni quello che mi interessa e getto il resto in modo che il sample sia utilizzabile. Soltanto questa operazione è durata due anni. Il passo successivo era iniziare a comporre musica con quel materiale. Ora però ne abbiamo così tanto che il prossimo disco arriverà molto prima. 23 Parliamo ora del cuore del lavoro partendo dal suo titolo. The Way Out parla di tutto quello che vi è successo? C’è anche qualche significato politico o filosofico indagabile? Ci presentiamo al pubblico con un atteggiamento del tipo “questo è il 50% dell’idea, l’interpretazione è l’altro 50% spetta a voi crearlo”. Per completarla. E questo certamente può comprendere significati politici o filosofici. è uno dei motivi per cui siamo così attratti dal materiale che isoliamo. Lo stesso motivo per il quale tu hai tratto l’ispirazione di chiedermi cosa è politico e domandarti cosa è politico di conseguenza. Voglio tenere le cose in questo modo, in modo aperto, anche il titolo è un qualcosa che tocca personalmente ognuno di noi. Fa scattare ispirazioni e argomentazioni. La complessità sembra un po’ la materia dei Books. E generare complessità in un mondo che ti spinge al conformismo è senz’altro una cosa importante… La penso allo stesso modo. è un obbiettivo “challenging”, happy e inspiring, una bella sfida. Pensavo anche a un altro lavoro complesso al quale The Way Out sembra ispirarsi in modo indiretto, My Life In The Bush Of Ghosts. Ti sorprende la cosa? Sono onorato che vedi dei paralleli con quel lavoro che ha caratterizzato moltissimo la vita artistica dei suoi autori. Musicalmente suoniamo in modo diverso ma la filosofia di base ha certamente molto in comune con noi: principalmente si tratta di prendere sample che sono registrazioni banali, o campioni che sono registrati come incisioni non musicali e trovare, in primo luogo, una separazione dal loro significato letterale trovandone il valore musicale e così altri significati, i significati letterali, metterli nell’impianto complessivo. Penso che David Byrne e Brian Eno lo avessero capito benissimo. Ogni sample è stato lì utilizzato per scopi musicali: un’idea fondamentale. Registrando My Life Byrne e Eno registrarono molti sermoni dai predicatori americani televisivi. Il tema del gospel torna poi in tutta la carriera Byrne.Vedi anche il recente spettacolo musicale. Nel vostro album poi c’è qualcosa di ecclesiastico. Una coincidenza? Nella traccia Beatiful People c’è un coro gregoriano e questo tipo di church music è stata incredibilmente importante nella storia e nella teoria musicale. Usiamo quelle armonie non per scopi cristiani ma per fini più matematici, fisici e universali. Ci sono paralleli con la natura delle religioni e la loro filosofia. Non sono aspetti estranei gli uni agli altri. è importante stare lungo i bordi e non superare le linee di confine. Nell’album c’è certamente del folk, ma vi aprite anche all’house e al funk… Cinque anni fa non volevamo ritornare in studio e ripeterci.Volevamo tenere la nostra identità ma volevamo anche guardarci attorno e scoprire nuovi elementi. La sample library è cresciuta così tanto che ci ha dato lei delle risposte. Ma è altrettanto chiaro che non volevamo utilizzare suoni mainstream. Se li avessimo utilizzati lo avremmo fatto in modi politici o filosofici. Inoltre con molti dei nostri sample con la presenza di strumenti, tutti relativi a uno specifico periodo del tempo, primi Settanta e metà Sessanta, con i radio jingle per esempio potevamo a momenti costruirci un brano intero. Molti beat vengono dai Seventies. E molti sono stati presi da quelli terapeutici, self help e meditation records, training autogeno e da dischi per indurre l’autoipnosi. È interessante questo mondo dell’ipnosi... 24 po della curiosità e della sperimentazione e quello nel quale componi effettivamente qualcosa, spingendo quelle idee dentro qualcosa di concreto. Avere famiglia e figli cambia il modo di concepire il nostro lavoro. Ci ha maturato e fortificato. Ora che abbiamo un tempo circoscritto per lavorare, il setting familiare ci ha dato la capacità di giudicare quello che è utile e quello che ha potenziale e ciò che invece deve essere lasciato cadere. Non è un fatto di compromesso ma di usare la tua intelligenza in modo diverso. Una volta vi chiedemmo a quale movimento vi sentivate vicini e ci avete risposto: Simon e Glitchfunkle. Ora cosa ci dite? Credo che non cambierò quello statement. Simon e Glitchfunkle è un gioco ma non lo è affatto in realtà. Non spetta a noi dire di quale genere siamo. Invito voi a inventare qualcosa di nuovo piuttosto! C’è un portato molto umanista Abbiamo un sacco di registrazioni di sedute ipnotiche fatte da psicologi e in quello che fate del tipo “la fiterapisti professionisti. All’epoca era un piccolo business ed era molto con- losofia ci salverà”. veniente fare questo tipo di registrazioni. Abbiamo fatto un grande lavoro di Sono d’accordo! Penso a quello che selezione di questo tipo di materiale. Cercare una nostra narrativa e cercarci vedo come un’opportunità, che il la nostra voce dentro in totale libertà. Costruirci la tela e dipingerci sopra ruolo dell’artista sia quello di traduruna specifica storia. Siamo stati in grado più che mai di raggiungere l’obbietti- re la democrazia in qualcosa di più vo di indagare e approfondire i significati letterali, musicali e di commentario universale, in un linguaggio comune. sociale di questo oggetto d’analisi. è la stessa filosofia che sta dietro Credi dunque che The Way Out sia in questo senso il vostro lavoro alle religioni e alle chiese, creare un della maturità? linguaggio universale. Non devi semCertamente, è senz’altro un lavoro più maturo rispetto agli altri. Prima di plificare la filosofia o il concetto ma tutto perché è meno frammentato ma anche perché la libreria è stata la vera come artista poi tradurre il tuo talenfonte d’ispirazione per la composizione delle liriche. Tutti gli spoken word to, le tue idee in statement universali sono stati utilizzati alla stregua di “strumenti letterari”. Quanto alle liriche, comprensibili a tutti. Ecco perché più ci siamo fatti ispirare dai sample piuttosto che prendere quelle che venivano che sentirci legati ad altri musicisti, fuori dai sample stessi. ci sentiamo parte di qualcosa di più Ogni canzone del disco sembra essere un universo a parte, eppure ampio. La relazione tra noi e gli altri è ogni canzone si lega all’altra. Parliamo di un concept, vero? quindi a qualsiasi livello.Vediamo anaSì. è questo l’aspetto più interessante del realizzare un concept album. In que- logie con scienziati, filosofi, insegnanti sto caso prendere un specifico periodo temporale e analizzarne le evoluzioni ecc. Mi sento legato trasversalmenin quaranta minuti che sono il perfetto compromesso artistico per questo te con quegli artisti che cercano un tipo di operazioni. common language e quelli il cui obAvete cambiato metodo o regole tra di voi? biettivo è cercare idee fondamentali, Sostanzialmente è sempre un lavoro di pazienza e concentrazione. Le re- filosofiche. gole di base tra di noi rimangono le stesse, la sfida è più bilanciare il tem25 Gang of four —Seconde vite— Drop Out The 26 wire “Siamo fatti di tempo e se ci sottomettiamo a esso, tra le possibilità ce n’è una che possiamo scegliere. E se l’accettiamo col permesso dell’incertezza, non possiamo perdere.” (Richard Hell) Testo: Giancarlo Turra 27 SE NON ORA, QUANDO? Sosteneva Lukàcs che è compito del genio mettere ordine tra le cose. Il che, di conseguenza, equivale a riconoscere per l’ennesima volta che artisticamente niente nasce da zero, semmai si tessono tra loro fili esistenti, da scoprire e connettere all’infinito. Nulla si crea e nulla va distrutto ed è un processo che ognuno può testimoniare in cinquanta e rotti anni di evoluzione della musica rock, fascinoso mistero che - nelle sue espressioni più alte - sfugge al tempo nel momento stesso in cui ne cattura il respiro. Fateci caso: tra le mille altre cose, gli “anni zero” hanno testimoniato un guardarsi indietro da parte di chi, in epoche diverse, hanno lasciato il segno: Patti Smith e Sonic Youth che dal vivo risuonano Horses e Daydream Nation alla luce della mezza età e oltre; gli Stooges che si riformano e deludono, superati dalla verve dei Radio Birdman; l’ennesimo recupero della new wave causa l’ovvio riaffacciarsi sulle scene di mostri sacri. Travolto e spaesato, non puoi evitare di pensare quanto davvero ci sia bisogno di volgersi con tale insistenza al passato. Soprattutto all’evidenza di come sovente basti la forma originale a garantire l’attualità di certi dischi in un presente arido. Per non uscire dall’ambito di questo articolo, un Entertainment!, un Y, un 154 appartengono con medesimo vigore tanto all’oggi quanto all’anno che li vide uscire; Marquee Moon, Unknown Pleasures e Metal Box hanno generato decine di fotocopie formate da giovanotti passati dallo spremersi i brufoli a imbracciare chitarre. Benissimo se i “padri fondatori” vogliono tornare, anche solo per raccattare quei due soldi che non fecero al tempo perché il mercato non era pronto. Ciò che inquieta (ci mancavano solo i Primal Scream con Screamadelica…) è che, se intanto l’attitudine è rimasta congelata, la replica di una rivoluzione scade nella farsa o, nella migliore delle ipotesi, in nostalgia utile al mercato discografico per spremere gli over-35. Non basta ascoltare attorno per la conferma della statura di un classico? Non sono sufficienti i giovani d’oggi che, non riuscendo a cavare di tasca un loro equivalente di Wire, P.I.L. o Joy Division, ne replicano in tutto e per tutto stilemi ed estetica senza averne afferrato l’etica e lo spirito? Tornare su un capolavoro da parte dell’autore, inoltre, cosa potrà aggiungere se non sfumature ininfluenti? Non sarebbe forse più opportuno indirizzare le energie verso materiale nuovo, anche meno valido, nondimeno figlio di una risposta al qui e ora? Domande che conducono a una certezza: che così si rischia di cadere nell’immobilismo, vecchi e giovani insieme. Hanno un bell’affermare i componenti del Pop Group - un tempo i più duri e puri tranne i Crass; adesso freschi di rimpatriata… - che “c’è tanto che abbiamo lasciato incompleto, e le cose oggi sono peggio che negli anni ’80 e noi siamo più incazzati che mai.” Certo. Intanto, però, quella meraviglia di oltraggio sonoro che fu il vostro punk-funk bagnato nel free jazz è stata oggetto di malriuscita mercificazione da parte dei Rapture (si veda House Of Jealous Lovers), benché non sia colpa di Mark Stewart e soci ma del “gusto medio” che tende ad allargare i confini. Tratteggiare il pianeta alla deriva con pennelli e colori di trent’anni fa, che effetto può mai avere? Il punto sta in realtà nel limite entro il quale ogni artista può seguitare a essere se stesso senza risultare patetico. Se non si evolve, se non “aggiusta” il proprio operato secondo le esperienze che ha affrontato mescolando vissuto e mestiere, si consegna alla triste messinscena, all’amarcord da lacrimuccia. Però: se vi spingete oltre nella lettura, scoprirete che c’è chi suona tuttora fresco come nel ’79 e chi ha tenuto il cervello focalizzato su quando accaduto nel frattempo alla musica in termini di produzione, fruizione, gestione. Il segreto 28 è comprendere e adattarsi, così che - per esempio - puoi ascoltare Send in coda agli Shellac, o Your Future Our Clutter in mezzo agli LP dei Pavement (eccoli, altri che non han saputo resistere alla tentazione…) e giorire della loro attualità. Perché gli artefici - nel trasformarsi lungo i decenni plasmandoli, ingoiandoli, risputandoli - hanno trattenuto l’anima di quando iniziarono. E così si collocano al di sopra del tempo, come l’Arte al proprio meglio. Gang Of Four I ntrattenimento !?: G ang O f Four Secondo quanto si legge in rete, e a giudicare dall’alto tasso adrenalinico degli indie-kids del globo, c’è attesa attorno alla ricomparsa della Banda dei Quattro. Content colmerà il prossimo ottobre uno iato discografico che durava dal mediocre Shrinkwrapped, pubblicato in un 1995 che pare più lontano di quel che effettivamente è. A meno di variazioni dell’ultima ora, il brano che lo chiuderà dovrebbe intitolarsi Second Life, un titolo che diremmo non avere troppi legami con la realtà virtuale che impazzava fino all’avvento di Facebook, quanto piuttosto essere una spia della rinascita della formazione. Già edito su un carbonaro 7” autoprodotto - impreziosito sulla b-side da un remix di Paralyzed operato dai Tortoise - è tagliente e affilato come ai bei tempi, vocalmente un filo più melodico e perciò ideale testa di ponte per una seconda vita dei Gang Of Four. Smarriti per strada da poco i fondatori Dave Allen e Hugo Burnham, la loro versione “anni 2000” sarà per forza di cose faccenda diversa e non soltanto nella line-up. Difficile se non impossibile rinvenire la carica sovversiva che segnò Entertainment!: non che gli animi si siano frattanto placati, semmai è la realtà circostante ad essere per forza di cose mutata e non tutti stanno al passo. La protesta ha nel frattempo assunto diverse forme e di ciò deve tenere conto uno dei gruppi ideologicamente più consapevoli e schierati della propria generazione. Trarre la ragione sociale dal maoismo rappresentava nel Settantasette una dichiarazione d’intenti pesante, una provocazione che Malcom McLaren poteva al massimo sognare. All’epoca, solo il Pop Group - prossimo al ritorno: tutto quadra - vantava un impatto così apertamente e anarchicamente extra-musicale, come se si volessero collocare dei paletti tra se stessi, la propria visione del mondo e delle cose - Carlo Marx più punk inacidito dal tatcherismo, vi va? - e tutto il resto. Oggi, in un occidente rigiratosi come un calzino più e più volte, non sapremmo dire se e quanto ciò possa ancora valere. La musica, quella resta solida come oro. In realtà gli uomini di Leeds erano tornati cinque anni or sono con Return The Gift, lavoro che - un terzo compilation, un terzo autotributo, un terzo lezione ai giovanotti rampanti - risuonava alcuni classici a uso e consumo delle imberbi generazioni: Damaged Goods, I Love A Man In Uniform, To Hell With Poverty scorrevano una dietro l’altra con impeto imprevisto per dei cin29 quantenni. L’aspetto che ci interessa qui non risiede però nella riproposizione di ciò che fu (i più maligni potrebbero dire “per far cassa”) quanto nel CD bonus, dove l’intellighenzia musicale contemporanea si cimentava in remix e rielaborazioni tributando il dovuto omaggio ai padri(ni). Amusement Parks On Fire, Others, Rakes, Dandy Warhols, Hot Hot Heat e Yeah Yeah Yeahs, più o meno bravi e/o originali, si collocavano lontani dal “nervo scoperto” del quartetto. Si notava l’assenza di coloro che più attentamente e direttamente stavano chiamando in causa - quando non razziando - repertorio, immaginario e suggestioni della formazione britannica: il cui punk-funk color metallo, fantastico debordare di astio e vigore li ha consegnati agli annali mentre sanciva la nascita di !!!, Rapture e Radio 4. Loro gli assenti di cui sopra, punta dell’iceberg di un underground che ha ballato per un paio di stagioni e per il quale Gang Of Four costituivano una delle pietre angolari, essendo P.I.L., Pop Group e Wire le altre. Tutti, avrete notato, freschi di rimpatrio oppure mai scioltisi per davvero. La nevrosi ritmica, il funk in candeggina, le chitarre affilate miste a paranoia da giovani bianchi ai ferri conrti con il sistema sono tratti che letteralmente esplodono, spurgati dalla componente danzereccia e tonificati di un portato ideologico “di rottura”, dall’epocale Entertainment!. è la sua semplice esistenza a dimostrare l’attualità di un suono capace di sopravvivere e rivivere a distanza di un quarto di secolo; di porsi come modello per chi alla sua apparizione non era nato o al massimo portava i pannolini. Cinquantenni e passa alla pari - ma The Wire sarebbe meglio dire “più in là” - dei giovani, che dimostrano di aver capito cosa è mutato nella “gestione” di un gruppo, della musica che suona e del mercato che la veicola. La distribuzione di Content non sarà infatti un hype alla Radiohead ma una suddivisione di rischi e privilegi in scia agli Einsturzende Neubauten: legando i fan alla musica e alla relativa filiera, si attua un autofinanziamento che taglia finalmente fuori le odiate major, con le quali il rapporto della Gang non fu per ovvi motivi idilliaco. Così i diretti interessati si sono espressi sull’argomento: “La via tradizionale che passa attraverso le major non ha più senso. A dirla tutta, l’intera struttura dell’industria musicale non ha più senso. Le etichette discografiche stanno più che mai sottraendo agli artsiti e sempre meno dando qualcosa a chi viole ascoltare la loro musica.” Eccoli, i marxisti che osservano con un sorriso il crollo del capitalismo. Q uestione di approccio : Wire Wire è una parola che risuona nella nostra “formazione” sonora. Un faro illuminato e illuminante del giornalismo musicale; aggiunto di una “d”, il punto di riferimento cartaceo della curiosità per le tecnologie nuove. Come se il concetto estetico di “cavo” e “cablaggio” richiamasse lo stare al passo coi tempi, i nostri quantomeno. E, guada caso, esiste una band che ha sancito una svolta fondamentale nel dopo punk (e successivamente nei pre-Novanta e Duemila) che di quel nome si fregia e ne assume il carattere di contemporaneità. Gli Wire furono un gruppo sul serio speciale, di una tipicità che non produce cartucce lo zeitgeist ma che si esprime a colpi di capolavori. Lo fu il primo atto Pink Flag, dal quale assistemmo a un crescendo di stupore e innova30 31 scagliato sugli astanti, peraltro già parecchio spaesati e privati dei punti di riferimento convenzionali dalle gag e pose che - saltando la semplice riproposizione delle canzoni - erano una pura performance artistica. Condotta senza spocchia ma con livore, per scardinare certi meccanismi tradizionali del rock (in ciò simili ai coprotagonisti di queste righe Gang Of Four) che il ’77 aveva continuato a celebrare dal punto di vista metodologico dopo averli irrisi. Ecco dove stava il senso del prefisso post collocato davanti a punk, ed ecco dove originava molta dell’incomprensione verso il progetto Wire. Il gruppo progrediva rapidamente, eppure buona parte del pubblico restava indietro, o nella migliore delle ipotesi cercava i mezzi più adeguati per comprendere quella nuova onda così diversa dal resto. Colin proveniva infatti dal retaggio oggi perduto (smantellato da anni di politica destrorsa…) della scuola d’arte come il suo mentore Brian Eno, che - Reynolds racconta - nutrì il giovane Newman personalmente lungo i viaggi in auto da e verso il Watford Art College. Fu probabilmente grazie a questo e a un felice concorso di cose che prese forma un altro elemento di grandezza degli Wire, cioè la complessità armonica. Una ricercatezza che i “nuovi nuovi wavers” hanno smarrito nel rifarsi soltanto a uno, massimo due referenti sonori del passato. E che forse anche Wire, negli episodi più recenti, posseggono in misura minore, forse per via dell’età o del più “robusto” abito sonoro dettato dai tempi in mutazione. Quella caratteristica innestava intelligenza compositiva in un mondo di suo estremamente vivo di idee nuove, e difatti si conservò - seppur parcellizzata - in alcune gemme del Newman solista immediatamente successive al primo scioglimento e nei Dome guidati da Bruce Gilbert e Graham Lewis. Ci sembra che i pur avvincenti Read & Burn abbiano da questo punto di vista subito una sorta di banalizzazione, e lo stesso dicasi per Send. Object 47 ha poi lasciato ulteriormente per strada le capacità di fuoco, forse anche perché la band ha sempre vissuto sull’autobilanciamento della coppia Colin Newman/Bruce Gilbert, giustappunto scioltasi (forse definitivamente) in occasione dell’oggetto sonoro numero quarantasette. Di bilanciamenti su quel cavo che in inglese significa anche filo metallico viveva e vive l’essenza degli Wire: melodia e obliquità, Colin e Bruce, avanguardia e pop. Speriamo di sentirlo vibrare ancora a lungo, quel cavo, mentre un piede davanti all’altro ne percorriamo la lunghezza, inseguendo ogni volta un doverso equilibrio sopra le note. La pratica rende perfetti, del resto. Metodo, istinto e stile 32 The Wire In occasione della ristampa Send Ultimate, intervistiamo Colin Newman via mail Come già dimostrato con le domande rivolte ai Githead, molto più di un lussuoso “progetto parallelo”, intervistare Colin Newman è un autentico piacere. Nella puntualità e nell’arguzia delle risposte comprendi come costui - e relativi compagni, al pari di lui vivi e brillanti - non poteva produrre cattiva musica. In ciò che dice avverti un bagaglio culturale ampio e robusto, la chiarezza d’intenti mai svanita in più di tre decenni. E, da buon inglese, un punto di vista mordace sugli argomenti proposti, che puntavano a tirare le somme dell’attualità degli Wire alla luce di quel post-punk che seguita a influenzare generazioni di musicisti. E che, secondo Newman, non è neanche esistito. Colin, gli Wire sono un caso raro: quello di una formazione che è sempre stata capace di raccontare e riassumere il proprio tempo mentre anticipava il futuro. Che ne pensi? Che suona grandioso! Di sicuro è sempre stato il nostro scopo, ma dovrebbe esserlo per ogni artista, no? Ritengo inoltre che vi sia stata molta fortuna nelle decisioni prese al momento giusto. Quando ti trovi in mezzo a una situazione non è sempre facile coglierne la completezza: cerco di farmi guidare dall’istinto, tuttavia vaglio mentalmente diverse opportunità cercando la più genuina espressione delle dinamiche interne del gruppo. Forse è per questo che è come se non si foste mai davvero sciolti? Potete permettervi di sparire e tornare perché siete al di sopra di ogni moda. E perché avete idee chiare e fresche, come del resto i Githead Suonare in entrambi mi ha insegnato chiaramente che la cosa migliore delle collaborazioni è trovare gli aspetti più conformi a ogni contesto. Se ciò ci collochi al di sopra dei trend, non saprei dire. I generi possono essere un buona via d’accesso per artisti nuovi ma, alla fine, i migliori devono oltrepassarli per raggiungere la grandezza. Credo che ciò dipenda molto da quali sono gli obiettivi di ognuno: gli Wire hanno avuto periodi in cui i membri non lavoravano assieme, e non so quanto tali "pause” rendano tutto più attuale. Tanti giornalisti lo sostengono, ma la freschezza può arrivare anche là dove si lavora incessantemente cercando di non ripetersi. Volevo dire che gli Wire sono sempre stati un “progetto” mutevole per esempio: quando Robert Gotobed se ne andò, vi siete ribattezzati Wir per un po’ - influenzando la propria epoca e venendone a sua volta influenzato. Ciò è evidente se si ascoltano i vostri dischi di seguito. Siamo sempre stati descritti come qualcosa che aveva a che fare col cambiamento; a dire il vero, questo aveva profonde radici nella storia iniziale del gruppo, quando ci rendemmo conto che una svolta radicale generata da necessità funzionasse bene per il nostro progresso artistico. Ciò implicava anche che, a differenza di molti altri, il nostro LP d’esordio non fu il risultato di anni spesi a limare il suono “sulla strada”; viceversa, fu il prodotto dell’anno in cui uscì e fu perciò facile farne un secondo del tutto diverso. Gli "Wir" invece incarnarono una specie di sovvertimento consapevole e funzionale; nondimeno, dopo l’abbandono di Bruce nel 2004, ritrovandoci nel 2006 sentivamo di voler sottolineare la continuità del progetto. Ora abbiamo quasi terminato il dodicesimo album di studio, molto differente da Object 47 per via del nostro continuo rimetterci in discussione. Nel 2006 affermasti che gli Wire erano “al contempo rock band e oggetto artistico”. Credi che questo sia invariato in ogni vostra incarnazione? Certamente. Non che ci sia uno schema fisso, però non siamo mai stati al 100% Colin Newman zione fino a154, colossale attrattore e catalizzatore del post-punk che ha contato davvero; vertice e sintesi di temi e atmosfere che sottolineavano i tempi che correvano allora e corrono oggi. Lo fa pensare il ritorno a scadenza quasi decennale dei britannici, concretizzato nel decennio appena chiuso dal ciclo di EP Read & Burn, gli LP Send e Object 47 e l’antologia fresca di stampa Send Ultimate. Una reunion nient’affatto passiva, come era del resto lecito attendersi da chi influenzò in maniera decisiva un’attualità che, da par suo, ha risposto con fior di citazioni e parallelismi. Un gioco di commistione, anche, che vede la contemporanea presenza sui palchi mondiali di di zii e nipoti come Devo e Art Brut, o per l’appunto come Wire e Liars. Il fatto che Newman e soci (ieri e oggi; e domani?) siano ancora “sul pezzo” è provato dai recenti esperimenti di formazioni “anni zero”. Nel momento in cui i Liars trovano in Sisterworld un suono proprio e non più derivativo, paradossalmente incappano in un gioco armonico stretto parente di Practise Makes Perfect, gioiello che faceva mostra di sé su Chairs Missing, pannello mediano del trittico classico che ha consegnato Wire alla storia e al saccheggio delle generazioni successive. In precedenza, servisse un’ulteriore prova, i live di Angus Andrew e soci mettevano al centro la performance, non la replica dei brani confezionati su album. E che dire dei These New Puritans, il cui atteggiamento - per complessità, atmosfere, approccio compositivo - ricorda da vicino i Nostri: anche qui si guardano e utlizzano le tecnologie come nel ’79. Il velo di oscurità aiuta a sottolineare la parentela, tuttavia la questione pare più di approccio, di un metodo che riconosci come il più importante lascito degli Wire. Insieme a un nervosismo divenuto leggendario che nella dimensione “live” veniva 33 gruppo rock od oggetto artistico. La chiave sta nell’intento. Considerate ancora l’esperienza dal vivo come più vicina alla “performance art” che al concerto rock classico? Non nell’esteriorità. Sul palco dobbiamo comportarci da gruppo rock: quello è il formato, non necessariamente il contenuto. Ci si può sganciare dal concerto tradizionale quando si “trascende". Vorrei sapere la tua opinione sulle reunion di Gang Of Four e Pop Group. Quale significato e valore possono avere oggi, musicalmente e culturalmente? Non so bene cosa stia facendo il Pop Group, ma Gang Of Four, Magazine, PiL sono qualcosa di "storicizzato". Di sicuro è il modo per fare molti soldi in breve tempo, ma sul medio/lungo periodo ne risenti negativamente dal punto di vista sia critico che finanziario. Ci abbiamo provato anche noi per 6 mesi nel 2000, ma ci annoiavamo. Non ci sentiamo a nostro agio col revival, siamo troppo interessati alle novità. Nessun problema a esplorare la nostra storia (in concerto proponiamo materiale da tutta la produzione, e non sono certo scelte ovvie), però essere solo "pezzi da museo” deve essere un tale tedio... Il 90% della musica odierna si volge indietro cercando idee, ispirazione, stile. è dovuto al presente arido o a passati troppo fertili? Eh, questo è davvero un terreno difficile. Per gli Wire è stato eccezionalmente utile essere considerati una “fonte d’ispirazione” sovra-generazionale poiché significa che a un ampio spettro di gente singolare interessa quello che facciamo. Come dici tu, c’è tanta grande vecchia musica e ne esiste di nuova che la “rinnova” conferendogli un tocco contemporaneo; certo, c’è roba vecchia più attuale delle nuove copie. Internet ha aumentato le opportunità di pubblicizzarsi per chi possiede spirito commerciale, tuttavia ha anche ridotto i margini per ricavarne di che vivere, soprattutto per gli artisti nuovi. Chi possiede molti soldi non è minimamente interessato a investimenti sul lungo termine: ne deriva che tanti devono ricorrere a scelte sicure per vivere. Dobbiamo anche considerare le nuove tecnologie: abbiamo a disposizione strumenti potenzialmente infiniti, pertanto non esistono più stili nuovi basati su qualcosa che prima non era fruibile da tutti. Ci sarebbe parecchio su cui discutere, ma preferisco fermarmi qui… Per quale ragione, secondo te, la “generazione del 2000” non riesce a produrre dei propri Wire, Gang Of Four, Fall e deve copiarli senza in sostanza aggiungere nulla? Come vedi il “ritorno” in massa del post-punk negli ultimi anni? Beh, il fatto è che non è mai esistito un “post-punk" a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. C’era il punk che era passato di moda e alcuni che ne sfruttavano l’energia per creare cose nuove: nessuno credeva che Wire, Gang Of Four e Fall avessero granché in comune. Nei primi eighties pressoché ogni cosa che derivava dal punk non era presa in considerazione in Inghilterra, al tempo dominava il "pop". Mentre cerca un proprio linguaggio, ogni generazione tende ad adottare quello di una precedente, spesso poco noto. Guarda l’ombra lunga gettata dai Velvet Underground, sconosciuti nei ’60, sui decenni successivi. Non so che dire di chi “copia”, ma per certo non ho mai ascoltato un fac-simile degli Wire che fosse anche vagamente convincente (ride, N.d.t.). Non credi che però servano più figli e meno cloni? Direi anche figlie, oltre che figli! In giro sento dire bene dei Factory Floor. A proposito di innovazione: una delle caratteristiche dei Wire è il lavoro sperimentale sulle armonie, che nel ’77 del punk era un anatema. Lo è ancora? Per quanto mi guarda, la peculiarità armonica rappresenta un fattore chiave. Esprime l’individualità che possiamo offrire nella musica e mi piace chi vi mostra una forte personalità. La vostra “lezione” è stata benissimo compresa dal post-rock, che mescolava rock ed elettronica e si basava più sulle tessiture strumentali che su riff e assoli. Il che spiega come Margaret Fiedler dei Laika abbia potuto colmare lo spazio lasciato da Bruce Gilbert... è possibile. Credo che Margaret si sia inserita bene nel “live” in quanto coscienziosa e diligente; capisce molta della nostra dinamica e per questo è stato molto bello lavorare con lei. Per questo nuovo ciclo abbiamo un altro chitarrista, Matt Simms, che apporta un contributo diverso. Come nel triennio ’77-’80, oggi abbiamo guai e paure più che sufficienti da esorcizzare e/o tradurre in musica. Forse il post-rock è stato troppo “post” e, a tale scopo, ripetere il passato è tutto ciò che resta? Sono convinto che, se hai idee, nell’arte ci sia sempre spazio per aggiungere qualcosa di proprio al già detto e tramutarlo in una cosa diversa. Sul resto hai ovviamente ragione, altrimenti persone come il sottoscritto non farebbero ciò che fanno. Nondimeno, attualmente gli artisti sono sottoposti a diverse pressioni, forse alcuni non si sentono in grado di aggiungere 34 Colin Newman del loro. Magari è sempre stato così: nei Settanta per noi aprivano band che credevano di fare cagare, però poi alcuni hanno fatto strada! In un certo senso non andrai da nessuna parte se non hai una ragione per farlo; e se quella ragione riguarda l’arte, che senso ha se non hai nulla di nuovo da proporre? Voi prendevate il kraut-rock, Eno e i primi Roxy Music, la psichedelia dei ’60 e la funkadelia per fonderle in una mistura unica ed equilibrata. Anche minimale e potente, come se la sua forza derivasse dalla sottrazione, dal ridurre la musica a un essenziale nudo seppure ricco. Attualmente i gruppi giovani hanno facile accesso alla tecnologia e alla storia della musica, però di rado si spingono oltre un singolo modello di riferimento. La limitatezza dei mezzi stimola sul serio la creatività? Può darsi, benché restringere il campo per provocare innovazione sia anche un metodo. Sai, ritengo che queste cose siano soprattutto mentali. Inoltre esiste la tensione dinamica tra agire e non agire: il fatto che tu possa non comporta per forza che tu debba… Non sarà la facilità estrema con cui si fanno dischi? L’assenza di filtri mi pare un problema serio, nel senso che una volta il produttore diventava un membro aggiunto (come il vostro Mike Thorne) e aggiungeva un prezioso punto di vista. Ora ci si produce da soli e sopravvive il sound engineer, che è meno importante sul risultato finale eccetto Steve Albini e pochi altri. è facile fare cose che suonino o sembrino a posto, più difficile è andare oltre. Il problema principale è che nessuno ha più soldi per allestire un progetto innovativo e promettente: è difficilissimo guadagnare con i dischi, così che la gente li considera un appiglio per l’attività concertistica. Prendi gli Holy Fuck, probabilmente il miglior gruppo che hi visto in azione l’anno scorso: nei ’70 li avrebbero mandati in studio con un produttore sulla stessa lunghezza d’onda e ne avrebbero tirato fuori un classico. Per come vano le cose ora, sono al di sotto delle loro possibilità - non so se per scelta o necessità - e i dischi non ne restituiscono l’impatto dal vivo. Sui miei dischi ci passo mesi, puntando a un’uscita che mostri l’attenzione e la cura profuse. Se gli Wire dovessero pagare un “third party” per pubblicare dischi, ci rimetterebbero e basta. Il tipo di economia che trent’anni fa si applicava a contesti come il nostro, adesso vale soltanto per il mainstream. 35 Recensioni — cd&lp highlight AA. VV./Brackles - Songs For Endless Cities Volume 1 (!K7, Settembre 2010) G enere : UK bas s La !K7 non sta con le mani in mano e dopo aver rinnovato la serie di punta DJ Kicks con nomi del calibro di Kode9 e James Holden, lancia un nuovo prodotto per l'ascolto di avantronica. Dalle informazioni ufficiali Songs for Endless Cities è “una nuova serie che si focalizzerà sulle nuove generazioni di DJ e produttori che hanno un taglio fresco e originale sull'evoluzione della scena elettronica”. Primo nome a cimentarsi con il nuovo ambiente è Brackles, ventiquattrenne londinese taggato come uno dei nomi di punta del cosiddetto future garage. Boss della Blunted Robots e miscelatore assunto regolarmente da Rinse FM, il giovane DJ porta avanti le contraddizioni della diaspora dubstep e le inserisce in una compilation che ricorda la svolta intelligent della già osannata Fabric Elevator Music. La direzione la spiega proprio lui stesso: “Dopo essere stato in full immersion dubstep per molti anni, ascoltare un po' di UK funky è stato refreshing. Mi piace ancora il dubstep, ma il funky ha degli elementi di cui sentivo la mancanza dopo che il Garage UK è morto. Mi ha aperto gli occhi su tutti i tipi di musica possibile, quindi cerco di inserire elementi dall'house, dal funky e dal dubstep nei miei set”. Promessa mantenuta: il disco varia piacevolmente tra molteplici generi e nomi di spicco della scena: i noti Flying Lotus, Zomby, 2562 e Dorian Concept e gli emergenti Funkineven e Breach. Un bel viaggio intorno al suono UK bass che varia tra hip-hop tagliato bbreak (My Chippy), IDM acida (Peoples Potential), synth-step à la Ikonika (Luv For KMFH), tribalismo (African Forest) e pulsazioni funk (Must Move). ’nuum is everywhere... (7.1/10) Marco Braggion AA. VV./Dj Hell - Body Language 9 (Get Physical, Luglio 2010) G enere : mix house Hell ritorna a mixare. Questa volta per la prestigiosa Get Physical che ha già visto passare per la collana Body Language nomi del calibro di Jesse Rose, Dixon, Junior 36 Boys e M.A.N.D.Y.. Il guru capocchia dell'International Deejay Gigolo plana su un decadentismo che ingloba stili disparati e completamente "fuori moda" confezionando un prodotto 100% New York con tonnellate di mastodonti (David Sylvian, Depeche Mode, Schulze e Bowie con il culto This Is Not America), paraculate (vedi il Balanescu Quartet che rifà i Kraftwerk di The Robot) e colpacci (il picco è la Detroit di Carl Craig che rifà Nairobi di Kirk Degiorgio) DJ Hell non ha niente da ostentare, né vuole farsi bello con il make up delle star. Hell è già star. E se ne frega. L'house in fin dei conti è anima, il soul con quel tocco di futuro. La decadenza è il suo lato B e lui lo sa meglio di tutti noi. Massimo rispetto. (6.8/10) Marco Braggion AA. VV./Surgeon - Fabric 53 (Fabric, Settembre 2010) G enere : techno , dubstep è dal 2007 che non si sente Antony Child su disco. L'ultima fatica del maestro del Birmingham Sound era stata la compilation technoide This is For You Shits su Warp. In tre anni il ragazzo ha iniziato ad usare Ableton, si è innamorato del Giappone e ha affinato le armi della sua manipolazione digitale. Oggi approda nel gotha del Fabric con una compilation che coniuga i mondi del dubstep e della techno (ormai praticamente in simbiosi) pescando dal meglio dei due calderoni: Scuba e Starkey per il primo, Russ Gabriel, T-Polar e Robert Hood (in overdose Detroit) per il secondo. In più si aggiungono delle tracce autoprodotte dallo stesso Surgeon che spaziano da un clubbismo spinto deep (Bad Hands) a svisate 8 bit contemplative (Klonk), da trashitudini mEshy (Compliance Momentum) a splendidi panorami darkstep (The Crawling Frog Is Torn And Smiles). Uno che dichiara di non amare le divisioni in generi e di considerare la sua musica “tutta techno” non si improvvisa. Child fa della compilation un esperimento che si allinea alle tendenze del miglior club del mondo, mostrandoci come il dubstep sia stato metabolizzato dal dancefloor, e come nel contempo si possa degustare il suono deviato dei sobborghi di Londra anche in camera, Arcade Fire - The Suburbs (Merge, Agosto 2010) G enere : wave suburbia Sobborghi. Periferia. Nel mondo post-tutto non esiste più alcun centro, alla faccia di tutto l'hype che possa venire da un sottoscala di Brooklyn o da una cameretta di Londra. Ecco il messaggio che colpisce l'ascoltatore fin dall'iniziale titletrack di The Suburbs e al quale gli Arcade Fire sembrano voler dare un'importanza primaria. Loro che sono periferici (il Quebec francofono) in un paese periferico (il Canada). Oggi, nell'imbarazzo dei media e della critica, che per quanto si sforzino di incasellare e categorizzare, in realtà faticano a inquadrare il flusso magmatico e ribollente di ciò che accade nel mondo fisico e in quello digitale, il grido folk-rock che apre il loro terzo disco ci ricorda che viviamo tutti nella nostra personale provincia: geografica, culturale, ideologica, sociale. Dopo la scossa tellurica - non replicabile - di Funeral e a tre anni dal solido Neon Bible, gli Arcade Fire avrebbero potuto lasciare da parte ogni forma di umiltà, sponsorizzati come sono fin dagli esordi da tipi come David Byrne e David Bowie, e sostenuti da un seguito oramai più che consolidato e in spasmodica attesa. Invece, preferiscono lo scarto laterale andando a prendere ispirazione nella tradizione. A dire che per loro che vengono da un'estrema propaggine wave la maturità si può trovare guardando indietro. Lasciamo al tempo decidere se questa scelta sia dettata da una sincera spinta artistica o se non sia, invece, il caso di un appannamento, di una vena compositiva che mostri i primi segni di inaridimento. Alcuni indizi fanno pensare il contrario, ma siamo comunque al cospetto di un passaggio interlocutorio. Come già si è detto su questo magazine, l'opener The Suburbs va proprio a ripescare i Sixties mai passati di moda, tra Beatles, Phil Spector e, soprattutto, Van Dyke Parks. Month Of May mantiene la propria lucentezza, pescando nel sound chitarristico della seconda metà degli anni Novanta. Certo non mancano episodi che faranno contenti i fan più incalliti: l'incedere circolare di Rococo, barocca come certe parti di Neon Bible, la melodia ondulatoria di City With No Children tra cori in stile Funeral. Ready To Go è una No Cars Go che oramai gli Arcade Fire scrivono con il pilota automatico. Accenni dancy emergono nella riuscita Sprawl II (Moutains Beyond Mountains), cantata da Régine in trip Björk e sottolineata da basi in gita europop. Altrettanto interessante il synth-pop tra New Order e Abba di Half Light II (No Celebration). Suburban Wars, invece, è Win Butler più che mai Ian McCulloch: Killing Moon filtrata dal rock di Neil Young. Nel cercare una via d'uscita da un potenziale cul de sac in cui fan e industria discografica avrebbe voluto cacciarli, gli Arcade Fire scelgono la strada più antica e fidata: ripercorrere il canone. Qualcuno dirà che 16 brani sono troppi e che si poteva asciugare qualcosa, ma da Blonde On Blonde in poi i musicisti hanno spesso usato il formato "doppio" allo scopo di segnare punti