In FormAzione Indicazioni in materia di comunicazione sociale sui Disturbi del Comportamento Alimentare e dell’Immagine Corporea 2 3 INDICE INTRODUZIONE di Maria Barbuto……………………….……………………………………………………………………… …….…...…..7 LA COMUNICAZIONE SOCIALMENTE UTILE di Fabiola De Clercq e Riva……………………………………………………………….…………….……11 Marco I DISTURBI ALIMENTARI: COSA SONO? di Dora Aliprandi……………….………………………………………………………………………… ………….……17 DCA ED ETA’ DELLO SVILUPPO di Valentina Calcaterra………………………………………………………………………………………… ….…....27 TUTTO O NIENTE. LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSIA-BULIMIA CONTEMPORANEA di Maria Barbuto…………………………………………………………………………………………… ……….….…33 I SITI WEB PRO ANORESSIA di Isabella Usardi…………………………………………………………………………………………….. …..…….....41 ANORESSIA-BULIMIA AL MASCHILE 4 di Francesco Bergamin…………..…………………………………………………………………….…………. ……..53 IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLE PATOLOGIE ALIMENTARI di Elena Bruzzone……………………………………………………………………………………………. …………...59 SUL FRONTE DEL CORPO di Luisa Stagi……………………………………………………………………………………………… …..…………….65 BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………………… ………………………….71 5 6 AUTORI Maria Barbuto Psicoterapeuta, Psicoanalista. Membro della Direzione Scientifica dell’ABA e Responsabile centro ABA di Milano. Docente presso L’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLES). Tutor presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Fabiola De Clercq Fondatrice e Presidente dell’ABA, Associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, la bulimia e i disordini alimentari, dal 1990. Direttore Responsabile di ABA News. Direttore di collana edita da Franco Angeli. Marco Riva Laureato in medicina e specialista in psichiatria e psicoterapia. Coordinatore del Centro per la ricerca e la terapia dell’ansia e della depressione e dell’Ambulatorio di Psiconcologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Psichiatra e Psicoterapeuta presso lo “Studio 12” e l’ABA di Milano. Dora Aliprandi Psicologa clinica presso l’ABA di Milano. Specializzanda in Psicoanalisi della Relazione (SIPRE). Master di Secondo Livello in Mediazione conseguito presso l’Università Cattolica di Milano. Valentina Calcaterra Psicologa Clinica presso l’ABA di Milano. Specializzanda presso l’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata (IRPA). Isabella Usardi Laureata in Psicologia Clinico-Dinamica con la tesi dal titolo: “Corpo, mass media e disturbi del comportamento alimentare: una prospettiva psico-sociale” . Attività di tirocinio presso la Sede ABA di Milano e di Verona. Francesco Bergamin Psicologo Clinico. Psicoterapeuta presso l’ABA e l’ANFFAS di Milano. Specializzato in Psicoterapia Breve Integrata dell’adolescente e dell’adulto presso l’ISERDIP del prof. Zapparoli. Elena Bruzzone Psicologa. Specializzazione a indirizzo Clinico e di Comunità presso l’Università degli studi Bicocca di Milano. Attività di tirocinio presso la Sede ABA di Milano. Luisa Stagi Docente di Sociologia dei processi culturali e Ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Genova. Attività di ricerca sociale e valutativa, in particolare di metodologia della ricerca e di problematiche giovanili. 7 8 INTRODUZIONE di Maria Barbuto 9 I disturbi alimentari, spesso accompagnati da disturbi dell’immagine corporea, quali la dismorfofobia (fobia che nasce da una visione distorta che si ha del proprio aspetto esteriore, causata da un'eccessiva preoccupazione per l’immagine del corpo), sono un sintomo sociale1, espressione radicalizzata di un disagio specifico, prodotto in primis nelle società del benessere, ma anche un problema politico nel senso più ampio ed alto del termine. Queste patologie hanno in comune fattori di rischio modificabili e di diffusione fortemente influenzata e condizionata dal contesto sociale, dai condizionamenti del mercato e dalle politiche commerciali, oltre che dai comportamenti individuali2. I disturbi alimentari riguardano tutte le fasce d’età. L’informazione e la comunicazione (commerciale e non) su tali disagi, veicolate attraverso i mezzi di informazione on e off line, non rispondono sempre ai requisiti minimi di Comunicazione Sociale che consistono nel poggiare le proprie scelte comunicative su basi tecnico-comunicazionali e scientifiche, in special modo riguardo a tematiche come quelle dei disturbi alimentari che toccano aree inerenti la salute e la prevenzione3. La comunicazione socialmente responsabile è tale se efficace e la misura dell’efficacia è data dal contributo reale alla risoluzione dei problemi che assumono una forte rilevanza sociale, come nel caso dei disturbi alimentari. Dall’analisi dei contenuti di articoli di stampa e internet emerge un uso improprio di immagini, concetti e termini, dovuta alla difficoltà di accedere a fonti informative autorevoli. Esiste uno scollamento tra il mondo della comunicazione e chi si occupa professionalmente di studio, ricerca e cura sui disturbi alimentari. Inoltre, dalle Rassegne Stampa emerge che la popolazione italiana è passata da una totale disinformazione da parte dei Mass Media, che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni, ad un massiccio bombardamento allarmistico, scioccante, sui disturbi alimentari. Sono per lo più le pagine di cronaca nera a parlarne, propagandando i casi di morte dovuti all’anoressia. La componente culturale, estetica e mediatica è una con-causa ambientale di un disagio clinico- psichiatrico che affonda le sue radici nella storia individuale delle persone che soffrono di disturbi alimentari. Le informazioni, i contenuti, le immagini che riguardano i disturbi alimentari e dell’immagine corporea, veicolati attraverso i mezzi di comunicazione on e off line rappresentano un fattore di rischio, ovvero un fattore in grado di aumentare la probabilità che questa sindrome si verifichi e si moltiplichi. 1 Protocollo d’Intesa Ministero della Salute e Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, 19/09/ 2007. Manifesto Nazionale di autoregolamentazione della Moda italiana contro l’anoressia. Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, Camera Nazionale della Moda Italiana , Alta Roma –22/12/2006. 3 Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale44ª edizione, in vigore dal 21 gennaio 2008. 2 10 La riduzione del fattore di rischio, attraverso un aggiornamento della comunicazione mediatica, può influenzare e condizionare in positivo il contesto sociale e, di conseguenza, anche i comportamenti individuali. I Media rappresentano uno strumento fondamentale per elevare il livello di informazione sui disturbi alimentari in tutto il territorio italiano, con particolare riferimento ad internet quale strumento prediletto dai giovanissimi. La maggior parte delle persone che contattano strutture specializzate per avere informazioni hanno effettuato ricerche su internet, molte di queste denunciano le difficoltà di accedere facilmente alle informazioni ricercate e denunciano la facilità con cui si incappa in siti pro ana4 durante la navigazione finalizzata alla raccolta di dati e di suggerimenti. Per questo motivo, oltre alla scuola e alla famiglia, occorre rivolgere attività di informazione e di sensibilizzazione ad operatori del settore della comunicazione, cioè i giornalisti (TV, Stampa, Internet, Radio), affinché siano culturalmente ben orientati a trattare contenuti e problematiche inerenti ai disordini alimentari e dell’immagine corporea. Questo lavoro è stato realizzato nell'ambito del Progetto Nazionale “Le buone pratiche di cura e la prevenzione sociale nei Disturbi del comportamento alimentare” promosso dal Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche sociali e dal Ministro della Gioventù nell’ambito del Protocollo di intesa “Guadagnare Salute”. Lo scopo specifico di questa dispensa informativa è quello di offrire alcune indicazioni utili a coinvolgere gli operatori del settore della Comunicazione non solo con lo scopo di ridurre i fattori di rischio e la probabilità di diffusione della malattia, ma anche con l’intento di trasformare gli stessi fattori di rischio in fattori preventivi, poiché soltanto favorendo una comunicazione socialmente responsabile si contribuisce a ridurre un problema di rilevanza sociale. L’obiettivo è, dunque, quello di informare e sensibilizzare gli operatori dell’informazione sul tema dei DCA e fornire loro indicazioni e conoscenze corrette e appropriate in modo da aiutarli a veicolare messaggi più adeguati. In questo compito, il lavoro del clinico - orientato scientificamente - incontra quello del comunicatore proprio nell’intento di promuovere, attraverso il valore della responsabilità etica, una buona qualità delle informazioni. Nell’intento di fornire una lettura di questi disagi che tenga conto delle implicazioni relazionali e affettivo-emotive, con lo scopo di promuovere un approccio integrato e flessibile, abbiamo ritenuto opportuno articolare i contenuti secondo i seguenti parametri: - Mostrare la rilevanza dei dati statistici che riguardano i DCA. 4 Ricerca sul fenomeno pro ana, svolta dal PASM2 dell’Asl di Reggio Emilia con la supervisione del prof. Umberto Zizzoli di Giovannini Agostino, ricercatore presso Asl Reggio Emilia. 11 - Focalizzare alcune aree di competenza e alcuni concetti chiave su cui si basa la logica di tali disturbi. - Fornire una definizione generale del quadro dei DCA nelle loro varie forme: anoressia, bulimia e obesità psicogena. - Mettere in relazione il disturbo alimentare con altre forme di dipendenza contemporanee. - Valutare l’incidenza dei DCA nelle diverse fasce di età (infanzia, adolescenza, età adulta) e nell’ambito della diversa identità sessuale. - Sottolineare l’importanza e l’influenza del ruolo e del trattamento della famiglia. - Mostrare la rilevanza clinica dei DCA nel suo legame con il discorso sociale e il mondo dei media. - Riportare alcuni dati sui siti pro-anoressia e pro-bulimia con lo scopo di evidenziare la portata, gli effetti, i rischi che questi siti possono avere sui visitatori. - Valorizzare il contributo della sociologia per una lettura aggiornata e integrata dei DCA. 12 LA COMUNICAZIONE SOCIALMENTE UTILE di Fabiola De Clercq e Marco Riva 13 La comunicazione socialmente utile tratta temi di pubblica utilità con l’obiettivo di modificare, disincentivare comportamenti negativi o dannosi per la collettività o per se stessi, nonché per diffondere benessere ed eventualmente proporre soluzioni a disagi sociali. L’uso che se ne fa è considerato uno strumento di un processo etico efficace per l’evoluzione della capacità di scegliere, ossia di ragionare. La comunicazione odierna, strumento per la diffusione capillare delle informazioni, occupa infatti un ruolo rilevante nelle nostre scelte personali come nella gestione dei rapporti interpersonali. Il suo ruolo ha esiti pragmatici: è in grado di guidarci nei nostri comportamenti, nei pensieri e nelle vicende sociali ed economiche, arrivando a volte a modificare realmente gli atteggiamenti degli utenti. In quest’ottica, risulta estremamente delicato elaborare informazioni su temi delicati quali i disturbi del comportamento alimentare: l’anoressia e la bulimia sono malattie gravi, che hanno radici profonde nella vita delle persone. Malattie dell’amore si può dire, che richiedono un trattamento lungo e specialistico. Nelle cause di questo disagio troviamo traumi, lutti, abusi sessuali. L’esordio consiste spesso in una banale dieta, una restrizione alimentare che si trasforma in altro, per vite intere. Il controllo alimentare diventa ingovernabile, riduce gli affetti: nella solitudine e nella diffidenza nei confronti della vita stessa queste persone si isolano negando la patologia e il bisogno di cure. Sono ormai anche i bambini, gli uomini e donne mature a esserne le vittime. Il professionista della comunicazione deve pertanto mostrare estrema prudenza e cautela nel trattamento di tali concetti, considerando come utente anche chi è coinvolto direttamente in questi disagi. Egli deve innanzitutto conoscere le cause e gli effetti delle questioni trattate, comprendere quali siano le informazioni prioritarie da diffondere, analizzare i segmenti di pubblico a cui si rivolge, e solo in seguito produrre un’informazione che sia chiara ma attenta. Allo stesso modo la pubblicità sociale dovrà adattarsi ad un codice di comunicazione specifico a seconda del suo contenuto e del suo target. Una comunicazione disattenta, superficiale può infatti essere nel migliore dei casi ignorata piuttosto che affrontata, ma anche produrre effetti negativi. Le informazioni, i contenuti, le immagini che riguardano i disturbi alimentari e l’immagine corporea da essi colpita, veicolati attraverso i mezzi di comunicazione off e on-line rappresentano un fattore di rischio in quanto possono essere in grado di aumentare la probabilità che un determinato evento-malattia si verifichi realmente. La comunicazione che a tutti i costi vuole stupire invece che informare costruttivamente si dimostra indifferente alle conseguenze che può 14 realmente comportare. E ignora forse che stupire e stupidus condividono la stessa radice. Il rischio che l’informazione non si assume ma crea è quello di produrre e diffondere modelli negativi ma perversamente seduttivi fruibili dal lettore adolescente o fragile e privo di una critica specifica ed evoluta. Per questo motivo gli operatori del settore della comunicazione devono essere culturalmente attrezzati. Se, infatti, il mezzo di informazione è il messaggio stesso, la comunicazione è il comunicatore. Le parole dette durante una trasmissione radio, televisiva, scritte su un giornale o via internet possono infatti promuovere dinamiche ignote e incontrollabili anche senza volerlo. Pertanto, ogni comunicatore si deve ritenere responsabile del messaggio che invia, soprattutto in relazione a argomenti complessi quali i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). I canali che diffondono l’informazione oggi sono molteplici (la radio, la televisione, internet con strumenti come facebook, ecc..), così come sono molteplici i target di riferimento. L’utente odierno riceve l’informazione e la accoglie come una legge, usandola spesso come un farmaco senza prendersi la cura di leggere le istruzioni. In questa logica di lettura senza filtri risulta quindi ancora più delicato e complesso veicolare la comunicazione off e on-line. L’anoressia-bulimia è una malattia mentale, ma spesso viene intesa più che altro come un capriccio nei confronti del cibo, una questione estetica. Nonostante l’estrema diffusione di disturbi legati al comportamento alimentare nella società moderna, questo tipo di malattia non viene ancora sufficientemente inquadrata nell’immaginario collettivo, né percepita come grave. E’ necessario avere la consapevolezza del disagio psicologico implicito, di cui anoressia e bulimia sono l’effetto, la punta dell’iceberg. L’anoressia e la bulimia sono i sintomi di un disagio psicologico che oggi si declinano sotto la definizione delle dipendenze. E’ l’elaborazione delle cause che permetterà una guarigione. Se ci fosse una migliore “cultura della malattia psicologica” si avrebbe lo stesso pudore che si ha nei confronti di malattie socialmente riconosciute e accettate quali il cancro o l’Alzheimer. Questo tipo di disturbi, infatti, sono ad oggi ancora oggetto di esibizionismo mediatico. Il soggetto stesso colpito da queste patologie non è ancora totalmente consapevole del fatto che si tratti di qualcosa di davvero grave, e continua nel suo comportamento ignaro dei rischi che corre. Le immagini che vengono proposte dai vari strumenti di comunicazione sono anch’esse focus potenti. Linguaggi universali che mostrano realtà spesso crude, senza veli, che ispirano chi li guarda in misura più virulenta rispetto all’uso delle parole. 