fermi. Se non assoluti, almeno personali. In The Suburbs, prodotto dalla band e Markus Dravs (Brian Eno, Coldplay), lo statement principale sembra essere la ricerca delle radici profonde del loro suono, dal Roy Orbison che aleggia qua e là allo springsteenismo permeante; senza negarsi venature psych e shoegaze. Come a dire: ecco da dove vengono il nostro linguaggio e la nostra poetica, ecco le eredità che vogliamo abbracciare. Reinterpretandole dalla prospettiva che la nostra personale provincia ci suggerisce. (7.2/10) Marco Boscolo 37 magari con una smart drug in tasca. La raccolta si lascia ascoltare senza alcun patema, anzi i remix di Substance per Orphx (Threshold) e la rivisitazione onirico spastica di Appleblim e Al Tourettes per Planetary Assault System (X Speaks To X) ci fanno salire l'adrenalina e la voglia di tornare in pista dopo i falò estivi. Una delle selecta più intriganti degli ultimi mesi. Made in Fabric, guaranteed. (7.3/10) Marco Braggion AA.VV. - Beyond Berkeley Guitar (Tompkins Square, Giugno 2010) G enere : guitar soli Anche non leggendo il libretto che lo accompagna, è facile trovare in John Fahey lo spirito guida di questo disco. Che è il seguito di Berkeley Guitar, raccolta che nel 2006 si incaricava di mostrare quanto la “scuola” della primitive guitar fosse tuttora viva da che Fahey la fondò (e con essa, la Takoma Records) in un quieto angolo di California settentrionale. Scopo raggiunto allora e oggi, allorchè la distanza dalla dipartita del Maestro cresce e con essa la portata della sua Arte; a maggior ragione pochi mesi dopo che uno dei suoi più talentuosi discepoli, Jack Rose, è scomparso prematuramente. Di blues trasformato in metafisica, qui, troverete tuttavia tracce sporadiche e più che altrove nello sferzare di corde che si fa aereo della fluviale Ourselves When We Are Real di Sean Smith, che del disco è anche il curatore. Assenti certi rumorismi o le sarcastiche intrusioni di surrealismo europeo, come non ve ne sono nei restanti sei brani offerti da altrettanti chitarristi della Bay Area, dotati dell'abilità e competenza tipiche di chi riconosce apertamente le proprie radici e pensa a sé come a un appassionato prosecutore di un'antica tradizione. Bandita ogni freddezza, nell'aria si spargono il virtuoso shuffle blues di Ava Mendoza e il dolce “raga” citazionista di Richard Osborn, il fingerpicking spagnoleggiante di Aaron Sheppard e la familiare tensione sospesa di Trevor Healy e Chuck Johnson. Non bastassero gli immaginifici titoli delle composizioni, spetta al Celacanto - pesce ritenuto estinto e riaffiorato all'improvviso in un melmoso fiume americano, nel quale Fahey amava identificarsi - sovrapposto in copertina a una chitarra incarnare l'ennesimo omaggio a un immane Genio. (7.2/10) Giancarlo Turra 38 Abdoulaye Traore - Abdoulaye Traore (Drag City, Giugno 2010) G enere : M ali blues A fare ottimo paio con il disco omonimo di Toba Seydou Traore, l'attenta Drag City immette sul mercato un'edizione digitale della prima di sette cassette pubblicate da Abdoulaye Traore. Anch'egli originario del Mali rurale e similmente segnato in giovane età dalla strumentazione dei clan di cacciatori, si rifà tuttavia alla tradizione Wasulu, basata - a giudicare da questa raccolta - su una maggiore tensione delle trame sonore, su un'ipnosi consegnata nel corpo pulsante di brani più brevi e anche più spigolosi. Ennesimo discepolo di Yoro Sidibe, col quale ha completato la propria formazione due anni or sono, l'uomo lavora di conseguenza su un groove insistito che trae origine dall'originaria natura (danza popolare e incitamento all'arte venatoria) di questa musica. Forzando un poco il discorso secondo termini “occidentali”, queste otto tracce (menzione d'obbligo per il flettersi esemplare di Sadunun e una Danbakèlè intensa più del resto) stanno al funk come Toba Seydou Traore al blues: scarnificato e vibrante, essenziale e caloroso. Un intreccio di corde acustiche e voci che prende spazio con ferma discrezione, smentendo un'iniziale apparenza monocolore e invogliando a tornare sull'argomento più volte. Gustando l'insieme tanto quanto le lievi sfumature, mentre il minimalismo ritmico secco e irresistibile di James Brown inizia a rispuntare dalla memoria. Provare per credere. (7.2/10) Giancarlo Turra Agosta - Virus (Halidon, Settembre 2010) G enere : rock d ' autore L'unica notizia che avevamo registrato riguardo a Paolo Agosta era la produzione dell'esordio di Fabio Mercuri, ma l'intraprendente polistrumentista e fotografo milanese ha già all'attivo due album: L'immensità e Nuove Strade. Per questo terzo disco, sceglie la strada della vera e propria band e rinomina il progetto semplicemente Agosta, per contenere una vene cantautoriale e rock, che sta dalle parti di Paolo Benvegnù, Morgan e Perturbazione. Le sue canzoni sono bozzetti spesso notturni, venati talvolta di melodie da mainstream (Piove sopra Milano) e di rock più corposo (Mantide), che ricorda equamente Malfunk e Scisma. Ma il leitmotiv che sembra correre lungo tutte le undici tracce, ora in modo più evidente, ora solo come una suggestione vaga e lontana, è un personale filtraggio della musica americana degli anni No- vanta (Nirvana e, soprattutto, Pearl Jam) per piegarla alle proprie personali visioni. Non un disco che sposterà di una virgola il panorama musicale italiano di oggi, ma costruito con sapienza, cultura e buon gusto, e a cui non manca una certa dose di ironia: basti guardare sul tubo il video che accompagna la cover di Altrove di Morgan, qui presentata come ghost track. (6.6/10) Marco Boscolo Alva Noto/Blixa Bargeld - Ret Marut Handshake EP (Raster Noton DE, Giugno 2010) G enere : elettronica È dal 2007 che Mr. Raster-Noton, cioè Alva Noto, ha iniziato un progetto di attività live con Mr. Einstürzende Neaubauten, Blixa Bargeld - ed è già qualche tempo che i due, tramite la label del primo, promettono di licenziare le registrazioni della loro collaborazione. Ret Marut Handshake è il primo frutto di questa sinergia: un EP su vinile 12” che introduce al tema, a sua volta rimandando all'album di prossima uscita, prevista entro qualche mese. Un sistema di anticipazioni, che rischia di far sfumare l'interesse sul primo prodotto di ANBB, acronimo che sigla l'intreccio delle due menti. Eppure è già materiale su cui spendere due ragionamenti. Il primo discende dalla statura delle due personalità, troppo invadenti, a volte (specie quella dell'ex Bad Seeds), per tirarsi indietro e far parlare con voce propria le possibilità sommatorie delle idee che ne sprigionano. One, per esempio, subisce troppo il pilota automatico di Blixa, siglato, dopo una calda-fredda riflessione cantata a là ultimi - signorili - Einstürzende, da un gridolino strozzato che lo continua a contraddistinguere come una firma che forse ha fatto il suo tempo. Funziona meglio la prima traccia, title-track, un intreccio di incubi ambientali e tenute timbriche (poco industriali) dall'efficacia impressionante, dove AN e BB trovano un senso immediato, quasi materico, al loro accostamento. In modo simile, è interessante la tematica tragi-cosmica (alla Klaus Schulze) condotta dai toni di tastiera di Bernsteinzimmer, poi trasformata, all'ingresso della voce di Bargeld, in un sospeso dramma quasi Nico-iano post-industriale. A tutti gli effetti questo EP è una dimostrazione, un prototipo. I pezzi vivono poco della propria autonomia, hanno scarsissime capacità di affrancarsi dall'ingombro, nel giudizio, dei due personaggi. Fatta eccezione per la statura (endogena) di I Wish I Was A Mole In The Ground, cover del brano tradizional-nichilista del folk americano di inizio Novecento (conosciuto a partire dall'interpretazione di Bascom Lamar Lunsford) - essa stessa un terreno di prova, che collega culture (Marcus, Dylan, la citata rooted-America, oggi il post-industriale). Ret Marut Handshake sarà pure una demo, ma di quelle che sottolineano come marginali le proprie mancanze e quindi mostrano ampi margini di crescita. (7/10) Gaspare Caliri Andreya Triana - Lost Where I Belong (Ninja Tune, Agosto 2010) G enere : nu soul Andreya Triana è l'ennesima next big thing del soul britannico. Già vista e ascoltata in un cameo con Flying Lotus e nell'eccellente partecipazione alle vocals del disco di Bonobo, rivelazione senza patron (eccetto per la sua voce intrigante) della Red Bull Music Academy nel 2006, oggi emerge in gran spolvero con il suo debutto su Ninja Tune. L'etichetta che fa il ventennio la inserisce in direttissima nella raccoltona celebrativa dell'anniversario, come a dire che anche se esordiente, Andreya può meritarsi di entrare da subito nella storia del suono UK. Ma come suona la ragazza? La voce è di quelle che non strafanno, un misto di delicatezza da bossa nova (Something In The Silence) e di soul da cameretta chill-out illbient, si regge su radici maturate sui palchi del fumoso nu-jazz britannico, cita affiliazioni di classe come il Bristol sound acustico dei Portishead più acustici, la Björk a cappella, i colori caldi dell'anima e le stampe optical Settanta. Cose da blaxploitation segate in due dalle promesse postmoderne del dubstep (non lo troverete nell'album, ma Andreya è già stata remixata dagli hyppatissimi Mount Kimbie su A Town Called Obsolete). Un esordio con i fiocchi per la riccioluta ragazza di Brighton, che stupisce con l'opener da camera Draw The Stars, le meditazioni acustiche Darker Than Blue e X e per finire con la doverosa citazione ai Massive Attack - nel titolo e nella sostanza - di Daydreamers. Come situarsi a lato degli strilloni sensazionalistici del pop di La Roux, ritagliandosi una nicchia che piacerà agli estimatori del downtempo di Martina Topley Bird, Sade e Tracey Thorn, tanto per citare tre nomi di classe non ostentata che bene si accostano alla proposta della promessa già notata dal guru Gilles Peterson. Andreya keeps it real. (7.3/10) Marco Braggion Arcade Fire - e.p. (Merge, Agosto 2010) G enere : coral - indie Da quello che è probabilmente l'evento discografico dell'anno, cioè il terzo e “decisivo” disco degli Arcade 39 Fire, sono già ascoltabili in rete quattro brani. Per quanto sia difficile dire quanto possano essere indicativi di The Suburbs (questo il titolo dell'album fuori ai primi di agosto), resta la domanda su come la formazione possa gestire il clamore suscitato; se, cioè, riuscirà a entrare in classifica e non uscire dai cuori dei più esigenti. In tal senso, infastidisce un po' sapere che il suddetto lavoro verrà commercializzato in otto copertine diverse, ma d'altra parte il marketing si muove in maniera tortuosa. Altra faccenda la musica: se Ready To Start sciacqua l'epica con caramello e sibilanti tastiere senza convincere, The Suburbs risponde tramite un appassionato folk-rock in tempo medio che ragiona sui Beatles prodotti da Phil Spector però scampati alla morte dei sixties. Il compito di stupire spetta a Month Of May, parafrasi personale del techno-rock duro e tuttavia elegante escogitato dai Primal Scream alla fine dello scorso decennio: superata l'incredulità, applaudi. We Used To Wait è viceversa il nuovo inno, fantasmi di Echo & The Bunnymen sulla china discendente si impastano di elettronica cupa anni '90 e inciampano in déjà vu e retorica. Un pareggio, a conti fatti: per gli eventuali calci di rigore, tocca aspettare il prossimo mese (6.7/10) Giancarlo Turra Autolux - Transit Transit (ATP Recordings, Agosto 2010) G enere : shoegaze youth Avevamo lasciato gli Autolux cinque anni fa ai tempi dell'esordio Future Perfect con un suono a metà tra le pose in negativo dei Sonic Youth e il pop albionico più trasognato e vicino allo shoegaze, in una formula suonata a dovere senza tuttavia quel quid da farcela amare. Ci è successo molte volte nei Duemila: tante ipotesi di (re)interpretazione di verbi potenti e familiari (un caso per tutti: i Black Rebel Motorcycle Club), poche idee melodiche e tante (magre) consolazioni in chi come questo trio losangelino si prendeva comunque la briga d'incidere un album come una volta: in uno studio decente, con un produttore d'esperienza (T-Bone Burnett) e magari pure con il tempo necessario per editare il lavoro finito, aggiungendo dettagli preziosi e togliendo amenità della prima ora. Non certo memorabile come l'esordio dei Radio Dept., Future Perfect era il classico album indie figlio di quei '00 di mezzo che annunciavano il ritorno dello shoegaze e del noise pop dei maestri (la reunion di My Bloody Valentine e Jesus And Mary Chain) senza tuttavia riuscire ad imprimere un aggiornamento a quelle sonorità; atteggiamento che Transit Transit, annunciato già due anni fa e 40 poi rimandato almeno due volte per problemi discografici, pare in apparenza ricalcare. è chiaro che nel maggior tempo a disposizione i tre noti perfezionisti hanno calcato su dettagli e layer sonici con una dovizia pari a quella dei Blonde Redhead (citati in Supertoys, Kissproof e The Science of Imaginary Solutions), eppure Transit Transit è un album a suo modo coraggioso, fatto di scelte significative che hanno comportato cambiamenti decisivi: l'attuale formula abbraccia ballate al piano attorniate da effetti quasi sinfonici (Transit Transit), un uso più sostanzioso dell'elemento kraut attraverso setting ritmici metronomici (la Broadcast-iana The Bouncing Wall) e un velato approfondimento in direzioni psych barrettiane (Census) quando non addirittura wilsoniane (Spots). Ancora un album sorretto da questo impegno e potrebbero godere dello stesso rispetto dei newyorchesi più cool in circolazione. Soprattutto vantarne una variante convincente. (7/10) Edoardo Bridda Best Coast - Crazy For You (Mexican Summer, Luglio 2010) G enere : 60 s pop Un hype del genere, condito dall'immancabile fake album circolato in rete ad opera, sembra, della stessa label, non si vedeva dagli albori dell'era Napster: centinaia e centinaia di bloggers e downloaders compulsivi posseduti e incattiviti alla vana ricerca di un link valido da scaricare. Basterebbe questo - e i vari pezzi piccoli sapientemente sparsi per label di culto - a dare la misura dell'attesa creatasi intorno all'esordio di Best Coast, moniker che vede esporsi in prima persona la nemmeno 23enne Bethany Cosentino, pischella californiana dallo charme notevole e ben nota a chi frequenti le più strambe lande NNF, Pocahaunted su tutti. Coadiuvata da Bobb Bruno, a tutti gli effetti ormai membro stabile di Best Coast, la graziosa chitarrista dimentica le freakerie dei progetti passati e adempie al proprio, dichiarato compito: quello di proporre “straightforward pop” inanellando una serie di zuccherose songs amabili nella loro minuta delicatezza post-sixties. Nulla di diverso dal solito humus pop in lo-fi maturato all'ombra dello Smell; ma invece del post-punk ruvido, tribale e scontroso, Best Coast prende di petto l'immaginario seminascosto degli '80 noise-pop targati Vaselines, Black Tambourine e compagnia C86 tutta e lo trascina verso lande più '50 & '60-oriented, alla maniera di Patsy Cline (prendete la coralità di Our Deal) o rielaborate alla The Go-Go's di Belinda Carlisle (When The Sun Don't Shine). Il tutto permeato da un malinconi- highlight Daredevil Christopher Wright (The) - In Deference To A Broken Back (Almost Musique, Maggio 2009) G enere : alt folk Glielo scrive anche l'etichetta, e la cosa non è che faccia loro una bella pubblicità: i Daredevil Christopher Wright sono dei modesti dudes del Midwest, provenienti da piccola town chiamata Eau Claire nel Wisconsin. La città è stata scoperta dai francesi che attraversato il Chippewa River pare abbiano escalmato voici l'eau claire una volta arrivati sin qui. Lì finisce l'aneddoto e le cose da dire sul contesto di questi tre sfigatelli che si presentano al mondo fotografati sul divano di casa con sotto il culo una delle peggiori fodere a fiori mai viste in un supermercato. Tanto sfoggio di modestia nasconde naturalmente degli antidoti, o se non altro delle vie di fuga, e probabilmente anche una strategia. Daredevil, il darkissimo supereroe cieco, davanti all'ordinario Christopher Wright, non è nient'altro che una trovata kitch, date certe passioni vicine alla stagione dei "campanellini" folk americani e al Sufjan Stevens dei concept. La chiameremmo, semplicemente, provincia, quella che guarda a distanza gli stili duri e puri delle metropoli e che fa tesoro del meglio degli ultimi anni. Che non decide di fare art-indie-folk, ma finisce per farlo, mettendo insieme un'intro con pose Parenthetical Girls (Hospital), innesti glam, conquiste dei primi Akron / Family (senza la variante hippie, altra forma di messa a distanza, ma temporale) - sentite Acceptable Loss - e liriche naif o fintamente black-humoured. Senza dimenticare i basics (War Stories) che aprono ancor più gli occhi su una formazione acuta e intelligente, dalla scioltezza invidiabile. In Deference To A Broken Back, uscito già nel 2009 nel mercato americano e oggi disponibile anche da noi, non si fa bello soltanto per qualche falsetto arrangiato chamber, ma per la capacità di distillare purezza complessa dei folk Duemila americani. Forse che la disinvoltura più anti-cool che esista sia diventata cool? (7.3/10) Edoardo Bridda co immaginario amoroso, come nella micidiale doppietta iniziale Boyfriend e la title track. Crazy For You è un album gradevole e apprezzabile seppur per nulla originale, ma ripulito dalle angherie del lo-fi fa risalire in superficie melodie cristalline, orecchiabili e incantatrici. Come se il lo-fi fosse stato più che un modus vivendi, una condizione passeggera superata una volta avuto a disposizione uno studio vero piuttosto che scassati marchingegni da usare nelle proprie camerette. Si veda alla voce Wavves per conferme. Sia come sia, questo esordio farà comunque strage di cuori, e siamo pronti a scommettere che quella di Bethany Cosentino sarà la spiaggia migliore cui approdare in questa estate indie 2010. (6.8/10) Stefano Pifferi Big Boi - Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty (Purple Ribbon, Luglio 2010) G enere : nu - bl ack /HH L'altro André degli Outkast rilascia finalmente il primo album solista, lungamente lavorato (le registrazioni sono cominciate nel 2007) e penelopicamente rinviato per tutto il 2010. Diciamolo subito, Sir Lucious... è un ottimo lavoro, ma non è il capolavoro - l'epifania nu-black - che ci si aspettava dopo tanta attesa e dopo tanto strombazzamento. è invece la vetrina su un hip hop commerciale stralucido (tra r'n'b, funky e trucchi elettronici), prodotto con tutti i crismi e dal forte appeal pop, con al centro monolitica - la tematica pappona/sessuale delle liriche del nostro. Vari i produttori presenti (il Salaam Remi collaboratore della Winehouse, Organized Noise, Lil Jon, Scott Storch, il compagno Andrè 3000 al lavoro su una scampanellante You Ain't No DJ), come pure gli ospiti, tra i quali 41 spiccano i nomi - e le performance - di Jamie Foxx, Janelle Monáe e il padrino George Clinton. Numeri tutti di livello, con una manciata di highlites che vanno dall'incipitario sketch Daddy Fat Sax (che è anche il titolo del follow up già in lavorazione, annunciato per fine 2011), all'esotismo scuro di Tangerine, al synth-r'n'b di Night Night, al molle sexy funky di The Train Pt. 2, al pathos post-disco e Ottanta di Shine Blockas. Aspettiamo adesso nuove dal duo in quanto tale e dall'altro solista. (7.1/10) Gabriele Marino Björk/Dirty Projectors - Mount Wittenberg Orca (Autoprodotto, Giugno 2010) G enere : a cappell a Gli intenti sono mirabili, i risultati pure, nonostante una lunghezza più da ep che da album collaborativo vero e proprio. Teatralità, coralità e orchestrazione pop-oriented rappresentano da sempre 3 punti fissi per entrambi i soggetti qui presenti e questa lunga suite da 21 minuti divisa in 7 brevi movimenti - i cui proventi verranno destinati alla National Geographic Society per la salvaguardia della flora e della fauna marina - non sfugge alla norma. Centrale la voce eterea della musa islandese, ma Dave Longstreth & family non sono da meno nell'innervare un suono scarno, quasi stilizzato al punto da essere effimero e al limite dell'intangibile, di una coralità aliena. Ne escono fuori brevi bozzetti, frammenti di un unicum, che toccano lande orchestrali a-cappella (On And Ever Onward) o quasi da vaudeville dei tempi andati (When The World Comes To An End con Longstreth a tirare le fila), mantenendo sempre sul filo del giocoso scambio vocale la tensione dei pezzi (il simil-loop vocale che fornisce la base a Beautiful Mother) o su quello della teatrale drammatizzazione (No Embrace). Insomma non un mero esercizio di stile. Un ottimo assaggio, perciò la speranza a questo punto è vedere in azione questa eterogenea collaborazione in un album più ampio e articolato, magari un concept. (6.7/10) Stefano Pifferi Black Mountain - Wilderness Heart (Jagjaguwar, Settembre 2010) G enere : '70 rock Chissà se c'è lo zampino di produttori esperti come David Sardy e Randall Dunn nel ritorno di un po' d'equilibrio in casa Black Mountain. Registrato principalmente a Los Angeles, Wilderness Heart vede i due 42 di cui sopra - in curriculum tra gli altri Johnny Cash, Sunn O))) e Six Organs Of Admittance - affiancare Stephen McBean nel nuovo tentativo di conferire freschezza a memorie seventies rock fatte di “progressivi” empirei e riff sabbathiani, di citazioni Deep Purple e oasi acustiche. Diresti che qualcosa s'è guadagnato nella discesa in California e nell'aver aggiunto ingredienti a una ricetta che sinora ha soddisfatto solo in parte con un esordio disinvolto e il tronfio seguito In The Future. Di conseguenza, questo difficile terzo album avrebbe dovuto sciogliere le perplessità sul progetto e nondimeno è una missione incompiuta, la solita convivenza tra stereotipo, mestiere e ingegno che rimarca l'impossibile credibilità di questi linguaggi se non ci si libera dell'ammuffita seriosità originale. Perché da un lato apprezzi gli scintillanti Black Crowes aciduli e candeggiati (The Hair Song) e i Mudhoney che assumono anfetamina con Lord e Blackmore (Let Spirits Ride), piace il singolo Old Fangs che trotta da un raduno di Harley Davidson e la fa franca evocando i Blue Oyster Cult sull'orrido di Smoke On The Water, convincono le cupezze cosmic-folk Sadie e Radiant Hearts nel combinare eleganza e robustezza. Però la title track intrappola P.J. Harvey in un pantano kitsch e Rollercoaster la soffoca sotto clichè hard. Nel mezzo, ballate roots si barcamenano tra l'ottimo (Buried By The Blues), il buono ma prolisso (The Way To Gone) e la mera piattezza (The Space Of Your Mind). Avanti così, tutto è possibile: il capolavoro nel 2014, una totale resa delle armi, l'alternanza eterna di brutture e colpi d'ala. La schizofrenia come ragione d'arte, e così sia. (6.8/10) Giancarlo Turra Blonde Redhead - Penny Sparkle (4AD, Settembre 2010) G enere : dream pop La rivoluzione “meravigliosamente riuscita a metà” di Misery Is A Butterfly, primo disco uscito per la 4AD, qui non si è conclusa, ma anzi, Penny Sparkle, sottolinea la stessa linea già aperta con 23. Preceduto dalla nenia perfettamente radiofonica di Here Sometimes il disco, prodotto dagli svedesi Van Rivers e Subliminal Kid (Fever Ray), sembra segnare la definitiva pacificazione del Blonde Redhead-sound. Se già sei anni fa gli impeti rumoristici cominciavano a essere condotti al guinzaglio, fino a essere messi al totale servizio di un suono più addomesticato e pop, oggi sono praticamente scomparsi, dando aria a un disco di dream-pop elegante ed etereo, giocato più sull'atmosfera ovattata che sugli scarti e le improvvise aperture. highlight Dylan LeBlanc - Paupers Field (Rough Trade, Agosto 2010) G enere : F olk /C ountry A Dylan LeBlanc certo non saranno mancati gli stimoli, lui, classe 1990, figlio di uno degli session man di casa Muscle Shoals, Alabama, uno studio di registrazione che nel corso della sua esistenza ha attirato musicisti del calibro di Aretha Franklin, Paul Simon (per Love Me Like A Rock e Kodachrome), Bob Dylan (Gotta Serve Somebody) e Rolling Stones (Brown Sugar e Wild Horses) a registrare tra quelle mura. Tanto buona è l'aria che ha respirato fin dall'infanzia e che lo ha reso un provetto chitarrissta, che non appena raggiunta la maggiore età anche lo stesso Dylan è stato scritturato come musicista. In cambio ha potuto utilizzare lo studio per registrare le proprie canzoni, che nel giro di poco più di un anno vengono pubblicate sotto l'ombrello di questo Paupers Field. Visto il pedegree, le influenze non potevano che essere quelle della tradizione country/folk: Townes Van Zandt, Neil Young e Fleet Foxes, tra quelli espliciti; Johnny Cash e, non ultimo, il Ryan Adams di Gold, tra quelli impliciti. Con una voce intensa che per certi versi ricorda quella di Chris Isaak e un fingerpicking di classe, LeBlanc si muove tra le pieghe del genere con una penna aggraziata, rispettosa e personale, tanto da rendere ogni brano contemporaneamente suo e universale. Gli archi di Emma Hartley aprono squarci di spleen notevole, il canto strascicato di Low rende credibile tutto (nonostante la giovane età) e in 5th Avenue Bar ci si perde già dentro l'estetica del bicchiere (con una linea melodica paradossalmente simile a Statues dei Moloko). Le tematiche western fanno capolino in Death Of Outlaw Billy John assieme a un mandolino che fa subito Messico e un coro che ricorda gli Appalachi, mentre gli stop-ang-go di Changing Season la rendono perfetta per un ballo di paese attorno al fuoco. Un esordio di peso nel panorama country/folk e di sicuro uno dei più convincenti dell'anno. (7.4/10) Marco Boscolo La prima cosa che colpisce è che le chitarre non hanno un ruolo centrale nelle composizioni, dove prevalgono accurate armonizzazioni di linee vocali e tessiture synthdark-shoegaze di chiara ispirazione Ottanta. Ma più che ai primi anni di quel decennio, i fratelli Pace sembrano aver guardato alla seconda metà, a gruppi come Cocteau Twins, This Mortal Coil e Dead Can Dance, gruppi troppo spesso associati frettolosamente al synthpop, ma in realtà sperimentatori e per alcuni versi capaci di anticipare tendenze che li seguiranno, come per esempio il trip-hop. Aspetto che emerge prepotentemente, per esempio, in Oslo, uno dei brani migliori, che ricorda i primi Portishead. L'unica vera concessione al sound del passato è Will There Be Stars, brano cantato da Amedeo Pace e l'unico episodio ad avere un'anima in qualche modo rock. Penny Sparkle non è sicuramente uno dei dischi migliori del combo, ma si inserisce nella generale riscoperta di questo genere di sonorità che potrebbe garantire l'emancipazione dal mondo strettamente indie. D'altra parte non è nemmeno il disco monotono che può sembrare a un ascolto superficiale. È piuttosto un lavoro elegante, di gran gusto e cultura musicale che ha bisogno di tempo per trovare spazio di qualità nell'arco percettivo dell'ascoltatore. Particolarmente adatto all'autunno che sta per arrivare. (6.8/10) Marco Boscolo Bombay Bicycle Club - Flaws (Island, Luglio 2010) G enere : indie folk Molto hype attorno a questa band di Crouch End, zona nord della City, al debutto lo scorso anno con un I Had The Blues But I Shook Them Loose che guadagnò loro i galloni di miglior band emergente secondo i canoni del NME. Con Flaws tornano oggi a battere il ferro caldo come è d'uopo, ma - sorpresa - con attrezzi diversi: via l'indie arguto & impetuoso a favore d'una sorta di pop-rock alternativo a base folk, o per meglio dire 43 inverato dal folk, di quello che si ostina acustico a sembrare cosa viva e attuale. Una scelta che, al netto dello sconcerto momentaneo, potrà trovare giustificazione (o biasimo) solo coi prossimi capitoli della loro carriera. Intanto va preso atto di questo disco non starordinario ma curioso, nel quale il brio un po' obliquo dei quattro giovanotti gioca a modulare il tasso drammatico ora prodigandosi in estrosa ballata post-prewar (Ivy & Gold), poi esalando fervida malinconia (le belle Dust On The Ground e Leaving Blues) ed ineffabile inquietudine circa Nick Drake (Jewel), quest'ultima in qualche modo ribadita da una dignitosa rilettura di Fairytale Lullaby (già opening track dell'album d'ersordio di John Martyn). In questa specie di ansia da radici che stempera la determinazione a stare in sella al presente, la voce di Jack Steadman si erge a protagonista pressoché assoluta (con quel registro tremulo dal vago retrogusto freak, sorta di cuginetto imberbe di Devendra Banhart). Ma né essa né l'agilità della scrittura fanno oltrepassare a Flaws la soglia d'una dignitosa sufficienza: troppo poca la sostanza ed il senso di vissuto per i canoni folk che hanno scelto di perseguire. Però non smettiamo di seguirli: c'è aria di transizione verso qualcosa di più e meglio. (6.2/10) Stefano Solventi Bonobo - Black Sands (Ninja Tune, Marzo 2010) G enere : downtempo Quarto album per il produttore inglese Simon Green. Che pubblichi su Ninja Tune fa già mezza recensione. Noi aggiungiamo anche che ci ricorda, nel modo di riprendere la lezione downtempo caricandola di enfasi, il nostro Ghost-Simon Williamson. Raffinatezze a iosa, si apre con un Sakamoto anni Novanta e si continua con arrangiamenti di fiati, archi e bassi felpati dal feel caldo e suonato (e suonato benissimo): il tutto è davvero demodè, ma che stile! Tre pezzi con l'Andreya Triana da poco uscita col primo solo album, vocalist vellutata che abbiamo scoperto sul Reset di Flying Lotus; uno di questi (Eyesdown) azzarda tentazioni - acciaccature - dubstep, ma le affoga in un contesto placidamente trip hop/chill out. Demodè dicevamo, datatissimo anzi, vedi 1009 (quell'uptempo, quegli archi così carichi di pathos) e vedi la conclusiva titletrack (un compendo di cliché). Supermanierismo. (6.8/10) Gabriele Marino 44 Budos Band (The) - III (Daptone Records, Agosto 2010) G enere : afro soul Con i suoi 150 concerti negli ultimi due anni, se c'è del tempo da spendere, la Budos Band preferisce passarlo sul palco e non di certo in studio. Le session di questa terza prova, avvenute negli House of Soul Studios di Brooklyn, sono durate appena 48 ore con Bosco Mann, bassista dei Dap-Kings e produttore di punta Daptone, in regia.All'ordine del giorno: perseverare nella budos fever come si affrontasse una missione. E pensare che secondo il sassofonista Jared Tankel, nei piani c'era di realizzare la prima uscita doom-rock-psichedelica griffata Daptone. Fortunatamente però, scongiurato tale modello la cifra s'è tenuta sulle proverbiali corde afro-soul con The River Serpentine, Rite Of The Ancients e Golden Dunes assunte a nuovi classici di genere. Al contrario dei concittadini Antibalas (con i quali condividono il progetto Menahan Street Band), la band non risponde ad alcuna chiamata alle armi, qui piuttosto si respira un aria fastosa e orgiastica nel contempo, tra un omaggio metal (Black Venom riverisce sì Black Sabbath e Venom ma solo nell'intestazione) e cover vestite di nero dei Beatles (Reppirt Yad, in pratica Day Tripper in reverse) declinate come se un combo afro suonasse in una sagra popolare: sudore, passione e goliardia. La missione continua. (7/10) Gianni Avella Chief - Modern Rituals (Domino, Settembre 2010) G enere : FM indie Quando la pubblicità è l'anima del commercio: per presentare l'esordio di questo quartetto losangelino l'etichetta tira in ballo Neil Young, Tom Petty, The Band, Crosby, Stills & Nash. Robetta da niente, eh? Racchiuso in una copertina sciatta e fuorviante, il contenuto rivela invece un rock venato di radici però anestetizzato e ripulito che sbrodola retorica, plastica e melassa da ogni dove. Elegante e ottimamente prodotto da Emery Dobyns, volpone con in bacheca un Grammy, Modern Rituals è una sfilata di luoghi comuni da lasciare allibiti e non solo per il fatto che l'etichetta sia l'altrimenti seria Domino. Per dire: Nothing's Wrong ruffianeggia a passo di folk-rock tagliato su misura per le FM americane e Summer's Day suona come un'attualizzazione degli agghiaccianti America. Altrove, Wait For You e Night And Day liofilizzano la devozione per Brian Wilson dei Fleet Foxes e sono episodi passabili alla luce di certe ballate che più formu- laiche e ingessate non potrebbero darsi; infine, per stare sul sicuro e centrare un bersaglio, ci si gioca la carta del successo ammiccando ai Verve (Stealing) e plagiando i Coldplay (In The Valley). Tutto dire. Al bar del quartiere sostengono che il rock è morto e sepolto: ascoltando questa immondizia, diresti di sì. (4.5/10) Giancarlo Turra Coil Sea - Coil Sea (Thrill Jockey, Agosto 2010) G enere : hard - psych Concepito come una session hard-psych di classica scuola Kranky (Hash Jar Tempo, Bardo Pond...), The Coil Sea altri non è che Dave Heumann, in pausa dagli Arboretum e qui in jam con alcuni amici. L'album è una raccolta di alcune sedute d'improvised music con l'eccezione di Abyssinia, unica track ad aver avuto un riff preparato (suona come un classico giro Jesus Lizard dilatato in un trip ad alto tasso di peyote e indiani morrison-iani al seguito). Il resto presenta un editing praticamente invisibile e l'episodio migliore, Dolphins in the Coil Sea, omaggio alla leggenda jazz/noise Sonny Sharrock, risulta essere l'unico pubblicato in presa diretta (fate conto dei Dirty Three con la chitarra al posto del violino). Alla scampagnata hanno partecipato il bassista degli Arboretum Walker Teret, Matthew Pierce (tastiere) e Michael Lowry (batteria) dei Big in Japan, fantomatica band part-time di attori e musicisti, e altri personaggi ancora meno noti: Michael Kuhl (percussioni), Jimmy Wallace (chitarra). Tutti sudati, forse drogati, sicuramente fottuti professionisti. (6.5/10) Edoardo Bridda Cult Of Youth - Filthy Plumage In An Open Sea! (Avant!, Luglio 2010) G enere : dark - folk Il neo-folk al tempo dello scompaginamento post-cameretta. Questo, con qualche forzatura, potrebbe essere il sunto di Filthy Plumage In An Open Sea!, mini-lp con cui il solo-project del newyorchese Sean Ragon debutta per la nostrana Avant! dopo un 7” omonimo e il molto ben accolto full-length A Stick To Bind, A Seed To Grow su Dais. L'attacco di Lace Up Your Boots non lascia spazio a dubbi: corde acustiche affilate come stiletti alla maniera di un Douglas P incattivito dagli eventi (storie di alcolismo, tossicodipendenza e crisi interiori) e stremato da sentimenti estremi impossibili da placare. Quando la tensione si allenta (And The Sky Will Open (For Michael)) e l'interplay accoglie trombe dark-folk e svisate di synth acidissimi (Eihwaz), a farla da padrone è sempre la voce quasi baritonale di Ragon, paragonabile per teatralità e profondità di toni a quella di un Peter Steele (Type O Negative) giovane, roco e possibilmente più romantico. Immaginario e referenti sono quelli classici del paganfolk virato goth e dark, tutto ritualità e spiritualismo, ma c'è un non so che di lacerato che rimanda a panorami rock&garage, tanto che la conclusiva Bottomed Out - un numero alla Velvet Underground, storto, sensuale e suadente, che mai ci saremmo aspettati - tutto sembra tranne che fuori luogo. Anzi, individua una possibile apertura a qualche sviluppo futuro piuttosto interessante alla Spiritual Front. (7/10) Stefano Pifferi Daddy Was A Driver - Daddy Was A Driver (ZipRecords, Luglio 2010) G enere : country rock Tra le prime cose che si notano c'è senz'altro la pronuncia: ogni parola scolpita come fosse una sculturina d'aria, tipico marchio d'inglese imparato bene ma pur sempre imparato. è un difetto, sì, ma di quelli che convalidano anziché invalidare, elemento oserei dire filmico che consolida e rimpolpa il sogno-spaghetti dei Daddy Was A Driver, bolognesi un tempo noti come DeSoto. Sono quattro ragazzi con l'immaginario piantato da qualche parte tra il paisley meno furioso, le nostalgie countrysixties dei R.E.M. e una spolverata di surf condito col peyote (vedi la tarantiniana Riding Day By Day, non a caso destinata a far parte della soundtrack di Blood & Curry, film diretto da Atul Sharma). Paesaggi sonici ben noti ed esplorati, che però i Nostri abitano con quel misto di convinzione, disinvoltura e ironia (prendete l'Elvis di riporto in Please Stop Crying) di chi ha colmato la distanza che separa il desiderio dal reale. Un gioco giocato sul serio, volando in quel di Tucson dove la partita puoi disputarla davvero "in casa", registrando (bene) assieme a Craig Schumacher (già dietro la console per Calexico, Steve Wynn, Neko Case, Giant Sands...) quei tre quarti d'ora di microcosmo western ruspante e acidulo, indolente e indolenzito, cazzone ma a suo modo rigoroso e in fin dei conti inattaccabile. Il motore gira come se non dovesse fermarsi mai. La direzione è ostinata, l'andatura confortevole, la compagnia buona. (6.9/10) Stefano Solventi 45 Dargen D'Amico - D' (parte prima) (Giada Mesi, Giugno 2010) G enere : poesia tamarra Dargen è lucidamente consapevole di dove sta andando. Dalla visione, con relativo piccolo grande botto indie, di Di Vizi Di Forma Virtù (2008), ha intrapreso un personale percorso-calvario in cui "ho messo in moto il ciclo della mia morte artistica, e non riesco più a interromperlo". D' (parte prima), solo digitale, "è il mio rispettoso omaggio ai neomelodici, al loro mood compositivo". Detto questo, detto tutto. Pasolinianamente attratto da quei materiali e da quell'immaginario uberverace, ad un tempo provinciale e metropolitano, D si sporca le mani fino in fondo, immergendo il suo freakcantautorato in una estetica tamarra - tanto sul versante del rap, quanto su quello elettronico/danzereccio - di cui sta cercando chiaramente di fissare la poetica. Una frase come "la mia religione è bere qualcosa con te" non è equivocabile, dipinge alla perfezione tutto un mondo, tutta una filosofia di vita. Capire Dargen oggi è come capire Battiato ieri, bisogna essere sintonizzati, vincere qualche idiosincrasia personale. Citazioni da Battisti e da Pasolini in Bere qualcosa, con rime ("Anita Baker/parete") e liriche ("dal cielo di Nutella cade e si glassa una stella") che solo lui può rendere credibili. Zucchero luminoso (il vocoder che dissolve parole e immagini) nello storytelling di Perché non sai mai, surreale, e di Malpensandoti, super-romantica (autobiografica?). Ancora, l'assalto uptempo di Van Damme, storia d'amore violento; l'autoreferenzialismo tra straniamento ("mi riconosco nel mio disco solo se mi rispecchio nel retro del cd") e cazzeggio dell'appiccicoso motivetto dance di Prendi per mano D'Amico; il tropicalismo guascone/baccaglione di Ma dove vai. Alla fine tutto funziona sorprendentemente bene. Bocciamo soltanto, e in pieno, il sermoncino pro-comunicazione faccia a faccia al tempo di Facebook di - nota bene, qualunquismo "contro" fin dal titolo - Nessuno parla più con nessuno, in coppia con Fibra. Aspettiamo la seconda parte, annunciata per i primi di ottobre. Dargen ha preso una china pericolosa, rischia grosso e lo sa, e noi lo seguiamo con apprensione. (6.9/10) Gabriele Marino Dax Riggs - Say Goodnight To The World (Fat Possum, Agosto 2010) G enere : P sycho blues Say Goodnight To The World, ovvero il disco che non ti aspetti. è solo dopo un doveroso setaccio della Rete che vengo a sapere che il Dax Riggs in questione, giunto 46 al traguardo del terzo disco solista, ha collezionato più progetti di un Mike Patton sotto anfetamina. Fra gli altri è stato leader degli sludge rockers Acid Bath, band che tormenta ancorai miei sonni con le malevoli sonorità sabbathiane dell'esordio When The Kite String Pops.Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata, e oggi il buon Dax, che le note stampa descrivono come un alchimista intento a distillare una miscela di glam, doom e psichedelia, si presenta con un lavoro che, se la parola non ci suonasse mortifera, definiremmo "maturo".Sin dall'opener è chiaro che a trascorrere la giovinezza flirtando col demonio si finisce per restarne segnati. La title track ci introduce ad un blues rock sulfureo che puzza di zolfo e fango; una melodia affascinante cantata da Dax in una sorta di trance lisergica. Le paludi della Lousiana lanciano il loro tanfo mefitico su tutto il disco, ma nella lenta e allucinata I Hear Satan, il clima si fa umido ed irrespirabile. Il panorama cambia appena con Gravedirt On My Blue Suede Shoes, un rock robotico che sembra uscire dalla penna del Josh Homme più ispirato, mantre il tenero raga di Like Moonlight sposta gli orizzonti verso un space rock sognante e ipnotico. Il resto dell'album ci mostra un Riggs sempre più eclettico assumere di volta in volta le pose sciamaniche del Nick Cave più pacificato, le ascendeze folk rock di Hank Williams e sposarle con una vena punk lirica e tormentata. Tutto in poco più di mezz'ora, di cui, a ben vedere, neanche un minuto andrebbe buttato. (7/10) Diego Ballani Dead Confederate - Sugar (Razor & Tie, Agosto 2010) G enere : A lternative rock A pochi mesi dalla pubblicazione europea del disco d'esordio, torniamo a parlare del giovane combo di Athens, le cui sonorità sembrano sempre più improntate ad un revivalismo 90s decisamente affascinante, che tuttavia alla lunga rischia di sminuirne le reali ambizioni. Dopo un lavoro in cui l'amore per il grunge più sofferto e meditabondo dava l'opportunità al giovane leader Hardy Morris di esibire un songwriting dolente ed ambizioso, i Dead Confederate stemperano i toni plumbei con i colori del pop. Questo Sugar, che sin dal titolo tradisce aspirazioni di popolarità, sembra uscito da una capsula del tempo sigillata intorno alla metà degli anni 90.Vi si può ascoltare un gruppo intento a ridefinire il proprio sound incrociando rumore e melodia, secondo una ricetta che mescola le sonorità urticanti del noise a stelle e strisce, alle melodie del pop britannico. I Dead Confederate lo hanno highlight Humpty Dumpty - Noia e rivoluzione (World Canary Cancerous Food, Luglio 2010) G enere : cantutorato wave Un paio di anni abbondanti dopo il buonissimo Q.B., a pochi mesi dalla coppia di ep A mile From Any Neighbor e Pianobar dalla fossa, torna Humpty Dumpty ovvero Alessandro Calzavara coadiuvato ai testi dal sempre più coinvolto e sodale Renato Q., con un album - al solito in download gratutio - che ribadisce peculiarità e sostanza della proposta. Già il titolo Noia e rivoluzione fa intuire la marcata vis politica che lo innerva, anche se l'aspetto interessante è quello sonoro, mai come oggi a fuoco, intenso e definito. I riff che sferzano come virus electro punk (Marianna), il fuoco frigido delle trame androidi (Sedizioso), l'essenzialità acidula delle ballad semiacustiche (le languide insidie neo-psych de Il Duomo di Milano), i derapage kraut avariati (L'ora delle ghiande): un rosario di perle melodiche tanto più appassionate quanto aspre, conflitto acceso ad altezza d'uomo crocifiggendo un novero di quotidiane (ed endemiche) miserie che appestano il civil vivere. Il "metodo" Humpty Dumpty campeggia evidente ed efficace: costruirsi un bozzolo sonico con molecole cantautorali outsider (Faust'O, Garbo...) e linee d'ombra wave-psych (Julian Cope, Robyn Hitchcock...), così da smarcarsi in capsule atemporali ripiene di sdegno nutritivo. Che ti si sciolgono dritte nel cervello senza passare dal via. (7.6/10) Stefano Solventi forgiato in mesi di tour a supporto di Dinosaur Jr. e Meat Puppets e arrivano all'appuntamento agguerritissimi, puntando su un romanticismo psichedelico che corroborano con massicce quantità di watt e che, nei momenti migliori (complice la vocalità di Morris, così affine a quella di Billy Corgan) evoca lo spettro dei primi Smashing Pumpkins. Quel che sorprende, almeno chi, come il sottoscritto, aveva apprezzato il precedente Wrecking Ball, è la totale assenza di quel roots rock che incarnava brillantemente lo spleen della provincia americana. Oggi un brano come In The Dark, con i suoi accordi aperti e le distorsioni luccicanti, ci porta dalle parti del tardo shoegaze; Run From The Gun è una ballata elettroacustica così malinconica e accattivante che non stonerebbe nel repertorio dei Bluetones. Purtroppo si tratta dei punti più alti di una scrittura che si è alleggerita parecchio rispetto all'esordio, che si dibatte alla ricerca di un barlume di personalità e nel farlo decreta il trionfo della forma sulla sostanza. In questo senso Sugar è una raccolta di canzoni confuse e felici: non dice nulla di importante, ma lo fa con stile. (6.2/10) Diego Ballani Dean & Britta - 13 Most Beautiful (Double Feature, Luglio 2010) G enere : velvet guitar sound Bello, questo ulteriore passo di Dean Wareham dopo l'archiviazione dei Luna: con la moglie - e ultima bassista dei suddetti - Britta Phillips ha sonorizzato tredici film della serie Screen Test diretta da Andy Warhol. Mossa più onesta nel riconoscere la propria discendenza dai padri Velvet Underground non poteva esserci, così che dopo il relativo DVD del 2009 e la presentazione del progetto dal vivo, ecco un'ora e mezza (il secondo CD riprende otto tracce in versioni diverse) all'insegna del drone ’n' roll, influentissimo suono chitarristico minimale, urbano e chiaroscuro nato con il “disco della banana” e poi assurto a pilastro del krautrock, della new wave e infine - tramite le tessiture di Spacemen 3 e My Bloody Valentine - planato sul post-rock. Date le premesse, non troverete nulla di nuovo o presunto tale: semmai un bel riassunto di uno stile tanto multiforme quanto appare monocorde a un ascolto distratto. Una raffinata ipnosi, sia essa di corde o pulsazioni sintetiche però umane poco conta, giacché la radice è la medesima e lo spettro analizzato in ogni variante. Dal taglio alla Yo La Tengo (grossomodo della stessa generazione 47 di Wareham ) di It Don't Rain In Beverly Hills e I Found It Not So alla classica corda tesa Incandescent Innocent; dalle mesmeriche Not A Young Man Anymore, Ann Buchanan Theme e Richard Rheem Theme - "autobahn" che da Colonia portano alla New York dei Suicide attraverso Rugby al romanticismo morboso di International Velvet Redux e Knives From Bavaria; dalla levità chiesastica con vocalismi Alan Vega dentro Teenage Lightning (Sonic Boom ne cura il mix) al twang che vivifica Herringbone Tweed e Silver Factory Theme. Si gode e si trova un solo neo nella fiacca cover della dylaniana I'll Keep It With Mine, la Phillips poco incisiva e lontana sia dalla Nico di Chelsea Girl che dalla Susanna Hoffs di Rainy Day. Pelo nell'uovo che non inficia l'ennesimo mattone di una tradizione che ancora affascina e si riverbera nell'attualità a quasi mezzo secolo dall'apparizione. Chiedere, per ulteriori referenze, a favolosi epigoni chiamati Brian Jonestown Massacre, Warlocks e Black Angels. (7.3/10) Giancarlo Turra Deepchord - Liumin (Echospace, Giugno 2010) G enere : T echno dub A tre anni dal successo di critica del precedente The Coldest Season (che ottenne il massimo dei voti sul popolare Resident Advisor), Stephen Hitchell e Rod Modell tornano a professare il verbo techno dub tagliato house in una classica triangolazione di flavour tra Berlino, Detroit più Chicago che rappresentano l'incarnazione più profonda del brand Deepchord. La struttura base rimane anche qui fondante ma la proposta si rinnova dall'interno accogliendo nuove suggestioni e tecniche, unendo lo sguardo dilatato di Pan American (In Echospace e Burnt Stage soprattutto) ai field recording di stanza Mille Plateaux (Vladislav Delay), ovvero coniugando l'umbratilità del post post rock '90/'00 - oramai materia completamente elettronica con le passioni industrial dei glitch-ers dello stesso periodo. Sul mestiere, al solito ineccepibile, se la giocano le inclinazioni Basic Channel (Summer Haze) e Coco Steel & Lovebomb (Firefly) di Hitchell, e le visioni tubolari analogiche tipiche del Modell (Sub-Marine, Maglev); parlando di pura classe abbiamo invece i sample dub rubacchiati a King Tubby su cassa quattro di BCN Dub che sono la miglior risposta alle fanfare ipnotiche di Ricardo Villalobos di qualche anno fa. Leggermente inferiore rispetto al citato esordio, Liumin è decisamente un ottimo ritorno per l'ineffabile coppia 48 che, ancora una volta, sottrae al ballo per donare attenzione all'ascolto. Ascolto che si fa puro ambiente enoiano nelle tracce untitled del bonus cd Liumin Reduced, tra synth eterei, tape delay e suggestivi field recording catturati da Modell durante un viaggio in Giappone. (7.1/10) Edoardo Bridda Delays - Star Tiger Star Ariel (Lookout Mountain Records, Giugno 2010) G enere : B rit pop A ben vedere i Delays hanno sempre avuto le carte in regola per essere uno dei gruppi più odiati del pianeta pop.Basti pensare al falsetto efebico del cantante Greg Gilbert, all'utilizzo non proprio raffinato dei synth, rivolto sempre ad ottenere il massimo del risultato con il minimo sforzo. Aggiungiamoci pure che il loro è un genere che avrebbe ottenuto facili consensi a metà anni 90 e che già all'epoca dell'esordio (datato 2004), sembrava aver perso lo smalto dei tempi d'oro. Nonostante questo non si sono mai levate feroci critiche al loro operato, anzi, quando c'era da tirare il fiato e passare qualche minuto in allegria, la malìa pop di brani come Long Time Coming e Valentine ha sempre fatto il suo sporco lavoro. Sarà proprio per scrollarsi di dosso l'etichetta di "band da singolo", che i quattro provano ora a misurarsi con canzoni dal respiro più ampio e disteso. Non che Star Tiger Star Ariel deficiti di pezzi a presa rapida. I Delays sono campioni della melodia istantanea e lo ricordano con il pop d'assalto di In Brilliant Sunshine.Il succo dell'album, però, sta altrove: nella ballate adamantine (come l'iniziale Find a Home) in cui giocano la carta di una psichedelia tenue, velatamente shoegaze, o nel chitarrismo leggiadro e fluente che sfoderano nella coda strumentale della title track, quando arrivano addirittura ad evocare lo spettro degli Stone Roses. Peccato che incomba sempre la spada di Damocle di una inusitata epicità, pronta a prendere il sopravvento appena il gruppo si distrae più del dovuto. Nel complesso, però, Gilbert e soci riescono a domare il Freddy Mercury che è in loro a beneficio di un album fra i più riusciti e gradevoli della loro carriera. (6.7/10) Diego Ballani Der Maurer - Vol. 1 (Trovarobato, Giugno 2010) G enere : contemporanea Personalità poliedrica e artista nell'etica, oltre che nell'estetica, Enrico Gabrielli ha raccolto nel giro di pochi anni quello che un musicista indipendente medio raccoglie in tutta una vita. Nello specifico, una serie di collaborazioni di rilievo con il mondo major (Afterhours, Vinicio Capossela, Niccolò Fabi, Morgan), stima ed ottimi riscontri per i progetti in condivisione (Mariposa e Calibro 35) e uno status di arrangiatore conto terzi universalmente riconosciuto nell'ambiente musicale nostrano (da Alessandro Grazian a Dente, dai Baustelle agli A Toys Orchestra). Mancava l'esperienza solista che ristabilisse i punti di giuntura con una giovinezza accademica messa un po' in disparte: il qui presente Vol. 1 del progetto Der Maurer arriva a colmare quel vuoto. Operazione in bilico tra rivisitazione e omaggio, il disco mescola brani di Steve Reich, Giovanni Gabrieli, Louis Andriessen e dello stesso Gabrielli, in un vagare in multitraccia - flauto, clarinetto, wurlitzer, pianoforte, sax, organo, batteria, tutto suonato dal Nostro - che parte dal 1985, passa per il 1567 e il 1975 per poi arrivare al 2002. Quattro brani per confrontarsi con la musica colta e contemporanea senza prese di posizioni troppo radicali, che da un lato vorrebbero sottolineare lo spessore e la curiosità dell'autore e dall'altro sottintendere un ruolo quasi educativo per i poco pratici. A quello, crediamo, tendono la ricchezza di informazioni sull'opera - cartella stampa compresa - e la possibilità di scaricare gratuitamente il disco dal sito dell'autore (www.enricogabrielli.com). Un particolare, quest'ultimo, che sancisce ufficialmente lo status di “progetto collaterale” per la serie Der Maurer. (6.7/10) Fabrizio Zampighi Diskjokke - En Fin Tid (Smalltown Supersound, Giugno 2010) G enere : electro / techno Secondo album per il norvegese Joachim Dyrdahl a seguire l'acclamato esordio Staying In di due anni fa. Il ragazzo è bravo e le produzioni sono molto ben lavorate, otto lunghi brani per un'unica suite spezzata in più movimenti, tra riff ossessivi (la title track), scansioni house (Rosenrød) e addirittura minimalismo tropical (1987). Eppure, il rischio che la cifra che informa tutto il lavoro trasmetta ripetitività più che omogeneità è forte e a fine ascolto resta soprattutto quella sensazione come d'esercizio, per quanto ben fatto. Manca qualcosa, e se non è certo stile, allora è personalità. (6.4/10) Gabriele Marino DJ Shadow - The DJ Shadow Remix Project (Reconstruction Productions, Luglio 2010) G enere : remix hip - hop DJ Shadow non sta con le mani in mano. Negli ultimi tempi si è messo a girare l'America con i suoi live. Ogni data viene registrata e stampata per la sua etichetta/sito. In più (con l'aiuto del curatore web Mike Fiebach) ha pensato di lasciare un po' di tracce disponibili per qualche remix (e qualche inevitabile premio collegato): la solita operazione da Web 2.0 direte voi. Submission dopo submission, la tattica remix ha portato inaspettate gioie, tanto che oggi esce questa raccolta delle migliori tracce uploadate dai nerd e fan del buon Josh. La raccolta non può che comprendere classici rivisitati secondo le moderne tendenze: ci piace l'electro Novanta di Sonotech (Mongrel Meets His Maker) il mix di Randomatik per Scatterbrain in acido jungle, l'illbient'n'bass di NiT GRiT (Building Steam With A Grain Of Salt), il funk-soul di Suonho (This Time) e la bella rivisitazione degli Everything But The Girl di Tiger Mendoza. Gli altri viaggiano sulle coordinate dell'hip-hop mescolato all'ambient-turntablizm di cui Shadow è uno dei pochi superstiti ancora in attività degne di nota. Essendo un classico, lo puoi rileggere quante volte vuoi, ma non tramonta mai. Anche se potrà sembrare un disco solo per affezionati, Josh ha dichiarato che lo ritiene un'uscita ufficiale e che utilizzerà le tracce di questi giovani artisti nei suoi prossimi live. Una buona partenza per capire dove andrà a finire l'hip-hop. (6.5/10) Marco Braggion Donso - Donso (Comet, Giugno 2010) G enere : electro - african Si suole affermare che l'unione faccia la forza ed ecco una dimostrazione pratica. Donso significa “cacciatore” in una delle lingue del Mali e un campanello vi starà già suonando nella zucca. Accantonate però il lavoro sulla tradizione “da dentro” condotto da Toba Seydou Traore e dal suo quasi omonimo Abdoulaye Traore: domina infatti il multiculturalismo in questa collaborazione tra francesi - il produttore Pierre Antoine Grison (anche musicista in proprio con l'alias Krazy Baldhead), Thomas Guillaume a percussioni e donso n'goni - e talentuosi “locals” come il cantante Gedeon Papa Diarra e Guimba Kouyate agli strumenti a corda. Aggiungete la kora dell'ospite Ballake Sissoko e un impiego misurato della tecnologia ad aromatizzare ulteriormente una stilosa unione di acustico ed elettronico, un felice ricongiungersi sonoro tra primo e terzo mondo 49 highlight Menomena - Mines (Barsuk, Luglio 2010) G enere : ultra ( dream ) pop Tornano a farsi vivi dopo tre anni i Menomena, da quel Friend And Foe che ci aveva intrigati abbastanza senza però imprimersi a sufficienza nella memoria, quasi fosse uno scherzo genialoide, sfoggio di talento a perdere e poco più. Invece era di più, e questo Mines arriva clamorosamente a dimostrarcelo. Col terzo disco la band di Portland centra in pieno l'obiettivo, tutte le premesse portate a compimento con l'intensità delle grandi occasioni. Il tiro è sempre quello, un patchwork impetuoso e sognante di suggestioni contemporanee, ovvero una spiccata predilezione per il brit estroso dei Blur come una pelle sotto cui si muovono inneschi post-wave, spurghi power, marachelle electro, post-soul androide TV On The Radio, enfatiche contrizioni Elbow, mesmerici artifici Mercury Rev, torve pieghe Morphine (gli sconcertanti barriti del sax), irrequietezza mitteleurpoea vagamente dEUS, slarghi melodici Coldplay, espedienti ritmici Radiohead e via discorrendo. Come già nei precedenti lavori, la canzone ne esce come uno spazio in cui il suono si reinventa riposizionandosi su combinazioni tanto veementi quanto meditate, nulla lasciato al caso neanche e soprattutto il senso d'immediatezza, un denso, impulsivo e ammaliante qui e ora. In più, oggi, c'è il voler dare un senso alla canzone, aumentandone il peso specifico al di là del rollercoaster sonoro, pompando sostanza emotiva nella vena giocosa: ci riescono mediamente bene per tutti gli undici pezzi in programma, calando assi importanti con Killemall (le cui fregole ultrapop bazzicano epos Arcade Fire e fregole Patrick Wolf), Sleeping Beauty (da qualche parte tra Flaming Lips e Peter Gabriel) e con le sfuriate power-psych di Bote. I Menomena sono un frutto maturo e succoso. Il momento di coglierli è: ora. (7.7/10) Stefano Solventi cui avrebbe giovato giusto un pizzico di concisione. Peccato veniale, dal momento che buon gusto ed equilibrio non vengono mai meno negli undici brani e specialmente in una Kono da ingolosire Eno e Byrne e nei sottintesi krauti di Konya, nella cristallina pulsazione Djama e nel superbo mesmerismo di Hunters. Saggio di meticciato del terzo millennio che, competente e caloroso com'è, non può che assicurarsi il nostro sincero “chapeau!”. (7/10) Giancarlo Turra Eels - Tomorrow Morning (E Works, Agosto 2010) G enere : alt pop Lui sostiene che queste tre uscite a raffica - intervallate da un pugno di mesi - non erano programmate.Tre botte di vita impreviste e benvenute insomma per il buon Mr. E, dopo un periodo di riflessione e resa dei conti con se stesso (che tra l'altro ha fruttato un libro di memorie e un documentario su di sé ed il famoso padre scienziato). Personalmente mi tengo il sospetto che si tratti di un 50 triplo album dilazionato, però, insomma, è questione di lana caprina. Di contro, è pur vero che già tra Hombre Lobo ed End Times intercorrevano sostanziali differenze stilistiche e tematiche, un po' come tra il qui presente Tomorrow Morning ed il predecessore. Siamo in effetti di fronte ad un lavoro - il nono targato Eels - più vivace, oserei dire speranzoso, nel quale l'arte di Mark Oliver Everett si compie nel segno di una essenzialità autarchica ed incisiva. I panni del vecchio slacker riesumati per giocare una partita elettronica (tastiere e sample in gran spolvero) come da tempo non accadeva. Il sound allergico ai fronzoli eppure pieno e intenso come un pastello espressionista (ci sono anche gli archi, a cura della apparecchiata per l'occasione Tomorrow Morning Orchestra). Quanto alla scrittura poi, accade quella specie di prodigio che permette di ripercorrere modi ben noti senza mostrare stanchezza anzi sciorinando un insopprimibile quid di genuinità e persino di urgenza. Detto ciò, se è vero che probabilmente nessuna delle tredici tracce in programma si guadagnerebbe il posto in un ideale best of, tuttavia parecchie non sfigurereb- bero accanto alle sorelle maggiori che fecero la gloria di Beautiful Freak e Daisies Of The Galaxy (con particolare riferimento a The Morning, What I Have To Offer e That's Not Her Way). Volendo cercare ad ogni costo la sorpresa, potremmo sottolineare la piega psych di riporto imboccata da This Is Where It Gets Good e quella Looking Up che sciorina errebì con un fare sanguigno abbastanza inedito per i canoni eelsiani. Tirate le somme, Tomorrow Morning è album più che dignitoso anzi buono. La maturità inquieta degli Eels non ha ancora imboccato la china discendente. (6.9/10) Stefano Solventi El Guincho - Piratas De Sudamerica (Young Turks, Luglio 2010) G enere : indie esotico In attesa del nuovo disco, Pop Negro, pronto per l'inverno venturo, il Nostro amatissimo El Guincho (all'anagrafe, ricordiamo, Pablo Díaz-Reixa) mette in circolo una serie limitata di eppì in vinile (ma anche sotto forma digitale via I Tunes) denominata Piratas De Sudamérica. Il progetto consiste nel coverizzare secondo i canoni dell'Uomo ritmiche africane, armonie sudamericane e chitarre spagnole come un Ariel Pink (ma anche un Panda Bear) cresciuto a caipirinha e papaya - classici dimenticati o meno dell'america latina. In questo primo volume, le nostre preferenze vanno a Mientes (con la popstar messicana Julieta Venegas alla seconda voce) del trio cubano Matamoros ed al traditional Cuerpo Sin Alma, i cui appeal fanno subito presa di contro alle restanti e pur sempre ottime Hindou di Orefiche Y Valdespi, Frutas Del Caney di Felix Benjamin Caignet e Marimba di Noro Morales y Miguelito Valdés. Sono composizioni risalenti alla prima metà del ’900 che nelle mani del Guincho si godono una nuova ed inaspettata giovinezza. La solita Alegranza. (7/10) Gianni Avella EL-P - Weareallgoingtoburninhell Megamixxx3 (Gold Dust, Agosto 2010) G enere : electro ( hop ) Questo disco - assicura l'autore - è stato inserito nella continuity dei suoi Megamix per il "semplice gusto di poter scrivere finalmente il numero tre su una copertina" e va quindi considerato un album solista a tutti gli effetti. Non importa neppure che sia stato annunciato da Gold Dust come antipasto a un album vero e proprio, ancora in lavorazione. Forse El-P farà come Madlib con il primo volume del Medicine Show, prima le basi in versioni alternative, poi l'album con i featuring vocali, non sappiamo, ma per adesso vogliamo dargli ragione. Così pure intuiamo in filigrana, e nonostante l'assoluta diversità di suono e di approccio, le suggestioni del Donuts di J Dilla, fonte di ispirazione dichiarata chiamata in causa però solo implicitamente, attraverso qualche sirena vagamente Mantronixiana messa in secondo piano in un paio di tracce. Confermata l'immagine apocalittica che El-P dà di sé, qui solo più stilizzata. Il disco non ha il blues del primo Wearegoing... (2003, procuratevelo), è meno rappuso/cattivo dell'ultimo I'll Sleep When You're Dead (2007). Sempre incombente però un senso come di minaccia, in produzioni fredde, dai toni cupi, dall'impatto massiccio. El-P si concentra su una austera electro anni Ottanta metallico-gommosa, tutta linee di tastiere e drum machine marziali, innervata da influenze soprattutto space/ kraut, con un paio di puntate black (fino a lambire territori discofunky - con tanto di vocoder - malatissimi e psichedelici) e di aperture al colore e a un pathos non angosciato - tutt'al più melanconico - che hanno il sapore degli ultimi Pixies (ma prodotti da Ghost-Simon Williamson). Media alta, due-tre numeri che si impongono sugli altri, un ottimo disco fuori dalle mode produttive del momento, esplorazione insistita delle diverse sfumature di una monocromia synth-electro. Per soli fan o beat-freak però. (7.2/10) Gabriele Marino Electric Sunset - Electric Sunset (K Records, Settembre 2010) G enere : D ream , indie Prima erano in tre e si chiamavano Desolation Wilderness. Erano residenti a Olympia, sede anche della K recs, etichetta per la quale hanno sfornato due dischi lunghi e due sette pollici. Poi all'anagrafe della label troviamo Nic Zwart da solo, e a San Francisco. Lui ci mette la faccia e si fa chiamare Electric Sunset. Alla stampa afferma di occuparsi di un misto di ritmi sintetici e tastiere scintillanti. Soprattutto compone il solito pop dream-ato che va tanto di moda, ma in veste 2.0. Aggiornato ai Vampire Weekend, dopo l'ondata Fleet Foxes. Per renderlo credibile, ha sostituito in camera le analogiche polaroid dei vecchi amici con un po' di photoshop scarabocchiato sopra il suo bel faccione in b/w. Portatile e moderno, mentre il trio era folky California e campanellini, l'omonimo esordio Electric Sunset suona in una parola elettronico, e in vacanza, senza essere glo ma 51 highlight Moritz Von Oswald/Vladislav Delay/Max Loderbauer - Moritz Von Oswald Trio - Live In New York (Honest Jon's Records, Luglio 2010) G enere : elettronica live Il trio che ha riportato in auge le sorti della techno suonata dal vivo con quel visibilio di album che è stato Vertical Ascent nel 2009, ritorna sul luogo del delitto e licenzia un album live che documenta la serata di debutto al Le Poisson Rouge di Manhattan nell'ambito della scorsa edizione dell’Unsound Festival. Se la perfezione del masterpiece ci poteva far pensare a troppe purezze e confezioni da studio, il dubbio viene risolto con questo documento dal vivo. I tre sanno suonare, eccome. Quattro pezzi denominati Nothing, la solita grafica minimale (e in questo senso molto Manhattan appunto) fanno del live un viaggio e un companion all'altezza del missile che ci ha sparato in orbita qualche mese fa le nuove sorti e progressive del palco techno. Nothing 1 parte con degli squelch mescolati ambient che propongono il mondo soft e caldo dei tre maestri, accompagnando il tutto con visioni di altri mondi psicocibernetiche, Nothing 2 passa al tribalismo glaciale di scuola Villalobos, tagliando con inserimenti di rumore rosa e synth che presumono visioni di inverni berlinesi o nell’ancor più fredda Finlandia di Delay, Nothing 3 si incupisce e ci porta nel cuore dell’analogico applicato al palco, suonando quasi come la scuola di musica elettronica degli studi del dopoguerra e scartabellando fantasie progressive. Nothing 4 conclude con l’acido e con le urla festanti del fortunato pubblico. Oggi la techno non si fa più con Ableton. Provate il palco. (7.5/10) Marco Braggion più banalmente K. La voce di Zwart, quando è a un solo metro da terra, ci ricorda gli intimismi più ariosi di Chris Martin (Infinity Avenue), mentre le soluzioni armoniche se la giocano tra una drum machine post-punk addomesticata, chitarrine wavey, qualcosa (poco) di Ottanta, caramello Creation, e mestiere. Zwart suona come il 90% dei combo in circolazione: canzoni piacevolmente al loro posto, né memorabili né indimenticabili né fastidiose né banali. Come per i Desolation questa è musica di contesto dove non vale il singolo episodio ma come ci si sente a fine scaletta. Con gli Electric Sunset eravamo stufi della nostra felicità, con i Desolation W. ci rimaneva addosso un po' di quella toponomastica magia. (6/10) Edoardo Bridda Elisa Randazzo - Bruises & Butterflies (Drag City, Maggio 2010) G enere : folk - rock Sarà da attribuire al ruolo di cantante e violinista in studio e dal vivo per i Red Krayola, se Elisa Randazzo 52 giunge soltanto adesso al debutto in proprio. Magari è “colpa” della professione parallela di stilista che porta via energie, oppure dell'aver pianificato con cura la mossa per quando si sentiva davvero pronta. In ogni caso - al pari della Lisa Germano con la quale trovi più di un parallelo - questa girovaga figlia d'arte (i genitori Victoria e Teddy hanno vergato successi per Zombies, Linda Ronstadt e Frank Sinatra; mamma è responsabile del classico garage I'm Five Years Ahead Of My Time immortalato dai Third Bardo) ha la mentre aperta e ottimi studi alle spalle. Ha dunque soppesato il passo, così che bene le ha detto darsi a un folk-rock profumato di country che sgorga dal Laurel Canyon dei primi anni '70. Di Judee Sill, giusto per trovare un referente calzante, non possiede però - ancora? - l'enigmatico fascino (ma nella cristallina cascata del capolavoro Waterfall sì ), tuttavia non cede alla trappola di trovarlo a tutti i costi spezzandosi le ali. Preferisce offrirne una versione altrettanto vitale, un filo più raddolcita e terrena (Moonshine,Remember May) e temperare la Joni Mitchell che fu (Blood To Give) con le sicurezze bucoliche appartenute a Neil Young (Can't Afford My Peace Of Mind, Colors); e se è vero che si rifugia dentro un paio di composizioni “gradevoli e basta” (Circles, Darkerlands), produzione e arrangiamenti rimangono per tutto il disco impeccabili, certosini eppure spontanei. Inoltre riallaccia in due canzoni il legame con la cantautrice britannica Bridget St. John, trasferitasi oltreoceano decenni or sono e da poco tornata a calcare le scene. Mostrare influenze e lignaggio senza alcuna paura è un gesto degno di chi affila una penna già acuta, di chi offre un presente da favola nell'ipnotica Wintersong, nel delicato arazzo Goodbye e nella sublime mestizia coheniana di He Faded suggerendo che il meglio sta dietro l'angolo. Giusto quello che apprezzavamo nella Germano anni fa. Se il buongiorno lo vedi dal mattino (7.4/10) Giancarlo Turra Endless Boogie - Full House Head (No Quarter, Luglio 2010) G enere : psichedelia rock Dopo quasi mezz'ora di musica si è soltanto alla terza traccia. Della serie, non sono proprio parchi questi Endless Boogie. Dopotutto il nome stesso indica una tendenza alla dilatazione estrema di un suono che del boogie forse ha poco o niente, ma che di tradizionale americano, per converso, possiede molto. Blues e southern rock, ad esser precisi, calati in un modus operandi da jam psichedelica, reiterata e senza fine, appunto. Non c'è una-nota-una che non sia reazionaria, ancorata alla tradizione, pedissequa nel riproporre una linea che dai bluesman del delta passa per Hendrix, si dilata coi Blue Cheer, include desertiche aperture psych alla 13th Floor Elevator o slanci pompati alla ZZ Top, giungendo intatta fino a noi sull'onda lunga del wah-wah e di un senso del groove veramente invidiabile. Prendete perciò Full House Head per quello che è: un vortice spazio-temporale che vi risucchierà trasportandovi in un tempo senza tempo in cui i nomi citati sopra e molti altri ancora jammano felici e stonati su un palco, ovviamente nel cuore degli states, tra desertici orizzonti e lande sterminate. (6.5/10) Stefano Pifferi Expo'70 - Death Voyage (Dead Pilot, Luglio 2010) G enere : dark - kosmische Textures decisamente più doom oriented per questo comeback targato Expo '70. L'attacco della lunga Building Celestial Tapestries sembra quasi prendere a prestito una linea di basso circolare e ossessiva dai primi OM per calarla in un abisso di paranoia che più oscura non si può. A venir tratteggiate sono da subito ambientazioni più dark che si segnalano come la cifra stilistica più evidente di questo Death Voyage, vera e propria colonna sonora da immaginarie discese acherontee. Una scelta, quella di Justin Wright, non di poco conto, in grado cioè di spostare l'asse o per lo meno innervare di dimensioni “altre” una musica che è per sua natura “apparentemente” sempre uguale. Prendete le pulsioni notturne di Metensomatosis e ditemi se non sentite influenze horrorifiche alla Goblin o Umberto (il progetto del qui presente sodale Matt Hill) seppur sempre dilatate e spacey alla maniera della kosmische più liquida e visionaria. La sensazione generale è dunque che Expo '70 sia in una fase di mutazione, seppur lieve. Il suono nei 60 minuti di Death Voyage risulta più pieno, carico e corposo, irrobustito dal contributo al basso di Hill, tanto da trascinare l'ascoltatore in un vortice che, complice pure l'artwork da film horror di serie z opera proprio di Wright, è per forza di cose discendente verso gli inferi. Ennesima bella prova per uno dei progetti più quotati della nuova kosmische. (7/10) Stefano Pifferi Faresoldi - Houstria (Riot Maker, Aprile 2010) G enere : electrohouse Copertina che cita Dj Shadow per il mini davvero mini di Luka e Pasta, tre pezzi più una strumentale. Motivetti efficaci rivestiti con i suoni giusti, puntando stavolta forse più su assemblaggio, arrangiamento di inserti e potenza di suono che sulle melodie. Sempre nel segno dell'electro, Stambulia è un energetico funky, Guerrino uno stomp disco deep, Pompa o non pompa - il cuore dell'EP - uno stardustin' discofunky che cita la mitologica apparizione a L'Istruttoria di Ferrara, anno di grazia 1992, di Lory D e Leo Anibaldi (cercatela sul Tubo). (7/10) Gabriele Marino Faust - Faust Is Last (Klangbad, Giugno 2010) G enere : experimental - rock Voci insistenti di abbandoni definitivi circondano questo ennesimo lavoro targato Faust, formazione che tra alti (moltissimi) e bassi (qualcuno, specialmente in quest'ultimo periodo dopo le vicissitudini legate al brand) calca i palchi da un quarantennio buono e la cui storia non è riassumibile in una recensione. Per approfondimenti, il rimando alla nostra retrospettiva con intervista di Caliri è 53 d'obbligo.Tornando a Faust Is Last, continuità e contiguità col primo mitico disco e con una storia musicale fattasi leggenda sono evidenti sin dalla cover, riproposizione attualizzata del celebre fist che dà nome all'intero progetto, passato ai raggi x. Diversamente però dall'originale Faust, il pugno di questo disco è lievemente più aperto, quasi a mostrare metaforicamente il rilascio e l'abbandono, dopo decenni di tensioni interne ed esterne. L'epitaffio faustiano consiste di due cd (o due vinili) in cui i nostri - o meglio, il nostro visto che l'unico reduce è Hans Joachim Irmler, mentre Zappi e Peròn portano avanti il loro progetto denominato Faust (!?!) - danno fondo a tutta la propria essenza musicale, condensando nel primo cd “A” l'intero background free-form industrial drone-rock accumulato in decenni di presenzialismo nella storia della musica (gli assalti rumorosi e provocatori di Feed The Greed e I Don't Buy You Shit No More). Il secondo disco - significativamente denominato “Z” per rinvigorire l'idea totalizzante e definitiva dell'album è invece appannaggio delle rielaborazioni/ristrutturazioni di Z'ev. Non remix, ma vere e proprie composizioni editate e trasformate dal sound-artist californiano, che smuovono la materia faustiana verso lidi di glaciale rarefazione (Ozean), di tribale accensione ritmica (Karneval) o di liquide improvvisazioni psichedeliche (SofTone). Verve e sperimentazione non mancano, così come curiosità e inventiva, e si stenta a credere alla press-sheet e al passare dei decenni. Più che un gruppo storico e storicizzato, questi Faust sembrano infatti ragazzini volenterosi di mostrare al mondo di che pasta sono fatti. Tanto che verrebbe quasi da dire “lunga vita ai Faust!”. (7/10) tempo, quello per il quale si parlò di “lavori in corso”, alla seicorde come strumento elettronico, al suo suono trattato in layer/strati al laptop, il riverbero noise a conferire forme psych o ambient e infine l'industrial a permettere i crescendo liberando la forza espressiva dei tre, il cui terzo elemento, il drummer, è come ce se lo si aspetta: minimale e jazzy, concreto e spaziale. Per appassionati di Kranky e Thrill Jockey, appunto. (6.9/10) Stefano Pifferi Marco Braggion Fennesz/David Daniell/Tony Buck - Knoxville (Thrill Jockey, Agosto 2010) G enere : noise , ambient Registrato live il 7 febbraio del 2009 al Big Ears Festival di Knoxville, Tennessee, l'album contiene la testimonianza del primo incontro in assoluto tra il noto chitarrista e manipolatore elettronico Christian Fennesz, l'avant chitarrista chicagoano David Daniell e il batterista australiano Tony Buck. Visto il successo dell'esibizione, Thrill Jockey ha deciso di pubblicarne ora un mini album di 32 minuti divisi in quattro tracce nelle quali troviamo i sinfonismi noise dell'egregio austriaco di Black Sea tuffarsi in un passato di sperimentazione ascrivibile in buona parte ai suoni Windy City della fine dei '90. Le chitarre ritornano così nel mood magmatico di un 54 Edoardo Bridda Film School - Fission (Hi-Speed Soul Records, Agosto 2010) G enere : indie , shoegaze Tornano per la quarta volta i californiani Film School. Senza rinunciare alla loro ossessione per le atmosfere pastello e le chitarre in delay che caratterizzavano le visioni di My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain e più recentemente dei British Sea Power, la loro immobilità torna di moda nel solco sunny glo-fi e guardacaso proprio alla fine dell'estate (il disco esce infatti il 31 Agosto). Mossa strategica o meno, non interessa particolarmente all'ascoltatore casuale, che può crogiolarsi in maniera egregia sulle loro pad melò, con la bella voce della cantante Lorelei Plotczyk in odore di synth analogici à la Stereolab (Heart Full Of Pentagons) o delle atmosfere dark degli inevitabili Cure (Find You Out, When I'm Yours). Il bioritmo rallentato dello shoegazing pulsa ancora e i Film School sono al posto giusto al momento giusto. Anche se non faranno il botto, qualche ascoltata in loop gliela possiamo dare. (6.6/10) Floored By Four - Floored By Four (Chimera Music, Settembre 2010) G enere : avant - rock Tempo di ricredervi se come chi scrive avete sempre nutrito diffidenza verso i “supergruppi”. Di rado, infatti, l'ego e la chimica hanno funzionato a dovere e prodotto risultati rilevanti. Nello specifico aiuta i Floored By Four l'appartenere alla storia del punk, dell'avanguardia e dell'indie più arguto senza aver mai mostrato un grammo di spocchia lungo le rispettive carriere: se di Mike Watt, Nels Cline e Yuka Honda sappiamo tutto, dell'abile batterista Dougie Bowne giova ricordare il ruolo di sideman per nomi diversi come John Cale e Cassandra Wilson, Iggy Pop e Lounge Lizards più l'attività di jazzista in trio con John Medeski e Fred Hopkins. Assemblato da Watt - che compone l'intera scaletta - in occasione del “Summerstage”, evento gestito da M. Ward tenutosi al Central Park, l'ensemble si è chiuso per tre giorni in studio prima dell'esibizione ed ecco un poker di escursioni sonore che non rappresentano il solito inutile divertissement di lusso. Estese nella durata, si situano grossomodo da qualche parte tra Tago Mago e Bitches Brew, benedette da una disinvolta ironia e dall'amalgama di gruppo responsabile di fugaci obliquità lounge e venature funkedeliche, della rivisitazione postpunk di parentesi ambientali e impennate blues-rock. Vi regnano il senso della misura e l'interazione tra retroterra sonori che non riscontri ogni giorno ma che ti aspettavi dai nomi coinvolti. Intellettuali che non si negano i muscoli e il sorriso: bene così. (7/10) Giancarlo Turra Fonderia - My Grandmother's Space Suit (Bizarre, Luglio 2010) G enere : pop post prog Fino al precedente Re>>enter i Fonderia scomodavano (a partire dal nome) link un po' tortuosi ma abbastanza robusti con certe fucine prog periodo seventies, di cui aggiornavano il linguaggio in chiave post post-rock, con particolare predilezione per le suggestioni ambientali tipiche delle soundtrack. Col terzo album My Grandmother's Space Suit il quintetto romano sposta il punto di fusione, abbracciando istanze electro-funk e dando sfogo ad una vena melodica che sfocia in ben due tracce cantate, le prime del loro repertorio: trattasi della palpitante Loaded Gun, per la voce di Barbara Eramo, e della sarcastica I Can't Believe This is Just a Pop(e) Song, affidata al canto del belga Emmanuel Louis (vocalist dei Funk Sinatra). Il resto è tutto un gravitare spacey e frizzante, il retaggio jazzy nelle pennellate di tromba, gli intrecci sincopati delle ritmiche, il ghigno asciutto e sferzante della chitarra, le tastiere che spandono immaginifica aura eighties, il tutto organizzato in arrangiamenti rigorosi, mai appesantiti dalle pur numerose trovate (un plauso doppio, visto che le incisioni si sono svolte live negli studi della Real World a Box, nel Wiltshire). Va detto che oltre la confezione la band cala sul piatto una scrittura di buon livello, con una nota di merito particolare per Doctor's Hill e A Billion electric Sheep. A tratti ti sembrano gli Yes colti da estasi Buddha Bar, altrove uno scherzo Tortoise risucchiato in un sogno elettrico quasi Air. Ma non è così facile descrivere e circoscrivere una proposta tanto complessa che ha trovato la via della semplicità e ne dà sfoggio con l'entusiasmo del caso. (7.2/10) Francesco Dacri - Che cosa sei (Autoprodotto, Settembre 2010) G enere : 70 s rock Cresciuto musicalmente nel giro delle cover band milanesi, Francesco Dacri esordisce con un disco di nove tracce tutte dedite al suono rock classico degli anni Settanta, da qualche parte tra Ligabue, Bruce Springsteen e i Blues Brothers. Il disco soffre di arrangiamenti a volte sovraccarichi, mentre il suo animo sarebbe di canzoni semplici e dirette. Fin troppo semplici, a volte, come traspare dai testi, punto più debole dell'operazione: "su una collina verde con fiori di stelle/sfioro la tua pelle bacio la tua pelle" (da Passione) o "che se l'amore è un'utopia/ rimane il sesso l'unica via" (da Vivo). (5/10) Marco Boscolo Frank (Just Frank) - The Brutal Wave (Wierd, Agosto 2010) G enere : dark - synth - pop Chris nasce nel New Jersey e cresce con l'altro, il mezzosangue indiano Kirti, nella Francia del Sud, prima di spostarsi entrambi a Londra e tornare a Parigi. Assieme sono Frank (Just Frank), duo che va di coldwave a palla senza essere brutal come da titolo, e che rappresenta l'ennesima nuova sensazione di casa Wierd, etichetta che si sta ritagliando una personale nicchia d'interesse in ambiti latamente wave. I due producono raffinati quadretti che sfiorano lande pop, in virtù di un cantato che, pur sfruttando lo straniante accento francese, rimanda a mostri sacri della wave più elegante e popular (qua e là reminiscenze Echo And The Bunnymen, addirittura echi dei migliori Bauhaus e The Church, ma ovunque un mood malinconico vivo e appassionato) come a slanci dark-goth classici (l'opener Beneath, l'ottimo incedere Batcave di Mr. Itagaki, la malinconia autunnale di Crisis). Anche l'interplay, per quanto synthetico (drum machine e synth che fanno tappeto alle chitarre), mantiene un calore estraneo alla cold-wave tipicamente intesa per avvicinarsi a territori limitrofi a leggende più o meno note nel sottobosco wave dei tempi andati: da Cocteau Twins a Clan Of Xymox, per arrivare alle chitarre degli Smiths disseminate a destra e a manca. Non un disco epocale, piuttosto il lato gentile e pop della rinascita dark-wave di questi ultimi anni, quella che da Blessure Grave arriva ai prossimi hypers Salem. (6.9/10) Stefano Pifferi Stefano Solventi 55 Frazey Ford - Obadiah (Nettwerk Music Group, Luglio 2010) G enere : folk soul Con una voce così, la canadese Frazey Ford non poteva che dedicarsi al country soul: il timbro vagamente sabbioso di chi spazza memorie e visioni da front porch, le venature profonde e dilatate di stampo memphisiano. Per questo, dopo oltre un decennio passato a maneggiare con successo bluegrass e folk nel trio The Be Good Tanyas, il presente debutto solista Obadiah suona come una specie di compimento. Tredici tracce che si concedono facilmente all'ascolto eppure in qualche modo indomite, arrangiate con la semplicità generosa di chi ha idee e intenzioni ben chiare, come ad esempio citare Roberta Flack e Ann Peebles tra i modelli di riferimento oppure concedersi la cover di One More Cup Of Coffee ovvero il Bob Dylan ibrido altezza Desire. Ti sembra che Frazey affronti con naturalezza quello che per l'ultima Cat Power è una sorta di espiazione: ok, il tasso d'inquietudine di Frazey non è paragonabile a quello di Chan, eppure nella sua diffusa dolcezza non smetti mai di avvertire l'amaro che nobilita il drink. Le cose vanno meno bene quando si sbilancia troppo sul versante black, come in quella Blue Streak Mama dove fa un po' la figura di quella fuori posto, ma finché si mantiene in equilibrio sulla linea d'ombra che dicevamo (vedi le splendide Firecracker e Goin' Over) è un piacere restare in sintonia. (6.9/10) Stefano Solventi Gerardo Frisina - Join The Dance (Schema Records, Giugno 2010) G enere : l atin jazz bos sa Osannato a Tokyo e praticamente sconosciuto in patria (se non per i soliti amanti della nu-bossa di Nicola Conte), Frisina è il compilatore che ti cambia la serata con 2 tracce. Che ti mette il pezzo giusto al momento giusto. Ovvio che se non ti piace la bossa devi farti un refresh ed entrare nel suo mondo, ma stai sicuro che non è poi così difficile farsi ammaliare dalle nuances, dagli arrangiamenti classico-chic e nel contempo trascinanti, mai pesanti. Il seguito di Note Book (Schema, 2007) parte con l'arrangiamento di Will You Walk A Little Faster (un classico di Neil Ardley) cantata dalla rediviva e intensa voce dell'interprete originale Norma Winstone, passa poi a I'm Gonna Go Fishin' di Duke Ellington con la sorpresa della nostra Francesca Sortino (già collaboratrice di Pieranunzi, Fresu e Di Battista), e si chiude poi con la rivisitazione di Titoro di Billy Taylor in salsa cuban. Questo per i classici. Gli originali poi, arrangiati con l'aiuto di Luca Mannutza, vanno dalla 56 movimentata aria caraibica di Joy Shout (con il bell'assolo di flauto di Alfonso Deidda) alle atmosfere smooth di Waltz for Emily, dalla carica classica di One More Swing alla visionarietà world con un vibrafono in orbita (suonato dal bravo Pasquale Bardaro) di Mille e una notte. Un buon diversivo live che può sostituire le anodine compilation sintetiche di chill out o l'asfittico panorama delle insonorizzazioni da cocktail grazie a un suono compatto e caldo, sudato e mai ostentato. In più, una conferma di come il suono bossa sia ormai minimo comune denominatore applicabile a qualsiasi mood, non necessariamente laid back, tanto che l'arrangiamento di Ardley è stato promosso nientemeno che dal guru Gilles Peterson nella sua trasmissione Worldwide su BBC Radio 1. Italians do it better, also in jazz. (7.01/10) Marco Braggion Giuseppe Ielasi - 15 tapes (Senufo Editions, Giugno 2010) G enere : P ost - digital Desolazione pura, l'ultima coppia di Ep di Ielasi. Desolazione compiuta. Giuseppe Ielasi, già da tempo, riprogrammava i propri codici passando dalla macro-poetica elettroacustica degli albori ad una micro-fisiologia digitale, chirurgica per la sua esattezza formale, e glaciale per l'assenza sostanziale di melodie. 