15 Tutto ciò che è immagine è informazione e alcuni tipi di immagini possono innescare delle devastazioni personali. Sarebbe forse necessaria una più forte monitorizzazione degli spot tv e delle campagne pubblicitarie, ciò che spesso vediamo sullo schermo, è un inno a standard di bellezza e magrezza non sani. E’ possibile, attraverso queste forme di comunicazione, consigliare implicitamente l’uso di forme non convenzionali e patologiche per raggiungere tali modelli. La disinformazione spettacolarizzata e brutale, come ad esempio la campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani “No Anorexia” per Nolita, rischia di appagare semplicemente una curiosità spesso morbosa per poi suscitare una passeggera repulsione. Allontanando il lettore che non si sente coinvolto poiché non toccato personalmente o direttamente dalla notizia/immagine. Senza parlare del desiderio di immedesimazione nel soggetto della campagna da parte di chi soffre di anoressia. La pornografia del dolore può essere utile a un’azienda che cavalca la tigre dell’argomento dell’anno, ma non alla prevenzione, meno che mai all’invito per chi soffre a chiedere aiuto. Declinare l’informazione in una lista sensazionalistica di quello che mangiano o non mangiano le anoressiche-bulimiche, delle calorie, delle forme di digiuno, delle modalità che vengono usate nel vomito autoindotto (vedi articolo del Corriere della Sera Magazine del 29 gennaio 2009), non fa altro che mettere in mano un “manuale d’istruzioni per l’anoressia-bulimia” a chi soffre di disturbi alimentari, senza neanche dover cercare materiale utile allo scopo. E’ indispensabile un’informazione che non suggerisca le modalità per mettere in atto un progetto mortifero colludendo con il soggetto. L’informatore dovrebbe essere informato in prima persona per non promuovere gravi risposte patologiche nel lettore spesso psicologicamente fragile e alla ricerca di soluzioni che escludano una vera e propria cura. La gente, infatti, spesso preferisce “poter guidare senza avere la patente di guida”, raggiungere il risultato senza faticare e senza analizzare in maniera profonda ciò che sta dietro al sintomo, poiché questo processo spaventa. Ecco che si sceglie una delle numerose diete proposte dai media piuttosto che capire quale possa essere il disagio psicologico che sta alla base di un complicato rapporto con il cibo. Le diete vengono proposte senza troppo pensare ai lettori e alle loro reali domande, senza capire ciò che può stare dietro a chi si rivolge a una cura dimagrante. In mancanza di filtri e consapevolezza, da una dieta non concepita per il singolo soggetto richiedente, si può cadere in un grave disturbo alimentare, spesso in concomitanza di una percezione di limite nei confronti degli standard sociali. In questo modo l’interlocutore, spesso adolescente o privo di un pensiero critico si ispira, sceglie, va oltre, applica quello che prende come istruzioni per l’uso e le mette in atto: passa dalla lettura all’atto. E si ammala. 16 Molte persone si sono ispirate a interviste o fotografie che esibiscono un corpo ossuto, scarnificato, precedute da titoli come “magre da morire”: queste presentazioni fortemente evocative finiscono infatti per diventare un modello da raggiungere pena la banalità e l’indifferenza di una società che sembra chiedere il sacrificio della propria salute, della vita dei soggetti. Danni permanenti come osteoporosi, esofagite, calcolosi renali, ictus, arresto cardiaco, blocco renale, decalcificazione dei denti, amenorrea … Morire per vivere, morire per essere visti, morire per avere una identità che altrimenti la società non concede. Si muore applicando la logica del kamikaze per colpire con il proprio “corpobomba” le figure genitoriali o altre che apparentemente non hanno saputo dare l’ascolto e lo spazio d’amore che una figlia o un figlio chiede. E’ così che la ‘cultura dell’horror’ entra nelle vite di persone fragili e rivendicative passando attraverso le parole dei giornali e degli shows che spietatamente ignorano o dimenticano a chi si rivolgono. Non è importante colpire, angosciare, scandalizzare, quanto capire quale sia l’obiettivo e quali possano essere gli effetti della comunicazione desiderata. La diffusione del malessere di questa società colpisce i più deboli, i bambini e gli adolescenti; questo deve renderci prudenti nella scelta delle parole e delle immagini. L’informazione implica capire, prendere atto delle realtà sociali, evitare la superficialità, interrogarsi, in altre parole, informarsi. Questa presa di coscienza significa aggiornarsi per non rischiare di promuovere proprio l’opposto di quello che si vuole diffondere in nome di una informazione corretta. La fragilità psicologica esiste, la malattia psichica esiste, non è un invenzione dei creativi; è tra noi, spesso in noi. Questo dicono gli atti che ci lasciano attoniti quando ascoltiamo le notizie televisive o leggiamo la cronaca, quella nera in particolare. La mente dell’uomo può essere segnata da eventi traumatici, da perdite affettive e non saper trovare modi di organizzare la propria vita di “sopravissuto”. Questa situazione va quindi rispettata perché è proprio qui che si rischia di fare delle “vittime” della cattiva informazione. In assenza di modelli parentali e per molteplici altre ragioni, le donne e gli uomini cercano nell’ideale della magrezza un’ identità perduta o agognata come status symbol che oggi si declina attraverso la devastazione dell’anoressia e della bulimia e di altre condotte patologiche come abuso di alcool, droghe e sessualità sregolata. 17 Il redattore e il caporedattore, il fotografo e il direttore di testata hanno una responsabilità alla quale non devono sottrarsi. La responsabilità riguarda i lettori che non devono essere ingannati, ma anche gli effetti che produce una comunicazione senza regole etiche. E’ necessario rendersi conto che le nostre parole lasciano un segno, esistono per dire e per battezzare le cose, tutte le cose della vita. Non renderci complici delle conseguenze della nostra informazione è pericoloso per l’integrità degli interlocutori. La questione di una comunicazione socialmente utile si deve pertanto porre non solo in termini di ottimizzazione di un’informazione esistente, cioè di ulteriori e più scientifiche informazioni sull’anoressia e sulla bulimia, ma anche in termini di trasparenza. Nel mondo dei disturbi alimentari un aspetto di criticità è rappresentato paradossalmente da una chiarezza così eccessiva da essere accecante. Chiarezza dogmatica degli esperti, degli psicoterapeuti, degli psicofarmacologi e di tutti gli “addetti ai lavori” che credono di essere in possesso di risposte definitive sino a far la guerra tra loro in nome della più sorda assertività scientifica. Ma come scrive il medico e filosofo della scienza Giorgio Cosmacini, la medicina non è una scienza, è un’arte. Con queste parole che sono ben altro che un claim o un titolo, Cosmacini invoca la nascita di un nuovo umanesimo nella torre d’avorio della scienza, una nuova e urgente sensibilità da parte dei suoi operatori. 18 I DISTURBI ALIMENTARI: COSA SONO? di Dora Aliprandi 19 La dipendenza dal cibo Il corpo è teatro della mente: esperienze profonde ed emotive trovano spesso nel corpo una manifestazione esterna e visibile. E’ esperienza diffusa il provare mal di stomaco o soffrire di cefalea quando si è tristi o arrabbiati; avere tachicardia quando si è ansiosi; sentire le ‘farfalle nello stomaco’ quando si è innamorati. Questo accade anche nei disturbi alimentari: ciò che è interno, un disagio profondo, trova nel corpo uno strumento per comunicare e manifestare il dolore. Al centro di queste patologie accanto al corpo è l’oggetto cibo, da cui si dipende. Il cibo: quell’oggetto tanto amato e tanto odiato… Il cibo è un oggetto complesso: non costituisce semplicemente quella benzina necessaria per far muovere la macchina corpo, ma assume un profondo significato simbolico. Non ha solo un importante valore nutritivo, costituisce qualcosa di complesso e multisfaccettato. Il cibo entra e media le nostre relazioni: basti pensare al primo contatto tra madre e bambino che avviene attraverso l’allattamento, durante il quale con il cibo si passa anche l’accudimento e l’affetto. Il pranzo o la cena sono generalmente momenti in cui ci si riunisce con la propria famiglia o momenti di incontro con le proprie relazioni significative. Il rapporto con il cibo, inoltre, è spesso espressione delle nostre emozioni: quando si è nervosi, per esempio, alcuni mangiano di più, mentre ad altri si chiude lo stomaco. Il cibo è anche un oggetto sempre presente, disponibile: gli ‘spacciatori’ sono ovunque e può essere comprato o raggiunto in qualsiasi momento della giornata. Per tutte queste complesse cause il cibo si presta a diventare l’oggetto tanto amato e tanto odiato nei disturbi alimentari: oggetto da cui si dipende, sia negandoselo – come nell’anoressia – sia abusandone – come nella bulimia e nel disturbo d’alimentazione incontrollata (DAI) – . In Italia circa 3 milioni di persone, pari al 5% della popolazione, si trovano a fare i conti con i disturbi del comportamento alimentare (DCA): l’8-10% delle ragazze e l’0,5-1% dei ragazzi soffrono di anoressia-bulimia. Il 95% sono donne, anche se sempre più numerosi sono gli uomini che manifestano questi sintomi e si rivolgono a strutture specializzate. Queste patologie si manifestano prevalentemente tra i 12 e i 25 anni: negli ultimi tempi emerge un preoccupante allargamento delle fasce d’età che riguarda in particolare le bambine prepuberi e le donne in età di menopausa5. Si tratta di patologie prevalentemente declinate al femminile: la ragione va ricercata nel rapporto particolare e problematico con il proprio corpo, la propria identità e autostima. Cosa NON sono i disturbi alimentari I nomi di tali disturbi sono ormai noti: anoressia, bulimia e disturbo d’alimentazione incontrollata. Attualmente si sta assistendo ad una complessificazione e diversificazione delle manifestazioni del sintomo: spesso si osservano da un lato forme diverse da quelle classicamente 5 Dati Osservatorio ABA e ISTAT. 20 intese – è il caso per esempio della vigoressia o dell’ortoressia – ; dall’altro sempre più persone soffrono di polidipendenze – come dipendenze da alcol, droga o farmaci – accanto al sintomo alimentare. Può sembrare una domanda paradossale, ma prima di cercare di tracciare un quadro e descrivere le diverse modalità di espressione di questo dolore è importate sgombrare il campo da fraintendimenti. Non si tratta di malattie dell’appetito: non c’è nulla nel meccanismo biologico della fame che non vada. Non si tratta nemmeno di ‘patologie da imitazione’: spesso, infatti, si sentono frasi come ‘è tutta colpa della società’; ‘è tutta colpa della moda’; ‘è per assomigliare alla velina che mia figlia si è ridotta così’ etc. Non si intende misconoscere l’importanza del sociale in queste malattie sempre più diffuse: il contesto offre un sintomo prêt-à-porter, una via già tracciata attraverso la quale manifestare un dolore che nasce ed è frutto di una storia soggettiva. L’importanza di una ‘buona ed etica’ comunicazione in questo campo non è in discussione: indicativo per esempio è il dato per cui molte ragazze o ragazzi, nati e cresciuti in paesi non occidentali, sviluppano a contatto con la nostra società un sintomo alimentare, espressione di una difficoltà soggettiva di crescita e integrazione. Il contesto traccia la ‘strada’, il soggetto si imbatte in essa e la percorre come unico modo per poter esprimere e trattare una sofferenza profonda. Anoressia: “non mangio, dunque sono” Il DSM IV (Manuale Diagnostico per i Disordini Mentali) distingue i disturbi alimentari in tre categorie: anoressia, bulimia e DCA non altrimenti specificati. L’anoressia è definita come rifiuto a mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo per età e statura. E’ caratterizzata da un’intensa paura ad acquistare peso o diventare grassi: il modo in cui la persona vive il peso e la forma del corpo è patologicamente alterato. Esso influisce eccessivamente sui livelli di autostima, c’è un rifiuto a prendere atto di una grave situazione di sottopeso. Nelle donne fertili è caratterizzato da amenorrea (assenza di ciclo mestruale) per almeno tre mesi consecutivi. Di solito tutto ciò comincia con una dieta dimagrante: quello che si desidera, apparentemente, è migliorare la propria immagine. In realtà poi la dieta si trasforma in un imperativo interiore di nutrirsi di quantità di cibo sempre più irrisorie: la persona anoressica persegue un ideale di magrezza irraggiungibile, rispetto al quale si sente sempre inadeguata. Nonostante la magrezza estrema, il corpo viene percepito sempre grasso. L’anoressia quindi si manifesta con una riduzione drastica dell’alimentazione e del peso corporeo: la fame viene negata, viene effettuato un calcolo