15 tapes è come un grande parco naturale incapsulato all'interno di una cpu autistica quanto dislessica. 15 brevi traccie, meme-riduzionistiche - per forma e pachidermica sostanza - si susseguono in maniera ammutinata, per istantanee, con suoni talvolta (bi)cicli(ci), di superfici rettrattili o insetti captati o varchi ambientali. Del Ielasi prima maniera, si percepiscono la dislocazione spaziale, gli ammutinamenti sonori quasi ginnici, la gravitazione della massa sonora. Di nuovo c'è la durata dei singoli interventi: corta non solo per brevità, quanto per semplificazione. Assente di cinematica, e per questo percepibile per sensi più intellettuali che visivi, gli spazi perlustrati tra un nanosecondo e l'altro delle sue scansioni si riempiono di suono puro. Un codice senza più codificazione. In quest'utopica riduzione delle forme, i romantici ci scorgerebbero l'assenza della poesia, i puristi dell'elettronica un mero allinearsi di campioni in voga in certe produzioni teutoniche di una decina d'anni fa. Noi, come la chiamerebbe Blanchot, leggiamo LA forma neutra: una meccanica spogliata di materia, una metafora della vita attuale, l'istantanea della totale assenza di dialogo. (7/10) Salvatore Borrelli Giuseppe Ielasi - Tools (12k, Giugno 2010) G enere : P ost -M aterial Gli Ep sono come cortometraggi, punti di sospensione tra il prima e il dopo. Giuseppe Ielasi ne presenta contemporaneamente due: 15 tapes, dalla natura più statica, e questo Tools più dinamico ma meno ricco di dettagli. Abbandonati i panni del droner digitale dall'orientamento poetico, l'ultimo Ielasi rincorre circuiti chiusi, forme digitali dalla struttura rigida e neo-formale in una ricerca dal gusto timbrico scarno i cui materiali lasciano poco spazio all'elettroacustica di Gesine. Tools è composto da sette momenti, e da 15 tapes trattiene l'uso di un suono puro, oggettivamente individuato (Metal Rod, Polystirene box, Paper Lamp) e copiato/scannerizzato dall'oggetto stesso in bilico tra ritmica-aritmia. La differenza tra i due Ep, è che siamo su 12k, e dentro vi ritroverete timbriche care sia a Christopher Willits quanto agli amatori dei solid-textures. Il passaggio terminologico esistente tra il “vecchio” pattern e il più fashionable Tools, o Object (di cui si parla nelle note) è qualcosa che nessun serializzatore di definizioni potrà oramai storicizzare. Si tratta di un uso più tecnocratico, per cultori di piattaforme Max/Msp, che logico. Ed infatti in Tools, l'unica novità resta extradiscografica, e consiste nel vedere definitivamente compiuto il passaggio di Ielasi nel dancefloor minimale, più volte toccato, o avvicinato con cautela. Sebbene di nuovo ci sia veramente poco (Veiculo dei To Rococo Rot del 1997 già conteneva tutto questo in maniera esemplare). Ciò che all'interno dell''universo neo-formale di Ielasi appare come una liberazione dai canoni compulsivi della vecchia e cerebrale elettroacustica, per un neofita, Tools apparirà come un'operazione fredda, estranea, mancante. E c'è un concreto rischio che tutto sfumi sotto la scure della serialità. (6/10) Salvatore Borrelli Gogol Bordello - TransContinental Hustle (Side One Dummy, Maggio 2010) G enere : F olk - punk Con una copertina dagli stessi colori di quella di Clandestino, tornano Hutz e soci, a tre anni da Super Taranta e dopo la celebrazione di Live from Axis Mundi. Finora il combo gipsy-punk si era sempre scrollato di dosso i sospetti di esotismo da salotto che potevano nascere dalla nota amicizia con Madonna grazie alla verve genuina del loro terzomondismo sincretico (a partire dalla formazione) e agli esplosivi concerti; non questa volta, dove è proprio il piglio sagace dei Nostri a scarseggiare al punto che pure i brani migliori, contenuti per lo più nella prima metà della scaletta (Companijera, Rebellious Love, Pala Tute), risultano sottotono. In proverbiale assenza di hits (peraltro mai richieste), la semplicità armonica della loro musica, tratto distintivo del genere, comincia a suonare semplicemente ripetitiva scoppiettando al minimo sindacale. La produzione, scolastica, di Rick Rubin è più che indiziata, ma ci si chiede se si tratti di un semplice errore di scelta o di un biglietto verso la normalizzazione. A questo punto sarà il tempo a dire se si tratta di una momentanea, fisiologica flessione o l'inizio di un più pericoloso svuotamento di significato. (6.6/10) Giulio Pasquali Grass Widow - Past Time (Kill Rock Stars, Agosto 2010) G enere : indie - wave Le vedove bianche sono un trio all female da San Francisco e questo Past Time segna il loro ritorno dopo un brillante esordio omonimo su Make A Mess e il 12” per la superhype Captured Tracks. Stavolta è la Kill Rock Stars a mettere la prestigiosa firma sull'eccitante scarsa mezzora che Raven Mahon (chitarra, voce), Lillian Maring (batteria, voce) e Hannah Lew (basso, voce) ci servono sul finire dell'estate. Le tre ex riot grrrls pentite ci offrono intarsi vocali e una apparente semplicità strumentale - un po' sulla falsariga delle New Bloods (sempre su KRS) - svariando come niente fosse dalla scala di grigio della minimal wave fino a uno screziato immaginario post-indie punk. Ecco così che le ritroviamo a citare indifferentemente e elegantemente passaggi dei Sonic Youth più ossianici e neri (Fried Egg) o grunge-addicted alla maniera delle Breeders senza elettricità (Uncertain Memory) o, ancora più in generale, ipotizzando una versione 2.0 del post-punk scarno e disidratato delle Kleenex/LiLiPUT, primaria fonte di ispirazione citata dalla band. A farsi notare sono le circonvoluzioni vocali, quid corale e sfaccettato che ne esalta la varietà stilistica e che permette loro di mettersi al tavolo del lo-fi pop al femminile di Best Coast, Vivian Girls e compagia sixties. Aggiungeteci dichiarazioni anti-gender e vedrete che in Past Time c'è molto più di quello che in apparenza potrebbe sembrare. Qui conta la musica e non il sesso di chi suona, anche dopo ripetuti ascolti. (7/10) Stefano Pifferi 57 highlight of Montreal - False Priest (Polyvinyl Records, Settembre 2010) G enere : F unkedelic pop La mutazione è terminata.Anzi, sarebbe più corretto dire che la mutazione è permanente, cosa che fa della creatura di Kevin Barnes una delle poche compagini in grado di stupire ad ogni nuova uscita, gli unici capaci di partire dalla psichedelia vittoriana a 78 giri di album come The Gay Parade, per approdare a questo distillato di freakedelia funky lisergica. Azzardiamo un'interpretazione della loro storia più recente. Dopo un album superbo come Hissing Fauna, Are You the Destroyer?, per chi scrive il più tondo e compiuto fino a questo momento, quello che lasciava intravedere possibilità di penetrazione verso platee che non avevano mai sentito parlare di Elephant 6 Collective, arrivava Skeletal Lamping: un commercial suicide in piena regola, contorto e labirintico come la mente di chi lo aveva generato.Nel frattempo facevano scalpore le sorprendenti dichiarazioni di una certa Beyoncé Knowles, che manifestava apertamente il proprio amore per la band e gettava su Barnes e soci un cono di luce che apriva scenari succulenti. Ecco dunque che False Priest, sancisce con il connubio fra i vagheggiamenti disco beatlesiani degli of Montreal e il mondo dell'r'n'b. Un'improbabile crossover sigillato dalla collaborazione con la minore delle sorelle Knowles, Solange, nonché con la nuova starlette della musica nera, Janelle Monae, già ribattezzata dalla stampa l'anti Lady Gaga. Magicamente il discorso riprende dove lo avevamo lasciato con il capolavoro del 2007, ma con un groove sexy decisamente più marcato. La follia dadaista di Barnes viene applicata ai vorticosi giri funkadelici di I Feel Ya Strutter e Godly Intersex. è sufficiente un piccolo aggiustamento di rotta perché tutto acquisti una forma più compiuta: i falsetti isterici, la gaiezza cool e la malia glam che graffia sul riff del singolo Coquet Coquette. Tutto è al servizio di melodie finalmente intellegibili e godibili anche da menti finite come la nostra. Il combo di Athens sa di giocarsi parecchio con questo album e non si limita a baccagliare con la bassa fedeltà come degli Ariel Pink qualsiasi: la produzione è limpida, il suono dei synth è cromato e tirato a lucido. Posto che quello di vedere la band in classifica è un sogno destinato a rimanere tale ancora per molto tempo, c'è solo da restare ammirati dal modo in cui il gruppo plasma la materia pop, scegliendo sempre, fra le possibili strade, quella più impervia. In ogni brano c'è sempre l'elemento obliquo, la scala improvvisa, il sottofondo disturbante. Si procede per giustapposizione, per stratificazione sonora, ma il risultato è compatto e avvincente. Come dire: danzate pure, ma non rilassatevi troppo. In pratica, l'album definitivo degli of Montreal. Per adesso. (7.5/10) Diego Ballani gotica pervadente e anche un po' sbrigativa, la dose minima per garantire l'efficacia senza sbrodolamenti. Questione di mestiere, certo, e qui - come v'immaginerete - ce n'è tanto: suoni che sanno come suonare, dinamiche come scapaccioni ma anche trame che biascicano tremori (vedi la trepida What I Know), la scrittura che tira dritto e azzecca svolte come suggerito dal navigatore esperenziale. è un teatrino che ti percuote ma non ti scuote davvero, t'intrattiene ghignando e sferzando, e se ti sembra anche sanguigno - un po' lo è - magari il motivo sta in un vissuto rock che ha pochi eguali e giocoforza viene fuori. Malgrado tutto, quindi, un disco gradevole. (6.5/10) Stefano Solventi Happy Skeleton - Coffee & Cigarette Club (Red Birds, Settembre 2010) G enere : 90 s rock Un incidente in automobile sotto la pioggia e la necessità di scrivere canzoni, ringraziando il destino per non aver posto fine a un'esistenza ancora giovane. Si tratta di quella di Davide Delmonte, classe 1988, che musicalmente parlando si nasconde dietro al moniker Happy Skeleton: scheletri e teschi fumettosi come per l'epopea dei Tre Allegri Ragazzi Morti (sul myspace si cita invece il videogame Grim Fandango, pubblicato sul finire degli anni novanta) e una passione incontenibile per gli anni Novanta, dalle parte degli Smashing Pumpkins. Non basta qualche tentativo di trip-hop (Le Rouge) per sparigliare le carte: il disco rimane acerbo, frutto più dell'urgenza comunicativa che di una meditazione artistica. Siamo poco lontano dal calco grunge e post per quarantotto minuti di teenage angst che fanno di Coffe & Cigarette Club un ritrovo per nostalgici dei Novanta e per tutti coloro che li hanno cominciati a frequentare come prima tappa di un viaggio all'indietro nel tempo. (6/10) Marco Boscolo Grinderman - Grinderman 2 (Mute, Settembre 2010) G enere : garage psych Il gioco si fa sempre più fumettistico e feroce per i compagni di merende riuniti nell'accolita Grinderman, giunta oggi al capitolo secondo. Si divertono come matti, Cave, Ellis, Sclavunos e Casey. Ma da professionisti. Curano anche il contorno chiamando John Hillcoat - apprezzato regista di The Road - a dirigere i clip promozionali, sorta di allucinazioni lucide e insidiosi spaesamenti 58 iperreali. Che ben si attagliano al tasso acido di questo Grinderman 2, in sensibile aumento rispetto all'esordio che pure non scherzava quanto a chitarre esasperate di wah-wah ed organi fuzzanti come frustate d'inferno. Sostrato e additivo psichedelico, sì, però bidimensionale, senza altra visione che una goliardica furia abitata da spettri e lazzi, scintille d'un fuoco che un tempo si chiamava Birthday Party prima e poi Bad Seeds. Giusto le scintille, appunto: pagliuzze incandescenti nell'occhio mannaro l'attimo prima di farsi cenere. Soffia una brezza Hiroshima Rocks Around - III (Escape From Today, Luglio 2010) G enere : noise - rock spastico Mette subito tutto in chiaro il sibilo in distorsione che apre questo comeback dei romani Hiroshima Rocks Around. Rumore bello spesso e lurido, quello che i quattro squilibrati (Toni Cutrone, Jabba Boy, 'Ndriu Marziano e il defezionario Vincent Filosa) ci mettono sul piatto in questo che è sì, il nuovo album, ma che colleziona anche tracce da precedenti, limitate release come lo split-album con Bipolar Bear (Kill Shaman / No=Fi Recordings, 2009) o 7” introvabili (The Matter Of Face su S-S). Rumore dicevamo, di quello che girava a casa AmRep una ventina esatta di anni fa: marcio al midollo, puzzolente, scanzonato, sboccato e slabbrato. Roba repellente per le verginelle orecchie degli indie-kids di oggi e acqua fresca per chi ha il marchio della label di Minneapolis tatuato a fuoco sulla pelle, III è in costante distorsione, sfora il limite della decenza sonica, frantuma ogni ipotesi di destrutturazione, svisa verso territori arty senza essere presuntuosamente arty, sostenuto com'è da un impatto materico, carnale come la percussività tribale ossessiva e ossessionante e gli eccessi rumorosi degli strumenti portati al punto di collasso. Una sana iniezione di noise-rock reiterato (Raw Aids), urbano e malato (Disfunzioni Intestinali), incessante e irrefrenabile (Der Kanaro), addirittura “ballabile” (la groovey Not Right), innervato di blues deturpato nella peggior tradizione dei nineties (Wallace), decomposto come se lasciato a marcire in una fogna dall'anno di grazia 1991 fino ai giorni nostri. Prendeteli come esploratori della melma rumorosa del passato pronti a insozzarvi tutti. Grandi! (7/10) Stefano Pifferi His Clancyness - Always Mist (Mirror Universe Tapes, Maggio 2010) G enere : dream - pop Jonathan Clancy, bolognese di Ottawa, era il cantante e chitarrista dei Settlefish, ora negli A Classic Education. Da qualche anno è anche Sua Clancysità, succo concentrato di indie coolness che più di così si muore. Una cassetta-demo ultralimitata e un cd-r su Secret Furry Hole, l'interessamento nientemeno che di Pitchfork (tre pezzi in streaming, uno di questi la ruffianissima cover di So Bored dei ruffianissimi Wavves) ed ecco il debut vero e proprio. Sempre su cassetta limitata, per carità, e su quella Mirror Universe Tapes che ha nel suo nastro-roster anche un pezzo da novanta come Toro Y Moi (lo si è capito già da un po' che questa storia del revivalismo analogico non è esclusiva dei soli noisers). Ovviamente la cassettina è già sold out. Il titolo del lavoro e quel "dream-pop" che campeggia come genere di riferimento sul Myspace sono i perfetti addendi di una equazione che si chiude da sola. Nove miniature tic tac, produzione casalinga, suono squillante ma impastato, voce lontanissima. Ecco spiegata quella nebbia onnipresente (nebbia che lascia Surriento addirittura, fisarmonica e mandolinismi, nella strumentale Clear The Mist). Pop a candeggio nel latte, genealogia surf (Just Like 59 Mondays), psych Sessanta (il cabaret Kinksiano di Vampire Summer) e Paisley (ma anche un certo retrogusto slacker-Beckiano in Nothing And Nowhere To Go), arpeggini tra folk e candore XTC (Piece Of Cake, Night And Fables), microcavalcate "emo al tempo del Beat" (Misinterpret My Words, uno dei pezzi migliori). Radicalsciccheria indie dicevamo, ma un approccio cantautoriale che altri, meglio prodotti e suonati, non hanno e un paio di pezzi sopra la media. (6.4/10) Gabriele Marino Hundred In The Hands (The) - The Hundred In The Hands (Warp Records, Settembre 2010) G enere : D ream pop , alt rock Dopo un EP di belle speranze, l'intervista e il nostro speciale di qualche mese fa, le aspettative dietro all'esordio lungo di The Hundred In The Hands erano moderatamente alte. Ci piaceva l'equilibrio di synth pop, postpunk e disco che quella manciata di brani sapeva citare, confezionare e, perché no, cavalcare. A Jason Friedman e Eleanor Everdell la banalità pareva di fatto non appartenere e invece in quest'omonimo di ovvietà 4AD fuori tempo massimo e superflui tasselli Ottanta (Pigeons, Commotion) ce n'è eccome, quasi come se i due avessero proprio voluto - o non avessero proprio potuto - nascondere la voglia di moda a tutti i costi. Nel mix di dream, synth e fine 80', Friedman ed Everdell non possiedono la classe dei Blonde Redhead il cui ultimo Penny Sparkle si muove decisamente meglio nel solco 4AD -, eppure le tracce maggiormente rarefatte (Killing It, la finale The Beach) risultano le più convincenti, quelle cioè che asciugano la tecnica (leggi: pilota automatico) e mettono al primo posto l'atmosfera, la grande assente del disco. I HITH bruciano le tappe: al sophomore ci arrivano con il disco d'esordio, ma si è sempre in tempo a invertire la tendenza. (5.5/10) Gaspare Caliri Hypernova - Through The Chaos (Narnack, Luglio 2010) G enere : emul - rock L'emul-rock dell'emul-rock. Ormai a tanto siamo arrivati nel raschiare il barile della (mancanza di) creatività. Atmosfere gloomy, sonorità sul dark, batteria minimal se non in modalità human drum-machine, interplay bassochitarra con accento sul primo e voce drammaticamente baritonale: questi gli Hypernova che però, come molti 60 avranno già capito, non si rifanno ai Joy Division, quanto agli emuli di quel sound riverniciato per gli anni '00 come Editors, Interpol e compagnia cantante. Non c'è nulla di sofferto, struggente, lirico nelle musiche di questo quartetto, tanto meno di originale, così come non ce n'è in quelle dei suddetti. C'è soltanto l'insinuarsi vivido - ben praticato e con nulla da eccepire sul piano formale - nel solco tracciato da altri, in altri tempi e con altre dinamiche. L'innesto di accenni dark-techno, di qualche slancio dance - o alternative-rock, di qualche variante sul canovaccio goth alla Sisters Of Mercy o Psychedelic Furs, non altera la percezione iniziale. A parziale scusante, la provenienza esotica del quartetto, fuggito da un presente fatto di repressione e secret gigs in quel di Teheran (si noti l'autobiografica Viva La Resistance) per rincorrere l'illusione di un futuro migliore negli States. (5.8/10) Stefano Pifferi Ige*timer - Ice Cold Pop (Everloving, Giugno 2010) G enere : A vantgarde Già attivi da qualche anno, gli Ige*Timer sono un duo di stanza berlinese dedito a musica che si potrebbe definire avant-noise da camera. Abituati a sonorizzare installazioni e spazi, il motore di tutto l'impianto sonoro è sempre e comunque la suggestione del luogo e del tempo in cui i due si trovano a suonare. Si tratta di connessioni analogico-digitali tra il contrabbasso di Klaus Janek e le manipolazioni elettroniche di Simon Berz. Ne esce una creatura variegata, come di una pellicola fotografica pesantemente rielaborata digitalmente, ma in tempo reale. Di questa macchina fotografica, gli Ige*Timer puntano l'obiettivo in uno spaziotempo diverso e vedono quello che ne salta fuori. Nel caso dei tre brani che compongono Ice Cold Pop si è trattato di tre città americane (Baltimora, New Orleans e Philadelphia), dove i rispettivi brani sono stati catturati live. Di pop, in realtà, non v'è nulla, avendo i due negato da tempo la melodia come elemento portante delle proprie composizioni, ma l'interplay tra i due musicisti ne fa talvolta emergere, quasi in modo casuale, qualche brandello. É il caso della lunga New Orleans (che, va detto, non dice quasi nulla nemmeno del jazz), che diventa trascinante nell'ultima parte, quando incomincia una cavalcata in crescendo che tra tastiere atonali e drum machine, assomiglia a un traditional macinato post rock. Più brevi Baltimore e Philadelphia, la prima più spirituale, quasi a ricercare l'acquacità dell'Inner Harbour sporcata da una violenza sottesa (Baltimora è pur sempre una delle città highlight Paban Das Baul - Music Of The Honey Gatherers (World Music Network, Giugno 2010) G enere : folk indiano Va bene il riportare le proprie radici all'oggi, mescolarle con la modernità, farne un unicum temporale e parcellizzarlo in unguenti popular - siamo pur sempre nell'era dell'eterno presente no? Il passato nostalgico e il futuro minaccioso schiacciati nel qui ed ora -. Ma quando ad incontrarsi sono radici nettamente diverse fra loro eppure accomunate dalla stessa profondità temporale succede la magia, il ribaltamento ventrale, l'ascesi nel sangue, nei nervi, nei muscoli. I Baul sono dei cantori erranti indiani, gli unici induisti laggiù a non riconoscere le caste e a promuovere l'uguaglianza di tutti i culti. Facile ritrovarli allora a mescolare questi culti e le loro musiche soprattutto, in un misticismo che sincretico non è e cosmopolita neppure, ma molto molto altro e molto molto diverso. Paban Das Baul di questo popolo vagabondo è colui che ce l'ha fatta, è arrivato in occidente, ha cantato le sue radici, le ha sporcate (con Sam Mills fra gli altri) e poi ha deciso di tornare ad uno stato di purezza. E così Music Of Honey Gatheres è il primo parto di una musica che ha Tantra, Vaishnavismo, Sufismo e Buddismo come sorgenti. Una musica che è trance lenta e corporale, preghiera inneggiante all'alto del cielo e al basso della terra, forma di catarsi svuotante lontana da ogni nichilismo e pretesa di obnubilamento. Paban è alla voce ma si occupa anche di strumenti percussivi come il dubki e il khamak ed esegue melodie innervanti energia con il dotara, una specie di chitarra a cinque corde. Insieme a lui altri quattro musicisti tra cui Nathoolal Solari al tamburo nagara. Mentre ascoltate fatevi un giro in rete a scoprire quali siano le credenze di questi musicisti del Bengala rurale e capirete meglio che con tante descrizione il perché di una musica così libera, verticale eppure così straordinariamente sostanziosa. (7.7/10) Luca Barachetti a più alto tasso criminale degli USA, guardare la serie tv Wire per credere), mentre la seconda è ancora più oscura e tremendamente notturna, costruita com'è su spettri di voci e frequenze elettromagnetiche disturbanti. A seguire gli Ige*Timer ci si può perdere in paesaggi sonori inattesi e in grado di regalare ad ogni ascolto nuovi elementi per intraprendere nuovamente il viaggio. Forse i brani non vi faranno venir voglia di visitare le città, ma questo è pur sempre il loro viaggio, non il nostro. (6.5/10) Marco Boscolo Imaad Wasif - The Voidist (Tee Pee, Luglio 2010) G enere : psichedelia È un gran bel concentrato di psichedelia west-coast deviata, stoner desertico non sempre a pieno regime di volumi e traditional americana tutta sofferenza e strug- gimento, il nuovo album del chitarrista americano Imaad Wasif. Le cronache musicali lo danno all'esordio solista qualche anno addietro con Imaad Wasif, un self-titled di folk acustico e minimal in the vein of Skip Spence/Syd Barrett, addirittura su Kill Rock Stars, a coronamento di una carriera underground costellata anche da un briciolo di notorietà. Wasif era infatti la metà esatta dei Lowercase, duo chitarra-batteria in tempi non sospetti e con una discografia piuttosto corposa nei secondi nineties per etichette come Amphetamine Reptile, Punk In My Vitamins e, appunto, KRS. Il sophomore autoprodotto Strange Hexes del 2008 (prossimo alla ristampa proprio per Tee Pee) vede alcuni cambi strutturali: non più in solo, ad accompagnare il nostro ci sono i Two Part Beast, ossia Adam Garcia alla batteria e Bobb Bruno (già Goliath Bird Eater e ora metà Best Coast) al basso, mentre dal punto di 61 highlight Shit Browne - Every Single Penny Will Be Reinvested in the Party (Asphalt Duchess, Agosto 2010) G enere : R ave and roll In questo periodo di ravers rinnegati (Klaxons) e postpunkers alla deriva col pilota automatico, revival to revival, Club to Club, non può che farci piacere l'ennesima band che riscopre la stagione Madchester e ne fa manifesto, forse filosofia e fa un disco come se fosse nel 1992, anno magico come non mai visto a posteriori (vedi anche alla voce Zomby). Parliamo della Manchester baggy e strafatta di pillole, indie-rock e soul, quella Manchester che se la batteva tra Happy Mondays dopo sballo e pose bucoliche Stone Roses, un giro all'Hacienda di Tony Wilson e lo svacco sul couch a scacchi fino al venerdì e poi di nuovo in pista sotto i palchi e dentro la discoteca fino al mattino. Per una volta, protagonista di questa storia non è il solito gruppo brit che rifà strafattisimo la tradizione dei cugini, ma cinque ragazzi mangia mostarda originari di Dijon ora trasferiti a Parigi, città nella quale stanno divulgando un verbo che, a ben vedere, non è così calligrafico come potrebbe sembrare. Troverete i Primal Scream recenti in brani come Winter Collection e Browne And Proud, i primissimi Oasis in odor di shoegaze, le tastiere dei New Order in Chairman Meow e pure gli attualissimi Art Brut a tutta gag e narrativa (She's A Party e Sweetback) in questo fresco e intelligente esordio firmato Shit Browne. Un pentagono di nerd french che suona più eclettico che strafatto, più in technicolor come piace a Bobby Gillespie che in sculetto r'n'b Happy Mondays, più con l'arpeggio facile - e ben angolato - alla John Squire piuttosto che in candeggio folky à la Ian Brown. C'è un po' di tutti loro ma in ordine sparso dunque, con la scioltezza doppio zero necessaria e un senso della ripetizione non distantissimo dalla francesissima produzione Kitsuné (ancora Winter Collection che tira in ballo anche gli Hot Chip sul finale) e un fare contagioso che nel recente passato è stato soltanto degli Art Brut. Capita l'antifona? Non siamo alle prese con il solito postmodernismo veloce da una botta e via. Vengono dalla Francia i vostri rave'n'rollers del 2010. (7.3/10) Edoardo Bridda vista musicale le atmosfere si fanno più trippy, dilatate e dense di riferimenti tra psych-rock a stelle&strisce e influenze orientaleggianti. Per The Voidist, Wasif fa le cose in grande. Oltre a confermare la backing band di cui sopra, si fa aiutare da personaggi del calibro di Dale Crover (Melvins) e Greg Burns (Red Sparowes) allargando così ancor di più lo spettro delle possibilità: chitarre acustiche e delicate si alternano a svisate lisergiche e drogate, ora memori della primigenia infatuazione per lo stoner della Coachella Valley, ora di quella psichedelia mistico-spirituale alla Om che tanti cuori rapisce in questi anni '00. Nello stesso modo ballate in punta di plettro, delicate e umorali, si alternano a assalti chitarristici tanto groovey quanto densi e violenti. Una eterogeneità che è quasi impercettibile e che rap62 presenta il grosso pregio di un album di “classica” psichedelia post-moderna. (7.2/10) Stefano Pifferi Interpol - Interpol (Matador, Settembre 2010) G enere : W ave , dark C'è un attaccamento romantico nei confronti degli Interpol che trascende la loro stessa musica. Le ragioni sono evidenti: coincidono con un gruppo e una stagione che è rimasta nel cuore di tre generazioni: i Joy Division e la wave (allegandoci il portato di quel binomio dirompente); il romanticismo dark caratteristico di una certa età della vita; il nichilismo, l'abbandono, l'amore per la pelle bianca e i vestiti neri, per le cravatte scure e gli anni '30 di celluloide, persino la fascinazione per i regimi totalitari. I difensori a caldo degli Interpol - davanti al naufragio di Our Love To Admire - trovano così una loro collocazione giustificando una band che sin lì si era conquistata un merito di pochi: coniare in soli due album una propria variante nel suono dark rock degli eighties. Bank alla voce aveva plasmato quella di Curtis traghettando i suoi testi in una coolness più portatile targata Willamsburg, piena di ombre e amarezza post-ground zero, Sam Fogarino aveva piegato la sei corde di Bernard Sumner all'umbratilità sciutta dei Chameleons lanciando in strada un veicolo armonico ora angolato (e tipico primi Duemila) ora a picco sul vuoto, come se l'uomo s'affacciasse da un grattacielo di NY in un misto di coraggio e tentazioni suicide. Per finire la dialettica old style di Sam e Paul, uno di quei dialoghi che scaldano il cuore con delicatezza e garbo, ovvero il basso di Carlos e la batteria di Daniel. I quattro di un perché sonico riconoscibile dalle prime note. Quattro non più quattro (dal vivo con loro c'è temporaneamente David Pajo al posto di Carlos) che a dieci anni dall'inizio di carriera si presentano con un nuovo capitolo, il quarto, omonimo come a voler superare l'opacità di Our Love e la ferma intenzione di iniziare daccapo. Dalle interviste di quest'ultimo anno sono emerse soprattutto le ammende e le buone intenzioni, soprattutto la volontà di voler tornare all'indimenticabile esordio di Turn On The Bright Lights, l'unico album amato da tutti, nessuno escluso. Interessanti inoltre, gli aneddoti di Fogarino: ha provato per ore da solo in un capannone cercando di "riprendersi il suono di un tempo”, evocato dall'attacco del singolo Lights e in altri episodi di un lavoro che si guarda bene dal lanciarsi fuori dal finestrino della limousine. A parte le leggende per la stampa, gli Interpol di un Banks dalle liriche incartapecorite (lo si era visto anche con Julian Plenti, lo si nota ora nel pretenzioso e funereo trittico finale) rifanno Our Love trattando la tragico-epica passione verbale e chitarristica in strati sovrapponibili, e non più cercando goffe complessità senza sbocchi. Soprattutto ci mettono la maturità di dieci anni da musicisti risultando meritatamente classici. Classici precoci però. La loro proposta è fondata cioè su compromessi difficili da digerire, gli stessi che allontanarono gli U2 dalla fragranza primigenia e dai fan della prima ora. Quegli stessi U2 per i quali la band apre una manciata di concerti ed il cui No Line On The Horizon riecheggia in quest'omonimo lavoro di passione controllata, angoli smussati, eleganza brevettata: un'ulteriore demarcazione con il passato che pure nel loro caso senza grosse hit (Lights convince ma non del tutto, l'angolata Barricade do- veva dare la botta che non ha dato), garantirà il successo del medio-grande pubblico e la lontananza da quello “di nicchia”. In entrambi i casi, il cuore ne sta fuori. E sarà anche vero che Ian Curtis se fosse arrivato in america avrebbe fatto dei Joy Division il primo gruppo wave da stadio; altrettanto sicuro che, oltre un certo (magico) periodo, l'essere dark, romantic, vampires, non è che una maschera o un decadente desiderio d'eternità. O un mestiere come un altro. (6.5/10) Edoardo Bridda Isobel Campbell/Mark Lanegan Hawk (V2 Music, Agosto 2010) G enere : alt folk blues E venne anche il terzo album per il sodalizio CampbellLanegan, in breve divenuto una specie d'istituzione del pop-rock alternativo. In occasione di questo Hawk i due provano a variare la portata incrociando coordinate country-blues, con particolare riferimento alle due cover di Townes Van Zandt, una brumosa Snake Song e la splendida No Place To Fall, quest'ultima cantata da Isobel in coppia con Willy Mason, giovane folksinger newyorkese. Non mancano ovviamente le prove sul terreno dell'errebì dolciastro e paludoso, nel quale il chimismo della coppia si esalta con un'efficacia quasi irritante (vedi la trepida Time Of The Season o la cupa You Won't Let Me Down Again), salvo poi giocare a ritagliarsi spazi propri al punto che fai fatica a percepire la presenza dell'altro (ad esempio, se la languida To Hell & Back Again è pura farina del sacco Campbell, il mezzo pasticcio gospel di Lately è tutto ascrivibile a Lanegan). Affiora insomma la sensazione di un certo automatismo (vedi la piattezza disarmante del duetto in Come Undone), assieme al sospetto che la confezione del prodotto abbia sopravanzato tutte le altre istanze in ballo. Tuttavia, momenti come la ruspante Get Behind Me o l'assorta We Die And See Beauty Reign ci ricordano l'intrigante peculiarità di questa accoppiata, che probabilmente ha ancora qualche bella cartuccia da sparare. (6.7/10) Stefano Solventi Jaill - That's How We Burn (Sub Pop, Agosto 2010) G enere : guitar pop Brucia, ma non fa male, questo esordio major-indie dei Jaill, band di Milwaukee già attiva dal 2002 e nata dall'amicizia dei due membri fondatori Vincent Kircher e Austin Dutmer. Come vuole l'estetica di ogni 63 indie-band che si rispetti, anche Kircher e Dutmer hanno cominciato a suonare le loro canzoni al calduccio delle proprie camerette, hanno poi cercato di mettere in piedi una formazione per l'attività live, soprattutto in seguito all'esordio dello scorso anno There's No Sky (Oh My My). Quel disco di schietto college rock arriva all'orecchio di un talent scout Sub Pop e così si passa al gioco da grandi. In realtà, musicalmente parlando, si tratta di musica vieppiù scanzonata, a metà strada tra i We Are Scientists e il suono nostalgico degli anni Sessanta che va tanto di moda (Morning Benders, Best Coast). In questi 32 minuti suddivisi in 11 tracce c'è una costante ricerca della melodia appiccicosa, a volte pregne di reminescenze 90s (le chitarre di On The Beat), altrove sporcata di rock più classico e maschio (Demon) o di country and western (Thank Us Later, ma non preoccupatevi: il Ryan Adams in formazione non è quel Ryan Adams). Il brano migliore rimane probabilmente l'iniziale The Stroller, un brano wave tiratissimo che gli Interpol non scriveranno mai più e che promette, purtroppo, molto più di quanto poi non venga mantenuto. Non siamo di fronte a opportunisti che decidono di saltare sul carro della moda, ma nemmeno in compagnia di fini pensatori del pop-rock contemporaneo. I Jaill rimangono fedeli alla loro dimensione da college band, da friday-night performers, e farà sempre piacere andare a trovarli per uno show e un drink. (6.7/10) Marco Boscolo James Pants - New Tropical (Stones Throw, Giugno 2010) G enere : tropical electro Seven Seals è una perla di new wave psichedelica in salsa Residentsiana. Ma è anche uno di quei classici disconi veramente underground che per vari stupidi motivi - Pants non è un nome, non è manco un figo e - non ultimo - ha deciso di pubblicare nel nefasto periodo di passaggio dicembre-gennaio - non trovano spazio quasi da nessuna parte. Adesso cambia registro e passa ai suoi amori electrofunk/danzerecci, con la solita dose di ispirazione pop e di malattia. Sei brevi pezzi di electro ruvida e tropicale, giocosa e sinistra come gli si conviene: voce urbantribal, basso szanzarante, effettacci vari e rullante ad anticipare (Driftwood); capatina in un mercato arabo anni Ottanta (1988); electrofunk ottuso e superbassy (Hanama Beat e This Crazy Sound); percussioncine e motivetto tropicalreggae (Diamond Head); voce ragga su tappeto toy-synth (Say Yes). Pants merita decisamente più attenzione, le sue 64 produzioni sono una goduria. Per feste in spiaggia veramente alternative. (7.2/10) Gabriele Marino Jason Edwards - Doldrums (Kill The DJ, Luglio 2010) G enere : folk lunare Doldrums è il secondo lavoro per Jason Edwards, francese dalle discendenze angloamericane (e infatti canta in inglese), uno che si porta a spasso la musica attraverso frontiere e oceani, per forza poi che il suo folk suona così apolide e strascicato. Qualcosa dell'incedere languido e stranito del Beck col piede nella fossa, uno spalmare sogni aciduli alla maniera di Elliott Smith buonanima, il gusto di strattonare e imbrunire le trame di fiati blues vagamente Morphine, giusto un pizzico dell'estro Robyn Hitchcock con le spine staccate, la grazia stralunata di Howe Gelb e un'ombra del nomadismo etnico Piers Faccini: ecco allestito un programma dolcemente malmostoso, ipnotico come un mantra mormorato sulla linea d'ombra che separa la sera dalla notte, il viaggio dal destino. Il fascino si deve forse più alle situazioni che alla validità delle canzoni, anche se almeno No Name e Oo azzeccano una bella combinata di scrittura e interpretazione. Disco e artista da tenere nella debita considerazione. (6.8/10) Stefano Solventi John Zorn/Fred Frith - Late Works (Tzadik, Aprile 2010) G enere : impro Zorn e Frith suonano assieme da più di trent'anni, dal vivo e su disco, in formazione e in duo. Questo Late Works è però il primo lavoro impro a loro intestato ad essere registrato in studio. Niente di nuovo sotto il sole, per carità, ma la coppia si impegna, l'interplay c'è, i trucchi pure e c'è persino un pizzico di ispirazione, cosicché ne viene fuori un lavoro che merita l'ascolto. Tra la solita emendabile roba impro con il pilota automatico (il casino isterico di Baffled Hats, il noir concretoambientale di Movement of Harried Angels, le espansioni e contrazioni di Slow Lattice, le voci trovate e gli schizzetti strumentali della conclusiva Ankle Time) e dell'ottimo mestiere di genere (l'attacco quasi-metal di Foetid Ceremony, gli szanzaramenti di Mosquito Slats, le alternanze di atmosfere - comunque free - di Horse Rehab, i botta e risposta di Legend of the Small, le agonie meccaniche prima e poi animali di Creature Comforts), spicca un gioiellino come The Fourth Mind: un brano intensamente lirico, rigoroso (sembra scritto) e austero (in un senso cameristico e, come dire, teutonico), con un Frith plumbeo, atmosferico, violinoso e uno Zorn elegantissimo, in un primo momento vicino ai suoni di una cornamusa, poi decisamente masadiano. Bellissimo. Nel complesso, un buon ripasso delle prassi rumorose dei due. (6.8/10) Gabriele Marino Jules Chaz - Toppings (Wagon Repair, Settembre 2010) G enere : vintage wonky Da anni Jules Chaz, trentunenne di Victoria, è attivo nel sottobosco musicale canadese - in mille progetti tra musica suonata, djing, produzioni e hip hop - a stretto contatto con la crew dei Cobblestone Jazz e con Danuel Tate in particolare. Arriva adesso al primo disco a nome proprio, in pratica un best di quello che ha registrato negli ultimi tre anni più alcuni materiali realizzati per l'occasione. Chaz suona batteria, vibrafono, percussioni, tastiere e Moog, campiona rumori e voci trovate, campiona i suoi dischi preferiti (a un certo punto - il ragazzo ha buon gusto - si sente chiaramente l'inciso di Absolutely Free di Frank Zappa) e sorprende con la qualità dei suoi assemblaggi e delle sue testure sonore, il tutto senza un'oncia di laptop "se non per inviare i file .wav a chi si occupa del mastering". Lo spirito Dada di cui alla copertina - con Hugo Ball al Cabaret Voltaire - si riflette in un collagismo spinto e in una sperimentazione cazzona che, tra le altre cose, gli fa mettere in mano al figlioletto di cinque anni alcuni pad con suoni pre-settati. Il risultato finale è un frullato wonky dall'evidente retroterra e retrogusto jazzy, non troppo personale (si sentono ancora ingombranti i modelli, uno per uno: Luke Vibert, J Dilla, Madlib, Prefuse 73 e Flying Lotus), ma orchestrato davvero in maniera sapiente. Siamo alla quarta generazione? Una goduria per i wonky-lovers e un esordio che ci presenta la figura di un nuovo versatile produttore. (7/10) Gabriele Marino Klaxons (The) - Surfing The Void (Polydor, Settembre 2010) G enere : W ave , pop Nel 2007 gli allora tre Klaxons avevano vinto tutto. Si erano accaparrati il prestigioso Mercury Prize strappandolo a Bat For Lashes e Amy Winehouse, ottenuto numerosi bagni di folla in tutta Europa, avevano unito sotto lo stesso tetto diverse tipologie di ascoltatori, sparato alte in classifica una manciata di bombe e per loro era stata coniata un'etichetta ad hoc, nu rave. Label che capitanavano e di cui erano i soli protagonisti di un successo che fatturava milioni al di qua dell'Atlantico e insospettiva abbondantemente al di là di esso. I ragazzi all'epoca non vinsero proprio tutto. Mancò loro il plauso degli States, proverbialmente scettici davanti all'ennesimo hype della stampa inglese e ancor più dubbiosi su Myths of the Near Future, un esordio che disinvoltamente trattava la materia funk punk e pseudo rave che li aveva resi famosi più come parte del loro passato che del presente. Allora i Klaxons portava lo scifi ballardiano in una gay disco tutta falsetti e visioni pop fine Ottanta, lontana mille miglia dai singoli sotto anfetamina Atlantis to Interzone e Gravity's Rainbow. In definitiva, agli yankee e a noi, il fenomeno Klaxons ammaliava ma non convinceva del tutto: la polpa era molto meno succosa di act quali Faint e El Guapo (entrambi americani, vabbé). Lungo i tre anni di gestazione, di conferme a questa teoria ne abbiamo avute a bizzeffe grazie a una sequenza di dichiarazioni sgangherate (“investiremo i soldi del nostro primo album in telepatia le nostre nuove canzoni saranno un misto di dupstep, dance, folk e soprattutto prog il nuovo album parlerà del significato apocalittico del 2012... ...crediamo in una coscienza collettiva e nel dissolvimento delle barriere tra gli individui per il raggiungimento di una comune armonia collettiva”) e conseguenti problemi con la casa discografica (nel 2009 Polydor li obbliga a ri-registrare metà delle session considerandole troppo sperimentali), difficoltà in produzione (scartano tre produttori,Tony Visconti, Focus e James Ford dei Simian Mobile Disco, quest'ultimo anche batterista durante le session) e relativi problemi d'organico (il disco richiede una band vera e propria). Last but not least, nel 2008 ai Brit Awards i ragazzi sono la backing band di Rihanna (missando la loro Golden Skans con Umbrella) e quest'anno, ad anticipare l'atteso nuovo lavoro, abbiamo i due brani dalle pericolose voglie Muse (The Flashover) e precoci ricicli di melodie note (Echoes è troppo simile alla parte finale di Golden Skans). Quando tutto sembra confermare la teoria di una catastrofe annunciata, Surfing The Void gioca proprio con il paradigma e immerge l'ascoltatore in una densissima nuvola prog wave (allora non erano proprio tutte cazzate), apocalittica (i testi sono più allucinati che mai) e perfettamente equilibrata tra tribalismo e psychedelia, rock e wave. Un mezzo miracolo insomma che si regge su basi pop proprio come voleva la casa discografica. Un disco che mette in dialettica i (tutt'ora) fastidiosi falsetti 65 in nuove canzoni di successo (Venusia è il nuovo superhit, Twin Flames non è da meno...), più strutturate e dosate tra calore e vertigine, melodia e potenza. Contrariamente a ogni previsione, la produzione di Ross Robinson è stata la migliore delle scelte possibili per dei rinnovati e solidi Klaxons, che allo speed hanno preferito l'ayahuasca facendo così del taglio finale (più compresso) di Echoes (e di episodi come Cypherspeed e la title track) un viatico tra i primissimi singoli e la svolta Eighties di Golden Skans, aggiornandoli al quadro cyber del nu metal e alla struttura a suite del prog, congiungendo così due mondi solo in apparenza lontanissimi quali la techno belga e l'hard rock degli Zeppelin adulti. Surfing the Void è un bel viaggio sciamanico. Un album con il quale sono i Klaxons stessi a chiederci d'intentare una nuova etichetta che lo descriva. Me(n)tal wave? (7.2/10) Edoardo Bridda La Otracina - Reality Has Got To Die (Holy Mountain, Luglio 2010) G enere : psych - metal Qualcosa si era subodorato già con le ultime uscite - dal lp/cd-r The Risk Of Gravitation in poi - ma ormai siamo al punto di non ritorno: La Otracina è a tutti gli effetti un gruppo metal. Prog-metal con una spruzzata di psych, ad essere precisi, e con tutto il corollario di circostanza: andamento stomp e pomposo, svisate cervellotiche, doppia cassa e virtuosistici assoli di chitarra più una voce, quella di Adam Kriney, vergata su un qualcosa a metà tra Metallica e Black Sabbath (coi dovuti distinguo). Di quella weirdness di matrice psych e post-kraut che caratterizzava i primi passi del progetto di Adam Kriney (Love, Love, Love su tutti) che aveva favorevolmente impressionato, resta ormai ben poco, se si escludono gli 11 abbondanti minuti della title track, carsica e liquida litania strumentale che rievoca ossessioni e reiterazioni dei tempi andati mettendoci in mezzo anche una spruzzatina di jazz, o in coda all'altrettanto estesa traccia conclusiva, Mass Meteoric Mind. Per il resto un ammasso hard-rock nemmeno malaccio in alcune sue aperture (i passaggi orientaleggianti di Hail Fire o alcuni momenti prog-jazz della edita Crystal Wizards Of The Cosmic Weird), ma che non c'entra nulla con l'immaginario che conoscevamo e apprezzavamo. Dunque se il precedente Blood Moon Riders (sempre per Holy Mountain) chiudeva una fase, questo Reality Has Got To Die ne apre un'altra, apparentemente scialba e poco interessante. (5.5/10) Stefano Pifferi 66 Light Pollution - Apparitions (Carpark, Luglio 2010) G enere : indie - shoegaze Provocheranno più di una night pollution questi Light Pollution, specialmente agli aficionados dello shoegaze indie più corposo e meno etereo. Sono in quattro, vengono da Chicago, città che ci ha abituati a ben altre esperienze musicali, e Apparitions è il loro primo album: un 9 tracce in cui mettono a macerare lo shoegaze di cui sopra in un bel pastone indie primi nineties. In più i giovani vanno di ibrido, indirizzando la propria attenzione a quelle solari melodie sixties che fanno molto indie-fuzz odierno (da Harlem agli ultimi Woods passando per i Ganglians, per capirsi) depurato dalle istanze garage e ad atmosfere e soluzioni meno scontate che sfruttano stratificazione e dissolvenze. Drunk Kids è un ottimo esempio di questo procedere eterodosso: trattiene in sé la forza evocativa dello shoegaze più dreaming e dilatato, ma la incastona in una architettura sonora pienamente indie, ottenendo come risultato una versione sixties-pop di un ibrido Animal Collective/Deerhunter. Altrove i tempi si dilatano oltremisura e le atmosfere si sfocano, come da immaginario legato al moniker, tratteggiando bozzetti instabili e claudicanti, sognanti e slabbrati come Deyci, Right On o lande di agreste psycho-pop, delicato e sfasato come in Bad Vibes o nella liquida stasi della conclusiva ed onomatopeica Ssslowdreamsss. Apparitions è un buon esordio, in grado di coprire tutto l'arco di queste giornate estive: dalle sferzate mattutine energiche e appiccicose (Oh, Ivory, una All Night Outside molto Broken Social Scene, il glo-fi anni '80 di Fever Dreams) ai lascivi tramonti delle suindicate tracce. La speranza è che superi la soglia del ricordo una volta arrivato il cambio di stagione. (6.9/10) Stefano Pifferi Locks - Suicides Don't Commit Themselves (Static Station, Giugno 2010) G enere : art - wave - rock Theo Katsaounis e Patrick Scott, in arte Locks: un passato nella scena punk-hc di Chicago e un presente in duo - anzi come “a co-dependent, self indulgent, 2 man solo project”, come evidenziano sul myspace - a mostrare il rock sotto le forme di uno sperimentalismo acceso e mai domo. In questo primo full length, i due screziano un art-rock bello corposo con innesti che sanno di libera attitudine jazzistica e melting-pot 2.0, frullando con fare eclettico e privo di barriere suoni, rimandi e influenze in un contenitore ad highlight Uochi Toki - Cuore amore errore disintegrazione (La Tempesta Dischi, Settembre 2010) G enere : hip - hop Poli che si attraggono e un titolo che riassume in quattro parole il contenuto di questo sesto disco a nome Uochi Toki. Del primo concetto sono come al solito rappresentazione vivente Rico e Napo, entità indivisibili ma autonome votate rispettivamente all’elettronica spuria l’uno e alla favella fluente l’altro. Del secondo parla un'opera che analizza i rapporti personali e affettivi, partendo dal binomio nazional popolare "cuore-amore" e approdando al uochitokese “errore-disintegrazione”. In un crescendo poco lineare - e per questo affascinante - di emotività frattale, stimoli disgregati, pensieri latenti, ipocrisie polverizzate, in cui l’antesignano monologo diventa dialogo filtrato dal metodo scientifico e dal più prosaico sogno. Il Libro audio di due anni fa si fa mash-up di parole e fraintendimenti, i campionamenti debordano travolgendo regolarità e forme tradizionali, in un accavallarsi frammentario e apparentemente ingovernabile di suoni e rumori che fa il paio con lo sviluppo semantico del testo. Tra ironia e lucide dissertazioni sulla natura umana, esperienze dirette e filosofia del quotidiano, partorite da un io narrante schizofrenico, sdoppiato, sottomesso a una tempesta di relazionalità che genera stili di vita e visioni differenti. C’è musica suonata - il contrabbasso di Lucio Corenzi, la batteria di Bruno Dorella o il sitar di Alessio Bertucci -, ci sono la breakcore e l'hip-hop a fare da “collante”, ma ci sono soprattutto gli Uochi Toki: riconoscibili, smanettoni, maestri nel tagliecuci sonoro e nell’assemblare parole miliari. Oltre che capaci di ribadire una statura comunicativa con pochi eguali, meno legata alla narrazione logica rispetto al passato ma tesa verso un imprendibile personale e decisamente avventuroso. (7.4/10) Fabrizio Zampighi alto voltaggio ritmico: capita così di ritrovarsi tra le orecchie slanci di stampo Oneida travisati in teatrali psicoanalisi (Language Song) o una lingua di fuoco di hip-hop bianco che scorre sottotraccia (That Will Never Get Blood Out Of A Clown Suit), una tensione noise-rock che si slabbra in vuoti cosmici per librarsi su lande jazz acide (More Boring Heroes) o undici, intensissimi minuti di reiterate dilatazioni wavish (Whatever It Takes To Sleep). Conta poco il “cosa” per i due Locks; conta il “come”, tanto che Suicides Don't Commit Themselves è un disco che è newyorchese al midollo, zona williamsburg per capirsi, strambo e scostante, eterogeneo nella prassi quanto uniforme nella filosofia. Le due cover poste in conclusione (e bonus nel dwld coupon della versione vinilica) dimostrano ancora l'eclettismo del duo oltre che un omaggio ad artisti influenti nel proprio universo sonoro: Crack The Bell dei Wall Of Voodoo e Priest di J Church. Della serie, belle sorprese dal mondo. (7/10) Stefano Pifferi Lost In The Trees - All Alone In A Empty House (ANTI-, Agosto 2010) G enere : chamber folk pop Sotto il moniker Lost In The Trees si cela Ari Picker, da Chapel Hill, North Carolina, all'esordio su Anti- con All Alone In A Empty House, già uscito sulla piccola Trekky Records. La mente fervida dell'ensemble chamber folk pop mescola da un paio di album, servendosi di un gruppo allargato a seconda delle circostanze, il rigore della musica classica con il folk americano rielaborato e stratificato con il pop e l'indie. Ne risulta musicalmente un ibrido tra chamber e cantautorato, tra Bright Eyes - Conor Oberst e l'essenzialità di Mountain Goats, l'espressività di Micah P. Hinson, umori sparsi Neutral Milk Hotel e in generale una liricità e un'unità stilistica che rappresentano al meglio il valore aggiunto del gruppo. Il Nostro possiede un buon talento compositivo, e fa della rielaborazione autobiografica nemmeno troppo na67 scosta la chiave di lettura dell'album, che rimane oscuro il giusto, drammatico e intimo, tra delicate sinfonie per archi e numeri indie folk. Urlato e sussurrato al tempo stesso, orchestrato e anche nudo, All Alone In A Empty House vive essenzialmente di continui contrasti, di luci e ombre e ha la sua ragione d'essere, come tanti debutti e alcuni sophomore, nell'espressività e nell'essere prettamente un disco di formazione, come già rilevato tempo fa per il bel debutto dell' irlandese Villagers. Un centro sicuramente. (7.2/10) Teresa Greco Lucertulas - The Brawl (RobotRadio Records, Giugno 2010) G enere : noise - rock The Brawl riprende il discorso interrotto con Tragol De Rova - e iniziato ancora prima, quando si chiamavano Superlucertulas - e lo estremizza ancor di più. I tre lucertoloni spingono infatti sull'acceleratore in una maniera inusitata, quasi volessero dimostrare al mondo che la musica è una guerra e di prigionieri non sanno proprio che farsene. Un titolo del genere, lascia poco spazio a dubbi e immaginazione, dopotutto. Articolazioni strumentali mobili e architetture sonore ondivaghe, nonostante la densità specifica di ogni singola nota, sono lì a dimostrare capacità di introiezione e di storicizzazione dei canoni del noise-rock, ma è la cruda e irrefrenabile violenza unsaniana a destare scalpore. Pensavamo fosse impossibile lasciarsi andare così, superando la soglia di brutalità del predecessore Tragol De Rova, ma queste 9 tracce ci lasciano a bocca aperta: assalti al fulmicotone senza compromessi in cui il blues e il rock vengono deturpati alla maniera del trio newyorchese, di cui sono non solo eredi, ma vere e proprie reincarnazioni. Stesso senso di nausea, stessa sensazione ripugnante, stessa idea concentrata di violenza fatta musica. Insomma, in linea totale con quel noise-rock di stampo americano (e newyorchese) che da almeno due decenni è croce e delizia dei nostri padiglioni auricolari. Inoltre, The Brawl merita un paio di note di merito in più. La prima è la cura maniacale con cui RobotRadio e Macina Dischi confezionano l'album, prova di un sentire musicale che è anche esperienza tattile e visiva, oltre che sonora: al cd, infatti, si accompagna un vinile pesante in elegantissima quanto povera confezione in cartone riciclato con un lato etched e quattro pezzi in italiano. La seconda è relativa proprio a queste 4 canzoni: riletture di pezzi presenti nel cd o inediti propongono nuove e inattese vie di fuga per il terzetto in grado di giocare sul terreno del noise-rock 68 in italiano (vedi alla voce Teatro Degli Orrori) senza timori reverenziali ma con gran classe. (7.2/10) Stefano Pifferi Luciano Ligabue - Arrivederci, mostro! (Warner Music Group, Maggio 2010) G enere : pop rock In Caro il mio Francesco, forse non a caso traccia centrale del suo ultimo lavoro, Luciano Ligabue si rivolge al collega Francesco Guccini, confezionando una sorta di lettera aperta pendant alla celebre L'avvelenata. Per l'occasione, si toglie da stomaco, cuore e scarpe un po' di sassolini, di quelli che - a sentir lui - gli provocano angosce notturne da diluire con un quanto mai gucciniano bicchiere di vino. Nel mirino c'è l'ambiente del rock e quel che gli ruota intorno, una cricca ipocrita e superficiale, opportunista e cialtrona. è un pezzo di una franchezza quasi imbarazzante. Ma perché tanta angoscia? Da chi si sente tradito il buon Luciano? Tra le altre cose, s'intuisce che non gli va giù l'atteggiamento della critica più propriamente "rock", da un bel pezzo a questa parte maldisposta o indifferente rispetto alla sua musica. I tappeti rossi srotolati regolarmente dai media più diffusi non bastano a consolarlo, perché il Liga ci tiene alla cosa, sente di farne parte, si sente ancora - romanticamente - rocker. D'altro canto il pezzo di cui sopra, per il tono e per il fatto di tirare in causa proprio L'avvelenata, rivela sempre più scoperte propensioni cantautorali. Ok, veniamo al punto: a venti anni esatti dall'esordio, Ligabue è uno strano ibrido di successo, in redditizio equilibrio tra estro rock residuo (mainstream con guarnizioni alternative), accomodamenti popular e ambizioni di profondità. Da qualche parte tra Bruce Springsteen, Dinosaur Jr (volendo scialare) e 883. Tra Sorrisiecanzoni, la Repubblica e Mucchio Selvaggio. Il nono album Arrivederci, mostro! allarga queste forchette poetiche e formali alternando scossoni rock (forse mai tanto turgidi), melodie carezzevoli e disamine in forma di ballata, ferma restando la consueta calligrafia a base di vocalizzi impastati ed estesi, quelli che fecero, fanno e faranno la gioia ed il conforto dei fan. A tal proposito, veniamo al problema: il Liga sembra rivolgersi solo a loro, li blandisce con prevedibili variazioni sui temi arcinoti e giusto qualche escursione fuori standard (il basso quasi trip-hop in La verità è una scelta, il divertissement pseudo-Abba di Un colpo all'anima, l'errebì sbracato di Taca Banda...). Quasi che col tempo - nel tempo - si fosse calato e infine identificato nella parte di uno zio che tante ne ha viste, tante ha da dirne e graziaddio ha un bel po' di nipoti cui raccontarle. E su cui contare. Ce ne passa dal Ligabue che debuttava trentenne con un piglio da "ora ve lo do io, il rock", urlando al cielo un campionario di storie e personaggi maturato tra bar, celluloide, lambrusco, circoli Arci e via emilia western. Entusiasta e volitivo fino alla sbruffonaggine, rappresentò un festoso scossone elettrico al fronte pop-rock d'Italia, la rivalsa della provincia con le radici irrequiete e lo sguardo lungo un oceano. Intendiamoci, musica pur sempre provinciale ma fiera di esserlo e con ragione, scafatasi aggirando i bolsi codici metropolitani, sfigata sì ma consapevole, il sussulto impettito che sbotta: noi siamo quelli che non ci caschiamo. Invece, ahinoi, lo splendido cinquantenne d'oggi c'è cascato, scambia troppe volte il rock con se stesso, s'impantana sulla linea sottile che divide il punto di vista dall'autoreferenzialità, con l'aggravio di certi azzardi d'autore che non può permettersi. è ancora in grado, quando va bene, di dribblare la retorica grazie a qualche guizzo d'ingegno (come in La linea sottile e La verità è una scelta), ma con sempre maggiore fatica. è invece emblematico come fallisca il bersaglio in Quando mi vieni a prendere, cavando sentimentalismo appiccicoso da una vicenda simile a quella che ispirò l'anthem Jeremy ai Pearl Jam (il paragone, lo so, è abbastanza impietoso). Il resto, spiace dirlo, è mestiere con una bella produzione. (5/10) Stefano Solventi Luisenzaltro - La situazione è un pop grammatica (Autoprodotto, Luglio 2010) G enere : avant pop Col qui presente siamo al quinto album autoprodotto da/di Luisenzaltro, probabilmente il suo migliore. Quello che vede la fregola pop-wave contagiarsi di brume psichedeliche mentre i consueti giochi verbali sembrano farsi carico del non certo felice stato delle cose, esalando amarezza e uno strisciante sgomento dalla raffica di sensatissimi - e spesso irresistibili - nonsense. è sempre più agile la scrittura, una padronanza disinvolta da cantautore sgrassato post-punk (o - per dirla con le sue stesse parole - da fautore del "cantelettrautorato melogrammatico"), quasi un Luigi Tenco messo a marinare nell'intingolo arguto Bluvertigo (vedi Miss Cervello, cantata assieme alla sodale Lacuori), con le novità rappresentate da quel ciondolare quasi barrettiano (Distruzioni per l'uso), dal languore meditabondo à la Riccardo Sinigallia (Le cose migliori) e da una propensione per la power ballad indolenzita degna d'un Jason Lytle (Tutti quanti sono pronti a tutto quanto). Che Alessio Luise da Sesto San Giovanni fosse un geniaccio lo sapevo, l'ho già scritto tempo fa e lo ribadisco. Oggi, al di là del fisiologico DIY, sembra pronto per produzioni e platee più importanti. C'è qualcuno là fuori? (7.3/10) Stefano Solventi Madlib - Madlib Medicine Show #7: High Jazz (Stones Throw, Luglio 2010) G enere : jazzfunk Mentre Stones Throw e Intelligentsia lanciano il Madlib's Espresso Blend (sì, la miscela di caffè che "da tre anni a questa parte tiene sveglio il Beat Konducta abbastanza a lungo da fargli produrre qualcosa come un disco al giorno"), ecco che arriva il settimo Medicine Show, ennesimo esempio di jazzmegalomania madlibiana. L'uomo si fa aiutare da Kariem Riggins (batteria) e da James Poyser (tastiere; sulle tracce bonus LP-only troviamo anche Catto degli Heliocentrics), ma si perde ancora una volta - Slave Riot su tutto - tra i fumi delle proprie fisse. Metà dei pezzi è puro velleitarismo madlibiano (il Sun Ra latin di Electronic Dimensions, il solo di percussioni di Pretty Eyes, le pause della title track e via così tra rumori, rumorini e pseudosperimentazione). Spiccano invece in bellezza il lirismo di Conquistador, il tribalismo di Tarzan, il latin di Kimo e qualche numero di caldo grassume funk, jazzfunk e spacefunk. Ma è davvero troppo poco. Speriamo che il caffè sia più buono. (5.9/10) Gabriele Marino Magic Kids - Memphis (Matador, Settembre 2010) G enere : C hamber pop Il 2010 è ufficialmente l'anno del Beach Boys revival. Mai come in questo periodo il canzoniere di Brian Wilson e compagni ha subito un saccheggio così sistematico da parte dei nuovi act indipendenti. I Magic Kids, il cui esordio era atteso dopo le gustose anteprime ascoltate in rete, sono solo gli ultimi del lotto. Qui però, rispetto al languidi landscape californiani dei Best Coast e alle sfuriate surf di Wavves, il discorso è più complesso e decisamente più raffinato. L'esordio di questo combo del Tennesse si ascrive di diritto a quel pop barocco che parte dalle immaginifiche orchestrazioni di Pet Sound per colorarsi dei raffinati arabeschi orachestrali di Scott Walker. Un pò come dei Sufjan Stevens più prosaici, i Magic Kids hanno il grande merito di non perdere mai di vista l'obbiettivo 69 della pop song. Archi e fiati e si sposano alla perfezione con le melodie briose e spedite di Phone e Superball: brani che si consumano in meno di tre minuti senza perdersi in opulente aspirazioni cinematiche. Sarà per la voce di Bennett Foster, che quando si fa soffusa suona così simile a quella di Gruff Rhys, ma canzoni come Hidehout ricordano da vicino la fase wilsoniana dei Super Furry Animals, al tempo in cui i gallesi disegnavano anelli intorno alla Terra.Altrove gli arrangiamenti aerei sfiorano il twee meno monocromo degli ultimi Belle And Sebastian. Ad ogni modo tutte, ma proprio tutte le canzoni, godono di un'innocenza che, per quanto artefatta, colpisce al cuore al primo ascolto. Forse è ancora presto per guardare a loro come ai nuovi custodi della purezza del pop, tuttavia Memphis è il miglior biglietto da visita che ci si potesse attendere in vista di prove più mature e, forse, appena più personali. (7/10) Diego Ballani Magic Numbers (The) - The Runaway (Heavenly, Luglio 2010) G enere : indie pop Se tre è il numero perfetto, forse non lo è per i Magic Numbers, qui al terzo album con l'arrangiatore Robert Kirby a fare da specchietto per le allodole di un'uscita prescindibile. Oltre all'indimenticato alleato di Nick Drake, mancato nell'ottobre 2009, il lavoro si caratterizza più per l'elegante lavoro di produttori come Valgeir Sigurdsson (Bjork, Bonnie Prince Billy, Múm) e Ben Hillier (Doves, Elbow, Blur) che per una vera sostanza. Il set presenta una serie di formule collaudate tra folk trasognato in stile Mojave 3 (Hurt So Good) e Lambchop (Only Seventeen), e soul barocco sulla scia di Jens Lekman (The Song That No One Knows) che sulle prime stuzzicano ma nella sostanza stancano. In The Runaway c'è troppo garbo, troppo stile e non senza macchia. (5.5/10) Gianni Avella Major Lazer - Lazers Never Die (Mad Decent, Luglio 2010) G enere : nu - dancehall L'EP che segue a ruota il terzo e hyppatissimo album della reginetta agit-prop M.I.A. conferma Diplo e Switch come spin doctors dell'hype musicale contemporaneo (tra le altre cose i due sono reduci pure da un mixtape con La Roux). I produttori più in voga del momento raccimolano le idee e battono il chiodo sull'incudine calda del dancehall, elemento che sottende da anni il loro successo planetario e le derive dell'electro di molti pro70 duttori di nuovo conio (Toddla T e Ramadanman su tutti). Due inediti: il dancehall da balera Kingston (Good Enuff rivistata in gran spolvero da Cash Flow con le vocals di Collie Buddz e Lindi Ortega), e il singolone Sound Of Siren che riporta M.I.A. su un accogliente cameo/ritornello melodico, coadiuvata dal buon rapping giamaicano di Busy Signal. Tre remix per farcire la torta: la carica tribal dei Buraka Som Sistema per Bruk Out, gli innesti bbreakz di K.L.A.M. per Can't Stop Now e addirittura la mano di Thom Yorke (tanto per dire a che piani riescono ad accedere i due...) su una stupenda Jump Up in acido techno ragga-minimal. Un biglietto da visita da usare nei parties dell'hot summer 2010. Divertimento assicurato e spensieratezza calcolata a tavolino. Il Maggiore Laser è una spia a servizio dei giamaicani. Il loro obiettivo è ormai palese: la conquista del mondo ’finto-chic-finto-freak' delle passerelle alternative UK. Per l'occasione rispolverate pure i catenoni dorati, le canottiere imbrattate di sudore e il pacchetto di cartine Rizla. Al resto pensa l'A-Team del dancehall. (7/10) Marco Braggion Mark Olson - Many Colored Kite (Rykodisc, Luglio 2010) G enere : A mericana Suscita rispetto la storia di Mark Olson. Andatosene dai maestri Jayhawks fondati con Gary Louris per scansare l'incipiente mainstream, si teneva strette le radici con i Creekdippers che, in combutta con la moglie Victoria Williams e il violinista Mike Russell, optavano per un folk scarno sciogliendosi dieci anni e un divorzio dopo. Cercando l'America in Europa, l'irrequieto Mark trovava nel 2007 l'album solista The Salvation Blues, il riabbraccio di due anni successivo con Louris per Ready For The Flood e infine la fidanzata - norvegese, qui ai cori - Ingunn Ringvold. Penseresti dunque a un nuovo lavoro di sintesi delle suddette esperienze e insieme l'ennesimo azzardo di chi, nell'ambito più tradizionalista possibile, ha sempre osato. Lo è, ma non nel senso che volevi: registrate con Beau Raymond (Chris Robinson, Devendra Banhart) e pochi amici (Neal Casal, Danny Frankel, il nostro Michele Gazich), le undici composizioni soffrono di una scrittura fiacca (a dispetto di arrangiamenti degni di lode: trame acustiche, archi delicati, ritmica sullo sfondo) e della voce sfiatata di Olson. Più di metà scaletta si trascina senza nerbo, per quanto le iniziali Little Bird Of Freedom (ospite Jolie Holland) e Morning Dove (spartana e obliqua) facessero presagire ben altro, e quando persino highlight Zola Jesus - Stridulum II (Souterrain Transmissions, Settembre 2010) G enere : G othic pop Piccolo riassunto ad uso e consumo dei meno attenti: mesi or sono Stridulum EP faceva registrare il passaggio della talentuosa chanteuse Nika Roza Danilova dal cripto goticismo degli esordi ad una sorta di pop apocalittico, versione 2.0 di quel folk ancestrale reso celebre da progetti come Death In June e Swans. Se vi siete persi quel concentrato di altera bellezza vi viene ora incontro la Souterrain Transimission, che pubblica gli stessi brani per il mercato europeo, aggiungendovi per l'occasione tre nuove composizioni (toccate, è il caso di dirlo, dalla stessa grazia) e rinominando il disco Stridulum II. I tempi della Crimson Wave sono lontani: c'è chi, come U.S. Girls, si trastulla sferragliando con garage minimale, celando la mancanza di ispirazione sotto strati di melma noise, e chi, come Nika, eleva preghiere laiche, concentrandosi su un lavoro di ricerca che parte dalla propria raffinata vocalità. L'accompagnamento austero, per lo più sintetico, occhieggia alla wave più eterea e ad un electro pop dalle ritmiche solenni, ma è l'invidiabile padronanza dei propri mezzi da parte di questa ventunenne del Wisonsin ad incantare. I brani che arricchiscono questa nuova edizione si segnalano per minime ma significative differenze che se confermante rappresenterebbero l'avvisaglia di un'ulteriore virata verso un pop d'avanguardia. In particolare su Sea Talkil consueto salmodiare di Nika è rifinito da strati di tastiere aeree, che disegnano cieli tersi simili a quelli di Atmosphere dei Joy Division. In chiusura Lightstick abbandona la monoliticità dei tappeti sintetici e si avvale di un accompagnamento pianistico: una sequenza di accordi insistita che maschera l'assenza di ritmica e si apre a scenari assai più rilassati e solari. Una via, questa, che se percorsa con decisione segnerebbe l'inizio di un'ulteriore esplorazione dei confini fra mainstream e sperimentalismo (7.1/10) Diego Ballani Vashti Bunyan fallisce nell'infondere vita in No Time To Live Without Her, diventa chiaro che qualcosa sia andato storto. Non capendo dove, cerchi nella movimentata Bluebell Song e nel conciso dramma More Hours altri appigli di un possibile riscatto, di fatto impossibile per il troppo che non va da nessuna parte. (5.5/10) Giancarlo Turra Martina Topley Bird - Some Place Simple (Honest Jon's Records, Luglio 2010) G enere : pop acustico Terzo disco per l'ex cantante di Tricky (sull'immortale Maxinquaye) e collaboratrice (fra gli altri) di Massive Attack e Gorillaz. Incoraggiata dall'amico Damon Albarn, Martina riarrangia le hit dei suoi precedenti Quixo- tic (2003) e The Blue God (2008) in chiave semiacustica, sottolineando con pochi strumenti la sua voce semplice, che mima i migliori episodi intimisti di Suzanne Vega, imbrigliando la sua londinesità con strumentazioni insolite (ukulele, balafon, glockenspiel e clavicembalo) e con un range vocale che non sfora mai nel pomposo. Registrato in presa diretta, questo nuovo disco è un buono punto di partenza per una cantante che è sempre stata sommersa dagli ego dei suoi collaboratori. Quando si mette a pensare con la sua testa, la Topley Bird sa sfruttare al meglio le nuances della sua voce esile, mai esagerata e nel contempo suadente. 4 pezzi nuovi tra cui si distinguono Orchids per la bella vocalità che ricorda le ultime vette di PJ Harvey e lo swing in jam session di All Day. Phoenix, influenzata dalla musica anni Sessanta cambogiana, è la perla che ci fa capire come la ragazza sia sulla strada di una maturità imminente. Spensieratamente pop, Martina ha le carte in regola per diventare 71 un fenomeno. Dovrebbe crederci un po' di più, magari togliendo le innocenti ninne nanne inglesi (Kiss Kiss Kiss, Harpsichord Kiss) che al secondo ascolto diventano prescindibili. (6.7/10) mo aspetto. Assieme al nuovo The Books è un altro di quegli album da portarsi a casa senza incertezze. Diversamente da quel lavoro qui c'è più accademia e meno poesia. Ad ogni modo, grande artigianato. (7/10) Marco Braggion Edoardo Bridda Matmos/So Percussion - Treasure State (Cantaloupemusic, Luglio 2010) G enere : T rance , exotica Il nuovo lavoro dei Matmos nasce da una collaborazione con So Percussion, un quartetto di percussionisti/concretisti di stanza a New York con i quali il duo è attualmente in tour. Differentemente dai live dove l'ensemble allargato si presenta più corale e free (su you tube ci sono già alcune performance), Treasure State è invece frutto di un lavoro certosino che ha coinvolto numerosi altri ospiti e richiesto diversi interventi in postproduzione, quali l'editing di Wobbly e in particolare l'overdubbing del produttore Lawson White coadiuvato dal Matmos M. C. Schmidt. Il risultato si situa in una terra di mezzo tra i lavori più “americani” del duo di S. Francisco quali The West (per la trama aperta) e The Civil War (per la suite elettroacustica) lasciando comunque spazio alle passioni sintetiche più recenti del duo e soprattutto al retroterra stevereichiano (quello di Music for 18 Musicians in particolare) del quartetto che da queste parti suona con un'inevitabile retrogusto Tortoise per quel misto di jazz solfureo e serie cicliche concatenate in movimenti armonici e melodici. I So Percussion si sono fatti conoscere proprio suonando per il famoso minimalista la cui lezione ritroviamo alla base di suite come Treasure o Water dove è proprio il rigore percussivo di strumenti esotici quali glockenspiel, steel drum (e found instruments manipolati come la stessa acqua) a permettere alle parti di tromba (Dave Douglas), chitarra o sitar (Mark Lightcap degli Acetone) di creare ancora una volta l'incanto matmosiano. Altro apporto dei newyochesi, oltre al tribale e il gamelan, è il funk di Cross - bassi cavernosi al laptop, chitarra wave filtrata, tocchi di piano e vari effetti - che mostra il lato più groovy di un progetto pensato a traccia e dove la fluorescenza collettiva è di gran lunga più importante del colpo di genio dei singoli. Water è senz'altro la traccia migliore per esecuzione e resa timbrica, mentre tracce come Shard o Flame, con ospiti rispettivamente gli inventori e compositori Dan Trueman (PLorK,The Princeton Laptop Orchestra) e Walter Kitundu, si godono soprattutto per quest'ulti72 Matthew Dear - Black City (Ghostly International, Agosto 2010) G enere : D avid B yrne + house Quando non fa il post-Plastikman sotto il moniker di Audion (il principale dei suoi tre moniker dance), Matthew Dear, il texano più berlinese del mondo, fa il crooner sotto il proprio nome vendendo il funk bianco lavorato da Brian Eno, David Byrne, altezza trilogia fine Settanta del Duca Bianco, sotto le mentite spoglie di un'house - ma anche minimal - malleabile e di pronta contaminazione. Se già con Asa Breed l'operazione aveva dato i suoi frutti (e suscitato in noi alcuni dubbi), Black City rimette le carte sul tavolo allontanandosi ancor di più dagli espedienti dance e ritornandoci la sagoma di Tarwater cadaverici appena sporcati di blackness dell'ultimo Jimmy Edgar e tanto motorik al ralenti stile Kraftwerk '00. Del resto il camaleontico Dear ai più sgamati non è mai sfuggito di essere per com'è: un David Bowie dei nostri tempi che capta, fiuta, rimodella. Lo si è visto nell'episodio Body Language dove annusava il ritorno del funk e del soul nelle piste da ballo, lo si vedeva in Asa Breed che anticipava i mood dark del Tiga di Ciao!, e lo si nota in questa sede dove l'americano riporta ancora una volta e con più decisione - le più potenti fascinazioni dell'LCD Soundsystem su un piano super cool. Dalla wave berlinese indietro all'amata Detroit (alla quale dedicò il suo primo singolo, Hands Up For Detroit nel 1999) tutto torna tranne l'amore. Ascoltatevi soltanto una ballata commiato come Gem per comprendere la differenza: Bowie era Lupin, Dear il Tom Cruise di Missione Impossibile. (6.4/10) delineare un'eredità che parte dal minimalismo storico e arriva fino ai giorni nostri. Il suono post-00 è un'accozzaglia di fonti che pescano dalle più svariate realtà: la classica è solo una di queste. Proporre al popolo rock un disco che prevede una sonorizzazione per un balletto (rappresentato nel novembre 2008 alla Royal Opera House di Londra) non fa - per fortuna - più scandalo. infra riprende le idee di The Blue Notebooks e Songs From Before, utilizzando Michael Nyman come riferimento per il piano e chiosando con il Philip Glass delle colonne sonore di Koyaanisqatsi per quanto riguarda le cavalcate di archi, magari riempiendo tutto con degli intermezzi di field recording un po' raffazzonati. Atmosfere languide, malinconiche, che piaceranno ai fan di Allevi ed Einaudi. Non aggiunge molto a quanto già detto in precedenza, ma si lascia ascoltare, eliminando di fatto il confine tra classica, chill-out e pop. Che sia un bene? (6/10) Marco Braggion Mike Doughty - Sad Man, Happy Man (ATO, Giugno 2010) G enere : folk - pop Mike Doughty cantava nei Soul Coughing, bella promessa di metà '90 persasi dopo un ottimo debutto e in- fine scioltasi nel 2000. Piacevano le loro canzoni, obliqua mescolanza di jazz e sentire hip-hop con rime da beat generation che - un tot di chili in più e di capelli in meno dopo - latita in questo terzo disco solista (secondo per la ATO di Dave Matthews) del nostro uomo, portatore di un tentativo di fuga dal cantautorato tradizionale amalgamando voce e chitarra acustica con scorie di ritmi urbani e il violoncello dell'abile Andrew Livingston. Timbro di chi fa del proprio meglio per mascherare evidenti limiti, Doughy ricorda un Elvis Costello più folk e americano del solito senza possederne la calligrafia, avvicinandosi semmai a un valentissimo discepolo come Chris Elliot però solo sporadicamente (Year Of The Dog, Nectarine). In poco tempo Mike resta senza fiato e la monotonia (Lord Lord Help Me Just To Rock Rock On, He's Got The Whole World In His Hands) si alterna al vano inseguimento della programmazione FM e di MTV (I Keep On Rising Up, You Should Be Doubly Gratified). Spiace sentirlo imitare Jack Johnson dopo essersi misurato a testa alta con “quella” Casper The Friendly Ghost e aver cavato di tasca la tesa sincerità di When I Box The Days Up. Che decida da che parte stare: noi ci comporteremo di conseguenza. (6.3/10) Giancarlo Turra Edoardo Bridda Max Richter - infra (130701, Luglio 2010) G enere : cl as sica pop Questo ennesimo album del compositore tedesco Max Richter ci fa capire come sempre di più i suoni un