ossessivo delle calorie, un controllo 21 spasmodico giornaliero del peso. La bilancia determina l’umore della giornata: quando il numero che appare sul display diminuisce, l’umore è euforico, il progetto di una magrezza irraggiungibile si sta realizzando; quando il numero sul display è in aumento, anche solo di qualche grammo, si cade in una disperazione profonda e inesorabile. L’anoressia è una patologia del controllo: dietro questa negazione tenace della fame c’è una disperata bramosia, non solo di cibo. La persona anoressica ha fame di tutto: di relazioni, di affetti ed emozioni. Per questa ragione, paradossalmente, rifiuta ogni cosa. E’ nel rifiuto che cerca un’illusoria autonomia da ogni bisogno e desiderio. Il concedersi di provare fame incute nella persona anoressica il terrore di perdere il controllo: è per arginare il contatto con le emozioni e le relazioni che non si riescono a controllare, che l’equilibrio si istalla su un illusorio controllo del corpo-cibo-peso. Si vive nell’illusione che, cambiando il proprio corpo, si possa cambiare la propria vita, diventandone padroni assoluti, senza aver bisogno di nessuno. Il corpo diventa palcoscenico di un dramma straziante: un corpo ridotto alla fame, scheletrico, che evoca l’immagine della morte e provoca angoscia, anche negli stessi curanti. E’ il ‘non mangio, quindi esisto’, che può assumere molti significati: un modo per affermare se stessi nella propria vita, a seguito di profondi dolori e sofferenze esperite nel rapporto con gli altri; un modo per trovare una propria identità; un’illusoria autonomia dal nutrimento delle relazioni; un modo per diventare visibili rendendosi fisicamente invisibili. Anche se il sintomo si manifesta in modi molto simili, porta impresse le impronte digitali di ciascuno: il significato che esso assume è soggettivo e particolare, così come soggettivi e particolari sono i tempi e le modalità della cura. E’ raro che una persona anoressica chieda aiuto: ha trovato nel rifiuto del cibo la sua forza e attua in questo modo il suo controllo. Ciò che la spinge a chiedere aiuto spesso sono i famigliari, il rischio della vita o il suo scivolare nella bulimia, non essendo più sostenibile il progetto di mangiare niente. Bulimia: “mangio tutto, per mangiare niente” Il DSM IV descrive fenomenologicamente la bulimia come caratterizzata da ricorrenti abbuffate, durante le quali si ingerisce una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nelle stesse circostanze e nello stesso tempo: la sensazione prevalente che accompagna gli episodi è la perdita di controllo. A seguito delle abbuffate vengono attuate inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci, digiuno o 22 esercizio fisico eccessivo. I livelli di autostima sono fortemente influenzati da questi episodi che si verificano almeno due volte la settimana. Come descritto dai criteri diagnostici del DSM, la persona bulimica ingerisce enormi quantità di cibo che espelle subito dopo attraverso il vomito autoindotto o l’utilizzo di lassativi: si tratta di un rituale, quello dell’abbuffata, che si ripete anche più volte al giorno. Il cibo, che viene letteralmente ingurgitato, non ha gusto o sapore per la persona: si ingeriscono anche cibi che non piacciono, dolci e salati, crudi e surgelati. Si arriva a rubare al supermercato per avere cibo, o rubare soldi per poter comprare del cibo. Dopo aver mangiato, però, si è vittima di un senso di colpa devastante: l’unica soluzione sembra essere quella di tornare indietro, rifiutare ciò che è stato assunto. Inizia in questo modo il calvario del vomito autoindotto, che segue le abbuffate, spesso fatte in segreto, quando si è da soli o di notte. La bulimia ha tutte le caratteristiche della patologia da dipendenza: l’oggetto da cui si dipende è il cibo. Mentre nell’anoressia si mangia tutto il giorno ‘con la mente’ – la persona pensa costantemente al cibo che rifiuta nella realtà – , nella bulimia la persona cerca di riempirsi di quanto più cibo possibile, per poi vomitarlo. La sensazione soggettiva è quella di ‘un pozzo buio e profondo da riempire’: si tratta di un vuoto soggettivo incolmabile, disperato, che si cerca di riempire attraverso un’assunzione di quantità eccessive di cibo. La persona vive nel momento dell’abbuffata una totale perdita di controllo. Si vorrebbe rifiutare tutto, come nell’anoressia, riprendere il controllo totale, senza però riuscirci. Si mangia e si vomita ‘tutto e tutti’: questo può durare anni, e viene spesso accompagnato da una caduta dell’autostima. Il vissuto che accompagna più frequentemente la bulimia è infatti la vergogna. Ci si ripromette di smettere da un momento all’altro: “da domani, da Natale, dal mio compleanno etc. smetto”. Quello che manca non è la forza di volontà: non semplicemente imponendosi di non farlo si può smettere, ma solo capendo ed elaborando le cause profonde che hanno portato la persona a sviluppare questa patologia. Gravi sono gli effetti della bulimia sul corpo: il corpo viene maltrattato con accanimento. Possono verificarsi pericolose conseguenze che interessano l’apparato digerente, l’esofago, i denti e i capelli. A differenza dell’anoressia, dove il corpo urla il proprio dolore e angoscia l’altro, la bulimia non è così visibile: la persona è spesso normopeso. Questa aspetto accentua ancora di più il vissuto di vergogna: un terribile segreto da nascondere, uno ‘schifo’ che deve essere tenuto sepolto e deve rimanere invisibile a tutti. Anche la bulimia, come l’anoressia, porta le impronte digitali della persona, quindi assume significati soggettivi e peculiari: può essere un modo per vomitare la propria rabbia o dar voce attraverso il cibo a emozioni esperite ma non espresse; un modo per dar voce illusoriamente a se 23 stessi e trovare una propria identità; un modo per ritagliare un proprio spazio di fronte ad una profonda sofferenza nelle relazioni ed un male di vivere. La bulimia può essere considerata l’altra faccia dell’anoressia: è sempre più raro che capitino in forma pura. La persona di solito attraversa fasi anoressiche e bulimiche: quando il controllo sul corpo-cibo-peso non riesce più a reggere si scivola nella bulimia. Spesso ciò che chiede una persona bulimica è quella di diventare o tornare ad essere anoressica: vorrebbe riprendere il controllo della situazione. Attraverso un percorso di cura può trovare un suo modo soggettivo e peculiare di gestire il vuoto personale, le emozioni e le relazioni, che non sia il ripristino dell’anoressia o l’abbuffata. Disturbo d’Alimentazione Incontrollata: “una soluzione per non esserci” Il DSM IV inserisce il Disturbo d’Alimentazione Incontrollata (DAI) tra i disturbi d’alimentazione non altrimenti specificati: viene diagnosticato quando la persona vive ricorrenti episodi di abbuffate in assenza di condotte compensatorie. Quando si parla di DAI è importante distinguerlo dall’obesità cosiddetta semplice, conseguenza principalmente di disfunzioni metaboliche, e per tanto non annoverata tra i disturbi dell’alimentazione. La persona che soffre di DAI assume grandi quantità di cibo, non lo vomita, e spesso lo sceglie con cura. La ruminazione anoressica attraverso la mente diventa una ruminazione reale: la persona sviluppa una vera e propria dipendenza dal cibo, a cui pensa in ogni momento e che assume costantemente, con modalità diverse rispetto alla bulimia. Il cibo ha in questo caso talvolta sapore e gusto: il cibo viene selezionato e assunto fino ad aumentare di peso in modo sproporzionato. Spesso si sente parlare di binge eating come un allarmante fenomeno in diffusione: in effetti si tratta di una vera e propria malattia sociale, che interessa un numero sempre maggiore di persone, anche in fascia pediatrica e adolescenziale. Da qui i tentativi di soluzione da parte del contesto: un esempio è costituito dalla proposta di riduzione delle porzioni al ristorante o maggiore attività fisica. In realtà anche il DAI, come gli altri sintomi alimentari, porta il ‘peso’ della storia individuale: l’adipe in molti casi costituisce una sorta di barriera che sembra proteggere dalle emozioni e dalle relazioni. Il cibo diventa un anestetico al dolore di vivere, una soluzione magica alle difficoltà. In realtà sembra innescarsi un circuito che ‘cortocircuita’: il cibo è la soluzione, la persona ne assume a dismisura, ingrassa e ciò influisce negativamente sulla propria autostima, creando depressione che, a sua volta, porta ad un sempre maggior ricorso al cibo. 24 E’ difficile per le persone che soffrono di DAI poter chiedere aiuto: spesso si fraintende il disturbo come golosità smodata o debolezza. C’è vergogna, si ha paura della derisione sociale. Si ricorre più facilmente ad interventi sul corpo – come il bendaggio gastrico – , che si dimostrano ben poco risolutivi del problema, il quale si ripresenta puntualmente dopo l’intervento. Solo l’accoglimento del dolore può consentire alla persona di evitare il ricorso al cibo come modalità di trattare la sofferenza. Le nuove patologie dell’alimentazione Si assiste oggi ad una diversificazione delle manifestazioni del sintomo: il trinomio corpocibo-peso si declina in molti modi diversi, non più inquadrabili con una definizione classica di disturbi alimentari. Nella diversità delle modalità di espressione, vale qui ciò che è stato affermato prima: ogni sintomo porta le impronte digitali del suo portatore. E’ frutto di una storia individuale, di vissuti ed emozioni soggettive, di un modo peculiare di vivere e sentire le relazioni con l’altro. Due esempi della diversificazione nella manifestazione dei sintomi alimentari sono la vigoressia e l’ortoressia. La Vigoressia è l’ossessione per la perfezione del corpo, riguarda prevalentemente i maschi che si percepiscono sempre come troppo magri e poco muscolosi. Un ruolo importante è giocato dai modelli culturali di bellezza e prestazione fisica e, nei contesti sportivi, dalle pressioni alla competizione da parte di compagni e allenatori. Alla base ci sono spesso un senso di inadeguatezza e la paura di fallire. L’Ortoressia si riferisce all’ossessione maniacale per i cibi sani. Scatta quando si passa da un semplice interesse per l’argomento a non poter più toccare una pietanza sulla cui provenienza non si abbiano certezze, modificando la propria alimentazione al punto da non avere quasi altro pensiero. Controllare ciò che si mangia può essere l’espressione di un disagio più profondo come la paura di affrontare gli altri. I disturbi alimentari e il campo delle dipendenze Si assiste oggi ad una complessificazione del quadro clinico nel campo dei disturbi alimentari: è sempre più frequente osservare accanto al sintomo l’associarsi di uso e abuso di alcolici e di droga, in particolare di cocaina. La sostanza, qualsiasi essa sia, diventa la soluzione illusoria per trattare tematiche troppo angoscianti per la persona, per riempire il proprio vuoto interiore, per rincorrere un’illusoria autonomia da tutti, dipendendo solo dall’oggetto. Le sostanze diventano quindi l’auto-cura: sono dei farmaci che servono per lenire il proprio dolore e perseguire una soddisfazione e un godimento autistico, in cui vive una passione cieca per l’oggetto escludendo tutte le relazioni. 25 E’ importante a questo punto effettuare un chiarimento sull’uso della parola dipendenza: questo termine viene generalmente associato nel senso comune a dei mostri come la droga, l’alcol o il gioco d’azzardo; richiama delle paure profonde, di perdita di controllo del sé e della propria vita a causa dell’abuso di una sostanza. In realtà non tutte le dipendenze sono patologiche: gli esseri umani, a partire dalla loro nascita e soprattutto nei primi anni di vita, sono dipendenti dal loro contesto. Anche durante la vita adulta l’individuo è legato al sostegno affettivo degli altri: ci realizziamo e affermiamo noi stessi attraverso le relazioni con i nostri simili. Tutto ciò non ha un significato negativo, anzi è la trama che caratterizza le nostre esistenze. La dipendenza diventa patologica nel momento in cui ciò che regna è una seduzione totale che la sostanza esercita sull’individuo: è un oggetto o una serie di oggetti di cui non si può più fare a meno. Si tratta di oggetti di cui la persona “si fa” per “disfarsi” degli altri, del legame che viene percepito come pericoloso e rischioso, che non si riesce a gestire. Si tratta di un modo per risolvere la propria sofferenza: per questo motivo le persone che soffrono di polidipendenze difficilmente chiedono aiuto, proprio perché la sostanza è la soluzione, non il problema. Certo la soluzione si rivela illusoria e altamente nociva, spingendo l’individuo verso gravi rischi di intossicazione e di danni all’organismo di vario genere. “L’essenziale è invisibile agli occhi” rivela la volpe al Piccolo Principe. Allo stesso modo i comportamenti alterati del cibo e dell’uso di sostanze sono solo ciò che appare e nascondono l’essenza del problema: un disagio profondo, una sofferenza interiore. Le cause delle patologie alimentari sono molteplici e vanno rintracciate nella storia della persona e nelle dinamiche relazionali. Spesso ciò che si osserva è che il cibo o la sostanza costituiscono da un lato una soluzione per la gestione di problematiche emotive, dall’altro una risposta prevalente ai bisogni di cura e affetto. Il pensiero ossessivo della sostanza sembra una soluzione, un’auto-cura per non pensare, per riuscire ad affrontare le difficoltà esistenziali. Spesso si riscontrano nella vita di chi soffre di disturbi alimentari perdite affettive importanti, abbandoni e traumi. E’ stimato che ci sia un’elevatissima incidenza, in chi soffre di disturbi alimentari, di abusi subiti in età infantile e non elaborati. La sostanza si pone quindi come una sorta di anestetico che impedisce di avvertire il dolore, ma toglie così la possibilità di avvertire qualsiasi altra emozione di fronte alla quale ci si sente fragili e vulnerabili. La scommessa nel percorso di cura è quello di trovare una soluzione alternativa alla dipendenza, che consenta al soggetto di uscire dall’autismo della sostanza per entrare in relazione con l’altro e mettere parola alla sofferenza, prima espressa solo con l’uso smodato dell’oggetto. 