tempo etichettati come 'classica' siano entrati nella palette sonora dei rockettari, tanto che la Fat Cat, storica etichetta rock inglese, ha fondato per lui la 130701. Non serve richiamare Sigur Rós, Eleh e Bedroom Community per 73 Movie Star Junkies - A Poison Tree (Voodoo Rhythm, Giugno 2010) G enere : G arage B lues /F olk A Poison Tree è un album meno irruento e più umbratile di Melville. è crepuscolare, decadente nell'accezione romantica e pure il volume dei suoni (acustici e raffinati), insolitamente basso per le produzioni odierne, sa molto di gag vintage dal fosco appeal retrò.A due anni di distanza da quell'esordio, ma con una serie sterminata di pezzi piccoli e furibondi live di qua e di là dell'oceano, i piemontesi Movie Star Junkies rilanciano il coordinato di credenziali che da sempre vive sottotraccia al progetto, ovvero tutta la tradizone del blues cimiteriale che dai Gun Club passa per Nick Cave e Tom Waits per arrivare ai Chrome Cranks. Fin dall'attacco di Under The Marble Faun si capisce però che non hanno nessuna intenzione di deporre l'ascia di guerra, seppur usando toni più blandi, eleganti e raffinati (la murder ballad The Walnut Tree e la title-track) quando non pop (il jingle di Hail). Trame scure si rilevano in Leyenda Negra e nell'interminabile incedere finale di All Winter Long a ricordare a tutti di che pasta sono fatti i nostri. I testi, ancora un volta, fanno man bassa di letteratura celebre (Blake e Hawthorne su tutti) e minoritaria (Almost A God riprende una poesia di Emanuel Carnevali, già noto al sottobosco musicale italiano via Massimo Volume), oltre che di storia, tradizione, mitologia e superstizioni. Una nuova gemma targata Italia che fa coppia con l'imparentato progetto Vermillion Sands, a dimostrazione di un gusto e di una sensibilità con pochi pari nei patri confini (e non solo). (7.3/10) Andrea Napoli, Stefano Pifferi My Jerusalem - Gone For Good (One Little Indian, Agosto 2010) G enere : A lt - folk /FM rock Sebbene si tratti di un debutto, Jeff Klein non è un esordiente in senso stretto, avendo già prestato le sue capacità di musicista a diversi nomi di spicco del panorama rock dell'America degli ultimi anni, tra i quali vale la pena di ricordare Ani DiFranco, Twilight Singers e Gutter Twins. My Jerusalem è però un progetto di vera e propria band, dove la vena di songwriter di Klein viene messa al servizio di un insieme di musicisti capaci e già maturi (anche nel loro caso, infatti, si tratta di turnisti e musicisti già noti nel giro grosso). Gone For Good è intriso dello stesso mood sanguigno che trasuda dai dischi del suo mentore, Greg Dulli: rock classico pieno di soulfulness e venato di americana, blues e tutto il sudore del sud. Ma rispetto a Twilight Singers 74 e Gutter Twins, i My Jerusalem fanno abbondante uso di fiati e archi per stemperare le atmosfere, mai davvero cupe, ma piuttosto caratterizzate da una agitata malinconia. Un occhiolino viene strizzato anche all'airplay, con le voci raddoppiate e stratificate nello stile che caratterizza gli Arcade Fire, e tra le dodici tracce del disco non c'è da annoiarsi davvero, tra la sofferta ballad Proposition, la brillante Valley Of Casualties e l'ottima Spleepwalking. Gone For Good è un disco riuscito, ben suonato e interpretato, ma ha il terribile difetto di assomigliare sempre a qualcos'altro di già sentito, a partire dalla musica di Dulli e Mark Lanegan. (6.5/10) Marco Boscolo No Age - Everything In Beatween (Sub Pop, Settembre 2010) G enere : N oise pop I Jesus And Mary Chain (Life Prowler), le chitarre dei primi Flaming Lips (Glitter), il bubblegum punk Ramones-iano (Forever Dreaming), la strada degli Husker du (Depletion) ecc. Sappiamo tutto del suono che viene dalle loro chitarre. E sappiamo ogni piega melodica che quel tipo d'approccio può comportare. Lo sa il pubblico che magari non snocciola tutti i nomi ma sa, conosce, ha già sentito da altre parti, scaricato, captato nelle discoteche punk e oltre soulseek. E lo sanno pure loro. Non c'è nulla da stigmatizzare: Glitter è degna dei Mary Chain e c'aggiunge un formidabile tocco lipsiano. Il processo è sempre il medesimo e guarda al pop in un modo sempre più nitido. I fratelli Reid guardarono ai roots americani per togliersi dai cliché, i No Age - tipico per questi tempi - diversificano l'offerta tirando dentro tutti i padri del caso. Facendo del djing di se stessi. Il loro gusto ci piace. Amiamo sentirli basic punk, ripetere Keep On Dreaming tirando in ballo tutta New York (Ramones, Sonic Youth) perché le loro canzoni sono più cool che memorabili. Di una coolness calibrata al centesimo però. Sospesa in un limbo di comodo tra nicchia (non lo sono più) e upper side (ma quale cazzo sarà? Pitchfork lo è). Sentiteli in Valley Hump Crash come si avvicinano agli Strokes partendo però da Cobain. Sentiteli come non gliene frega un cazzo, dopotutto, di come andrà. L'unica certezza - sopravvivenza - è che con i Wavves, i Male Bonding e il noise pop emerso attorno, questo è il momento di parlare ai più piuttosto che rintanarsi dietro a un muro di fuzz. Il compromesso tiene: Everything In Beatween rappresenta la scala di grigi hardcore melodica degli Ottanta, ed è sempre il dopo in questi casi il problema. Chem Trails chiude in bellezza mettendoci dentro l'america di provincia filtrata dagli eterni My Bloody Valentine. Un cerchio si chiude. La polaroid è scattata. (7/10) Edoardo Bridda No Guru - Milano Original Soundtrack (Bagana Records, Settembre 2010) G enere : no wave / rock Psicopatologia della metropoli. Quasi si trattasse di un Mingus periodo Pithecanthropus Erectus con il suo jazz selvaggio e rumoroso, (in)civilizzato e legato indissolubilmente ai suoni della città. Solo che qui si parla il linguaggio delle chitarre elettriche, tra Contortions e Dead Kennedys, sax sguinzagliati in stile Zu e schegge punk, fuori dalla New York di fine Cinquanta e dentro l'attualità alla cocaina del capoluogo lombardo. Anche se poi una New York spunta davvero in Milano Original Soundtrack: quella no wave. Con tanto di sprazzi free, tempi dispari, scambi incandescenti tra elettriche e batteria vergati da musicisti come il borderline per scelta/sperimentatore per attitudine Xabier Iriondo. Quest'ultimo colto a incrociare le armi con il quartetto Scaglia-MarcheschiTalia-Briegel, un gruppo di lavoro che ai vecchi fan dei Ritmo Tribale dovrebbe come minimo far saltare le coronarie. Tornano i Novanta. E se in Neve sembra di stare ai tempi dell'Edda capellone, in Amore mutuo fa capolino un disco come Germi mentre in generale si respira un senso di déjà vu controllato e quasi inevitabile. Un'approccio che è marchio registrato di questa generazione di musicisti, tanto da apparire credibile oltre ogni previsione nell'unione instabile col nichilismo newyorkese e talvolta persino capace di rinnovarsi (come nel caso della fusion strumentale di Perle ai Porci o nei rimbalzi spigolosi del singolo Fuoco ai pescecani). Insomma alla fine di ritorno si tratta. Ma degno e sensato. (7/10) Fabrizio Zampighi NO MOR MUSIK - NO MOR MUSIK (ugExplode, Giugno 2010) G enere : F ree -J azzcore Disco d'esordio per il trio di weirdi Weasel Walter/Nondor Nevai/Kenny Millions sotto il moniker NO MOR MUSIK (evidente il riferimento alla No New York di cui Weasel è ben noto cultore), per un inedito progetto free-jazz-core sgangherato e rumoroso. Già noti noti alle cronache sono Weasel Walter (basso) e Nondor Nevai (batteria), mentre Kenny Millions, chi- tarra, sax e clarinetto, è un 63enne musicista, ora titolare di un ristorante in Florida, che come molti dei collaboratori di cui si attornia ultimamente Walter, è reduce da uno dei periodi d'oro del free-jazz americano: quando a NY, negli anni '70, divideva la sua vita facendo il tassista di notte e l'agitatore culturale di giorno, organizzando concerti improvvisati nel suo minuscolo appartamento. Un vecchio freak ben poco celebrato e altrettanto poco incline a sofisticatezze colte che in NO MOR MUSIK soffia posseduto dentro i suoi fiati e percuote la chitarra senza nessun buon senso, come fosse un proto-punk amplificato prima del tempo. Il resto del disco, la declinazione -core della musica del trio, è costituita dal massiccio riffage di Walter sul suo basso a 6 corde e dal selvaggio drumming di Nondor. A loro il compito di tenere in piedi la struttura sghemba delle 6 jam brutali che costituiscono il disco, in uno scontro di ritmi senza esclusione di colpi lungo metriche spesso non convenzionali. Energia allo stato brado, che fatica a contenersi e che forse in questa mancanza di direzione trova anche il suo maggior difetto. Ma senza dubbio, quell'obiettivo di cui parla Nondor nella traccia d'apertura: “I don't want another fucking day of conceptual bullshit!” è pienamente centrato. (6.8/10) Leonardo Amico Nobraino - No Usa! No Uk! (Martelabel, Maggio 2010) G enere : rock Slabbrati e semiseri come i conterranei Granturismo, parenti alla lontana di un'autorevolezza quasi baustelliana, ben disposti verso una musicalità variegata che vive delle storie di un Italia da bar sport. O meglio, di quelle vergate da una romagna alticcia e poco vacanziera vista la provenienza della formazione, che in No Usa! No Uk! parla con la voce da dandy di Lorenzo Kruger e gli intrecci strumentali chitarra elettrica-basso-batteriatromba di Bartok, Vix, Nestor Fabbri e David Barbatosta. Dieci giorni in una casa di campagna, Giorgio Canali a curare produzione artistica e missaggi e un terzo disco che conferma le buone capacità di scrittura di una band decisamente sui generis. Il cui merito maggiore rimane quello di non cedere alle facili tentazioni privilegiando invece una formula in cui alla cura per i testi si unisce la capacità di moderare tessiture sonore che fanno da buon complemento. A dimostrazione il Sud America di Western Bossa, l'incedere marziale da balera di Grand Hotel o una La signora Guardalmar in cui riconosci dei Libertines casarecci e perfetti. Brani in cui si mescolano disillusione da falsi vi75 veurs (“Questa sera suono al Grand Hotel, ma l'applauso in sala è per lo chef, e la musica si perderà, tra la crema dei bignè”), ironia ("Se il narcisismo fosse un handicap, qui tutti avrebbero il parcheggio assicurato anche in città, ma quanta gente c'è alla toilette, eppure sembro il solo a dover far pipì") e un'irridente cinismo da perdente in una società di perdenti (“Rinnoverà la biancheria, con i punti del cus cus, prenderà le malattie solo se annunciano il virus, e nel letto ascolterà, due politici su tre, tanto parlano di sogni e se non fanno a pugni presto dormirà”). Insomma, bravi. Bianconi è avvisato. (7.2/10) Fabrizio Zampighi Noise Trade Company - Just Consumers (N Label, Agosto 2010) G enere : electro - harsh - pop Supportati da Valerio Cosi (sax), Fabio Orsi (chitarra trattata), Paolo Cillerai (chitarra elettrica) e Luca Lenzoni (basso), Gianluca Becuzzi (voce, elettronica) e Chiara Migliorini (voce) allargano la prospettiva del loro “electro harsh pop for electro harsh people” verso un'indagine più ampia sulla società dei consumi evidente sin da titoli come Miss Anorexia, Download Your Identity, Brand My Skin (Without Your Logo). Se Crash Test One si configurava come una sorta di test della nuova/vecchia direzione musicale di Becuzzi, Just Consumers ne è una perfetta applicazione ideologica ancor più che musicale, una sorta di disfunzione spaziotemporale, un ritorno al futuro. Le rielaborazioni degli stilemi del post-punk, dell'electro-ebm e dell'harsh-industrial primigeni rientrano in un contesto mai nostalgico, bensì futuribile e puntando sulle potenzialità della forma canzone danno vita a un doppio album che mette in riga synth-poppers e electro-addicted contemporanei. Basterebbero pezzi come Drastic Plastic - voce celestiale e ossessività synth-ritmica - o i trattamenti acidi di chitarre e sax in No Tears per rendere l'idea, ma è l'intero lavoro a meritare un ascolto reiterato. Ancora una volta, questa è musica “riconoscibile e nuova, sintetica e viscerale, cerebrale e danzabile”. (7.2/10) Stefano Pifferi Noyz Narcos - Guilty (Propaganda Records (Milano), Gennaio 2010) G enere : italo horrorcore Noyz è, come si dice, un personaggio controverso. Membro di spicco del collettivo romano TruceKlan, una biografia che comprende episodi clamorosi come un videoclip praticamente pornografico e il coinvolgimento in storie 76 di droga (denunciato a piede libero durante l'operazione ribattezzata dai carabinieri "La calda notte", dal nome del suo disco in coppia con il rapper Chicoria, arrestato per spaccio). Guilty è il quarto album, prodotto da Sine e con almento tre feat di richiamo, Club Dogo, Fabri Fibra e Marracash (e con l'intro dell'americano Necro, modello etico ed estetico del nostro). L'italo horrorcore di Noyz è qui forse al suo picco per cupezza e incazzatura (crude descrizioni di degrado urbano ed esistenziale, autoapologia spinta fino all'insulto alla polizia e allo Stato italiano), musicalmente piantato in un crossover di hip hop commerciale (ed enfatico), metal e tastierazze gotiche. Le basi potrebbero essere molto meglio e così pure il profilo del cantato, senza gli incisi di Duke Montana. Noyz obiettivamente, a tratti, spacca. L'hip hop è spesso e volentieri una questione di attitudine, e lui, lontano anni luce dalle autoparodie involontarie del compagno di banda Metal Carter, l'attitudine ce l'ha. (6/10) Gabriele Marino Ojm - Volcano (Go Down Records, Settembre 2010) G enere : hard A lavorare con gente come Michael Davis (MC5) e David Catching (già collaboratore di Eagles Of Death Metal, Queens Of The Stone Age e qui chiamato a produrre) i trevigiani Ojm qualcosa hanno imparato, considerando anche che sono al terzo disco della loro carriera - se si eccettua l'ultimo Live In France - e che già l'esordio del gruppo Heavy trovò il modo di farsi distribuire all'estero dall'inglese Cargo. In Volcano si parte dal binomio Blue Cheer / Black Sabbath per sparare mezz'ora di chitarre elettriche su un muro di amplificatori valvolari e riflussi di bassi distorti, batteria e delay, col fine di rinverdire i fasti di un hardblues desertico che in prospettiva ha più di un punto di contatto con la produzione di formazioni come Kyuss e Unida. C'è da dire che le cose migliori si ascoltano quando i tempi si fanno meno serrati e la componente psichedelica prende il sopravvento - gli intrecci di organo e sei corde che troneggiano nell'ottima Oceans Hearts o l'acidume filtrato dai wah wah di una I'll Be Long che cita in più di un passaggio la Gimme Shelter degli Stones - , anche se è tutto il disco a godere di una razionalità agguerrita e nostalgica. (6.3/10) Fabrizio Zampighi One Way Ticket - Ora Et Implora (CNI, Luglio 2010) G enere : rock Oval - O (Thrill Jockey, Settembre 2010) G enere : G litch revival Rock cantautorale. Cosi definiscono la loro musica gli One Way Ticket da Bari e a farci due conti non si sbagliano poi di molto. Sempre che con il termine si intenda un approccio alla scrittura vecchio stampo, di quelli che andavano in quei Novanta ormai sbiaditi in cui il rock in madrelingua cercava di darsi un tono e conquistare fette di mercato mediando tra melodia e chitarroni. Tornano in mente i Ritmo Tribale, di rimando i Soundgarden (Sondaggio d'opinione), ma soprattutto i Timoria del Renga pre-sbornia sanremese, richiamati dalla voce evocativa e intensa di Maurizio Maremonti e da un impianto strumentale sospeso tra wah wah e riffoni granitici, batterie in stile Metallica e flanger mediamente isterici. Nella pratica abbiamo a che fare con un'alternanza di ballads rassicuranti (Quello che resta), episodi più sostenuti e qualche sporadico punto esclamativo (gli archi pregevoli di Accade tutto mentre dormi), in cui si bada più a suonare credibili piuttosto che a confezionare immaginari avventurosi e formalmente eccitanti. La scelta pare azzeccata, poiché coerente con le intenzioni di chi suona e in linea con le reali capacità messe in campo. (6.3/10) Il ritorno di Markus Popp al primigenio Oval, stando ai comunicati della Thrill Jockey, sembrerebbe un nuovo esordio, così diverso da giustificare sia il primo Ep-assaggio Oh e poi questo doppio di settanta tracce. Le novità, pare vadano cercate dallo straniamento per l'universo digital-elettronico di Popp, il suo de-pensamento della techné da cui si sentirebbe oramai lontano, il bisogno di formattare software ed algoritmi digitali. Eppure dai lidi erronei dell'era-glitch, Oval non si è mai distaccato veramente e così ad emergere nei suoi piccoli microuniversi è più il restyling formale che il sorpasso ossessivamente annunciato. I gap tra un passaggio e l'altro, il rigore e l'astrazione, Kant e zen, restano la sua firma caratteristica; niente è veramente cambiato: ciò che appare diversa è la performabilità, fare glitch più con gli strumenti che col laptop. Se i suoi primi lavori, Dok e 94 Diskont, erano opere di caos e iperboli digitali, O prova la carta della formula processing-chitarristico insieme a sottili interventi di sintetizzatore, con improvvise quanto devianti sezioni di batteria. Proprio quest'ultima, tra contorsionismi freejazz dall'imprescindibile vicinanza a Chicago Underground Duo, poteva essere l'antitodo e l'arricchimento che un disco come questo, pieno di esercizi triti e ritriti, necessitava. La weltanschauung di Popp invece è ancora permeata di quel glitch che molti dei suoi colleghi sono stati capaci di rinnovare con approci più complessi e felici (Fennesz, Matmos, Vladislav Delay...). Sarebbe stato buono esattamente una decina d'anni fa... (6.2/10) Fabrizio Zampighi Optimo - Fabric 52 (Fabric, Giugno 2010) G enere : optimo techno Pensavamo che non tornassero più a far parlare di sè i due DJ scozzesi JD Twitch and Jonnie Wilkes, dopo che il loro show da resident al Sub Club di Glasgow aveva chiuso i battenti. Invece li ritroviamo qui sulla vetta del Fabric a dire ancora una volta la loro. Non solo: fra i progetti annunciati per il futuro i due si imbarcheranno in remix, nuovi dischi e la gestione di una label. Il disco riprende le mosse dall'estetica col gusto retrofilo (Fad Gadget, Basic Channel, UK funky, l'omaggio ai New Order di The Tyrell Corporation, un nome ereditato nientemeno che da Blade Runner) miscelata con un savoir faire da maestri su lidi ubereclettici: l'house pacchiana di Roska, gli anni Ottanta al neon di Roni Griffith, la world tribale di Cumbia Moderna De Soledad e la deep-uptempo acustica di Matias Aguayo. Non sai mai come e dove trovino questi accostamenti così disparati, sta di fatto che ogni mix è un regalo quando la firma è Optimo. Per molti palati, non necessariamente technofili ma dal gusto sopraffino. (7.3/10) Marco Braggion Salvatore Borrelli Pale Sketcher - Pale Sketches Demixed (Ghostly International, Agosto 2010) G enere : remix , glitch Cambia moniker con la stessa regolarità con cui cambia le mutande, Justin K. Broadrick. Eppure il prime-mover del rumore inglese (da Napalm Death a Jesu, passando per Head Of David, Godflesh e Greymachine) mantiene sempre una certa linea di continuità sottotraccia che a volte appare più evidente, altre meno. Pale Sketcher, ennesima incarnazione del fare musicale di Broadrick appartiene di diritto alla prima linea, essendo sin da moniker e titolo piuttosto evidenti le finalità del progetto, figlio illegittimo della compila di inediti Pale Sketches. Un veicolo, nelle parole dell'inglese, con cui esplorare “the electronic side of Jesu”, quell'anima che nella dicotomia 77 elettronica/chitarre che caratterizza Jesu sin dai primordi, ha mano a mano perso parte del proprio peso. Da lì la necessità di riesumarne l'aspetto meramente elettronico virandolo verso certi lidi non dissimili dalla glitchtronica '00 tutta increspature e arricciature, bassa battuta e sensualità gelida su quel magma di shoegaze ascensionale che ha fatto la fortuna della casa madre. Una slow-motion a tratti entusiasmante: l'incedere claudicante di Don't Dream It (Mirage Mix), i delay vocali di Supple Hope (2009 Mix), gli incroci di synth kosmische di Dummy (Bahnhoff Version) danno la misura delle partiture di Jesu una volta ripulite dal rumore di chitarra. Alla lunga, l'atmosfera si fa troppo unidimensionale e, senza colpi d'ala memorabili, finisce con l'appiattire la già scarsa tavolozza di colori usata per Jesu. Il problema, come già detto più volte, risiede più nel background del nostro e nelle aspettative dell'ascoltatore che nella bontà della proposta in sé. (6.5/10) gle pop agrodolce vale da sola il prezzo del biglietto, o le languide distorsioni in odor di Big Star di Something For You. Il resto è elegante e confortevole ordinaria amministrazione. (6.3/10) Diego Ballani Phil Selway - Familial (Bella Union, Settembre 2010) G enere : folk pop Il solista che non ti aspetti dall'aurea combriccola Radiohead. Come gli altri componenti la band, e forse anche più degli altri, Phil Selway ha sale in zucca e cuore generoso, tanto da impegnarsi per l'associazione benefica Samaritans e nel progetto 7 Worlds Collide. è proprio in quest'ultima circostanza che ha perfezionato la collaborazione con Lisa Germano, Sebastian Steinberg dei Soul Coughing e i due "wilchiani" Glenn Kotche e Pat Sansone, gli stessi che lo hanno incoraggiato a deStefano Pifferi buttare in solitario. Tuttavia pare che la spinta decisiva sia dovuta alla scomparsa della madre Thea nel 2006, mentre era in tour con Yorke e compagni: la qual cosa potrebbe Pernice Brothers - Goodbye, Killer spiegare la sostanziale mestizia che pervade tutte le die(One Little Indian, Giugno 2010) ci tracce in programma di questo Familial, profluvio di G enere : I ndie folk Quando raggiungi la maturità e inizi a pensare che la pre- morbide solennità folk pop, perlopiù acustiche - chitarra vedibilità di un arrangiamento ne costituisca talvolta il e voce - ancorché fornite di misurate guarnizioni orcheprincipale valore, ti rendi conto che esistono gruppi me- strali e/o elettroniche. ravigliosi come i Pernice Brothers. Goodbye, Killers è il Difficile trovare parentele con le direttrici estetiche della sesto album in studio per i fratellini Joe e Bob, impegnati band madre, al più qualche eco delle più trepide ballate da quasi tre lustri a perfezionare l'arte della bella calligra- altezza The Bends (ad esempio in All Eyes On You) e parfia ad uso e consumo di quell'America meno facilona, che ticelle d'inquietudine Ok Computer in filigrana (Beyond apprezza i Cohen (così come i Cohen hanno più volte ri- Reason). Semmai viene in mente una versione (parecchio) badito di apprezzare per i Pernice) ma non sa rinunciare soft di John Martyn, oppure un Damien Rice tenuto a bada da una fregola Nick Drake, ma al di là delle iperboli alla torta di mele e al Super Bowl. I loro album sono quasi tutti uguali: power pop tenue e il discreto talento del Selway cantautore è di quelli che uno sguardo che abbraccia gli spazi aperti della provincia, ne puoi sentire ad ogni pié sospinto. Tanto che neanche pop elettroacustico e una voce soffice come una piuma. gli ospiti - i suddetti incoraggiatori - riescono ad esprimeUna formula che fino ad ora ci ha consegnato lavori pre- re valore aggiunto. Consideriamola una parentesi tediogevoli e di raro equilibrio, e di cui, in tempi così poco samente piacevole, che probabilmente avrà un seguito: decifrabili come quelli attuali, sentivamo la mancanza. Re- adesso però torna ai tamburi, Phil. gistrato il fatto che anche questo disco è impermeabile (5.9/10) alle tendenze degli ultimi trent'anni di musica, il resto va Stefano Solventi da sè. Personalmente l'ho trovato appena meno ispirato del Plastic Made Sofa - Charlie's precedente Live A Little, che gonfiava il petto mostran- Bondage Club (Smoking Kills, do qualche ambizione sinfonica in più. I nuovi brani sono Maggio 2010) asciutti e diretti come una pacca sulla spalla, mescolano G enere : pow wave con nonchalances suggestioni da ballata west coast, spi- I numi tutelari Beatles, si veda la copertina rivista stigliati folk'n'roll e accattivanti influenze british. In mezzo le collage ispirata palesemente a Sgt. Pepper's Lonely vi si trovano alcuni dei pezzi più divertenti e divertiti che Heart Club Band, presiedono al disco d'esordio dei il gruppo abbia sfornato, vedi l'opener Bechamel, il cui jan- bergamaschi Plastic Made Sofa, un EP all'attivo usci78 to l'anno scorso; partendo allora da questo biglietto da visita, il pop melodico inglese di base viene ampiamente mescolato a sonorità rock da questa e dall'altra sponda dell'oceano (Libertines, Strokes e affini ), con dosi di Franz Ferdinand e pop wave in quantità. Si aggiungano ancora spezie garage e psych rock che emergono e qualche buon hook qua e là e il gioco è fatto. Una melodicità di fondo non scontata e un'unità stilistica che percorre tutto l'album fanno di Charlie's Bondage Club un esordio più che discreto, in attesa di ulteriori sviluppi. (6.8/10) Procedure Club - Doomed Forever (Slumberland, Luglio 2010) G enere : noise - pop Di nuovo bedroom-pop col marchio Slumberland in bella mostra. Siamo alla noia, direte voi, ma in questo caso il duo di New Haven, Connecticut, non propone il solito gelato misto ai gusti shoegaze e lo-fi pop, ma spinge sul versante del noise, aiutato da una scelta, quella di affidare le ritmiche ad una drum-machine tanto stitica quanto vintage, che connota sin dall'esordio Feel Sorry For Me direttive di base e obbiettivi di fondo. Andrea B., voce heavenly come d'ordinanza, e Adam MaTeresa Greco lec, emigrante polacco e polistrumentista in combutta con l'ospite, produttore e amico Tim Borkowski, mettono in scena un teatrino che ricalca il trend del momenPocahaunted - Make It Real (Not to in ambito dream-pop in lo-fi, ma nello stesso tempo Not Fun, Maggio 2010) spruzzano l'offerta di un velo neanche tanto invisibile di G enere : psych - dub Prima manifestazione ufficiale da un paio d'anni a questa rumore e dissonanza. Non proprio alla maniera primiparte, se non andiamo errati, tanto che per la sigla origina- genia dei padrini Jesus And Mary Chain, tanto meno riamente di Amanda Not Not Fun Brown e Bethany Best in quella sanguinaria dei My Bloody Valentine, ma in quanto a modus operandi ci siamo molto vicini; solo Coast Cosentino l'aria era quella della dismissione. Non è dato sapere se questo Make It Real sia il can- che qui synth, effettistica povera e distorsioni di chitarra to del cigno per il duo californiano, visto il prevedibile sporcano l'evocato immaginario shoegaze del duo forsuccesso del solo-project di Bethany, o un nuovo inizio nendone una sorta di paradossale e incestuoso mix tra come i cambi strutturali (con tanto di formazione allar- Suicide e C86 (Nautical Song), o tra Black Tambourine gata a quartetto in cui spicca Cameron Sun Araw Stel- e Velvet Underground più scassoni e roboticamente lones) e strumentali farebbero presagire. Quale che sia malati. Tanto che forse per questo duo si può giustificare il futuro di Pocahaunted (bisogna dirlo, uno dei moniker l'odiosa e onnicomprensiva etichetta nu-gaze. Per quel più geniale dell'underground mondiale) e data per scon- che può valere, ovvio. tata la rinuncia della Cosentino, limitiamoci al presente. (7/10) Proposta normalizzata e di molto, rispetto agli esordi in Stefano Pifferi cui l'allora duo se la faceva con reietti del droning del calibro di Robedoor senza sfigurare affatto con un blob di Puma - Half Nelson Courtship psych deviante. Ora ad essere messa in scena è una sorta (Rune Grammofon, Agosto 2010) di dub psichedelico corposo e groovey, memore tanto di G enere : I mpro , free rock certi lavori meno nervosi del post-punk delle origini (la Dice bene la scheda della loro label: i norvegesi Puma linea di basso portante dell'opener Touch You) quanto di sono partiti come dei cugini più giovani dei Supersiaperture afro e tropical degne dei compagni di label (la lent per poi approdare a un revisionismo di marca King title track, i duetti vocali di All Of Is Of, il tribalismo goes Crimson epoca Starless and Bible Black aggiornato, agouter space di U.F.O.). giungiamo noi, alle microwave, i glitch e le istanze più Il risultato è un concentrato di funkedelia clintoniana noise-ambient del metal di Sunn O))) e KTL. dai ritmi rallentati e oppiacei, di tanto in tanto smossa Primo album su Rune Grammofon, Half Nelson Courtship da tempeste di suoni multiformi e caleidoscopici ma dal è il terzo lavoro sulla lunga distanza nonché il più compiumood genericamente sfatto e dilatato, tanto che l'album to e messo a fuoco del terzetto, la cui strada per conquisembra un ponte immaginario in grado di unire la Cali- starsi un posto nell'agguerrita scena sperimentale scanfornia più free e freak alla grande madre Africa, passando dinava (vedi Mats Gustafsson e i suoi mille progetti) è per il lato oscuro della Giamaica. Meno destabilizzante oramai spianata. Øystein Moen (synth ed elettroniche), rispetto a ciò che la sigla ci aveva abituati a sentire. Buon Stian Westerhus (chitarra ed elettroniche) e Gard Nilsinizio per una probabile seconda fase. sen (batteria) danno il loro meglio nella traccia omonima (6.8/10) di dieci minuti tra micro-improvvisazioni, un crescendo Stefano Pifferi catastrofico e infine la catarsi dronica finendo col situarsi 79 qualcosa di eccitante, anche per chiari parallelismi con i Battles. Eppure i Pivot che guardavano indietro al math, post-rock, jazz-rock, oppure che tentavano coniugazioni sempreverdi con il kraut, davano comunque la netta impressione di stare ancora provando, compromettendo Edoardo Bridda continuamente una freschezza di base comunque palpabile. La nuova prova cambia ragione sociale e filosofia (fatta eccezione per la citazione esplicita di Kraftwerk Puttin' On The Ritz - White Light/ I in Community, quasi un addio al passato), scegliendo il White Heat (Hot Cup, Luglio 2010) formato canzone e virando su un variegato synth pop G enere : cabaret - rock Sì, avete letto bene. Il titolo del somophore dei Puttin' chiesastico/pagano, con un'ammissione di colpa e conOn The Ritz, ennesimo progetto in cui è coinvolto Ke- seguente restringimento del campo d'azione, senza che vin Talibam! Shea, rimanda proprio a quello dell'epocale alcuni vizi di fondo vengano superati. esordio dei Velvet Undergound. Sì, perché è la rendi- I PVT rimangono ottimi aggregatori e abili chirurghi di tion di quell'album, completamente coverizzato dal pro- laptop tronica in partiture suonate, e più di ogni altra getto che Shea condivide col cantante BJ Rubin. Quello cosa sembrano maestri nell'evitare i loghi comuni di ciò che era un capolavoro di rumore chitarristico e depra- che rielaborano. Se in questa puntata la vera novità è stata vazione, in grado di mostrare al mondo lo spessore di il canto spirituale, i PVT hanno evitato le armonie pseu4 artistoidi drogati totalmente addicted to noise, molto do gospel à la Depeche Mode e optato per un revival prima che il noise divenisse categoria musicale interpre- della wave pacificata, dream-ata ed etnicheggiante di fine tativa e privilegiata, viene riletto in formazione e attitudi- Ottanta. Preferendo una sezione ritmica Einstürzende Neubauten alle tronfie pose etno rock di alcuni prone cabarettistica dal duo newyorchese. Per l'occasione, la formazione si allarga a vera e propria tagonisti di quel nefasto periodo, hanno inoltre sposato brass band sui generis col padrone di casa Hot Cup, Moppa eleganza e accoratezza e rinunciato alle pose caricaturali Elliott al basso, Jon Irabagon al sax, Sam Kulik al trombone, del post-punk e del goth di qualche anno prima. Nate Wooley alla tomba e il sodale Matt Mottel ospite alle In un canto rimangono i sussulti horror dei Suicide (cotastiere nella conclusiva cavalcata di Sister Ray. Claudicante munque citati apertamente in Chruch With No Magic) e si e ubriaco, tentacolare, parossistico e alieno nel costruirsi in viaggia su un terreno spugnoso tra This Mortal Coil assenza di una strumentazione classicamente rock, il Whi- e l'emozionalità di Echo & The Bunnymen (Crimson te Light/White Heat dei newyorchesi sorprende per la Swan, Circle Of Friends) salvo aggiornamenti attraverso vosua capacità di essere al tempo stesso un ovvio e sentito calizzi simil Patrick Wolf (via lallazioni Laurie Anderomaggio, ma anche la sua incredibile destrutturazione ol- son) e cose ancor più radio friendly come The Quick Mile. tre che una personalissima reinterpretazione a base di fiati è l'anima bianca della song synthetica l'abile scelta strateimpazziti, filologia maniacale e scazzo in quantità industriali. gica dei PVT, ottimi architetti senza canzoni vere, raffinati Se vi state chiedendo quale può essere la molla per una tessitori d'emozionalità wave senza volto. è l'ennesima così insana attrazione per quel disco, beh, la risposta la transizione, ma verso dove? fornisce BJ Rubin stesso, ricordando come quel disco in (6.5/10) cassetta fosse in heavy rotation nel suo walkman appena Edoardo Bridda trasferitosi a NY. Consigliatissimo. (7/10) Raekwon - Cocainism Vol. 2 (Ice al confine tra free rock, free jazz e ambient. Altrove il terreno si fa sommesso, i segnali si fanno oscuri e sbuca qualche incertezza. Nulla da condannare, piuttosto da far crescere con gli ascolti. (7/10) Stefano Pifferi PVT - Church With No Magic (Warp Records, Agosto 2010) G enere : A dult wave I PVT altri non sono che i Pivot di O Soundtrack My Heart, formazione di tre menti scafatissime che ci erano piaciute per scelte e riferimenti stilistici, senza riuscire a convincerci del risultato. Detonazione e tecnica, suonato e sintetico, riff radioattivi ai synth e momenti più mediati, facevano della formula un 80 H2O, Maggio 2010) G enere : hip hop Dopo il successo di pubblico e di critica (Pitchfork lo ha messo al quinto posto nella sua classifica di fine anno) di Only Built 4 Cuban Linx... Pt. II (settembre 2009), Raekwon propone adesso un mixtape golosissimo - venti tracce, grande varietà nelle basi (tra i produttori, Alchemist) che è soprattutto uno showcase delle sue qualità come rapper. C'è un po' di tutto: funksoul, HH electronico/commerciale (e siamo dalle parti di Big Boi), minimalismi (percus- sioni, inserti di piano, sexy incisi femminili, palm muting di chitarra), un pizzico di Beat Konducta in India (City Of God), ottoni strombazzanti, cantabilità pop in odore SaRa (la conclusiva Sunset Strip). Pezzi potenti, produzioni corpose, rappati semplicemente ottimi (e tra i feat c'è anche Mobb Depp). Raek è tanto bravo che riesce a infilarci pure l'autotune senza risultare osceno (Keep On). Occhio, non esiste un Cocainism Vol. 1. (7.2/10) Richard A Ingram - Consolamentum (White Box, Maggio 2010) G enere : soundscapes Chitarrista e tastierista della band emo-prog (...) Oceansize (sotto lo pseudonimo di Gambler), il mancuniano Richard A. Ingram ha avviato lo scorso anno anche la carriera solista, con il cdr di sperimentazioni pianistiche e soundscape Lullaby. Il percorso continua con questo primo vero e proprio album Consolamentum, che Gabriele Marino l'autore vorrebbe nebuloso e impressionistico concept ispirato alla setta dei Catari. Come confermano - "a ritroso" e per sottrazione - due uscite successive al disco Rangda - False Flag (Drag City, in questione (la compilation Keys su American Typewriter; Giugno 2010) la cassettina autoprodotta in 50 esemplari Piano Test, per G enere : impro - rock Supergruppo. Dicesi di formazione comprendente, fra i piano preparato/trattato), Ingram si colloca nell'affollato suoi ranghi, celebrità, più o meno artisticamente dotate, incrocio tra ambient, elettroacustica ed elettronica orgache nel mondo delle sette note hanno avuto certo succes- nica, ma ha il pregio non comune di sottolineare la natura so. Rangda è un supergruppo. Un termine che può essere concreta dei materiali di cui si serve e di organizzarli con ritrovato in diversi ambiti: fisica, geologia, fumetti. Qui però rigore e gusto quasi cameristici, conferendo ai brani un il supergruppo è da intendersi (concettualmente) come fascino che è poetico nel doppio significato di lirico e di quelli storico-epici dei gloriosi anni Sessanta (al loro termi- creativo/immaginifico. ne) o dei confusi anni Settanta (al loro nascere). Non rock Tra distensioni ambient, droni, rumori presi dalla natura, né jazz, ma qualcosa lì in mezzo che si incolla con l'improv- pulsazioni e oscillazioni archeo-tecnologiche, una timida chitarra acustica-folk, ecco allora una title track che dipinvisazione. Ma torniamo al 'nostro' supergruppo. Tre guitti tre, invischiati con la creatività (strictu sensu) ge come una marcia di transistor, via via sempre più dociancor prima che con la musica. Ben Chasny, Chris Cor- le, addomesticata e una traccia di chiusura che vive tutta sano e Richard Bishop vantano ciascuno un curriculum di vibrazioni - di onde - che, se condensate, se rapprese, invidiabile. Facciamola stringata: Chasny è legato (fra gli andrebbero a formare una testura esotico-minimalista. altri) ai marchi di fabbrica Six Organs Of Admittan- Tutti questi giri per dire Consolamentum, per quanto in ce e Comets On Fire, Richard Bishop vi riporterà agli maniera molto diversa, trasmette un'idea di ricerca del immensi Sun City Girls e Corsano è il battitore libero senso sonoro molto simile al Black Sea di Fennesz. del terzetto (Dredd Foole, Jandek, Sunburned Hand (7/10) Of The Man, Kim Gordon, ecc.). Aspettatevi un freeGabriele Marino noise di tutto rispetto quindi. Chitarre alla velocità della luce, sferzate free-jazz in marasmi d'improvvisazione hard Rose Elinor Dougall - Without Why che neanche i Flying Luttenbachers (Waldorf Hyste- (Scarlett Music, Agosto 2010) ria), Mick Barr che incontra gli Unsane col Santana di G enere : P op Abraxas (debitamente stuprato) alla chitarra (Bull Lore), le Rose Elinor Dougall è uno dei nomi su cui sembra aver piccole smenate psych-folk che fanno tanto Six Organs puntato la stampa specializzata di USA e UK per la stanel finale (15 minuti 15) di Plain Of Jars (i Kaleidoscope gione autunno/inverno che sta per venire. La giovane non di Beacon From Mars - 1968 - in agguato). Rapide discese è certo digiuna del music-business, avendo militato nelle nella psichedelia atmosferica, intensificata di jazz, sono Pipettes fino allo scorso anno. Oggi se ne ritorna con il presente in Sarcophagi, che i Cold Bleak Heat avrebbe- primo disco intero, anticipato da un singolo apprezzato ro certamente fatto loro. ecumenicamente sulle due sponde dell'Atlantico. Si tratLa Drag City l'ha finita con le cagatine folk'n'something? ta di Start/Stop/Synchro, che apre Without Why: suoni Deo gratia, speriam di sì. Nel frattempo questo super- elettroacustici e un basso pulsante a sostenere una megruppo, frammentario e dispersivo quanto ci vuole, ci ri- lodia che sembra una versione semplificata di un brano porta ad un concetto di far musica che è essenzialmente degli ultimi Fiery Furnaces, ma con una vocazione pop un 'disfarsi in musica'. d'alta classifica, modello Cardigans, e sorretto da un vi(7.2/10) deo black and white che per un attimo, a chi come noi Massimo Padalino c'era, fa pensare a Tanita Tikaram. 