26 27 DCA ED ETA’ DELLO SVILUPPO di Valentina Calcaterra 28 DCA e infanzia : “no alla pappa!!!” L’incontro con il cibo per il bambino è sempre anche un incontro con l’amore perché l’esperienza del soddisfacimento del bisogno primordiale della fame accade all’interno di una relazione con un altro che si prende cura di lui. Quindi il cibo ha sin dall’inizio anche una dimensione psicologica, dimensione che rimanda al rapporto tra il bambino e i genitori, in primis la madre. L’atto nutritivo non è caratterizzato solo dal piano del bisogno ma si lega indissolubilmente al piano della domanda d’amore. Il bambino, infatti, non si nutre solo del cibo che soddisfa la sua fame fisiologica, ma anche di un altro particolare tipo di cibo, quello che risponde alla sua domanda d’amore. L’elemento in più che l’essere umano esige dall’altro e senza il quale non c’è crescita è, infatti, il desiderio. Mentre il bisogno si soddisfa in maniera unilaterale attraverso il consumo dell’oggetto, in questo caso il cibo, il desiderio implica qualcosa in più, implica il sentirsi desiderati e riconosciuti dall’altro il quale ci attribuisce un valore affettivo e non semplicemente un accudimento generico. Il valore del cibo come luogo simbolico in cui convergono vissuti, esperienze ed emozioni perdura per tutta la vita. Alla luce di ciò emerge come il cibo e il comportamento alimentare siano da sempre immersi all’interno di una scambio relazionale e abbiamo legami diretti e importanti con le dinamiche affettive che li caratterizzano. Mangiare diviene, quindi, un atto che implica molteplici significati: dire sì o no al cibo diviene un modo per accettare e rifiutare la relazione all’interno della quale lo scambio alimentare è immerso. Per questo il bambino, che è ancora incapace di servirsi del linguaggio per comunicare ciò che prova, può servirsi del cibo come mezzo per comunicare un disagio, una sofferenza che fatica a mettere in parole. Il cibo si sostituisce al pianto e alla parola e il bambino comunica con il rifiuto o con la divorazione le emozioni che lo attraversano. Il disfunzionamento del comportamento alimentare assume, dunque, il valore di messaggio rivolto all’Altro, proprio in quanto mette in luce la discontinuità esistente tra il piano del bisogno e il piano della domanda. Ma quando la risposta della madre valorizza esclusivamente il piano del bisogno, il bambino può arrivare fino al rifiuto delle cure e del nutrimento materno. I disturbi alimentari nell’infanzia vanno considerati come risposte sintomatiche che toccano il cuore dei legami affettivi con le figure di riferimento che sono significative per il bambino. A volte sono delle fasi di inappetenza o di voracità di tipo transitorio, altre volte assumono la caratteristica di un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare. 29 Secondo B. Brusset è importante differenziare tra l’anoressia da svezzamento e l’anoressia fantasma o pseudo anoressia. Nell’anoressia da svezzamento la separazione tra madre e figlio, che l’avvento dello svezzamento necessariamente introduce, si configura come centrale. Lo svezzamento implica, infatti una rottura della diade madre-bambino che può portare, da parte del bambino, al rifiuto del cibo proprio nella fase di passaggio dai cibi liquidi ai cibi solidi. Nell’anoressia fantasma il disturbo esiste esclusivamente nella mente dei genitori che sviluppano un’idea errata del reale fabbisogno nutritivo del figlio, dimenticandosi che esistono, in un bambino, variazioni fisiologiche dell’appetito. Spesso le preoccupazioni dei genitori possono essere talmente eccessive che inducono il bambino a sviluppare un’anoressia da opposizione, volta ad opporsi ai loro persistenti tentativi di ingozzamento. L. Kreiser distingue le anoressie mentali semplici da quelle complesse. Le anoressie mentali semplici rappresentano le forme più diffuse. Si tratta di una condotta di rifiuto del cibo isolata che è direttamente collegata con un atteggiamento inadeguato della madre di fronte al rifiuto espresso dal figlio. Quest’ultimo può essere dovuto ad una brusca modificazione del regime alimentare, ad una malattia, alla nascita di un nuovo figlio, ecc… In genere, se la madre è in grado di comprendere come il suo comportamento incida sulla condotta alimentare del figlio e riesce a modificarlo, il disturbo si risolve in breve tempo. Le anoressie mentali gravi hanno un inizio simile a quelle precedenti ma con un quadro psicopatologico che peggiora rapidamente associandosi a ulteriori disturbi quali quelli del sonno, del comportamento, della relazione. Nonostante si provi a modificare sotto vari aspetti il comportamento e l’ambiente circostante, il bambino persiste nel suo rifiuto verso il cibo mostrando un totale disinteresse. Tale quadro clinico può arricchirsi progressivamente e in alcuni casi portare ad un contesto psicopatologico che può sfociare in situazioni di grave denutrizione che comportano il dover ricorrere a misure terapeutiche di emergenza, quali l’ospedalizzazione. DCA e adolescenza: “il dramma del gambero” L’adolescenza è la fase di passaggio che divide l’infanzia dall’età adulta ed è un processo di costruzione dell’identità che si realizza affrontando e in qualche modo risolvendo specifici compiti di sviluppo che trovano nel contesto e nella cultura di appartenenza del singolo adolescente la loro concreta esplicitazione. Essa ha come momento centrale la pubertà, la dimensione corporea dell’adolescenza. L’aspetto, le forme, il corpo, si modificano. I cambiamenti corporei, per quanto attesi, colgono di sorpresa l’adolescente che per molti aspetti è ancora legato ad una rappresentazione di sé infantile. 30 La sensazione spesso è che “qualcosa stia sfuggendo di mano” e si assiste ad una difficoltà ad affrontare un processo di revisione di sé e della propria immagine corporea. Nell’adolescenza ci si costruisce un’immagine ideale di sé, basata spesso sui criteri del gruppo, e ci si sente belli o brutti, adeguati o non adeguati nella misura in cui ci si avvicina o meno a tale immagine ideale. Tutto questo è complicato dal fatto che spesso i messaggi veicolati dai mass-media attribuiscono una centralità fondamentale al corpo e ne propongono un’immagine come luogo che dovrebbe rispecchiare l’identità della persona, definire i suoi valori, le sue appartenenze sociali e le sue dimensioni interne. I cambiamenti fisici e corporei, inoltre, implicano l’acquisizione di un’identità sessuale e il lavoro di ridefinizione della propria identificazione, maschile o femminile. Il corpo puberale mette in evidenza nuove sensazioni e nuovi desideri con i quali è necessario, per la prima volta, confrontarsi. Per l’adolescente tutto questo implica, quindi, entrare in rapporto con il proprio desiderio, un rapporto che non potrà più essere strutturato sulla base delle precedenti identificazioni infantili ma che deve essere finalmente soggettivato e assunto in prima persona. L’adolescente, inoltre, è chiamato ad operare un processo di individuazione-separazione nei confronti della famiglia d’origine, con l’obiettivo di emanciparsi e raggiungere una completa indipendenza. Tale processo implica continui cambiamenti di rotta, dovuti all’ambivalenza e alla difficoltà che accompagnano ogni processo di separazione. D’altro canto, i genitori devono essere disposti a operare profonde trasformazioni del loro ruolo per promuovere l’autonomia dei figli, sapendo che sia da parte loro che da parte dell’adolescente c’è una profonda impreparazione di fronte a questo cambiamento. L’adolescenza, quindi, è come una “seconda nascita” che si realizzerà in tappe progressive: é necessario abbandonare a poco a poco il guscio familiare protettivo proprio come un tempo si è abbandonato il ventre materno. Lasciare l’infanzia, cancellare il bambino che c’è in noi, è una mutazione profonda, veloce, in alcuni casi troppo veloce. Talvolta si ha l’impressione di morire, bisogna sopravvivere e non si è sempre preparati: si sa che cosa muore, ma ancora non si vede che cosa stia nascendo, verso quale direzione si stia procedendo. Qualcosa si è incrinato, ma non si sa bene né come né perché, si sa solo che nulla è come prima, ma si tratta di uno stato indefinibile. C’è insicurezza nell’aria, c’è il desiderio di venirne fuori ma anche la mancanza di fiducia in se stessi. Per capire la fragilità e la vulnerabilità dell’adolescente F. Dolto ricorre all’immagine dei gamberi: essi cambiano il guscio e si trovano a perdere quello vecchio, restando senza difese durante il tempo necessario per fabbricarne uno nuovo. Ed è proprio in questo periodo che sono esposti ad un grave pericolo, così si nascondono sotto le rocce fino a quando non hanno costruito un nuovo rivestimento che li difenda. Ma, se durante il periodo in cui sono vulnerabili, verranno 31 colpiti, le ferite rimarranno visibili per sempre, il loro involucro coprirà le cicatrici ma non le cancellerà. Alla luce di quanto detto ben si comprende come l’adolescenza possa configurarsi come un periodo di insorgenza di DCA. Innanzitutto anche in questo caso il cibo si inserisce all’interno di una serie di relazioni e di rapporti affettivi e rimanda alle loro dinamiche e implicazioni psicologiche. Inoltre i numerosi cambiamenti fisici e psicologici che l’adolescente si trova a dovere affrontare, la ricerca difficoltosa e spesso dolorosa di un’identità e la centralità che l’immagine corporea viene ad assumere all’interno di tali processi, pongono il corpo come il palcoscenico ideale sul quale mettere in scena il proprio disagio interiore: scrivere sulla carne parole che non posso essere dette. Il corpo diviene portatore di segnali evidenti, taciuti e spesso non facilmente codificabili e comunicabili: marchi di appartenenza posti su un corpo vissuto come estraneo. Si usa il cibo come le lettere dell’alfabeto: al posto di utilizzare il linguaggio per parlare, si utilizza l’alimentazione. Il corpo diviene il mezzo che l’adolescente frappone fra sé e il mondo circostante, è come una tela sulla quale viene dipinto chi si è e cosa si vive dentro, una tela che conserva i segni di ogni vissuto e di ogni emozione, una tela che viene ogni volta ridipinta per l’occasione e che si sostituisce a qualsiasi forma di comunicazione. Si vive nell’illusione che, cambiando il proprio corpo si potrà cambiare anche la propria vita e il pensiero del cibo, sia nella forma del rifiuto che in quella della divorazione infinita, terrà al riparo dal dolore e dalle emozioni, consentendo un’utopica autonomia e un’illusoria anestesia da un dolore insopportabile e indicibile. Si tratta di una comunicazione interrotta, di una comunicazione iscritta nel corpo, di una comunicazione che chiede di essere vista, riconosciuta e ascoltata. Il gambero indifeso, in mancanza del guscio protettivo, usa il suo stesso corpo come strumento di difesa e come mezzo di comunicazione. 32 TUTTO O NIENTE. LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSIA-BULIMIA CONTEMPORANEA. di Maria Barbuto 33 I disturbi alimentari, nelle loro varie forme (anoressia, bulimia, obesità) continuano a diffondersi su larga scala, nei vari ceti sociali, rappresentando una fetta del 5% della popolazione, soprattutto femminile. La consapevolezza della complessità e dell’enorme diffusione di tale disturbo cresce parallelamente al grado di informazione che la società, attraverso i vari mezzi di comunicazione, mette a disposizione della popolazione, permettendo un’operazione in cui il lavoro del clinico e quello dell’informatore possono creare una sinergia utile a promuovere una vera prevenzione socioculturale dei disturbi alimentari. Un lavoro di prevenzione così inteso diventa sempre più indispensabile, anche a fronte del fatto che l’insorgenza di problemi inerenti la sfera del comportamento alimentare si colloca oggi, sia in fasce di età ancora più basse rispetto a quelle adolescenziali (8-12 anni), che più alte (30-40 anni e periodo della menopausa). Inoltre, la conseguenza della cronicizzazione di tali disturbi, che dalla più giovane età spesso accompagnano le donne fino all’età adulta, provoca consistenti problemi nella sfera della fertilità femminile, anche a causa dei lunghi periodi di amenorrea che rientrano stabilmente nel quadro dell’anoressia-bulimia. In tutte quelle fasce di età considerate potenzialmente a rischio per l’esordio del disturbo alimentare, si colloca in effetti un passaggio legato significativamente al corpo e alla sua immagine ma anche all’identità del soggetto. L’adolescenza, ad esempio, espone ad importanti cambiamenti che investono la forma corporea, lo sviluppo dell’identità sessuale e la capacità di separarsi dalle figure genitoriali, tutte esperienze rispetto alle quali l’adolescente si sente profondamente impreparato. In particolare, la fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni corrisponde per le donne al tempo della comparsa del menarca, segnale della funzionalità propria del corpo femminile, in quanto corpo potenzialmente riproduttivo e materno, mentre la menopausa scandisce il tempo in cui la donna si separa dall’età feconda. In ognuna di questa fasi occorre che il soggetto ristrutturi il rapporto con il proprio corpo, finendo inevitabilmente per interrogare la propria identità, la sessualità e, in generale, il campo d’investimento del suo desiderio. Corpo, identità e desiderio costituiscono dunque un’articolazione complessa e interdipendente. Il contesto sociale attuale valorizza, in modo particolare, modelli estetici legati alla magrezza del corpo al punto che, di fronte a situazioni di fragilità personali, il soggetto tende a interiorizzare il modello estetico dominante per aumentare il senso di autostima, di sicurezza e di 34 riconoscimento sociale. Il conflitto legato alla complessità dei rapporti tra il soggetto e la sfera dei suoi desideri e delle sue scelte, può essere così risolto sul piano narcisistico, in linea col discorso sociale, attraverso il culto del corpo adeguato al prototipo eletto come modello e stile di vita. “Costruire” il proprio corpo, plasmarlo secondo una forma idealizzata, offre illusoriamente la possibilità di rimuovere e riparare “artificialmente” il disorientamento che, in alcune fasi, si accompagna al costituirsi dell’identità soggettiva. E’ chiaro che il mondo dei media ha in questo caso un ruolo preponderante. Esso si fa interprete del sociale promuovendo un ideale estetico in cui la magrezza del corpo rappresenta un tipo di bellezza ideale che si coniuga con l’idea di successo, di felicità e di affermazione individuale. Di fronte all’esaltazione di questi valori, molte persone possono sentirsi stimolate a superare il loro senso di inadeguatezza e di inferiorità emulando i personaggi che sono resi famosi dal fatto di incarnare questi stereotipi, come accade rispetto al mondo della moda e dello star system. Il discorso sociale e la componente mediatica possono, quindi, generare un comportamento imitativo che da solo non basta a determinare una patologia, ma che può trovare terreno fertile in momenti in cui il soggetto è esposto a situazioni di conflitto e di crisi, soprattutto per coloro i quali hanno dei fragili punti di riferimento nella vita e nel contesto familiare. A partire dalla storia personale di ciascuno, riteniamo che esistano dei fattori predisponenti che possono scatenare il disturbo e che i mezzi mediatici possono, a volte, rinforzare degli atteggiamenti patologici in quanto forniscono modelli che assumono velocemente una validità globale. I media diffondono, in modo consistente e in tempi brevi, tendenze e valori che definiscono i criteri di successo della società contemporanea. In questo senso, sono dei mezzi attraverso cui spesso gli adolescenti apprendono modelli e valori considerati “vincenti” a cui pensano di doversi omologare, come si evidenzia in modo particolare nella ridondanza del legame tra immagine corporea e senso dell’identità personale. Certamente il mezzo di comunicazione in se stesso non può essere considerato responsabile del disagio, anche perché è d’obbligo riconoscere che il vantaggio dei media consiste nel veicolare informazioni, cultura e promuovere aggregazione. Tuttavia il rischio è quello di fornire modelli che nei più giovani, in cerca di un’alternativa al contesto familiare, finiscono per legittimare condotte patologiche per il fatto che, in alcuni casi, l’imitazione dei modelli considerati di successo arriva ad essere estremizzata. E’ conseguente che, nelle personalità più fragili, le maggiori frustrazioni nascono dal senso di insoddisfazione e di fallimento che scaturisce quando non si è sufficientemente adeguati agli standards sociali, soprattutto in una società che si regge in modo specifico sull’apparenza e 35 sull’esaltazione di uno sguardo che si diffonde gigantescamente a tutti i livelli, schiacciando il valore della comunicazione su un piano principalmente narcisistico-immaginario. Tra gli standards più diffusi il successo si coniuga spesso con la bellezza che viene ad essere omologata tout court alla magrezza del corpo. Il raggiungimento di questi obiettivi, legati in modo particolare al mondo femminile, produce delle condotte alimentari di tipo restrittivo e, più in generale, un’attenzione marcata e comunemente diffusa nei confronti del proprio regime alimentare. L’idea è quella di promuovere un criterio salutista che, nei casi più a rischio, arriva a produrre un movimento in opposizione rispetto al connubio bellezza-magrezza-benessere. Come ci insegna l’anoressia, col rischio di vita ad essa associato, l’imperativo sociale rivolto a rinforzare una pratica del controllo può produrre una serie di comportamenti autolesivi che mettono a rischio la salute del corpo, con gravi conseguenze anche da un punto di vista psicopatologico. Per raggiungere uno status adeguato, la donna deve corrispondere ad un ideale corporeo ben definito dal gusto sociale e, nonostante i progressi sul piano di una sempre maggiore affermazione del principio di autonomia femminile, l’identità delle donne rimane comunque fortemente ancorata al corpo. E’ per questo motivo che la donna vive al suo interno una forte contraddizione essendo costantemente divisa, sul piano della propria realizzazione, tra la sfera privata delle emozioni, e quella pubblica del riconoscimento sociale. L’anoressia, in una certa misura, vorrebbe obiettare a questa schiavitù dettata dal discorso sociale contemporaneo, prendendo le distanze dall’idea del corpo oggetto, ma la logica del suo discorso è fortemente connotata dal rifiuto della femminilità e dalla scelta di valori maschili come l’affermazione, l’efficienza, la competizione professionale, etc. Non dimentichiamo che alcuni degli aspetti caratteristici del quadro anoressico sono proprio l’idea del controllo e del dominio del corpo, un forte senso di onnipotenza e di invulnerabilità che si accompagnano all’esigenza di poter dominare totalmente anche i bisogni più elementari, tra cui la fame, con un atteggiamento di sfida e di anestesia delle emozioni che, nei casi più gravi, si spinge al di là dell’istinto di sopravvivenza stesso. La bulimia, che all’osservazione clinica si presenta spesso come l’evoluzione del quadro anoressico, mostra invece un’assuefazione fatale ai valori del consumismo contemporaneo. Questo meccanismo è riconoscibile proprio nell’incapacità del soggetto bulimico a opporsi alla divorazione sfrenata del cibo secondo un imperativo di “voracità” sociale, largamente diffuso, che invita a godere illimitatamente dei beni di consumo, spesso divenuti oggetti di “dipendenza” tra i più svariati. Il principio è quello della sostituzione incessante di un oggetto con un altro, secondo una logica che mira a eludere il sentimento di mancanza con l’idea della moltiplicazione degli oggetti che il mercato rende disponibili sul piano del possesso materiale. In quest’ottica, divorare, 36 moltiplicare, possedere più “oggetti” possibili, sarebbe il criterio utile al raggiungimento della felicità. In realtà, la valenza effimera e lo scacco di questo meccanismo sono all’origine di molte depressioni a volte nascoste dal disturbo alimentare stesso. Il cedimento bulimico e la conseguente abbuffata rappresentano il rovesciamento del primo tempo, quello della restrizione anoressica. La fase restrittiva sottopone il corpo ad una privazione che non ne cancella la fame. Il soggetto anoressico ne teme gli sviluppi a buon ragione proprio perché nel momento in cui il suo corpo cede alla fame, la voracità diventa assolutamente incontrollabile. O niente o tutto. Da qui l’esigenza del vomito e di condotte espulsive finalizzate a mantenere il corpo magro e, come spesso le pazienti dicono, “a riportarlo ad uno stato di purezza, farlo essere nuovamente immacolato”. La logica interna al discorso anoressico-bulimico è quella del tutto o niente, che scandisce i due tempi, la bulimia e l’anoressia. E’ un sistema di contabilità rigoroso, tutto quello che entra nel corpo deve poter essere espulso per ripristinare lo zero assoluto, l’attaccamento al niente che cancella il tutto dell’impulso bulimico. La rinuncia anoressica e la voracità bulimica evidenziano, dunque, due facce di una stessa medaglia che si alternano secondo un andamento che scandisce anche nell’arco di una stessa giornata il momento del digiuno e quello dell’abbuffata, in un’alternanza continua tra vuoto e pieno, tra addizione e sottrazione, tra tutto e niente. Se l’anoressica vuole ribellarsi alla materialità della pulsione, attraverso la disincarnazione del corpo, favorendo la messa in valore della mancanza e del desiderio, la bulimica mostra bene, attraverso la divorazione, il fatto che non c’è cibo che possa placare la “fame”, che c’è una “fame” che il cibo non sazia. Il cibo, infatti, non è un oggetto qualunque, è il primo oggetto che si pone tra la madre e il suo bambino. E’ l’oggetto che per eccellenza veicola una domanda da parte del bambino, domanda di essere sfamato, certamente, ma fin da subito il fatto di essere nutrito lascia dietro di sé l’obiettivo della semplice soddisfazione del bisogno, per evocare nel suo fondo la domanda fondamentale di ogni essere umano: “Che cosa sono io per te?” , interrogativo attraverso il quale il desiderio umano mostra la sua dipendenza strutturale dal campo dell’Altro e dalle sue risposte. E’ sullo sfondo di tale dialettica, tra l’Altro e il soggetto, che l’anoressia nevrotica ci insegna qualcosa sul piano della domanda d’amore mostrando come la “fame di riconoscimento” sia ben più forte e radicale della “fame del corpo”. 37 Il corpo e lo sguardo Ecco come una paziente anoressico-bulimica descrive, dentro un percorso di terapia di gruppo, il modo in cui che vorrebbe poter spiegare l’anoressia: “Immagino che una telecamera riprenda un ombelico, attraverso un’inquadratura sempre più ravvicinata al punto che l’ombelico arriva a deformarsi, divenendo una macchia nera, informe, fino a sembrare una caverna. Due grandi occhi cupi, inquietanti, fissano questo punto opaco, questa cavità, dentro la quale emerge il corpo di una bambina, rannicchiata come un piccolo feto che piange.” L’ombelico e la caverna, di fronte a due occhi perturbanti, sono i due elementi che focalizzano questa rappresentazione dell’anoressia: il buco e lo sguardo. La bambina che piange, rannicchiata come un piccolo feto, mostra tutta l’angoscia del soggetto, ancora corpo informe, esposto, attraverso lo sguardo che l’invade, al desiderio dell’Altro, che le rimane enigmatico. U. Galimberti sostiene che “il corpo è il nostro grande buco nero”, proprio perché non riusciamo mai a vederlo per quello che è, e anche nello specchio ne abbiamo un’immagine rovesciata. Inoltre, la dimensione temporale, il fluire del tempo, ce lo sottrae costantemente. Vediamo, infatti, come il tempo subisce un’involuzione nella figura statica e aggrovigliata del feto, chiuso in una dimensione a-temporale. Questi aspetti sono in effetti assolutamente centrali nella patologia anoressico-bulimica: sia nel senso di un misconoscimento fondamentale dell’immagine del proprio corpo che il soggetto vive davanti allo specchio, sia nel sogno anoressico di voler annullare la temporalità custodendo il corpo come un corpo infantile, un corpo non sufficientemente separato dal corpo materno, che esprime in modo inequivocabile il blocco del processo di crescita psichica e della capacità di separarsi dalla dipendenza infantile. Il soggetto anoressico di fronte allo specchio piuttosto che trovarla, perde la sua immagine. Corpo e sguardo non possono incontrarsi. E’ quello che comunemente definiamo come dismorfofobia o, come indicava Hilde Bruch (1962), una Body Image Distortion Syndrome (BIDS). Di fatto, per molte anoressiche, quando il corpo non risulti sufficientemente filiforme, asciutto, in linea con un certo tipo di magrezza, esso appare sulla scena in modo deformato, come un’entità minacciosa, ingovernabile, estraniante e angosciosa, anche quando non si tratti di soggetti 38 psicotici. La sensazione di spaesamento, di estraneità che l’immagine speculare provoca al soggetto anoressico rende ragione del fatto che lo sguardo emerge nella sua dimensione perturbante. Perfino quando arriva a pesare trenta chili, lo specchio riflette all’anoressica un volume in esubero, dove al posto dell’osso emerge il grasso. Il corpo del soggetto anoressico rivela, nel superamento della barriera estetica del bello, qualcosa della dimensione tragica, antivitale che abita il cuore dell’anoressia, mettendo a nudo come l’anoressia spinta all’estremo possa, in effetti, essere una figura della morte. Alcuni mesi fa, una foto di Oliviero Toscani mostrava in modo amplificato attraverso una gigantografia, l’immagine senza veli del corpo emaciato di una giovane modella anoressica ridotta pelle ed ossa, con l’intento di fare una campagna pubblicitaria contro l’anoressia. L’idea era che quel corpo visibilmente al limite della sussistenza vitale, potesse suscitare l’orrore e il disgusto e scoraggiare quanti nell’anoressia vedono ancora una sorta di progetto ideale o di soluzione ai problemi esistenziali (vedi siti pro-Ana e pro-Mia). Molte pazienti anoressiche hanno riportato a più voci la fascinazione prodotta in loro da quella stessa immagine. In quella magrezza raccapricciante, che mostra lo scheletro al posto del corpo, nell’osso che affiora, nella vertebra sporgente, l’anoressica vede compiersi la sua massima aspirazione. L’esigua presenza di “un corpo senza carne” rimane il sogno all’orizzonte di ogni vera anoressia. Questo sogno di immaterialità del corpo è spesso infranto da un sentimento di estraneità e di orrore che affiora quando il corpo supera una soglia, quella in cui tra l’osso e la pelle non si operi una sorta di appiattimento volumetrico il cui risultato sia pari a zero. Occorre sottolineare che al centro del discorso anoressico il corpo assume uno statuto di privilegio: è il corpo filiforme, etereo, evanescente, il corpo che flirta potentemente col niente. E’ l’idea di un corpo al di là della differenza sessuale, è l’immagine del corpo “ridotto all’osso”. E’ il corpo spogliato da tutti gli orpelli che danno consistenza a un corpo fatto di carne. Recenti studi nel campo dell’anoressia mentale sottolineano che l’errata percezione del proprio corpo che mina, in modo particolare, l’adolescenza, viene amplificata nel caso di un rapporto carente con la figura paterna, laddove il padre risulti particolarmente assente, immaturo e incapace di gestire lo sviluppo psico-sessuale della propria figlia. La centralità del ruolo paterno rispetto alla configurazione dell’immagine corporea è stata spesso trascurata a favore di una maggiore attenzione alla relazione madre-figlia, cui il padre si affianca spesso come una figurasfondo, confondendosi a volte con l’elemento materno. Di fatto, la consapevolezza della propria identità femminile dipende solo in parte dall’identificazione con la madre, in quanto è da entrambi i genitori che essa viene 39 influenzata. Il padre rappresenta la prima esperienza che una bambina fa del maschile e, conseguentemente, la figura paterna condiziona fortemente lo sviluppo della sua crescita e l’avvento della sua identità femminile. Gli esiti della fragilità di questo legame mettono in luce che sottovalutare l’importanza che ha per la figlie il potersi riconoscere nello sguardo del padre in quanto soggetto degno di cure, attenzioni e premure amorose, può determinare il rischio dell’anoressia. Una serie di ricerche condotte su campioni di soggetti anoressici hanno registrato un’incidenza elevata del malfunzionamento del legame padre-figlia come causa di conflitti che investono la sfera dell’immagine corporea e prendono la forma dell’anoressia nervosa, manifestandosi spesso con un esordio in epoca puberale6. La qualità di un rapporto empatico e accogliente con la figura paterna risulta, dunque, essere fondamentale per scongiurare il rischio di uno scatenamento dell’anoressia, promuovendo e rafforzando nelle figlie un’identificazione femminile positiva e la possibilità di accedere ad un corpo sessuato, che prenda il posto di un corpo che di fronte allo specchio è sempre estraneo, ingombrante, sempre di troppo, sempre tutto o sempre niente. 