81 In un mercato discografico in cui sembra che si riesca a vendere un po' di copie se si è partecipato a un talent show, la giovane inglese (classe '86) sembra aver calcato in un suo modo vagamente originale la stessa strada e ora sforna 11 tracce melodiose e - a tratti, come nel caso del singolo - trascinanti, pensate più per l'airplay che per fondate ragioni artistiche. Di sicuro non c'è nulla che non suoni perfettamente a là page, in questo album, citando ora i Brakes (con i quali la Dougall ha anche collaborato), ora il tipico suono Sessanta che oramai sta monopolizzando tutte le serate di qualunque club del mondo. Insomma tubino scuro, bianco e nero fortemente contrastato e il labbrino imbronciato. Probabilmente bucherà MTV, musicalmente non dice niente di nuovo. (6/10) Marco Boscolo Röyksopp - Senior (Wall Of Sound, Settembre 2010) G enere : A mbient - tronica , IDM Consapevoli di non poter replicare il capolavoro indietronico Melody A.M. e dell'aver scontentato non pochi fan con la virata '80 di The Understanding prima e di Junior poi, i due nordici che dettero origine alla norvegian invasion mediatica, ritornano parzialmente sui loro passi con l'escamotage del gemello adulto del sopracitato terzo lavoro. Senior raccoglie una serie di tracce strumentali tra ambient, psichedelia e new age che servendosi di strutture pop, folk e narrative IDM cercano di raccontare storie, umori e sensazioni in note sintetico-ambientali su un sottofondo spacey ed esotico. Su tutte tornano preponderanti le lezioni di riferimento di sempre: Vangelis, Air e i migliori Orbital (The Drug). è chiaro che la scelta fortemente tastieristica e soundtracky della raccolta si poggia sulla scia delle krauterie cosmiche di Further dei fratelli chimici e di tutte le uscite sul genere del sottobosco mondiale. L'esperienza e il consueto buon artigianato elettroacustico (si ascoltino The Alcoholic e Forsaken Cowboy tra arpeggi di chitarra, cinguettii campionati e un main riff al sintetizzatore degno dei Boards Of Canada e gli archi sampled di Senior Living) tengono in piedi l'operazione con classe. Il quarto lavoro dei Röyksopp è un lavoro pieno di mestiere che poco regala alla storia: peccato, le intuizioni sono ancora lì (molto buono il tocco Serge Gainsbourg tirato in ballo in Coming Home), più stilose che mai. (6.4/10) Edoardo Bridda 82 Rubik - Dada Bandits (Talitres Records, Settembre 2010) G enere : new popedelic Esistono dischi che, a prescindere dal valore artistico, paiono fatti apposta per “tarare” l'influenza di questo o quel gruppo sulle generazioni attuali e questo è uno di quei casi. Il quartetto finnico Rubik giunge al secondo album mescolando epica Arcade Fire a malintese devianze di Flaming Lips (Indiana) e Broken Social Scene (Radiants, You Jackal !!), talvolta tirando a lucido caciare folk (Karhu Junassa) o freak (Goji Berries) oggi norma e regola, nondimeno finendo per ricostruire a memoria quel vacuo pop-rock “pseudo alternativo” che fece capolino ai piani alti delle classifiche nella seconda metà degli '80 (Altitude, Wasteland). A casa loro, infatti, sono entrati nei Top 10 col predecessore Bad Conscience Patrol e c'è da supporre che Dada Bandits lo imiterà in forza di sonorità laccate ed espanse ma pur sempre filo-indie.Ad eccezione della briosa Richard Branson's Crash Landing e della tenue Follow Us To The Edge Of The Desert, il resto è completamente privo non solo di ironia, ma pure di spunti compositivi apprezzabili, affossato da arrangiamenti barocchi e una scrittura sopra le righe che viene subito a noia. Come i discorsi di un amico che, tutto preso da se stesso, passa un'ora a raccontarti cosa ha fatto di bello. E che quanto parli tu, ovviamente non ti ascolta. (5/10) Giancarlo Turra Scott Morgan - Scott Morgan (Alive Naturalsound Records, Giugno 2010) G enere : rock ' n ' soul Avevamo lasciato Scott Morgan due anni or sono nei Solution, persuasivo progetto in compagna di Nicke Royale degli Hellacopters, e lo ritroviamo oggi solista dal cuore profondo di Detroit. La quale, giova ricordarlo, era anche - e da molto prima - una delle culle della soul music. Si tende a scordarlo pensando agli MC5, trascurando quanta negritudine “spirituale” vi fosse in loro e in altre formazioni locali, dall'urlatore Mitch Ryder ai Rationals allora guidati da questa leggenda vivente. Che, guarda caso, chiuderà il cerchio nei Settanta fondando con Fred "Sonic" Smith la Sonic's Rendezvous Band. E cosa può fare un veterano nel freddo Midwest, se non scaldarsi con del sanguigno rock urbano a fianco di abili concittadini, dal bassista Jim Diamond che registra e produce alle sei corde di Matthew Smith (Outrageous Cherry, Volebeats) e Chris Taylor, passando per il batterista Dave Shettler? Ne cava così un riassunto di car- repliche, sono le riletture di classici Bowieani - solo chitarra & voce, cantati in portoghese (ma non propriamente in stile bossanova) - che Seu Jorge ha realizzato per Wes Anderson e il suo Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004). Detto questo, il debutto dell'attore e musicista brasiliano per Now Again (nonché primo disco ad avere una distribuzione regolare fuori dal paese natale, grazie a Stones Throw), sempre composto da cover, non mantiene le promesse - implicite - di quel progetto così semplice eppure così speciale e neppure si assesta tutto sul livello della rendition di Everybody Loves The Sunshine di Roy Ayers, bellissima, utilizzata come singolo. Forse Seu non ha ingranato al 100% con la nuova band (Antonio Pinto al basso, Lucio Maia alla chitarra, Pupilo alla batteria); forse arrangiamenti, missaggi e addirittura le stesse interpretazioni risultano alla fine troppo asciutti, desertici; forse "è colpa" del repertorio, disomogeneo per Giancarlo Turra tipologia e qualità. Fatto sta che il tocco magico di cui, quando vuole, sa disporre appare un po' appannato. Bene allora il funky di Cristina (Tim Maia), la bossasamScuola Furano - Tribute EP (La ba in salsa Los Lobos di Cirandar (Paul Lima), la lenta Valigetta, Maggio 2010) ballad notturna Tempo de Amor (Baden Powell), la grinG enere : oldskool house «Penso uscirà un EP a breve, tipo ad aprile, e poi il disco in tosa Pai João (Tribo Massáhi), il funkypop di Rock With You estate, taglio underground, più house, meno pop del primo». (sì, Michael Jackson), il funkyblues di Girl You Move Me Così ci aveva detto Borut a gennaio. Tempi discografici (Cane & Able), l'epica Juizo Final (Nelson Cavaquinho), e dilatati, l'EP esce a fine maggio. Dell'album non sappia- ovviamente la già citata cover da Ayers. Ma il resto della mo, si vedrà. Intanto, un fresco mangia&bevi per l'estate, scaletta, compresa The Model dei Kraftwerk (un pezzo quattro pezzi soltanto, quattro bombe, altrettanti omaggi che si offre magnificamente al coverizzatore di turno), oldskool. è qui che sta l'essenza underground del disco è piuttosto sottotono, come incompleto. Disco uscito a (perché i pezzi sono di una godibilità assoluta), nel taglio luglio ma da fine estate, più che agrodolce, inaspettataquasi filologico di un omaggio che senti subito essere mente amaro. Scaccia via la saudade Seu. (7/10) quello di un superappassionato. Rispetto all'esordio, niente canzoni, niente pop e niente Gabriele Marino hip hop (se non nel richiamo a quei primissimi anni Ottanta in cui gli idiomi electronici erano ancora felicemente Shit Robot - From The Cradle To The confusi), focus tutto sull'house, musica sempre luccicante, Rave (DFA, Agosto 2010) festaiola, generosa. La chiave sono i motivetti, irresistibili, G enere : D ance rivestiti poi dai suoni giusti. Il riff funky, il lungo bridge Marcus Lambkin ovvero Shit Robot. La degradazione unto wah-wah e l'inserto disco di The Heaven And Back; del suono house classico di Chicago. Roland impoverite, l'intro percussivo tropicalia, il basso che pompa, le tastie- drum machine base, claps vintage, tastierato italo, vocioni re spernacchianti di Colorado Strings (quasi sicuramente negroidi ultra cool e via di ortodossia con gli occhi rivolti in scaletta al Wintercase, ma non potevamo saperlo); lo indietro (fino ai Kraftwerk) e un pizzico di nerdaggine stardustin' stomp funky di Pina Colada; l'electro/freakhou- import britannica che fa tanto primi Novanta (Forgese deep, notturna e cattiva di Flashback. Goduria. masters). (7.3/10) Così si presenta al mondo, nel 2006, Shit Robot per DFA. Gabriele Marino Da allora a oggi poca roba: singoli, remix (tra gli altri No Time per i compagni d'etichetta Juan Maclean) fino a questo piuttosto strombazzato From The Cradle To The Seu Jorge - Seu Jorge and Almaz Rave, primo album sulla lunga distanza di un ragazzo che (Now Again, Luglio 2010) ribadisce il verbo grazie al classico compendio di guest G enere : brasilian bl ack Una delle cose più belle del mondo, non ammettiamo e il mixing da parte dello stesso boss della label, James riera, che tempra con classe l'amato errebì con un garage che si fa hard screziandosi di blues e funk. Materia classica e - poiché eseguita da un “caposcuola”, sebbene di culto - mai banale; anzi, genuina tanto quanto è muscolare e ricca di stile. Che si misuri con brani altrui (Something About You, vibrante mid-tempo sottratto ai Four Tops; la hendixiana Mississippi Delta di Bobbie Gentry; una Nina Simone resa splendidamente acidula per Do I Move You?) o porga originali di buona fattura (Lucy May: robustezza indecisa tra '65 e '72; la quintessenza detroitiana Highway; gli Stones ancheggianti nella “Motor City” per Summer Nights), respiri l'autorità che le giovani leve non posseggono ma che andrebbe loro trasmessa. Impossibile ricrearla con alchimie di studio, ma questo vecchio leone con i denti ancora aguzzi lo sa benissimo. (7/10) 83 Murphy, che a Shit Robot ci tiene particolarmente. La prima traccia Tuff Enuff, di fatti non mente: è praticamente una B side degli LCD Soundsystem ridotti a sole Roland. E gran parte del resto della tracklist - ancora feat. di Murphy in Triumph - è una sfilata della crew del vitellone di New York, da Nancy Whang (tastiere e cori negli LCD Soundsystem) che canta nella "sooo eighties" Take 'Em Up in odor di ultimi Röyksopp, ai citati Juan MacLean (la carpenteriana Grim Receiver), più l'inconfondibile voce degli Hot Chip, Alexis Taylor, nella bella song Losing My Patience o al grande spoken di Ian Svenonius nella ultra classica house Simple Things, fino a cose più easy come il canto di Planningtorock in Answering Machine, o la dance maranza fine Ottanta della Londra in cerca di emancipazione di I Got a Feeling (con Saheer Umar e campanacci Liguid Liquid a corredo). Shit robot sono il piacere per il groove sporco, sexy e cattivo dell'analogica ortodossa con sopra un canto bello wave e cool come piace a Dj Hell. è tutto fantastico, come si sente lontano un miglio che è Murphy l'artefice di gran parte della musica di queste tracce. Ed è un Murphy revivalista. Devoto. Troppo devoto. (6.5/10) Edoardo Bridda Skream - Outside The Box (Tempa, Luglio 2010) G enere : pop - step Ollie Jones ritorna dopo il debutto di 4 anni fa a casa Tempa. Lui è praticamente il producer dubstep più costoso sulla piazza. Chiamarlo in Italia costa troppo e nessuno da queste parti vuol azzardare qualcosa di diverso dall'house o dalla minimal rischiando una pista deserta. Negli UK le cose stanno in una prospettiva decisamente diversa: Skream è un marchio che tira e la mossa del feat. è di quelle da outside the box appunto. Il ragazzo ripropone il pre di tutta la faccenda che ha generato il buzz del dubstep: melodie 2 step (Where You Should Be con Sam Frank in autotune à la Kanye West) e half step (How Real con Freckles) condite con un po' d'umoralità Robert Owens, IDM (CPU), grime (8 Bit Baby), r'n'b à la Moby (I Love The Way) e persino jungle (Listening To The Records On My Wall) e drum'n'bass (The Epic Last Song), in pratica sfoggio di skill da grande producer, sul piatto, servite fredde e con suonini 8 bit a prezzemolo. Poi c'è un presunto cuore della faccenda, lo Skream che tenta lo scarto come cantautore nello stile di I Care Because You Do in una manciata di track (Fields Of Emotion, Metamorphosis, Perferated, Reflections) che provano a lasciarsi alle spalle i giochetti di gioventù nel tentativo di raccontare la scena di ieri (e l'altro ieri) con 84 amore e disincanto. A dir il vero, sono tracce riempitivo che speculano sul revival IDM di questi anni e distolgono l'orecchio dai due veri flop del disco, i feat. di La Roux e Murs, mancate hit di un furbo calderone di citazionismi dall'ardkore continuum. Forse la mossa "mainstream" di Rusko è stata oltremodo profetica. Riascoltatevi piuttosto gli inserti jazz del Jones altezza 2006 in Skream!, quel tocco che qualcuno paragonò addirittura a Derrick May. Nostalgia vera vs. nostalgia in provetta. E ombre pure sull'atteso progetto Magnetic Man con gli amici Artwork e Benga che, ascoltata la sua Wibbler, potrebbe suonare come una versione cartoon di Terror Danjah. (5/10) Edoardo Bridda Sparklehorse/Danger Mouse - Dark Night Of The Soul (EMI, Luglio 2010) G enere : R.I.P. psych rock Oltre a essere un produttore e musicista di primo livello, Danger Mouse sembra oramai specializzato in operazioni di promozione della propria immagine che a volte sembrano un po' più che furbette. Era già successo quando nel 2004 il famoso Grey Album, un mash-up bastard pop del White Album dei Beatles e il Black Album di Jay-Z, finì direttamente nel circuito del peerto-peer internettiano senza passare dal via della release ufficiale, osteggiata per motivi di sample non autorizzati. Già allora Brian Joseph Burton aka Danger Mouse decideva di saltare il fosso della distribuzione via label, diventando così uno degli uomini del music-business più in vista di quel momento, generando un hype che frutterà anche la collaborazione con Damon Albarn e i Gorillaz dell'anno successivo. Lo scorso anno la storia è sembrata ripetersi, quando la collaborazione di Danger Mouse e Mark Linkous, più noto con il moniker di Sparklehorse, doveva tradursi in un progetto su più livelli, a cominciare dal disco, cui si somma il sito web (www.dnots.com) e il contributo di David Lynch che cura le immagini del sostanzioso libretto. Dark Night Of The Soul è il titolo del progetto che nel 2009 veniva distribuito direttamente in Rete da Burton e Linkous, dopo che la EMI ne aveva osteggiato l'uscita ufficiale, limitandosi a far uscire il libretto fotografico in allegato a un cd-r vuoto. Salto del fosso numero due e nuovo hype per l'artista che si mette “contro” il potere delle major. Solo che poi il banco salta, quando Mark Linkous decide di farla finita, e per Danger Mouse (ed EMI) è il momento di raccogliere il seminato. Così a un anno dall'uscita pirata esce anche il cd uffuciale, tributo a un amico musicista troppo fragile per questo mondo. E la musica? Sembra essere, come sempre in questi casi, un corollario di poco interesse. Non solo perché il bailamme è spostato su questioni extra-musicali, a cominciare dalla costruzione della leggende sulla morte di un musicista passando per una finta attitudine punk da “fight the power”, ma anche perché di davvero memorabile non v'è nulla o quasi. La collaborazione tra i due musicisti, supportati da una pletora di nomi altisonanti alla voce (tra gli altri: Wayne Coyne dei Flaming Lips, Julian Casablancas, Nina Persson, Vic Chesnutt che nel frattempo ha deciso di farla finita, Black Francis e Iggy Pop) non si segnala per originalità, dando origine a un disco che non è ai livelli dei primi episodi Sparklehorse, ma nemmeno degno delle migliori intuizioni di Danger Mouse, sebbene si lasci ascoltare. L'atmosfera generale è di malinconia virata grigio scuro che ben si accompagna all'immaginario di Lynch. Sorprende positivamente la varietà, da una psichedelica Revenge con Coyne a un dinamica Little Girl cantata da Casablancas, passando per torch song dolenti (Grain Augury con Vic Chesnutt, Everytime I'm With You con Jason Lytle), ballate horror (la titletrack). Il meglio, probabilmente, lo danno le due tracce affidate alla Persson, la cui lievità vocaldà quel tocco di assoluto e agrodolce che le rende universali. L'operazione necrofaga sarebbe da 4, il disco si assesta su un onesto (6.5/10) uditivo. Ogni tanto, Westerhus al lirismo sinistro, affianca una fracassante dose di ultraviolenza, e così, quasi senza volerlo, trova un'evoluzione chitarristica ai suoni digitali Mego-Glitch (vedi la sferragliante Music for Leaving). Non si tratta di un disco semplice, considerando la sua accidentalità, le interruzioni e le pause simil-zen che attraversano il frastuono e gli incendi, ma può stare in mezzo al Loren Connors di Hell's Kitchen Park e Ktl, facendo la sua bella figura. (7.3/10) Salvatore Borrelli Sufjan Stevens - All Delighted People Ep (Asthmatic Kitty Records, Agosto 2010) G enere : ultrafolk L'ultimo vero album risale ad un lustro fa, ai tempi del buon Come on Feel the Illinoise, quando ancora questo genietto fragile e generoso sosteneva che avrebbe dedicato un album ad ogni stelletta della bandiera USA. All'epoca un po' ci credevamo e, chissà, forse un po' ci crediamo ancora. Ma da allora si sono avvicendate solo raccolte di outtakes e progetti irrimediabilmente collaterali rispetto ad una strada maestra che sembrava tra le più gravide in circolazione. Oggi - folgorato sulla via dei The National, coi quali ha stretto un sodalizio tanto imprevedibile quanto fruttuoso - è il tempo del rientro Marco Boscolo in carreggiata. Con correzione di rotta. E un surplus di potenza. Tanto che quale antipasto al nuovo album The Age Of Adz, in uscita ad ottobre, Mr. Stevens può perStian Westerhus - Pitch black mettersi di apparecchiare il qui presente EP. star spangled (Rune Grammofon, Mica roba leggera: otto tracce per un'ora di musica. OvMaggio 2010) vero un album bello e buono, signori miei. All'insegna di G enere : P itch bl ack guitars Stian Westerhus, norvegese di Oslo, al secondo su un sogno folk seventies che tratteggia bozzetti bucolici, Rune Grammofon ritorna alla chitarra solista in contem- scava solchi acidi e intreccia trame epiche, la barra del poranea ai suoi mille projects quali Puma, Nils Petter songwriting tenuta salda e trepida attraverso le schermaMolvaer Group, Bladed, Crimetime Orchestra, glie moderniste ed il fortunale para-prog. La titile-track è una suite in piena regola - si parla di apocalisse, si omagMonolithic. Pitch black star spangled, più che concept, è personalis- giano i Simon And Garfunkel di Sound Of Silence - prosimo campionario solipsista sul tema del dissestamento posta in due versioni: una "original" lunga quasi dodici delle sei corde. Un labirintico percorso le cui movenze minuti tra vampe corali, squilli orchestrali ed elettricità, fantasmatiche, o post-apocalittiche, quasi distraggono e e una "classick rock", più breve (otto minuti abbondanti) fanno a meno della memoria di un secolo d'improvvi- e dal passo più blando come un miraggio laterale The sazione chitarristica. Quello di Westerhus è un edificio Band con additivi Grateful Dead. C'è poi una Djohaabbandonato, casermone dagli abitacoli segreti ed oscu- riah - è il nome di una sorella del Sufjan - che ti sbatacchia ri, posto sulle rovine della musica d'avanguardia. Si pas- in un flusso di aspro e soave psych-folk per una dozzina sa dagli sbranamenti e/o rimbrottamenti da giungla della di minuti prima che arrivi la canzone vera e propria: c'è title-track, alle acuminate e paradisiache striature di Sing sentore di eccesso voluto, il retrogusto della posa, ma alla with me somehow, ai flussi psycho-stridenti di Trailer trash fine il pezzo si compie in equilibrio sul filo di un'espresballad attraverso overdubbing, piezoelettrica e cristalli sività calda, urgente e sbrigliata. Cose che capitano negli modificati, manipolazioni quasi-genetiche del condotto- ep, appunto, da sempre luogo di azzardo, deviazione e 85 divertimento, ben più che nella "istituzionale" dimensione dell'album. Quanto agli altri episodi, sono al più lirici e meditabondi, non privi di nutritiva stranezza (come il sirtaki sghembo di Arnika), di dolcezza lisergica (Enchanting Ghost, tipo un apocrifo del giovane David Crosby), di ineffabile pensosità (la bellissima The Owl And The Tanager, che non spiacerebbe ad Antony). Tutto ciò in attesa di un lavoro lungo - ahem - che dovrebbe assestarsi su coordinate electropop. Ok, ha tutta l'aria d'una situazione bizzarra a dir poco. Come dire, Sufjan Stevens è tornato ed è - sembrerebbe - in grande forma. (7.4/10) Stefano Solventi Sun Kil Moon - Admiral Fell Promises (Caldo Verde Records, Luglio 2010) G enere : acoustic slow core Admiral Fell Promises è il quarto album da quando nel 2003 Mark Kozelek adottò l'alter ego Sun Kil Moon, e come gli altri porta con sé la stimmate della malinconia. La novità, a questo giro, è che il Nostro è in solitudine davanti a un microfono con in braccio una chitarra spagnola, corde di nylon che accarezza con notevole padronanza. Lì il senso di un lavoro che nella calligrafia non mostra viceversa evoluzioni di sorta: sempre tenue l'esposizione, in scia a Nick Drake o - dati anagrafe e passaporto - al Mark Eitzel meno tormentato; ancora intatte talune lungaggini strumentali nelle quali Kozelek si è sempre crogiolato. è del resto uno cui piace il rock anni '70 e non ne ha mai fatto mistero, come dimostravano in passato le cover di AC/DC o la partecipazione al film Almost Famous. Stavolta, in coda e nel cuore delle sue pigre e sognanti ballate (su tutte la latineggiante Sam Wong Hotel e il romanticismo delicato però teso di You Are My Sun, una magistrale The Leaning Tree declinata tra anse e pieghe emotive e il cantilenare in scia a Kristin Hersh perChurch Of The Pines) non vi sono impennate d'elettrica ma cristallini, sovente flamencati arazzi. Che talvolta si impicciano in questioni di scrittura - buona benché distante dal sensazionale Ghosts Of The Great Highway - e zavorrano le belle Australian Winter e Alesund. Peccato veniale, dal momento che altrove il divagare strumentale si integra alla composizione e riporta la grazia naturale tipica del personaggio. La prossima volta, però, gradiremmo più concisione: sappiamo che Mark sia un “manico”, tuttavia a noi è l'autore a interessare. (7/10) Giancarlo Turra 86 Tame Impala - Innerspeaker (Modular, Giugno 2010) G enere : P sych rock Se ne parlava in sede di Turn On e mi tocca ribadirlo in questa recensione. Quello dei Tame Impala è uno degli esordi più convincenti dell'anno, per lo meno in ambito rock. Il gruppo di Perth vi arriva dopo aver scaldato i muscoli aprendo per gente come Black Keys e MGMT. Da questi ultimi, in particolare, hanno imparato a smussare le asperità presenti sul primo ep, uscito un paio di anni fa e conosciuto come Antares Mira Sun.Hanno limato, riverniciato e cromato con effetti e tastiere analogiche un suono che guarda al passato, ad un punto imprecisato dei tardi 60s in cui la psichedelia flirtava con il primo prog. Ne hanno saputo fare qualcosa di appetibile al grande pubblico, eppure bizzarro e creativo. Provate ad ascoltare l'elegante singolo Solitude Is Bliss: la voce lennoniana, i riff circolari, le aperture sognanti e la tensione drammatica, ne fanno qualcosa di originale e immediatamente riconoscibile, una sorta di freak pop mutante. C'era un'espressione, "flash rock", inventata in tempi remoti per dare un senso all'imprevedibilità della musica degli Yes, nome che a molti lettori di SA farà accapponare la pelle, ma che nei suoi momenti più visionari e meno velleitari ha non pochi punti in comune con l'opera del combo australiano. Il resto appartiene alla farina del sacco del giovanissimo Kevin Parker, detentore del timone del progetto, e di un certo Dave Friedman, la cui lunga mano in fase di produzione apre una curiosa breccia fra l'universo onirico della band e quello folle e colorato dei Flaming Lips.Guardarvi attraverso è fonte di piaceri insondabili e inevitabili vertigini. (7.6/10) Diego Ballani Taprikk Sweezee - Conversea (Musik Aus Strom, Giugno 2010) G enere : post - techno soul Nikolai Von Sallwitz, berlinese cresciuto ad Amburgo, è un cantante sulla piazza elettronica dai primi Duemila, prima in team con il produttore post-techno/IDM Michael Fakesch (metà del duo Funkstörung - assieme a Chris De Luca - e titolare della label Musik aus Strom), poi impegnato in progetti solisti sotto vari nomi (Roals Roaster, Gizmog, Fussel, pubblicati sulla sua minilabel personale Zoikmusic). Conversea, registrato sette anni fa, è il suo primo solo EP a nome Taprikk Sweezee e lo battezza anche come produttore. Quattro pezzi - ma Nothing è un bonus desti- Heart Procession (Pall Jenkins) e Pinback (Zach Smith) nella seconda metà dei 90s sostituirono, mano a mano, la casa madre. Non nei cuori degli aficionados, ovviamente, che oggi vedono coronata una rincorsa durata qualcosa come un decennio e rotta solo dalla manciata di minuti del 7” Planets di qualche mese fa, anticipazione gradita ma troppo breve di questo atteso lavoro. L'attacco di Battle fuga ogni legittimo dubbio. Vedere riformati gruppi che hanno raggiunto lo status di gruppo di Gabriele Marino culto, sull'onda di una manciata di dischi epocali ma soprattutto di uno iato pluriennale, racchiude sempre delle insidie. La voce melo di Jenkins e un andamento quasi Tender Trap - Dansette Dansette swingato, spazzano via 3 lustri come fossero bruscolini. I (Fortuna Pop!, Giugno 2010) Three Mile Pilot sono tornati come se niente fosse. CerG enere : T wee pop I figli e il lavoro avranno rarefatto le uscite discografiche, to, gli spigoli sono più smussati e la malinconia, quel gusto ma non hanno certo trasformato l'ultimo progetto degli amaramente esistenziale che trasudava da lyrics e interex Heavenly e Talulah Gosh in un gruppo da dopola- play sembra lievemente affievolito, ma l'età porta consivoro: tornano anzi con formazione estesa, che permette glio e acquieta anche gli animi più travagliati. C'è di buono armonie vocali senza sovraincisioni, e con un disco che però che questa reunion - se di reunion si può parlare, dato che il trio non si è mai ufficialmente sciolto - non non vuole passare inosservato. Già perché nel bailamme dell'indie odierno non si ripren- puzza di opportunismo e l'album mostra entusiasmo e de più il twee-pop anni '50, bensì il suo revival, quello freschezza, spazzando via le insidie “passatiste” più che che ci fu nei tardi '80. I nostri però all'epoca c'erano già, lecite in partenza. e allora tornano ai sacramenti del genere: in copertina I pezzi-bomba forse non ci sono (dopotutto non ci sono il tempio, ossia il giradischi portatile che sottrasse alle mai stati) ma la media è alta: il controcanto di Left In Vain, orecchie dei genitori gli ascolti dei primi giovani r'n'r, e il piano incalzante e le aperture “solari” di Same Mistake, in apertura la title track, che da quel "dansette" prende l'agorafobia meets San Diego sound di What's In The Air o il nome e che nel ritornello nomina una trinità fatta di la lenta ballad storta di One Falls Away si fanno preferire, ma sono giusto scelte personali. Insomma, The Inevitable Sandy Shaw, Lesley Gore e le Supremes. Così, grazie anche a una felice ispirazione compositiva, i Past Is The Future Forgotten ci fa tornare in mente i classici nostri riaffermano il loro lignaggio e la loro centralità nel della discografia della atipica band di San Diego. Come a genere, tra un singolo geniale come Do You Want a Boy- dire, 15 anni passati così, senza accorgersene. friend? (la citazione dei Jesus and Mary Chain sembra (7.3/10) voler includere anche i Raveonettes tra i discepoli da riStefano Pifferi chiamare all'ordine), il western di Girls With Guns con qualche bordone punk rimembranza dell'inizio carriera Toba Seydou Traore - Toba Seydou filtrato Velvet Underground, e una consapevolezza sia Traore (Drag City, Giugno 2010) della tradizione che dei ruoli sessuali (argomento di molti G enere : M ali blues dei testi) che, contro le apparenze sonore, riporta il disco Piace che un'etichetta esemplare per catalogo e ampiezza al 2010. di vedute come la Drag City scandagli l'Africa in cerca di (7.1/10) materiale. Per chi traffica con post-rock, indie del più arGiulio Pasquali guto e nuovo cantautorato, è un significativo riconnettersi alle radici risalendo fino a prima del blues, incontrando sonorità ancestrali al nostro orecchio e tuttavia vivissime, Three Mile Pilot - The Inevitable che delle dodici battute mantengono struttura pentatoniPast Is The Future Forgotten ca e respiro umano, ulteriormente rafforzate da un senso (Temporary Residence, Settembre per l'ipnosi e la dilatazione. Esponente della generazione 2010) nata dei primi ’60,Toba è cresciuto a stretto contatto con G enere : indie Are we really here? Is this really happening? Così si apre la le tribù dei cacciatori, le cui cerimonie e racconti mitolopress-sheet, sintetizzando lo stupore di ogni singolo fan gici la musica del donso ngoni accompagna. della band di San Diego da quando i side-project Black Divenuto adulto e lasciata la famiglia, ha frequentato il nato alla sola versione mp3 - molto interessanti, anche se molto legati ai modelli di riferimento (a occhio e croce, Super Collider e Chelonis R. Jones), basi electroniche arrancanti e sporcate di glitchitudine, scure e fumose, e sopra la sua bella voce out-soul. Nikolai è già al lavoro su un nuovo EP, una collaborazione con diversi produttori americani, tedeschi e francesi, che dovrebbe uscire a fine anno.Vi terremo aggiornati. (7/10) 87 maestro Yoro Sidibe e imboccato poi un approccio personale, intersecando questo liuto a sei corde con ritmi ripetitivi che inducono una trance visionaria; dove il panorama è solcato da fugaci flauti e dove domina una voce colma di intensa esaltazione - per certi versi simile a quella di Nusrat Fateh Ali Khan - sorretta da “call and response” tanto efficaci quanto più sono spartani. In una scaletta che impressiona per compattezza d'esposizione e costanza della poesia, tratteggia il perfetto paradigma di quanto sopra la favolosa meditazione pre-blues Samafaga Mugu. Apice di cinquanta minuti che racchiudono un intero mondo e spazzano via l'apatia quotidiana.Vi basta? (7.4/10) Giancarlo Turra Tokyo Police Club - Champ (Mom And Pop, Giugno 2010) G enere : wave Dopo che nel 2006 incendiò le camerette degli indie-kids di mezzo mondo con il folgorante Ep A Lesson In Crime e nel 2008 scalarono le classifiche con il debutto sulla lunga distanza (Elephant Shell), la band canadese ritorna con una raccolta di brani che poco si discosta dal proprio passato. La miscela che ha portato i musicisti di Newmarket (Ontario) ad essere un piccolo caso dell'indie dei 2000 è l'attitudine rock à la Strokes. In più di un passaggio il cantante/bassista e front-man Dave Monk imita proprio la vocalità del miglior Casablancas e le undici tracce si srotolano senza sussulti. Nessuna rivoluzione, quindi, per i canadesi, ma nonostante il passaggio nella serie TV Desperate Housewives e la qualità delle proprie composizioni non si discosti troppo da quella delle origini, sarà difficile che facciano il salto in alto che molti, alla prim'ora, immaginavano o speravano. Rispetto a A Lesson In Crime, qui manca l'urgenza dell'esordio, la necessità di sfogare la propria teenage angst che rendeva quei diciotti minuti davvero coinvolgenti. In questo Champ, più compassato e ricco di mid-tempo rispetto al passato, una citazione a metà tra Editors e Interpol (Big Difference) o un tentativo skapop (Gone) non bastano a fare la differenza. (6.3/10) Mary Chain, ma anche per chi vive in un paese - il Brasile - che normalmente viene associato a samba e bossanova. È il caso dei Top Surprise da Minas Gerais, sudest del paese, dediti a un sound DIY che non tace la propria passione per le band appena citate, a cui aggiungeremmo almeno Meat Puppets (evidente nel country-rock di Shoot The Devil) e qualche influenza dalla new wave più vicina ai Caraibi (nell'unico brano cantato in brasiliano, Lagarto Drugs). Il resto del programma messo insieme da Andre, Boo, Daniel e Fil per questo EP d'esordio, distribuito in download dal sito o in cassetta, prevede garage rock venato di fuzz e riverberi (Samsara), grunge al confine con lo shitgaze (Saturn (The Season), Home), college rock come se gli Weezer fossero andati a male (More Than Cool), un'inaspettata ballata acustica dal sapore elliotsmithiano (80 Comes). Forse nessuna idea davvero originale in questo esordio, “registrato in un paio di giorni alcolici nell'appartamento di Andre e Daniel”, ma il piacere per chi ascolta di scoprire una scena vivace, sostenuta da una passione vera e un'estetica precisa (la cassetta non è - ovviamente - un caso) in un paese che troppo spesso da qui si percepisce solo attraverso gli stereotipi. (6.6/10) Marco Boscolo Utah Jazz - Vintage (Vintage, Luglio 2010) G enere : D rum ' n ' bas s La mano fresca del debutto It's A Jazz Thing che puntava sicura sul periodo aureo della scena, e naturalmente tutto il tam tam degli addetti (che da due anni a questa parte martellano e premono per un revival della cassa rullante), hanno certamente fatto gioco al giovane Luke Wilson, un ragazzo sveglio che sin dai primi vagiti aveva avuto il beneplacito dei nomi grossi della scena (Goldie e Fabio su tutti) dando forti segnali come producer ancor più che come dj. Due anni passati a girare il mondo sui dancefloor ne hanno confermato le doti live con set di classici e nuove produzioni d'n'b (la Sub Focus banger), e tra altre strette di mano e remix (Tricky) il sophomore lo presenta con un corollario di feat. da dj superstar nello Marco Boscolo stile, fatte le dovute proporzioni, dell'ultimo Skream. Se It's A Jazz Thing mirava al cuore, al magico triennio '93 '96, mescolando un po' di Reinforced e un pochino di Top Surprise - Everything Must Go Metalheadz, ovvero giostrando tante spezie black con il EP (Pug Records, Maggio 2010) giusto di tech, come una sorta di versione aggiornata di G enere : garage / shit gaze Nati negli anni '80 e affascinati dalla musica degli stessi Black Secret Technology, Vintage guarda alla cassa rullante anni: oramai è un binomio classico di questi anni zero. con lo scarto indispensabile per tenere la testa nel preNon solo per chi viene dagli stessi paesi di Sonic Youth sente e facendosi i giusti conti in tasca. Come da cliché e Dinosaur Jr, My Bloody Valentine e Jesus And c'è un bel po' di singing (la bluesy Bring Backthe Love con 88 Version, il remix di Dreaming con il mitologico Jonny L, i vocalizzi androgini dell'ancor più famoso Chelonis R Jones in Avoiding Puddles) del meticciato ragga (i Ragga Twins nella funambolica e forse migliore Enter The Jungle), dell'hip hop scazzato (il rapping à la Diagable Planets di Could You Handle per mano dei DRS) come dei flavour da soundtrack '60 (Bunny Boiler) infilati dentro ad arrangiamenti lussureggianti per chitarre new agey (e jazzy), parti per piano, pseudo archi (Take No More) e una buona varietà di campioni di batteria. Vintage è, in pratica, il disco vetrina di Utah Jazz, un disco settato sulle prestazioni e le skill di un producer che sta dicendo al mondo che, dal party al salotto, è su di lui che bisogna investire. La prossima volta al marketing preferiremo la passione. (6/10) Edoardo Bridda Vaselines (The) - Sex With An X (Sub Pop, Settembre 2010) G enere : indie rock Passerà alla storia per I Hate The 80's, song dal ritornello divertente e scanzonato, naïf come solo i Vaselines, indie che più indie non si può. Leggero come dev'essere un ritorno che non assuma i contorni della nostalgia. Gli Ottanta di Frances e Eugene non erano soltanto Duran Duran: c'erano loro, c'era la Sarah Records, la generazione C86, la provincia che si opponeva alla babilonia sintetica e ai bandanati di Los Angeles. Quella con l'odor di erbette sotto il naso e gli stivali sporchi di terra. La provincia lenta e noiosa che moriva quotidianamente davanti al solo canale tv che vomitava i soliti quattro londinesi usa e getta. Per te che - come tuo zio - volevi qualcuno che ti suonasse i Velvet, Lou Reed e un po' di sano rock'n'roll, il punk era stata una cosa fastidiosa. Eccessiva. Una parte di quell'ingranaggio dei Settanta che aveva gonfiato le tasche di rockstar diventate dei fenomeni da baraccone. Il rock americano viene dalla provincia. è roba genuina e On The Road.Vederlo dall'angolazione del Nord dell'Inghilterra ti dà pure quello scarto un po' scazzato e campestre che poi è il mondo che ti circonda. A distanza di due decadi abbondanti dall'esordio, i Vaselines ritorano con lo stesso Jamie Watson con il quale lavorarono su Dum Dum, più due Belle And Sebastian cresciuti a pane e indie rock Ottanta, Stevie Jackson e Bob Kildea, rispettivamente alla chitarra e basso. Michael McGaughrin dei 1990s siede per finire ai tamburi. Lo senti subito che il piglio americanista dei nuovi Vaselines è un aggiornamento invisibile di quello loureediano di una volta: c'è un pochino di country, c'è un tantino di hillybilly, tutte birbonate un po' kitsch tipiche dei Nostri. Sex With An X va su tante volte lasciandoti sempre il sorriso in bocca. E finalmente, per una volta, non c'è bisogno di citare chi-sapete-voi-chi per parlare di loro. Indie rock forever senza rimpianti nè forzature. Il piglio amatoriale e quel modo naturale di approcciare il rock'n'roll erano e sono ancora la loro forza. Bentornati. (7.2/10) Edoardo Bridda We Love - We Love (BPitch Control, Agosto 2010) G enere : S ynth pop , dream We Love è un progetto italiano che ha avuto il privilegio di uscire per la Bpitch Control di Ellen Allien, ammaliata dal mix di arti messo in gioco dai suoi protagonisti. Il loro ingresso per l'etichetta berlinese è un po' una novità: non c'è tantissimo in comune con il rigore minimal di Ellen, piuttosto con il portato di IDM e synth pop dell'amico di lei, Apparat. In pratica, quest'esordio parla la lingua dell'indietronica guardando soprattutto alla Svezia dei The Knife - e senza dimenticare tutta la sezione remix degli ultimi Depeche Mode. Dal duo autore di Silent Shout, Giorgia Angiuli, già conosciuta con il progetto Metùo e Piero Fragola (ovvero Werk Ddesign), designer e videoartist, hanno acquisito le atmosfere al calor bianco e quel gusto per la sperimentazione oltre il sintetico. Tra le note apprendiamo che il duo s'è fatto costruire un midi controller per ricreare un calore tutto analogico. La macchina è stata pagata da un'azienda di fashion design italiana: la moda torna anche nella cura per l'abbigliamento dei We Love, che si presentano in rigorose tute futuristiche bicromatiche, di fatto l'immagine coordinata di un progetto inteso come sinestetico. E sarà forse per l'ambizione dell'output complessivo, unita ai pochi mesi di vita (un anno e poco più), che la qualità di quest'esordio non va oltre la riproposizione di modelli, assimilati piuttosto bene, ma restituiti praticamente identici e perciò assimilabili a un aggiornamento del synth pop anni Ottanta alle atmosfere nordiche '00. Rispetto alla forza espressiva di Karin Dreijer Andersson, Giorgia si muove misurata tra trame semplici e filtri efficaci, ma questo le nega la possibilità dell'hook melodico (debole Even If). Dal punto di vista dell'arrangiamento, hanno ragione loro: non sono l'ennesima elctro band; del resto incorporare molteplici stili non significa farne uno nuovo e citazioni come Our Shapes (il cui riff iniziale ricorda da vicino Enjoy The Silence) o Escape Destination (molto simile a un famoso brano dei Daft Punk) non aiutano a togliersi l'idea che più che per gli ascoltatori più 89 esigenti questo sia un album per sfilate di moda. Non mi stupisce che White March, cassa (finalmente) dritta, riff al synth filtrato/svagato/perfetto, leggeri glitch e bisbigli, sia il loro brano più easy, ma anche il più autentico. (6.5/10) Edoardo Bridda Weasel Walter/Marc Edwards Blood Of The Earth (ugExplode, Giugno 2010) G enere : F ree J azz Stakanovista Weasel Walter. Negli ultimi due mesi ne abbiamo parlato ben tre volte in altrettante release di progetti per ugExplode. “Ci sarà tempo di riposare, quando sarò nella tomba” spiegava in una qualche intervista l'ex The Flying Luttenbachers, e dunque eccolo qui, dopo oltre 20 anni di attività, a sfornare dischi senza tregua. Registrato da Colin Marston nella Thousand Caves di NYC, Blood of The Earth è firmato a nome Weasel Walter - Marc Edwards e accanto ai due batteristi, vede una formazione composta da tre fiati e un contrabbasso. Con il ben noto canovaccio ritmico alla velocità della luce di Walter, potenziato a suon di BPM da Edwards, la tromba di Forbes Graham, il sax di Darius Jones e di Elliot Levin, con in più qualche inserimento di flauto di quest'ultimo, rispondono soffiando lunghi sustain, con una forte predilezione per i suoni slabbrati di ayleriana memoria e gli squeak figli di Pharoah Sanders. Free Jazz più orientato verso la ricerca di suoni liberi e non ad una liberazione delle partiture, senza per questo concedersi di tirare il fiato (leggi alla voce Nmperign) . (6.9/10) Leonardo Amico Wild Nothing - Gemini (Captured Tracks, Maggio 2010) G enere : indie , G lo fi , 4 ad Tipico fenomeno del Pitchfork 2010 in ansia da nuovi volti slavati sull'onda glo-fi, dreampop e shoegaze, l'esordio della one man band Wild Nothing è esattamente quello che ci voleva per far tornare due conti alla Captured Tracks, etichetta trendissima che ci aveva regalato due bei prodottini come Bitters e Beach Fossils e ora s'appresta a vendere un po' di copie in più grazie al virginiano Jack Tatum in questione. Con quel misto di Radio Dept e Atlas Sound sotto candeggina Washed Out, la sua creatura ha tutte le carte in regola per riassumere un crocevia di indie-ness Ottanta/Novanta, includendo nella fragile formula pop sia l'Inghilterra di provincia degli Shop Assistants sia quella da immaginario collettivo di Smiths (O, Lilac, Summer Ho90 liday, Our Composition Book), immancabili New Order alle tastiere e imprescindibili Cure (giri di basso e qualche arpeggio Gallup). Il pregio maggiore sta comunque nello sbiancare l'umbratilità della 4AD dei Cocteau Twins (Drifter), trattamento che tuttavia confluisce nella più anonima gassosità, e quindi intercambiabilità, tipica dei ragazzi dell'America di provincia di questo biennio. Il cavallone non si è ancora abbassato, l'estate di Jack splende tanto quanto quelle dei colleghi glo, soltanto che il suo Gemini risulta un tantino più prevedibile e sulla scia del loro successo. In scrittura sicuramente più interessante His Clancyness. (7/10) Edoardo Bridda Windsor For The Derby - Against Love (Secretly Canadian, Giugno 2010) G enere : post - rock Negli anni '80, citando i Simple Minds, avremmo esclamato:“Alive and kicking!” alla notizia dell'uscita di un nuovo disco dei Windsor For The Derby. Nei quattordici anni scanditi da otto long playing di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta, sono apparsi e scomparsi interi generi e ambiti di riferimento, e si è conclamata la crisi di quel mondo post-rock da cui loro stessi provengono. È giunto quindi il momento, per chi come il combo americano, è ancora in corsa di ritrovare se stessi. I Windsor For The Derby lo fanno guardando al loro passato, quello più luminoso, a cavallo degli anni '90 e 2000, da cui escono dodici tracce ipnotiche, alcune cariche di riverberi e drone che sembrano guardare, invece, agli anni '80 di cui sopra, altre invece sognanti viaggi acustici. Apre una oscura titletrack, un semplice bozzetto strumentale che serve a dare il mood del disco, nero, scuro, con riferimenti alla luna; un'atmosfera ben rappresentata anche dalla copertina. Poi in successione i pezzi migliori: l'ipnotica e psichedelica Autumn Song, l'acustica After Love e il singolo Queen of the Sun, dove si manifesta anche qualche riferimento agli Yo La Tengo più pop. Fa sorridere il successivo strumentale, Singer 1968 (sarà un riferimento alla macchina da cucire?), seguito da un altro intermezzo, Moon Shadow, di sicuro effetto, ma poco più che un accenno di brano. Siamo a metà del programma e abbiamo trovato già tre riempitivi: qualcosa non torna. L'impressione generale, confermata dalle informazioni ufficiali, è che il disco sia stato lavorato nelle pause tra una data e l'altra di un lungo tour mondiale, e che quindi il lavoro sia un po' tirato via. Non che Dan Matz e Jason McNeely non sappiano scrivere buone canzoni, anzi: lo confermano l'assolata Dull Knives e purela claustrofobica Hips. Come non è vero che il lavoro sui suoni non sia notevole (sentire la già citata Queen of the Sun). Il problema è che Against Love assomiglia a puro mestiere, con qualche piccola prescindibile vetta. Forse bastava un EP. (6.4/10) Marco Boscolo Zola Jesus/LA Vampires - LA Vampires meets Zola Jesus (Not Not Fun, Luglio 2010) G enere : D ark -W ave E terea Collaborazione sotterranea tra due delle dark lady più amate del panorama out (ma sempre più spesso anche in) a stelle&strisce, rispettivamente Nika Roza Danilova, ormai nota col moniker Zola Jesus, e Amanda Brown, cotenutaria della cult-label Not Not Fun e chanteuse lo-fi già attiva in progetti quali Pocahaunted e Topaz Rags, qui alla seconda tappa della sua nuova divagazione solista LA Vampires. Proprio al materiale a suo tempo uscito a nome Capricorn Born Again, si avvicina la proposta di questo succoso dodici pollici in edizione discobag. I fan della novella Siouxsie resteranno quindi un po' perplessi sulle prime, dato che il contributo della loro beniamina sembrerà piuttosto ridotto; tuttavia ad un secondo ascolto non potranno non lasciarsi avvolgere dal manto notturno di cui sono intessute queste eteree trame sonore, dove spettrali voci femminili si ricorrono in lontananza lungo minimali strutture elettroniche, ravvivate sporadicamente da un tromba o da fredde note di tastiera (Bone Is Bloodstone). Solo sette brani, in cui ballate desertiche in pieno stile Not Not Fun (In The Desert,Vous) si alternano a passaggi più grevi (Looking In) e a melodie perse nel tempo e nelle pieghe della memoria (No No No). Forse un'uscita solo per i fan più die hard, tuttavia un bel compendio di mistici inni per le notti estive. (6.9/10) Andrea Napoli .com recensioni, articoli, eventi, classifiche, contest... 