6 Cfr. a questo proposito le ricerche condotte da Engel e Stienem 1988, K. Rowa, P.K. Kerig e J. Geller nel 2001, F. Muratori nel 2004. 40 I SITI WEB PRO ANORESSIA di Isabella Usardi 41 Secondo le stime del Rapporto 2007 – XLI Rapporto sulla situazione sociale del paese – a cura del Censis, nel 2007 gli utenti complessivi di internet hanno raggiunto una quota pari al 45,3% della popolazione. Prendendo in considerazione solo gli utenti abituali, quelli cioè che si connettono almeno tre volte alla settimana alla rete, si è passati dal 28,5% del 2006 al 38,3% del 2007, con un indice di penetrazione che ha raggiunto tra i giovani il 68,3% e tra i più istruiti il 54,5%. Non solo chat, e-mail o sms, ma anche forum, siti di social networking (come MySpace e Facebook) e blog. Esistono differenti tipologie di siti; quelle su cui ci soffermeremo sono i Siti Web Pro Anoressia i quali si sviluppano in due categorie parallele: i blog e i forum. La prima tipologia consiste nell’utilizzo di blog – ossia un diario online – e la seconda categoria, quella dei forum, è caratterizzata dall’instaurazione di discussioni online. Soffermiamoci sulla definizione e nascita dei blog. Il termine blog è la contrazione di web log, ovvero "traccia su rete", termine creato da Jorn Barger nel dicembre del 1997. Si tratta di un diario in linea sul web, nel quale ognuno ha la possibilità di pubblicare i suoi scritti, disegni, suoni e filmati a costo zero. Ha iniziato a prendere piede nel 1997 in America e nel 2001 è divenuto di moda anche in Italia, con la nascita dei primi servizi gratuiti dedicati alla creazione e gestione di blog (servizi di bloghosting). I blog pro-Anoressia in particolare sono nati in America alla fine degli anni Novanta e giunti in Italia nel 2002. Se nel mondo sono 300 mila i siti a favore dell’anoressia, creati da persone che soffrono di questo disturbo, in Italia si contano circa 260 blog che raccontano di anoressia, bulimia o in generale di disturbi dell’alimentazione. E tutti sono creati da ragazze molto giovani: l’età media delle autrici è infatti di 17 anni, ma non mancano dodicenni o tredicenni. La fotografia del fenomeno arriva dall’Eurispes, che ha condotto un monitoraggio della rete. Fra i blog monitorati, più della metà risultano ancora attivi (153), 10 sono sospesi, ossia non aggiornati da almeno un anno, 62 sono stati privatizzati (cioè resi fruibili solo da una cerchia ristretta di persone che accedono solo dopo l’approvazione dell’autore), mentre 36 sono stati oscurati. Bisogna sottolineare che i blog privatizzati, così come quelli oscurati, non rendono noto il contenuto del “diario”, per questo l’Eurispes ha ritenuto opportuno conteggiare solo quelli in cui l’indirizzo web faccia esplicitamente riferimento all’anoressia o ai disturbi del comportamento alimentare. 42 Alla base di questi siti è individuabile la filosofia pro-Ana e pro-Mia nella quale l’anoressia e la bulimia non vengono concepite come patologie ma come un ideale verso cui tendere. Ecco di seguito un brano esplicativo tratto da un blog pro-Ana: “Questo è un blog ‘a più mani’ di ragazze con una filosofiap pro-Ana. ANA NON E’ UNA MALATTIA, ma una filosofia. Un modo di vivere, un modo di vedere le cose di questo mondo. In particolare, per chi fa parte di questo blog, Ana è la filosofia della magrezza.” Basta infatti digitare qualche parola chiave, come ad esempio i termini “pro-Ana” o “thininspiration”, per entrare in un labirinto fatto di blog, chat e forum nel quale i partecipanti si sostengono reciprocamente condividendo regole, consigli e trucchi su come ridurre la quantità di calorie introdotte giornalmente e nascondere ai familiari ed agli amici il rapido deperimento. Riporto, a tale proposito, il post “di benvenuto”, per coloro che per la prima volta si avvicinano a questi siti, contenuto all’interno di un blog pro-Ana: “[…] Benvenuta nel mio blog… ti aiuterò io a diventare anoressica pura… insieme riusciremo a raggiungere la nostra felicità e il nostro meritato posto al sole... puoi farti passare l'appetito occupandoti la giornata e bevendo molte robe calde come thé non zuccherato, minestrina light... naturalmente inizia gradatamente... inizia prima col dimezzare le porzioni poi ogni 2 settimane scali ancora… ti indirizzerò io! Sono appena uscita dalla clinica dove mi hanno ricoverata e ingrassata, perciò ankio devo ricominciare daccapo... ce la faremo.... mettiamocela tutta... per qualunque delucidazione sono a tua disposizione! [...]" Esistono molti blog e forum privati ai quali è possibile accedere solo previa iscrizione ed accettazione da parte del creatore del blog o del moderatore del forum. A questi si accede tramite il cosiddetto passa parola: trovandone uno e linkando poi sui blog presenti tra i link consigliati. Elemento distintivo che accomuna la maggior parte dei siti è la presenza di un diario alimentare nel quale le autrici annotano tutto ciò che hanno ingerito, le calorie di ciascun alimento e il totale delle calorie assunte nell’arco dell’intera giornata, tenendo conto anche dell’attività fisica praticata. “Una mela: 50 cal 43 Pesce: 70 cal Crackers con formaggino: 180 cal Ho bevuto la solita tisana anche se mi fa veramente skifo… però vabbé Mezz’ora di cyclette: 200 cal” L’anoressia e la bulimia vengono concepite come la Dea Ana e la Dea Mia e non è inusuale che i blogger, prevalentemente di sesso femminile, vi si rivolgano direttamente. “Ora ho tutto il tempo che desidero per dedicarmi soltanto a te… Perdonami in questi 9 mesi ti ho accantonata o ti ho messo in secondo piano.. Ti prometto che non accadrà più: ora sono solo ed unicamente tua.. Ti prego, mi riprendi con te, ANA?” All’interno di questi siti ci si sostiene in un percorso volto alla ricerca della perfezione, desiderosi di rispecchiare canoni estetici che richiedono di essere “magri da morire”. Si gioisce insieme dell’emaciazione del proprio corpo, del sentire le ossa che sporgono, perché vuol dire che si è raggiunto l’obiettivo – ossia la denutrizione – , dato che: “Quod me nutrit me destruit” ossia “Ciò che mi nutre, mi distrugge”. “Ho voglia di sentire le ossa del mio corpo ho voglia di accarezzarle voglio sentire ana vicino a me voglio essere quella che non sarò mai voglio pesare 38 kili e sarò felice…” E’ riscontrabile un altro importante elemento, ossia la compra-vendita di braccialetti che vanno ad attestare l’appartenenza e la condivisione della filosofia pro-Ana: costano dai 3 ai 20 dollari e sono rossi per chi soffre di anoressia e color porpora per chi soffre di bulimia. Nei blog sono inoltre spesso presenti video e sondaggi come i seguenti: Usate tagliafame? Sì 44 No Ci sto pensando Quanto vi sentite pro-Ana? Poco Abbastanza Molto Ci sto mettendo tutta me stessa Qual è la funzione principale alla quale assolvono i blog pro-Ana per coloro che li creano e vi partecipano? E’ possibile definire come all’interno dei siti pro-Ana i partecipanti cerchino un rinforzo alle proprie motivazioni. Un rinforzo che avviene traendo forza, mediante la condivisione con altri, delle proprie idee relative all’anoressia e alla bulimia come forma di innalzamento spirituale, come ideale di bellezza e perfezione verso cui tendere (Ladogana, 2006). I “thin commandments” Si condividono i medesimi comandamenti, definiti “Thin Commandments” i comandamenti per essere magra, qui di seguito riportati con traduzione a fianco: “Ana Commandments – Comandamenti Ana 1. If you aren't thin you aren't attractive – Se non sei magra non sei attraente 2. Being thin is more important than being healthy – Essere magre è più importante di essere sane 3. You must buy clothes, cut your hair, take laxatives, starve yourself, do anything to make yourself look thinner – Devi comprare vestiti, tagliarti i capelli, assumere lassativi, ridurre te stessa alla fame, fai ogni cosa che possa renderti più magra 4. Thou shall not eat without feeling guilty – Tu non puoi mangiare senza sentirti in colpa 5. Thou shall not eat fattening food without punishing oneself afterwards – Tu non puoi mangiare cibi che ingrassano senza in seguito punire te stessa 6. Thou shall count calories and restrict intake accordingly – Tu devi contare le calorie limitarne l’assorbimento di conseguenza 7. What the scale says is the most important thing – Quello che la bilancia dice è la cosa più importante 45 8. Losing weight is good/gaining weight is bad – Perdere peso è giusto, aumentare di peso è sbagliato 9. You can never be too thin – Non potrai mai essere troppo magra 10. Being thin and not eating are signs of true will power and success – Essere magri e non mangiare sono segni di vero potere e successo” Colpisce come la scelta lessicale sia attenta ed accurata, basti infatti osservare come in alcuni dei Comandamenti venga utilizzato invece che “You” il pronome personale “Thou”, d’uso antico e oggi utilizzato ancora nelle preghiere allo scopo di conferire solennità e sacralità a quanto espresso e assunto come valore. “Lettera da parte di Ana” Qui di seguito un estratto della “Letter from Ana” contenuta in numerosi blog pro-Ana. “Permettimi di presentarmi. I “medici” mi chiamano Anoressia. Anoressia Nervosa è il mio nome completo ma tu puoi chiamarmi Ana. Mi auguro che diventeremo grandi amiche. Ti ricordi cosa dicevano i tuoi insegnanti e i tuoi genitori? Che eri così matura, così intelligente e promettente? Non mi dirai che ti basta vero? Non ti può bastare, non ti deve bastare! Non sei perfetta, non fai abbastanza fatica!... Ti porterò a mangiare sempre meno e a fare sempre più esercizio. … Sono con te quando ti svegli al mattino e quando corri alla bilancia. Dipendi dalle sue cifre. Pregherai di pesare meno di ieri, della scorsa notte, di poche ore fa. Guardati allo specchio! Strappa via quel grasso schifoso! Sorridi solo quando vedi spuntare le ossa. … A nessuno importa di te. Sono l’unica che sta cercando di aiutarti. Lo so che a volte la sofferenza ti può sembrare insopportabile ma è per il tuo bene. … Svuoterò la tua testa da ogni preoccupazione tranne quella di contare le calorie. Sono la tua unica amica, l’unica di cui hai bisogno. Ma non devi dirlo a nessuno: se ti metterai contro di me, se racconterai a qualcuno di noi due, tutto l’inferno si libererà. Io ho creato questa sottile, perfetta bambina di successo! Senza di me non sei nulla. Non combattermi. Quando gli altri commentano, ignorali. Dimenticati di loro, dimenticati di chiunque provi a portarti via da me. Sono il tuo bene più grande. E lo sarò sempre. Con amore, 46 Ana.” Le icone pro-Ana All’interno dei blog è inoltre usuale trovare le “icone pro-Ana”, delle piccole immagini contenenti delle frasi che rappresentano dei motti sui quali si basa la filosofia pro-Ana. Alcuni esempi: La maggior parte dei blog è inoltre dotata di un indicatore di peso, il quale indica il percorso, inteso come perdita di chili, per raggiungere il peso ideale a partire dal peso reale. Alla base della cosiddetta “Thinspiration” è possibile individuare anche le immagini thinspo e le immagini fatspo. Le immagini thinspo, da thin “magro” ed inspiration “ispirazione”, dovrebbero incitare a resistere e desistere alla tentazione e al desiderio di mangiare, raffigurano spesso attrici e modelle magrissime, al limite della denutrizione che divengono icone ed esempi da seguire. Alcune immagini propongono invece fotografie di persone obese: queste immagini sono 47 dette reverse thinspo o anche fatspo e dovrebbero a loro volta stimolare le ragazze a non mangiare, a “continuare ad amare “Ana”, al fine di non divenire come i modelli proposti. IMMAGINI THINSPO 48 IMMAGINI FATSPO 49 Per quanto concerne la veste grafica dei blog, ossia il template, l’iconografia è varia ma riconducibile a pochi elementi. Ricorrono spesso immagini di farfalle, un insetto sentito come modello ispiratore per la sua leggerezza e forse per il suo percorso di vita: da bruco a crisalide a farfalla, proprio come le ragazze che soffrono di disturbi alimentari “costrette” dentro ad un corpo che non riconoscono e che vivono come una prigione con la speranza però di riuscire prima o poi ad incarnare l’ideale che rincorrono. Altrettanto spesso ricorrono immagini di fate e ballerine, piume e petali ed altri elementi che evocano leggerezza, purezza ed eleganza. Su alcuni blog si trovano inoltre immagini di tipo gotico, tombe, croci, ed immagini cosiddette “dark”: vengono veicolati sentimenti depressivi, un generale senso di oppressione, di solitudine e di forte dolore e le scelte grafiche di alcuni blog ne sono palesemente la riprova. E’ fondamentale sottolineare il ruolo ed il peso che la componente imitativa detiene nel mantenimento e nel rinforzo di pensieri ed idee legati ai DCA. Si tratta però di una componente imitativa caratterizzata da un profondo senso di acriticità che richiama quindi l’importanza di accurati e mirati programmi di prevenzione e formazione in grado di fornire degli strumenti che consentano la separazione tra sé ed il sintomo come ideale verso cui tendere. L’estrema pericolosità dei siti pro-Ana E’ fondamentale, all’interno del discorso sui siti pro-Ana, avere la consapevolezza del pericolo che questi rappresentano per gli adolescenti. Questi ultimi sono infatti a rischio rispetto ai messaggi veicolati all’interno dei blog in quanto non hanno ancora strutturato adeguati strumenti per farvi fronte criticamente e oltretutto sono soliti utilizzare molto internet anche come strumento di socializzazione e vivono una fase dello sviluppo caratterizzata da profonde trasformazioni somato-psichiche che rendono spesso difficoltosa l’accettazione del proprio corpo. Molti di coloro che si avvicinano per la prima volta a questi siti tendono a visitarli, esplorarli e poi a lasciare timidamente un commento. Il fatto di aver lasciato un messaggio li spronerà a cliccare nuovamente sui blog o forum visitati per visionare se sia stata o meno fornita una risposta. E’ un mondo di solitudine caratterizzato da profonda inquietudine quello in cui un adolescente per passare il tempo naviga in internet e si imbatte in un sito pro anoressia che lo attrae in quanto vi ritrova le proprie difficoltà, delle problematiche che sente vicine e che ha l’impressione che in quella “realtà virtuale” possano essere ascoltate ed accolte secondo una modalità non giudicante. 50 “Quando arrivavo in una di quelle discussioni che non portavano da nessuna parte, ma che evidentemente servivano, pensavo… quanta gente come me! Quante storie uguali! Ne leggevo una e dicevo: "io questa la devo conoscere", perché anch'io facevo quella cosa orrenda… Se ci penso ora realizzo che ero folle, folle e nient'altro …” Decide così di lasciare un segno, un segno della propria presenza ed esistenza sperando che qualcuno lo colga e vi dia una risposta. Viene così progressivamente e gradualmente calamitato in un mondo, quello dei siti pro-Ana e pro mia nei quali ci si sostiene a vicenda e per dimagrire e potersi finalmente piacere, dove vengono forniti semplici trucchi che porteranno presto ad essere felici. Non viene colta la drammaticità e la pericolosità della situazione e la necessità di parlarne e confrontarsi con adulti di riferimento che possano offrire un aiuto concreto e professionale. I creatori di questi siti inoltre non riescono a cogliere la responsabilità che hanno dato che pubblicano sul Web scritti, filmati ed immagini visionabili da chiunque suggerendo e diffondendo condotte alimentari altamente lesive. Non vi è la consapevolezza dell’importanza di assumersi la responsabilità e di essere critici anche rispetto ai modelli e agli stili di vita che si contribuisce a diffondere. Il corpo all’interno dei post dei blog pro-Ana Soffermiamoci su come viene veicolato il corpo all’interno dei post dei blog pro-Ana. Dall’analisi dei post contenuti nei blog pro-Ana emerge chiaramente come vi sia una netta distinzione, scissione tra corpo e mente. Il corpo è vissuto come una prigione che impedisce la libera espressione di sé, della propria anima. Ecco perché si cerca di modellare, scolpire, controllare il corpo. Vi è l’idea che “costruire” il proprio corpo possa equivalere a cambiare la propria vita. “…5 chili mi separano dalla felicità…” Si evidenzia il rifiuto del corpo femminile, sessuato ed emerge un forte desiderio di tornare a possedere un corpo infantile. Viene infatti attaccata la dimensione sessuata del corpo e quella generativa a favore di una immagine del corpo molto primitiva ed indifferenziata. 51 “Vorrei svegliarmi e trovarmi dentro un corpo piccolissimo… …riuscirò ad avere un corpicino fragile, ed Ana ne sarà la mamma.” Questo desiderio è individuabile anche facendo riferimento ad un nuovo “test” che consiste nel fare shopping in negozi per l’infanzia 0-12 e se si riesce ad indossare abiti da 0 a 6 anni vuol dire che si è raggiunto il peso concepito come ideale. In questa religione l’ideale del corpo magro si feticizza, diventa idolo. Il sacrificio morale e la spinta ascetica trovano così una loro compensazione in questa trasformazione del corpo in fortezza. 52 ANORESSIA-BULIMIA AL MASCHILE di Francesco Bergamin 53 L’anoressia nervosa, e con essa la sua variante bulimica, è stata da sempre considerata una patologia riguardante quasi esclusivamente le donne, a causa della preponderante incidenza nella popolazione femminile. Anche i criteri diagnostici sono stati finora incentrati sulla donna; basti pensare che uno dei più importanti sintomi della malattia è considerata l’alterazione del ciclo mestruale. Molti casi di anoressia maschile, quindi, non sono riconosciuti come tali o non vengono precocemente e preventivamente diagnosticati; l’incidenza della variante al maschile di questa patologia, pertanto, è ancora molto sottostimata. Secondo le più recenti indagini epidemiologiche il 5%-10% delle persone che soffrono di anoressia nervosa sono soggetti di sesso maschile. Se invece consideriamo il disturbo da alimentazione incontrollata (“Binge Eating Disorder”) ecco che la percentuale di popolazione maschile sale di molto (30% del totale) e quindi le differenze di genere si assottigliano. Se oggi iniziamo a riscontrare un incremento della domanda di cura al maschile, è perché questa premessa di genere è stata ridimensionata e quindi è diventato socialmente più “lecito” per un uomo chiedere aiuto. Non si tratta quindi propriamente di un incremento reale a livello maschile di questa patologia, ma piuttosto si può supporre che ci siano più uomini che richiedono aiuto alle istituzioni terapeutiche, venendo meno uno stereotipo di genere fortemente connotato. Tuttavia permane una certa difficoltà da parte degli uomini a richiedere un aiuto psicologico presso un’istituzione terapeutica, per una disposizione molto maschile a risolvere i problemi in modo autonomo, e per una maggiore difficoltà a mettersi in discussione attraverso una relazione di cura che preveda degli aspetti di dipendenza. La fascia di età interessata comprende soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, anche se l’esordio nei maschi avviene, di solito, più tardi rispetto al periodo puberale e non nella primissima adolescenza come spesso avviene per le donne, forse appunto perché il disturbo non è legato in questi casi ai tempi della maturazione sessuale femminile. Anche per i giovani maschi, come d’altronde accade per le femmine, riconoscersi nel proprio corpo naturale è un problema evolutivo complesso. A seguito dello sviluppo puberale il preadolescente maschio deve costruire una immagine mentale del nuovo corpo. Si tratta di riconoscere consapevolmente i cambiamenti avvenuti e di riconoscere le nuove emozioni prodotte dalla maturazione sessuale. Sembra che molti giovani ragazzi siano alle prese con la necessità di manipolare a volte violentemente il nuovo corpo. Le pratiche del piercing e del tatuaggio sono sempre più diffuse tra i giovani, come del resto è in crescita il fenomeno dei “cutters”, di quei giovani cioè che si praticano tagli superficiali sulla pelle. Anche il doping e l’assunzione di droghe prestazionali che pretendono di incrementare le capacità fisiche e psichiche perseguono l’obiettivo di imporre al corpo delle prestazioni 54 artificiali. Ed è diventato comune lavorare direttamente sul corpo per raggiungere gli obbiettivi imposti dalle mode e dai nuovi valori generazionali. E se per le ragazze l’obiettivo è una magrezza spesso esagerata, è un’istanza specifica del maschio quella di scolpire le masse muscolari, controllando il loro sviluppo e la morfologia complessiva. Questa declinazione al maschile di un corpo investito di un controllo e di un valore estremizzati per il soggetto prende il nome di “vigoressia”. Non si può parlare di un vero e proprio ideale di bellezza maschile, quanto piuttosto di un ideale di virilità, che si definisce attraverso lo specchio e lo sguardo severo dei coetanei. In alcuni casi può risultare scatenante, per quanto riguarda l’eziologia, l’incontro con l’altro sesso, che risulta essere per varie ragioni traumatico. La soluzione anoressica maschile può funzionare, allora, come “rimedio” a questo incontro. Sul versante femminile questa soluzione viene utilizzata spesso sotto forma di una domanda muta e disperata rivolta all’Altro, per metterlo alla prova con l’imperativo: “Amami a prescindere dal mio corpo, riconoscimi e desiderami come persona”, o per tenerlo a distanza, rifiutando, attraverso la negazione del proprio corpo, anche la sessualità. Sul versante maschile, al contrario, l’anoressia permette, secondo una logica distorta, l’incontro sessuale: in un certo senso disinibisce il soggetto come succede con l’uso di cocaina – e quindi in modo patologico – , e ristabilisce un alto valore di sé. Alcuni soggetti vivono infatti con euforia la fase anoressica e in questa si sentono di conseguenza facilitati nelle relazioni con l’altro sesso, perché hanno conferma del proprio valore nel riuscire a raggiungere e a personificare il proprio ideale estetico e virile. In altri casi, più gravi da un punto di vista psicopatologico, la spinta a dimagrire è interpretabile come un modo per mettere a freno una pulsione interna che è vissuta in modo persecutorio attraverso una forte iperattività e un controllo ossessivo. Sicuramente negli ultimi anni c’è stato un cambiamento in ciò che definisce l’identità maschile, e l’immagine corporea non è estranea a questo cambiamento. L’ideale estetico maschile ha subito profonde mutazioni ed è stato ultimamente iperinvestito e sopravvalutato, tanto da avvicinarlo a un modello femminile. Dobbiamo perciò riconoscere che il crescente culto del corpo maschile a livello di media, testimoniato dal proliferare delle riviste per uomini che valorizzano la forma fisica e la comparsa sul mercato di prodotti dietetici/dimagranti o di bellezza rivolti a un pubblico maschile, hanno prodotto e accentuato una focalizzazione eccessiva e distorta rispetto all’ideale estetico maschile. Fino ad assottigliare le differenze – anche a livello di espressione sintomatica – rispetto all’utilizzo che ne fa l’altra metà del cielo. Il corpo offre una possibilità di identificazione forte, immediata: controllarlo attraverso il cibo e un’intensa attività fisica può restituire un senso che si fatica a ritrovare altrove (per esempio nelle relazioni e nelle emozioni ad esse connesse che risultano molto più difficili da gestire). 55 Il corpo anche per l’uomo è diventato un canale comunicativo privilegiato con cui esprimere sicurezza o disagio tanto agli altri quanto a se stessi, dove trovare riscontro pratico di un senso di sé, termine unico di confronto per un narcisismo che chiude all’Altro, radicalizza l’assoluto autoreferenziale. L’aspetto fisico arriva ad assumere anche per l’uomo il valore di palcoscenico e banco di prova con cui misurarsi con gli altri ma soprattutto con un idea di sé, e delle aspettative ad essa connesse, connotata da un rigore estremo e da un perfezionismo spesso esasperato. Questo rapporto frustrante con l’ideale da parte del maschio contemporaneo rimanda ad aspetti narcisistici di inadeguatezza che riguardano la difficoltà, riscontrabile anche in altri ambiti – e sintomi – , ad accettarsi e a riconoscersi. Il corpo vissuto sempre in difetto rispetto a un ideale mortificante e raramente sazio, soddisfatto, viene sottoposto a un’ascesi spaventosa e a dei regimi insopportabili, e spesso il soggetto maschile reagisce con una perdita totale di questo controllo estremo rivelatosi impossibile. Assistiamo così a un viraggio verso abbuffate compulsive e una continua ed estrema attività motoria svolta con modalità frenetiche e volta a compensare l’eccesso calorico ingerito e i sensi di colpa ad esso connessi. Il risultato è un circolo vizioso, una vita centrata sul pensiero del cibo e del corpo, e dei rituali coatti svolti per controllarlo, connotata da una grande sofferenza che difficilmente raggiunge la possibilità simbolica/espressiva della parola, intrisa com’è di corporeità e concretezza. L’ansia, l’insicurezza, l’incapacità di tollerare la frustrazione trovano per l’uomo moderno un corpo-feticcio immediatamente disponibile su cui sfogare la propria rabbia (spesso i pazienti maschi riconoscono un aspetto autopunitivo nel tentativo di manipolazione del proprio corpo) o su cui trovare una facile compensazione (le abbuffate che arrivano a spegnere il desiderio e il sentire, mortificante, di ciò che non si può avere). Questi aspetti di rabbia narcisistica sono legati a un ideale ipertrofico e grandioso, irraggiungibile e demotivante per il soggetto maschile e determinano una bassa autostima e uno scarso livello di autoefficacia percepita. Tutto ciò più che una reazione positiva del soggetto produce una ripetizione acefala, ossessiva, che svuota il sintomo stesso della sua valenza simbolica originaria, per diventare, infine, abitudine rigida e necessaria, modus vivendi irrinunciabile, e pertanto non criticabile. I soggetti maschi che arrivano a rivolgersi a un’istituzione specialistica per richiedere un aiuto psicoterapico spesso sono portati e motivati da altri (genitori o fidanzate) e caratterizzati da profonda sfiducia nel tentativo che stanno compiendo e da vissuti di grande, inaccettabile vergogna per la propria condizione. Lo smascheramento di questa loro sofferenza può costituire di per se stesso un fatto traumatico e viene pertanto, da parte di questi soggetti, a lungo rimandato o evitato. 56 Grande isolamento affettivo, evitamento e un’idea grandiosa di sé che comporta dei risvolti frustranti e inibenti; il tutto spesso coperto da una maschera (falso sé) fatta di pseudo-adeguatezza e funzionalità; tutto questo non porta il soggetto a mettersi in relazione né con i suoi contenuti intrapsichici né, tantomeno, con quelli interpersonali, ma a creare un sistema autarchico e autoreferenziale che si illude di bastare a se stesso, ma che, fin da subito, mostra tutte le sue debolezze. Un sentimento profondo di disperazione e sofferenza si accompagna all’impossibilità di esprimerlo o di riconoscerlo. In questo ci sembra consistere la drammaticità della variante maschile dell’anoressiabulimia e la sfida rivolta alla clinica contemporanea dei disturbi alimentari: riconoscerne una specificità propria a partire dalla tecnica e dalla teoria sino ad oggi sviluppata sui soggetti femminili. 