91 Gimme Some Inches #8 Passata l’estate torniamo coi giri di vinile. Protagonisti stavolta preziose edizioni artigiane e più spartani 7” per No Age, Crocodiles, Spectrals, Sissy Spacek, Sewer Election and more... Fa piacere ritornare dalle vacanze e sentir dire alla radio da Ernesto Assante che a brevissimo tutti – e sottolinea “tutti” con voce stentorea – i supporti fisici per libri, giornali, dischi spariranno. No perché, mentre il Chris Anderson meets Simon Reynolds all’amatriciana dice la sua, qui a Gimme Some Inches scartiamo il pacco arrivatoci in questo stanco agosto dalla MacinaDischi con lo split a 10” tra Kelvin – casa madre di Woolter e Anna, responsabili dell’home based label – e Speedy Peones. Il vinile è in un bellissimo colore azzurro, ma non è questa l’unica particolarità del packaging: il disco è infatti contenuto in una lastra di alluminio serigrafata e numerata a mano, rivestita da una pellicola per aerografie, perché “vorremmo fare delle produzioni a 360° che abbiano una linea riconoscibile”, come ci confessano i due. Mu92 sicalmente c’è un turbinio punk che smuove i due lati: quello dei Kelvin va di quello virato noise alla maniera di casa AmRep, con annesso omaggio ai Melvins (If I Had An Exorcism); quello targato Speedy Peones va di follia garage su un sostrato psychwave-pop da invertebrati, proprio come in Karel Thole. Settembre poi è tempo di ritorni. Non solo dalle vacanze, ma anche a livello discografico in anticipo sui comeback. È il caso di Panda Bear, che col 7” Tomboy su Paw Tracks inaugura una serie di pezzi piccoli che avvicineranno lentamente al fulllength autunnale, o dei No Age che tornano con Glitter, preludio a Everything In Between. Doppia uscita a 7 e 12”: su entrambi i lati A brilla Glitter, iridescente e malevolo shoegaze-noise estratto dall’album, mentre sui lati b troviamo Inflorescence, sul 7”, e la doppietta In Rebound/Vision II, sul 12”. Nulla di nuovo oltre il solito noise-punk a grana grossa, con Vision II che si fa preferire per le folate rumoriste e ossessive che la attraversano. Un altro combo che gioca d’anti- cipo con le misure piccole è Crocodiles: i due men in black rilasciano Sleep Forever, singolo a 7” per la casa madre Fat Possum che mette in preallarme per il nuovo album. Suono più pulito, vocals intelligibili e una variante psych che nel pur ottimo esordio Summer Of Hate sfuggiva all’ascolto, sepolta com’era sotto strati e strati di feedback chitarristico alla J&MC. Merito della sapiente mano del producer di lusso James Ford (Simian Mobile Disco)? Beh, non che ora la nebbia di rumore chitarristico sia svanita, anzi. C’è solo una maggiore consapevolezza dei propri mezzi (la title track) e una minore serietà rispetto all’esordio: volete mettere la cover di Groove Is In The Heart dei Dee-Lite rifatta da questi nero-vestiti? Sballo. Prima di passare a zone più melmose una segnalazione d’obbligo per quella che potrebbe essere la next-big-thing del sottobosco in lo-fi. Esce per Slumberland, sinonimo di qualità, il 7” 7th Date di Spectrals, one-man band inglese dedita a melodie 50s zeppe di ahh-ahh e chitarrine jinglejangle che gli fanno meritare questa azzeccata definizione da Drowned In Sound: Spector-goes-surfing inspired lo-fi pop. Passata in rassegna l’ala “solare” dell’underground, tocca ora immergere le mani nel putrido sottobosco. Partiamo da casa nostra ed esattamente dalla A Dear Girl Called Wendy, label milanese che si sta facendo un nome sul versante noiseconcreto. Dopo l’ottimo 10” a nome Olyvetty, tocca a mostri sacri del rumore come Sissy Spacek di mr. John Wiese pubblicare un doppio 7”, riedizione dei primi passi del noiseduo americano. Messa la puntina sul vinile non resta che piegarsi alla pura violenza ruvida e materica dei due, completamente sottomessi ai maestri del rumore da hc imputridito. Kvavd di Sewer Election e Het Potatis di Testicle Hazard non migliorano la situazione. Le ruvidezze etimologicamente metalliche del progetto svedese di Dan Johansson (del giro Ättestupae Utmarken) e il rumore bianco puro dell’accoppiata Lasse Marhaug e Tommi Keränen triturano l’udito di chi ascolta e collocano la Wendy Prodz sul trono delle label incompromissorie del momento. Proseguiamo oltre con gustose novità in ambito post-punk, synth ed elettronica DIY. Dalla Francia arrivano al secondo vinile i parigini Spectrometers, con sei pezzi per un 10 pollici – 1/2 Mechanism 1/2 Organism, questo il titolo – dall’edizione spartana e minimale. Caratteristiche che si ritrovano anche nella musica dei nostri, un tappeto sonoro a base di drum machine monche, loop, flanger e chitarre riverberate stile Moon Duo. Il tutto senza voce, ma il mood creato è sufficientemente ammaliante per non farci caso. Dal cuore della grande mela, invece, arrivano al secondo singolo gli esoterici White Ring che, dopo un primo split con i non meno sibillini oOoOO, rilasciano il loro brano migliore. Suffocation vanta un groovy beat electro a reggere una spiritata voce femminile che farà la gioia dei fan di Zola Jesus & Co. Sul lato B del 7 pollici un remix del medesimo brano, questa volta un versione meno angosciosa e più acustica. Sempre da NY e ma su toni decisamente più soft si pone l’EP di debutto di Balam Acab, progetto solista con cui il giovane Alec Koone mischia pulsazioni downtempo, paesaggi liquido-ambientali alla Ducktails/Julian Lynch e immaginari subacquei che tanto vanno da un paio di estati a questa parte. A produrre il 12 pollici dal titolo See Birds ci pensa la neonata label di elettronica deviata Tri-Angle. Chiudiamo alzando un po’ il livello del rumore con il singolo di debutto dei Grave Babies, trio di Seattle dedito ad una dark-wave dalle tinte quasi gaze, che richiama in più punti i fratelli maggiori Blessure Grave.Trecento copie in vinile tirate dalla danese Skrot Up per poco più di cinque minuti di malessere. Stefano Pifferi, Andrea Napoli 93 Re-Boot #7 L’estate sta finendo.Tornano a riempirsi i garages, le cantine, sale prove più o meno attrezzate per i soliti sogni di rock’n’roll. Che proviamo a raccontare. L’orobico Vincenzo Bianco si spaccia per Chenzo quando gli prende l’estro di farsi in proprio i propri affari rock, electro, folk-pop, dark e quel che altro può capitare in una cameretta del terzo millennio. L’insostenibile pesantezza del tessere (autoprodotto, 7.1/10) è la sua prima autoproduzione e a dire il vero ci senti un po’ di tutto, ma è un miscuglio ben mescolato, la tensione tesse le fila e la voce effettata lo-fi vagamente Damon Albarn tengono il tutto ben aggrappato a quella che diresti una visione sospesa tra periferia e mitteleuropa, retaggi trip-hop stemperati eighties (Afrodite amante di Ares), dichiarate decadenze letterarie (Mallarmé, Rimbaud...) e malmostose inquietudini vagamente Manuel Agnelli (L’oroscopo di Emanuele). Piacevole e stranamente intenso. Quanti ai Pocket Chestnut, a sentir loro Bedroom Rock’n’roll (autopro94 Un mese di ascolti emergenti italiani dotto, 6.9) è stato registrato un po’ ovunque, tra Monza, Milano, Mortara & Vigevano, persino a Fort Wayne nell’Indiana. Per quello che ci è dato di sentire, contiene musica che ha viaggiato e ama viaggiare: folk blues da strada e marciapiede, da palchi spersi ma baldanzosi, piccoli turbini alt country e scrosci underground (meglio se paisley), ciondolanti molecole Pixies e un lirismo malinconico chiesto alla polvere calpestata dai Wynn e dai Grant Lee Phillips (sentitevi la bella Nowherwille). Si paga il pegno ad una pronuncia che forza un po’ l’interpretazione ma si riceve resto e mancia di un entusiasmo terrigno che tiene in piedi nove pezzi originali più una rilettura teneramente laconica del tradizionalone Long Black Veil. Fragranti come una pagnotta di ieri, ma gustosi come quella che ti è rimasta nello zaino quando pensavi di non averne più. Cercano l’esatto punto di equilibrio fra libertà espressiva e costrizioni da canzone pop (seppur nobilitata) i VOV, al secondo Davide Arneodo (già spalla dei Marlene Kuntz sul palco) e Marta Mattalia. Arrivati al terzo Ep (Autoprodotto, 6.7/10) virano verso sentori da new-wave siderale e metropolitana (l’interpoliana Marta è morta su Marte), vestendola d’abiti alteri e raffinati ma perdendo qualcosa in quanto a forza comunicativa, pure quando ne Il piccolo fratello (con Luca Bergia alla batteria) vagano fra i languori vigorosi degli ultimi Marlene. Tuttavia la loro è una ricerca pregna di dignità e passione, il prossimo passo – decisivo – potrebbe riguardare il coraggio d’essere anche lievi. Crooner della metropoli precaria, indole scanzonata di un Sergio Caputo che prova la zampata Paolo Conte, a Davide Zilli viene soprattutto da fare una proposta. Ovvero: viste le jazz ballad traballanti sugli obblighi abitativi dei trentenni e oltre nel suo Coinquilini (Corte Manlio, 6.7), viste le bosse in smoking e scarp del tennis de I compiti delle vacanze e il leggero brivido costelliano di una calligrafia come Nel vagone meno affollato, perché non concretizzare davvero la promessa di Jazzabestia messa poco dopo la metà di questa sua prima prova? Aggiungendo martellate pia- nistiche tipo Dresden Dolls e un po’ più di sangue sull’asfalto il gioco potrebbe essere fatto, e potrebbe essere parecchio interessante. D’altro canto un verso come “la vita moderna non perdona / ci godiamo la vista sul mcdonald” non vi fa immagine un Brondi in overdose dixielandcabaret? Frutto dell’esperienza di musicisti già attivi in altre realtà piuttosto affermate del circondario modenese (tra cui i Fragil Vida), gli Eleven Fingers se ne escono con un Ep d’esordio in bilico tra folk e indie americano di frontiera. We lost Everything Just To Find Ourselves (autoprodotto, 6.8) recita il titolo del disco, tanto per chiarire che le malinconie suffuse un po’ à la Kings Of Convenience (White Boots) e un po’ à la Sparklehorse (We Fall In The Sea) che ci trovate dentro sono affare piuttosto serio e non il parto di qualche emulo in vena di riciclo. Chitarre, pianoforte, batteria, basso e tromba e un suono equilibrato figlio dei particolari e di un eleganza formale che non scade mai nella maniera. Per una ventina di minuti crepuscolari e intensissimi. Di tutt’altro genere l’immaginario preso in prestito dai torinesi Carbona Abusers e dal loro “bubblegum’n’roll”. Un misto di garage in stile Nuggets e beat nostrano anni Sessanta con qualche richiamo a una psichedelica di facciata (Bolle) che suona convincente e tutto sommato originale, considerate le premesse. Rosa, come la copertina di questo Cicles (autoprodotto, 6.8), per richiamare con il titolo il nomignolo utilizzato dai “ggiovani” per riferirsi ai chewingum. Dettagli che la dicono lunga sul target anagrafico e le reali intenzioni di una formazione perfettamente a suo agio tra coretti irresistibili, testi ironici e pestare di batteria. Ci hanno favorevolmente colpito i messinesi Marika e i Milioni di Muschi visti live in recentemente in Sicilia, per la resa teatrale e il loro indie venato di umori sparsi, tra folk-rock d’oltreoceano e sapori di chanson francese. Su tutto, un’ ironia contagiosa che li caratterizza e finisce per essere il loro punto di forza. “Ci piace l’idea di narrare le nostre storie, i nostri piccoli ritratti e stralci di vita sognata” così autocommentano, e proprio i loro bozzetti diventano l’occasione per racconti surreali e spesso sopra le righe. Nei momenti più percussivi ci hanno ricordato Il Pan Del Diavolo e la tradizione cantautorale nostrana anche recente; su disco (omonimo, autoprodotto, 6.8) si stemperano in favore di un songwriting più pacato e variegato. Rimanendo ancora sul filo dell’ironia, ci spostiamo tra Siena e Roma per incontrare i Mitici Gorgi e il loro elettro punk irriverente. Forte di due voci femminili ben amalgamate, il gruppo si muove essenzialmente su territori di new wave Ottanta italiana e non solo, ripercorrendo quei lidi con una verve tra l’acido e il destabilizzante. Il risultato, nel primo album (I Demoni part.1/2, 7.0) è apprezzabile per il mix riuscito di musica e parole, e nel suo genere funziona molto bene, snocciolando una serie di performance tra il divertito e il divertente. Scatenati e promettenti. Stefano Solventi, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti 95 Rearview Mirror —speciale Alan Vega P rologo Suicide Martin Rev Suicidio. O far voltare pagina a tutti A ridosso della loro unica data italiana, raccontiamo da capo la storia di Alan e Marty partendo dall’inizio. Dalla loro NY 96 Testo: Gaspare Caliri New York City, inizio Settanta. Una città allo sfacelo, degradata. La culla dell’arte – scelta da colui che più di ogni altro ha influito sull’arte del Novecento, Marcel Duchamp, quando ancora la città era poco più che provinciale, ma già curiosa; la patria del delirio e della libertà architettonici, descritto retroattivamente come un manifesto da Rem Koolhaas; il sogno ricorrente di ieri e di oggi, in quel momento vedeva – in superficie – un momento di implacabile deterioramento. È poco più di un ragazzo Alan Vega quando ci arriva, nei primi Seventies. Deve trasferirsi di continuo, costretto alla fuga da gang locali e piccoli poteri e pericoli di quartiere. Si ferma a SoHo, il quartiere delle gallerie d’arte, del resto. Allora come sempre, NYC faceva a gola a un aspirante contemporaneista. Alan aderisce prima all’Art Workers’ Coalition, gruppo socialista di militanza artistica, in quegli anni molto “in” – così come quel Che Guevara che poi diventerà protagonista del brano che chiuderà il primo album messo a segno da Alan. Poi fonda il Project of Living Artists, sempre a SoHo. Un posto dove si andava per aggirarvisi. Vega – che si faceva chiamare, come artista, Alan Suicide – confezionava sculture – prima in plastica trasparente, poi con luci al neon, premessa dell’epilessia che riuscirà a comunicare a breve, con la musica. Un giorno nei locali dei Project arriva questo strano personaggio bianco con la pettinatura afro. In questo episodio forse si condensa tutta la capacità di una città che fa da catalizzatore. Bastava – basta? – andare nei posti e stare lì. Frequentarli. Poi le cose accadevano. In quei mesi Alan già pensava a creare una band o qualcosa di simile. Iniziò a suonare con un certo Paul, detto anche Cool P., chitarrista. Al provava a buttare aria dentro un sassofono – che ha poi abbandonato, ma grazie al quale imparò a tirar fuori la voce dallo stomaco, non dalla gola, e quindi a urlare (per trent’anni) senza devastarsi le corde vocali. Non possiamo che pensare al grido che dopo qualche anno si sarebbe materializzato nello strazio di Frankie Teardrop, il prototipo di un modo di esprimere il dolore, l’angoscia, la sofferenza di un suicidio, e ovviamente l’impatto musicale. La voglia di band non era affatto uno sfizio d’artista. Si capì presto che divenne l’opzione necessaria, per Vega. Qualche anno prima, egli ebbe la prima avvisaglia delle potenzialità del rock in un concerto degli Stooges che gli cambiò la vita. Iggy Stooge si buttava dal palco, era indemoniato: su di lui Lester Bangs cucì il termine “punk”, usato forse per la prima volta con quell’accezione che poi avrebbe dominato il mercato dizionariale. Alan ha gli occhi bene aperti: capisce che, per quanto lo stage diving e la carica di Iggy siano arte relazionale allo stato puro e della più efficace, il suo compito sia provare a fare altro. E che però forse vale la pena di restare dentro a quel vago contenitore chiamato rock. Per il primo concerto dei Suicide, all’OK Harris (inizio ’71), Alan scrive sui volantini “Messa di Musica Punk”. Nel frattempo nella band si è insediato anche Rev. Inizialmente Vega suona anche le parti elettroniche, ma dopo aver intuito il talento di Marty gli lascia il campo. Si dedica al canto, e gli viene quasi naturale trovare una versione cataclismatica e ansiogena delle voci rock’n’roll che ascoltava da bambino (di nascosto dai genitori, cultori “colti” della musica). In primis Elvis, come da copione, e tutto il rock anni Cinquanta, lo psychobilly che poi Alan continuerà a seguire anche nei suoi dischi solisti: innanzitutto nel trittico Alan Vega, del1980, Collision Drive, di due anni dopo, e Saturn Strip, dell’83, con Rick Ocasek dei The Cars, ormai compagno di etichetta alla leggendaria ZE Records. Una sinergia, quella tra Suicide e ZE, di cui abbiamo una recente testimonianza nella compila sui trent’anni della label mutante curata dai soliti cercatori d’oro della Strut, dove compare una versione distesa e prodotta in punta di dita (ancora da Ocasek) di Keep Your Dreams (già sulla ristampa francese Celluloid di Suicide, del 1980), qui intitolata Dream Baby Dream (Long Version). I Suicide a fecero da apripista per i no-wavers e per tutto ciò che ne conseguì. La stessa Lydia Lunch venne quasi adottata da Marty Rev. Ma, tornando ai precedenti, c’è ancora molta strada da fare, per i Suicide, per la città, e per la storia del rock, prima che si arrivi agli episodi mutant disco e all’inquadramento di Vega/Rev nei correntoni post-no wave. Qualche anno prima del ’77 i Suicide si chiamavano ancora Satan Suicide (come il titolo di un album del fumetto Ghostrider, il cerchio che si apre e si chiude…). Martin Rev aveva recuperato una drum machine da accatto, di quelle usate per fare le basi ai matrimoni, e decise subito di portarla alle massime conseguenze. Paul, Alan e Marty si lanciano in tempeste di improvvisazioni, chilometri di musica da cui inizia ad affiorare qualcosa. L’astigmatismo è ormai corretto. Dal vortice di creatività newyorchese è pronto un capitolo fondamentale. Nel fondamentale contesto di riferimento tutte le precondizioni sono pronte per sfornare un discrimine fondamentale. Prima Cheerie, poi Ghostrider, poi tutti gli altri pezzi che confluiscono in Suicide, licenziato nel Settantasette dalla Red Star. Formalmente un esordio, di fatto una risultante di quelle condizioni, di anni di lavoro, di una pagina voltata per sempre. 97 In sella ai fantasmi metropolitani Riguardo alla ricezione e all’accoglienza che i Suicide ebbero, da parte del pubblico, esiste ormai da anni una vulgata, nata probabilmente a partire proprio dalla ri-pubblicazione del dirompente disco d’esordio su compact disc, anzi in doppio CD, a fine Novanta. Sul CD1, la versione estesa di Suicide. Sul CD2, un live al CBGB’S del ’77 e il celeberrimo brano 23 Minutes Over Brussels, che fa il paio con il contenuto scritto del booklet – un’intervista a Vega e Rev del ’96, fatta dall’ex manager Marty Thau, della Red Star Records. Trattasi del concerto del 16 giugno 1978 in cui Al e Marty aprivano per Elvis Costello, in un inspiegabile binomio ottenuto da Thau. La registrazione testimonia della rissa che i due provocarono nel locale, e di cui pagarono le conseguenze. Eppure questa storia non parla di una prerogativa dei Suicide, di un loro tratto distintivo. I pomodori (quando andava bene) che ricorda Alan Vega hanno investito tanti – tutti? – i no wavers, e prima ancora accompagnavano con costanza i Velvet Underground, quando portavano in tour Velvet Underground & Nico e registravano in concomitanza White Light/ White Heat. Certo, Vega racconta persino di un’ascia che lo sfiorò a Glasgow, nel ’78, mentre aprivano per i Clash – cosa di cui non si accorse lì per lì, ma che gli confessarono anni dopo i Jesus And Mary Chain, tra il pubblico quella sera. La questione era però evidentemente di pubblico: la follia di associare Vega e Costello non è tale, è uno stimolatore di tensione che serviva all’adrenalina di quei concerti dirompenti del duo Vega / Rev. Il pubblico, incapace di accettarne le istanze concettuali, e forse meno l’assenza di una chitarra, era parte della performance. Ciò che però risulta ancor più straordinario, a chi scrive, è la carica che il disco d’esordio di Alan e Martin riesce ad avere nei confronti dell’ascoltatore di oggi, quello ben disposto, cosciente, autocosciente e in qualche modo “esperto”, abituato alla musica postatomica ed epilettica. Nella formazione musicale dei Duemila (come fu nei Novanta) Ghost Rider e co. sono ancora un discrimine fondamentale. Un taglio netto tra prima e dopo. Ma lo furono, in generale, anche in quel ’77, di per sé già affollatissimo di capolavori e di dischi che cambiarono le carte in tavola, anche nella stessa NYC (Marquee Moon, ’77...) così come in USA in generale (The Modern Dance…). Nella stessa carriera dei Suicide, tutto quello che è stato fatto dopo a Suicide appartiene a un altro discorso, a un discorso sul post-qualcosa. Di conseguenza, è molto più sensato ascoltare e analizzare American Supreme - disco del 2002 che ha segnato il ritorno del duo sul 98 mercato discografico – confrontandolo con tutto ciò che venne a partire da Alan Vega / Martin Rev (Ze, 1980) in poi. Le cadute di stile dei due – da soli insieme – o le produzioni nuovamente interessanti sono tali in un circuito che si riferisce ai Suicide del dopo Suicide. Come dice Simon Reynolds, “il punk aveva ripristinato lo status del rock come centrale elettrica della cultura moderna”, e i Suicide lo riassunsero e fecero un “archetipo della collisione newyorkese tra arte e rock”. I 7 pezzi del first album ebbero una capacità di sintesi folgorante, una formula perfetta stupefacente, perché ottenuta alla prima manifestazione. In realtà conosciamo come tutto questo derivi da un processo precedente, già parzialmente descritto. Il “Big Bang” in cui i (tre, inizialmente) Suicide passavano le giornate in infinite jam session da cui piano piano presero forma le canzoni. Chi ha avuto la fortuna, recentemente, di sentire un concerto dei Talibam! (guarda caso, altri newyorchesi), forse avrà l’avvisaglia di un paragone da tentare. Sentendo dal vivo il duo di Kevin Shea e Matt Mottel, si ha proprio l’impressione di un turbine free-jazz da cui ci si aspetta da un momento all’altro che maturi un “brano”.Tutto nei Talibam! avviene però nella dimensione dal vivo. Il marasma, la formazione dei pianeti e delle orbite, il Big Bang successivo. I dischi di Shea e Mottel sono una riproposizione di questa dinamica. In Suicide, invece, la sintesi significa l’estrazione di una crème lancinante, che garantisce elementi separati tra loro. Forme isolate. Canzoni. Tutto registrato in una sola sera, quasi integralmente in presa diretta, e poi missato per decine di giorni, nella direzione che ormai si era intuita come la migliore e la più efficace. È la possibilità di un discernimento – da parte del pubblico – una delle chiavi per capire i Suicide. I pomodori e i tomahawk venivano lanciati perché il pubblico forse sentiva che era a un passo dal capire, ma voleva solo fare il pubblico. Il fatto di non avere di fronte una chitarra, un basso e una batteria era giustificazione sufficiente per incaponirsi sui due allampanati alieni. Alan e Marty non cercavano una nicchia da cui essere compresi, ma il limite di accettabilità di un certo overground. Lavoravano sull’immaginario. Provarono successivamente – dal secondo album – ad affrontare le atmosfere più morbide del synth pop, che in realtà avevano contribuito a creare. L’effetto fu, da lì in poi, tutto uno sguinzagliare di generi: synth pop, appunto, ma anche techno, psychobilly, rockabilly, furia trance. Da dinamiche d’artista a dinamiche arty. La confezione dei Suicide post-Suicide divenne leggibile negli ingredienti, anzi: l’impatto veniva dopo gli ingredienti, e con essi si leggeva subito anche la data di scadenza. La nostra vera nostalgia Si fanno spesso discorsi sulla creatività in musica, e altrettanto di frequente essi portano a parlare della musica che fu e dell’incapacità della musica che è di essere incisiva come la musica che fu – con una serie di incisi che potrebbero essere assolutamente infiniti. L’universo di ciò che chiamiamo nostalgia del passato (patologia immensamente diffusa nella critica musicale, più di quanto si creda) trova nei Suicide l’appiglio per un’analisi. Con i due di NYC è pensabile una spiegazione – che li accomuna a Throbbing Gristle, e che in generale è forse uno dei grandi lasciti del post-punk, su cui riflettere, ora che la storicizzazione del post-punk è a sua volta storicizzata. Ciò che fu particolarmente caratteristico di quel periodo non è tanto che i musicisti venissero dalle scuole d’arte (o meglio, è un tratto caratteristico, ma in sé non spiega nulla), ma che molti musicisti, prima di diventarlo, dovendo decidere una forma d’arte al passo coi tempi, incisiva, caparbia, innovativa, scegliessero la musica (il rock, in senso lato). Questo oggi non accade più, anzi, non più a un livello tale per cui il risultato possa parlare a tutti – pur trovando le sue nicchie, ma con un tale impatto (anche qui, tipico del post-punk) capace di comunicare qualcosa a tutti. Forse la nostra vera nostalgia dipende dal fatto che oggi gli artisti non scelgono più di fare musica pop, ma si dedicano – e abbiamo tanti casi anche in Italia – al noise, all’elettroacustica, cioè a generi che, per quanto non lontani dal punk per approccio incompromissorio e disinvoltura, rimane comunque legata indissolubilmente alla musica colta. Allora non c’era assolutamente questo legame. Anche allora Arto Linsday e Mark Cunningham, per menzionare due pilastri della no wave, venivano dal teatro sperimentale, dalle arti performative. Ma capirono l’entità del rock e tentarono questa via, senza più uscirne. Cosa che in questi anni capita assai meno. Detto questo, è inutile cercare di capire se è colpa dei musicisti, degli artisti che non scelgono più la musica, del mercato musicale, o del suo pubblico, che sarebbe meno ricettivo, incapace di accogliere la creatività. Come sempre c’è un concorso di cause; farsi certe domande è come ripristinare l’assenza di via d’uscita di certi quesiti: è nato prima l’uovo o la gallina?, e chi controlla i controllori? Perché oggi ci sono solo cloni? E gli artisti che fine hanno fatto? Certo abbiamo delle eccezioni, per esempio il nostrano Nico Vascellari con la sua neonata etichetta Von – epperò il Vascellari è arrivato e non partito dall’arte contemporanea, e adesso percorre entrambi i sentieri. C’è poi la parabola dei Pan Sonic. I due finnici – che girano anche nel circuito dell’arte contemporanea, come sappiamo – sono sicura progenie dei Suicide. E lo sono non solo alla luce delle tante collaborazioni (desiderate dai due nordici, viste con affetto da Alan), così come del live recentemente avvenuto con Martin Rev che apre per l’ultima tournèe del duo di Kulma. I Pan Sonic hanno geni di Marty e Al come dei Throbbing Gristle, che a loro volta scelsero la musica, a partire da un percorso artistico già ampiamente avviato, convincente, riconosciuto già all’epoca, con un percorso proprio. Per quanto producessero suoni indigeribili, quella di Genesis e co. era musica che usciva in UK, in qualche modo pensata per urtare un bacino di utenza, non per assecondare i gusti di una nicchia. Un approccio di stima di un impatto, ancora una volta, di spostamento e scuotimento di immaginario, che per molti è la base dell’arte contemporanea. Cose a cui già si è accennato. Ma è bene ribadirle. Anche perché ci fanno pensare all’attualità, e al motivo per cui si è deciso di rileggere e ridiscutere dei Suicide, in pieno 2010. C’è alle porte, ovviamente, il concerto di rinnovata reunion del duo. E c’è la sicumera del pubblico dei club indie che andrà a rendere omaggio a loro santità elettro-psicoattiva. Il live del locomotiv di Bologna poco meno di due lustri dall’ultima apparizione del duo, stessa città e club a sua volta leggendario (il Link). Nella differenza tra i due contesti di ricezione vive un po’ il divario che sta dietro alla nostra vera nostalgia, inscindibile dalla chiusura e auto-consapevolezza del mondo underground odierno. American Supreme rinfocolò il mito della no wave e del post-punk arrivando fino al Dj Hell di N.Y. Muscle. L’indie odierno come accoglierebbe un nuovo lavoro di Al e Marty? Nello stesso modo in cui accoglie i loro live, probabilmente. Un discorso tra intimi (stesso dicasi per Stigmata, ultima fatica del solo Rev). Una spaccatura tra condivisione e propria coscienza. Eppure la spaccatura è congenita ai Suicide. Hanno diviso, creato catastrofi che allontanassero i poli di una categoria. Questa è la loro storia. 99 (GI)Ant Steps #41 classic album rev Ornette Coleman Talking Heads Free Jazz (Atlantic Records, Dicembre 1960) Fear Of Music (Sire, Maggio 1979) A cinquant'anni dall'esordio sulle scene musicali, a quattro dall'ultimo album in studio, Ornette resta un grande mistero. Probabilmente a torto, sia chiaro. Carattere timido, sguardo tenero, notevole - ma innocuo curriculum di stranezze artistico-biografiche (il sassofono di plastica bianca, la fissa per il violino, l'abbigliamento spesso e volentieri infantilmente bizzarro), eternamente incapace di spiegarsi a parole anche quando interrogato su quella che pure considera la sua più grande invenzione: Franco Fayenz ha sbobinato i discorsi di Ornette sull'armolodia, concludendo che si tratta di un'accozzaglia di mezze teorie musicali, tutte per altro già note prima di lui. Probabilmente il padre del free jazz è davvero la personalità naïf che sembra essere, un placido ma determinato eccentrico, "quello che suona sbagliato" (la definizione è di Mingus), che ha avuto la giusta intuizione e - soprattutto? - la giusta dose di testardaggine per perseguirla e svilupparla, de facto, in un mondo che lo ha a lungo reputato, a seconda dei casi, un pazzo, un incapace, un fallito, un truffatore (esattamente come era capitato a quel pittore il cui White Light campeggia opportunamente sulla copertina del disco in questione: Jackson Pollock). è stato invece - inconsapevolmente? - uno dei pochi veri rivoluzionari del jazz: semplicemente, il propugnatore di una sensibilità musicale diversa. John Coltrane era affascinato da quello che suonava Ornette, ma non lo capiva. Solo dopo qualche anno di frequentazione e di pratica si convertì al verbo free e, in coincidenza con le session del suo magmatico Ascension (fortemente debitore di questo Free Jazz colemaniano), spedì a Ornette un telegramma con dentro trenta dollari, tangibile segno di riconoscenza. Tra i titoli lanciati come proclami dal sassofonista texano tra fine anni Cinquanta e i primissimi Sessanta (Something Else!!!!, Coleman Classics Vol. 1, Tomorrow Is the Question!, The Shape of Jazz to Come, Change of the Century, This Is Our Music, The Art Of Improvisers), questo è 100 certamente quello più programmatico, fortunato, importante, non il più bello: Free Jazz, con la sua unica traccia lunga quaranta minuti, è il primo album di sola improvvisazione della storia. Ornette si autoassegna la corona di primo equilibrista jazz a percorrere il filo senza rete (il supporto armonico), manda alle ortiche il pianoforte e organizza una battaglia tra due quartetti fortemente orientati in senso percussivo, lambendo le soglie dell'atonalità. Lui guida la formazione con Don Cherry alla pocket trumpet, Scott LaFaro al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria (e che sta sul canale sinistro dello stereo); Eric Dolphy, al clarinetto, quella con Freddie Hubbard alla tromba, Charlie Haden al contrabbasso e Ed Blackwell alla batteria (sul canale destro). Il free è uno dei modi musicali più largamente fraintesi (e banalizzati e traditi), ma solo uno sciocco può davvero pensare che quello che c'è qui dentro sia rumore disorganizzato: è esattamente il contrario. Free Jazz è libertà delle trame melodiche - ispide, arruffate, grumose quanto si vuole - che si intersecano, nell'alternanza tra parti scritte - e sono i momenti di unisono che ritroviamo sottolineati nella First Take pubblicata nelle ristampe cd e parti improvvisate, con gli strumenti che si rincorrono sopra una base ritmica perennemente fluttuante. Sgraziata eleganza. Ma si swinga molto, a tratti, e così pure si sente chiaro e forte da dove venga Ornette (blues e bebop) e dove cercherà di andare (la contemporanea), con profezie sonore quasi incredibili, eppure incredibilmente vivide, innegabili: si sente chiaramente il Captain Beefheart di Trout Mask Replica. Come le tele di Pollock, Free Jazz non si chiude: comincia e finisce - dopo un solo di batteria - con lo stesso schizofrenico e sinistro tema, che resta però come sospeso. Proveranno altri a chiuderlo, goffamente, figli degeneri. Se oggi si osserva nel complesso l’opera delle Teste Parlanti, appare evidente come ogni disco rappresenti una sorta di “reazione” al predecessore. Quasi si trattasse di un continuo rispondere per via sonoro e testuale nell’ambito di un’altrettanto perenne messa in discussione del progetto. Cosa che oggi i gruppi non fanno (quasi) più, vuoi perché non ne hanno il coraggio e vuoi perché l’industria discografica allo sfascio non glielo consente. In tal senso si può, al di là delle questioni stilistiche, tracciare un sensato parallelismo con i Radiohead, con una tensione che peraltro ha sinora indagato in maniera assai simile l’alienazione dell’individuo. E che viene fuori con una robustezza a tratti feroce in Fear Of Music, pannello mediano del trittico allestito in combutta con Brian Eno. Il quale, retroterra e interessi affini a David Byrne, arrivava da un’altra trilogia, quella berlinese bowiana, portandosi dietro metodi poco tradizionali e di conseguenza perfetti per colorare una tela sino a quel momento interessante e con tutto ciò monocromatica. Se More Songs About Building And Food nacque da brani in buona parte vecchi di due anni ripresi in diretta per restituire l’impatto sonoro dei newyorchesi, qui è il senso critico a farla da padrone. Rivolto verso il mondo che cambia e non in meglio, verso ipotesi di successo planetario da gestire oculatamente, verso rischi (evitati) di autoreferenzialità. E verso la musica medesima, infine, della quale - come annuncia un titolo programmatico come pochi altri - si “ha paura”. Perché sono true stories, queste composizioni favolose che accomodano dallo psicanalista il caos quotidiano e ne cavano ragionamenti foschi, che rispecchiano una fine di decennio in cui le certezze svaniscono e il domani è da vagliare. Impadronitisi dei meccanismi creativi e formali della canzone, i Talking Heads li smontano e ricompongono con inedite fattezze, mettono in disparte la souledelia e il funk candeggiato, si gettano a capofitto in materiali totalmente nuovi quanto a scrittura, trasformano tortuosità e titoli laconici in magia dalla scorza dura. Apri l’ostrica e dentro trovi soltanto perle abbaglianti: visioni d’Africa con Robert Fripp (I Zimbra) e fisicità dissonante (Mind); trappole che imprigionano i sixties (Air, Paper) e la negritudine (Animals, Cities); Roxy Music in paranoia kraut (Memories Can’t Wait) e inni paradigmatici per le nuove generazioni (Life During Wartime). Quanto serve per entrare nella Storia e lasciarvi il segno, a farla breve, salvo uscire dalla porta sul retro e indicare vie nuove (ancora!) con i vapori incubotici di Drugs e lo spleen ironico di Heaven. Interrogativi che emergono ovunque e dopo tre decenni non smettono di inquietare, di fungere da stimolante per il cervello. Non fosse altro che per quegli oscuri paesaggi da “vita in tempo di guerra” in cui ti scopri giorno dopo giorno a vivere. Preconizzati in questo preludio a un altro Capolavoro di ultraterrena trascendenza chiamato Remain In Light Giancarlo Turra Gabriele Marino 101 Top of the pop. Festival internazionale | 8° edizione Bologna, 30 ottobre - 6 novembre 2010 www.genderbender.it