57 58 IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLE PATOLOGIE ALIMENTARI di Elena Bruzzone 59 Il disturbo alimentare costituisce una delle patologie più diffuse nell’attuale contesto socioculturale, suscitando continuamente l’attenzione dei mass-media. Un filone interpretativo dell’anoressia ne rintraccia le cause sociali a livello di condizionamento pervasivo operato dai media, che diffondono un’immagine ideale del corpo femminile come corpo magro – attraverso messaggi che evidenziano ed esaltano la “figura perfetta” – a cui le giovani anoressiche, accomunate da una fragilità profonda relativa alla propria identità, aderiscono restandone intrappolate. La cultura dell’immagine, catastrofica a volte nelle sue richieste, colpisce così frequentemente gli adolescenti, perché vivono un momento evolutivo in cui sono più sensibili all’approvazione e al riconoscimento da parte degli altri. Ma non va trascurato il fatto che, nella maggior parte dei casi, esiste un impegno familiare non adeguato a sostenerli nell’evoluzione dell’identità e, prima ancora, è venuta a mancare l’esperienza di un autentico sostegno affettivo. Nella società attuale infatti è prima di tutto la dimensione del desiderio e dell’amore ad essere cancellata a favore di quella del consumo. Vista l’enorme offerta di oggetti di godimento dell’epoca contemporanea, i ragazzi, in particolare, sono dei soggetti a rischio per tutte le cosiddette “patologie della dipendenza”, in cui un oggetto, una sostanza, diviene la soluzione illusoria alle loro difficoltà esistenziali. L’inganno della società capitalista diventa pertanto l’illusione che gli oggetti possano regalare la felicità: “Se hai quell’oggetto sei bello, felice, desiderabile, amabile,…”. Il benessere tende quindi a sopprimere la dimensione della mancanza, che è insita nel soggetto fin dalla nascita – e che tale deve rimanere per non creare degli squilibri irreparabili – attraverso un’offerta continua di beni di consumo. Il sistema del consumo e dell’identificazione di massa tende così ad annullare la differenza soggettiva omologandola in una falsa universalità. Alcuni sintomi specifici, come innanzitutto il rifiuto sintomatico del cibo, ma indubbiamente anche la distorsione della percezione dell’immagine corporea e l’ossessione del controllo del peso, troverebbero così il proprio terreno di coltura proprio nella cosiddetta “civiltà dell’immagine”, di cui il corpo magro della donna diviene l’effigie emblematica. Nella clinica dell’anoressia-bulimia spesso declinata come una clinica del disagio femminile, potevamo constatare che la famiglia – molto spesso la madre – continuava a tenere la figlia stretta in un abbraccio soffocante. Si parlava infatti di “madri tutte madri” che avevano fatto della figlia l’unico oggetto di investimento e che, quindi, non potevano separarsi da lei. La “madre tutta madre” è quella che ha sacrificato il codice femminile, il proprio essere donna, in favore della supremazia del codice materno, con le sue caratteristiche di accudimento e di sacrificalità nei confronti dei figli e della famiglia. 60 In questa logica, la figlia diventava l’oggetto del totale investimento da parte della madre che instaurava con lei un rapporto esclusivo, quasi simbiotico, spesso condividendo con la figlia ogni sua esperienza, all’interno di un rapporto caratterizzato da una forte identificazione reciproca. L’anoressia rappresentava perciò una risposta del soggetto all’Altro materno, un tentativo di trovare uno spazio di separazione possibile, un modo per sottrarsi alla “divorazione” materna, depotenziandone il “morso” attraverso il rifiuto più ostinato, a partire dal cibo. Nella società attuale le nuove costellazioni familiari si caratterizzano per un nuovo assetto dei ruoli e delle funzioni genitoriali. Nel clima di omologazione che caratterizza le società postmoderne, si è sviluppata un’indifferenziazione dei ruoli, dei comportamenti sessuali e delle funzioni, comprese quelle materne e paterne, soprattutto per quanto riguarda le donne, che ricercano la loro completezza non più, o non solo, nel rapporto simbiotico con il figlio, ma attraverso l’assunzione di modelli che fino ad ora erano appartenuti alla sfera maschile. Oggi, la madre è normalmente una donna che lavora, presente sulla scena sociale non soltanto come madre, ma impegnata in realizzazioni professionali e considera l’indipendenza uno dei valori fondamentali come donna spingendo la figlia all’autonomia e al successo sociale molto precocemente. Per il raggiungimento di questi ideali circonda la figlia di proposte educative varie che possano garantirle molto presto competenza e competizione sociale. I modelli educativi e i cambiamenti delle relazioni familiari influenzano fortemente la simbolizzazione della femminilità, soprattutto nell’adolescenza, quando la figlia cerca nella madre una conferma della propria crescita e una legittimazione della propria femminilità. Il tema della relazione madre-figlia è stato senz’altro uno dei temi più investigati nell’ambito dei disturbi alimentari ma ha certamente richiamato l’attenzione anche sul ruolo del padre, spesso carente nell’esercizio di una funzione separativa nei confronti della diade madre-bambino. Da qui l’esigenza di un lavoro con le famiglie che tenga conto dell’importanza del ruolo e della funzione che entrambe le figure genitoriali hanno nell’ambito delle patologie alimentari. Il trattamento della famiglia Offrire ai genitori uno spazio consultoriale pensato per accogliere le loro problematiche diventa essenziale nella cura con soggetti anoressici-bulimici. L’obiettivo di questa prima accoglienza è dare avvio ad una serie di colloqui preliminari alla messa a fuoco della domanda. È in realtà un vero e proprio lavoro di costruzione della domanda che, come tale, va distinta dalla semplice richiesta iniziale di avere delle informazioni o un generico aiuto. Se, infatti, dal lato 61 dei figli siamo sovente in presenza di un sintomo senza domanda, dal lato delle famiglie siamo in presenza di una domanda senza sintomo. Il sintomo si colloca, infatti, nel figlio che soffre del disturbo alimentare. In questo senso, i genitori sono portatori di una domanda atipica, impropria in quanto desoggettivata, perché mira a normalizzare un terzo, il figlio, che con la propria patologia alimentare rompe il quadro di un equilibrio familiare in verità spesso già compromesso7. I genitori chiedono di avere sostegno, informazioni, indicazioni su come comportarsi con i propri figli, fino a quel momento «perfetti», e la loro richiesta è prevalentemente dettata dalla preoccupazione riguardo la salute fisica e dal bisogno di controllare e intervenire sul piano dell’alimentazione8. Spesso, il soggetto anoressico si fa portavoce, senza parole, di un malessere interno alla famiglia che altrimenti non avrebbe mai potuto essere affrontato ed è pertanto l’indice e, allo stesso tempo, un tentativo di soluzione di un assetto familiare disfunzionale9. Sarebbe tuttavia semplicistico dire che è la famiglia ad essere malata, sarebbe come accettare che è un tutt’uno, senza le particolarità e la specificità di ciascuno. Il trattamento della famiglia implica la presa di coscienza, da parte del genitore, della funzione che il disturbo alimentare viene ad assolvere nell’ambito delle relazioni familiari. Il passo successivo è cogliere il grado di implicazione soggettiva nella costruzione di questo disagio. Fin dai primi colloqui sarà quindi importante introdurre una divaricazione tra l’aspetto immaginario della richiesta d’aiuto, rappresentato ad esempio dalle aspettative riposte dai genitori nell’”esperto dei disturbi alimentari”, e l’aspetto simbolico della domanda, che riguarda invece la verità della loro storia personale e familiare. Si tratta, dunque, di avviare un’operazione di rettifica della domanda del genitore e, per questa ragione – sebbene un contenimento pedagogico, all’inizio o in fasi particolarmente gravi e drammatiche, sia necessario nel lavoro coi genitori – la logica del trattamento non deve rispondere ad un criterio rieducativo o correttivo del sistema familiare, quanto a fornire degli strumenti che possano consentire ai genitori di minimizzare il rischio di comportamenti collusivi che innescano la ripetizione e il consolidamento del disturbo alimentare. Gli spazi separati 7 Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998. 8 Cfr. De Marchi M., “Il rapporto con i genitori”, in ABA News, Anno III, Aprile-Giugno 1994, n°7, pag. 6. 9 Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998. 62 La scelta di far incontrare separatamente genitori e figli con operatori differenti, in tempi differenti, diventa necessaria per evitare che l’ascolto degli uni vada a sovrapporsi a quello degli altri. Il setting separato ha la funzione di sancire simbolicamente un primo taglio e una prima divisione. L’obiettivo di questa separazione è di accogliere il nucleo familiare, restituendo però ad ogni componente la singolarità della sua parola. Evitare qualunque tipo di sovrapposizione reciproca sottolinea il valore dell’intimità della cura stessa che è tuttavia coordinata dal lavoro d’équipe degli operatori. Tale scelta metodologica permette ai figli di non vivere la presenza del genitore come una presenza intrusiva, che replicherebbe ulteriormente lo stile delle relazioni familiari. Uno “spazio genitori” ben separato da quello già offerto ai figli è quindi importante per interrompere l’invischiamento che rischia di riproporsi anche all’interno dello spazio deputato alla cura. Lo spazio separato va, quindi, nella direzione di delineare la dimensione di una separazione e di un lavoro di simbolizzazione all’interno di questi sistemi familiari in cui i ruoli e gli ambiti di ciascuno sono spesso sovrapposti, confusi o non definiti10. L’apertura dello spazio dedicato alle famiglie ha un considerevole effetto di alleggerimento della tensione all’interno del nucleo familiare, non soltanto perché viene offerto un luogo dove le ansie del genitore possono essere espresse ed elaborate, ma perché ben presto i figli sono confortati dal fatto che i genitori stessi siano riusciti a costruirsi un luogo per la propria parola11. Nella cura con soggetti anoressico-bulimici il coinvolgimento dei genitori è pertanto spesso decisivo per il successo o il fallimento della terapia; non è infatti pensabile una terapia che non preveda il trattamento delle dinamiche familiari irrisolte e spesso a fondamento del disagio alimentare. Tuttavia, senza un lavoro preliminare sulla loro domanda, difficilmente il lavoro con i genitori potrà incidere nella cura del disordine alimentare dei figli. 10 Cfr. Bossola E., “Un interrogativo sul padre”, in Menghi C., Pace P. (a cura di), Anoressia e bulimia: il trattamento della famiglia. L’esperienza clinica dell’ABA, Franco Angeli, Milano 1999. 11 Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998. 63 SUL FRONTE DEL CORPO 64 di Luisa Stagi Perché oggi il corpo ha assunto questa importanza? Perché passiamo così tanto tempo a curarlo, colorarlo, depilarlo, gonfiarlo in certi punti sgonfiarlo in altri, lisciarlo, tonificarlo? Ci basta dire: perché è la moda che lo impone o c’è qualcosa di più? Che cosa rappresenta realmente oggi il corpo? Spesso si sente dire che il corpo magro è il corpo alla moda, poiché essa detta certi canoni e che ciò è anche una delle cause del proliferare dei disturbi alimentari. La riflessione che invece vorremmo sviluppare nell’incontro vuole ampliare un po’ il discorso. Certamente l’idea di bello, di sano, di normale - o anche di buono - deriva da un gusto che è prodotto culturalmente e che varia costantemente a seconda delle epoche storiche; per esempio, se scorriamo le immagini di donne famose in diversi momenti del secolo scorso: da Marleen Dietrich a Marylin Monroe, per arrivare a icone più recenti, vedremo come il modello di bellezza che loro 65 hanno rappresentato era fortemente legato al ruolo femminile che il quel momento dominava socialmente e come le forme, e si intende sottolineare “conseguentemente” la moda, traducano poi questo in “bellezza”. Proprio per questo ci si riferisce al corpo come ad un “testo”, una superficie dove rimane scritto tutto ciò che noi siamo, vorremmo essere o apparire, dove mettiamo a disposizione i codici di come verremo “riconosciuti” dagli altri e allo stesso modo “decodifichiamo” gli altri: quando incontriamo qualcuno la sua forma, i suoi abiti…i suoi segni, ci danno delle informazioni su di lui anche se non lo conosciamo e questa decodifica viene operata costantemente, spesso anche incosapevolmente. Si pensi a quanto questo è evidente nelle popolazioni primitive, dove le marcature corporee (tatuaggi, perforazioni ai lobi o alle labbra, collari e quant’altro) sono sempre servite per segnare gruppi d appartenenza, riti religiosi o semplicemente per abbellire. Sul corpo vanno a finire e si rendono evidenti tutte le prescrizioni culturali, le regole e le aspettative, e per questo anche i disagi di una cultura. “Incorporazione” significa proprio che tutto quello che ci circonda diventa parte di noi, del nostro corpo, dei nostri gesti: persino il rossore di un viso, che potremmo pensare essere una reazione “naturale”, ha invece a che fare con la cultura e con le aspettative (una donna negli anni 50’ arrossiva per motivi diversi da una donna di oggi: questo è l’esempio di come le aspettative culturali diventano corpo, natura). La pelle è il confine, il limite di questo lavoro di costruzione e di evidenziazione del sé. In francese è efficace il termine “espeausition” che unisce appunto la parola pelle all’idea dell’esposizione della fotografia, come viene “impressa” l’immagine nella pellicola, così sulla pelle si rende evidente l’identità, che quindi poi la “espone”. Se questo è sempre stato vero in tutte le epoche storiche e in un tutte le società, mai come oggi assume un valore ancora più forte e significativo. Perché oggi utilizziamo così tanto il corpo per dire chi siamo, per comunicare il nostro disagio o per rappresentarci al mondo? La risposta è molto semplice: perché non abbiamo più null’altro di certo che il nostro corpo. In un mondo in cui non posso più controllare nulla della mia vita (il lavoro, la famiglia, l’ambiente sono ambiti costantemente a rischio), in cui un cibo può avvelenarmi, un disastro ambientale annientarmi o un attentato spazzarmi via in un momento, il mio modo di vivere diventa più complicato, più instabile e provvisorio. Sento che non posso in nessun modo oppormi a queste forze, ma posso nel mio piccolo provare a controllare il mio corpo. Il corpo rimane l’unico terreno certo, affidabile su cui posso incidere: se faccio una dieta il corpo si riduce, se vado in palestra si gonfia, se mi tatuo questo sarà per sempre. In tutti gli altri ambiti, invece, non conosco gli esiti delle mie azioni: se prendo una 66 laurea non è detto che ottenga il mio lavoro, se sposo una persona non è detto che sia per sempre, se faccio un mutuo non so se manterranno le stesse regole e così via.… Il corpo è anche il territorio in cui si rendono evidenti i disagi che questa incertezza genera: i disturbi del comportamento alimentare sono state le prime forme - le più note - di utilizzo del corpo per esprimere il proprio malessere ed hanno riguardato, inizialmente, soprattutto le giovani donne. Oggi si sono diffusi in modo epidemico, hanno mutato forma e riguardano sempre più persone: l’anoressia è entrata nel linguaggio, è diventata una malattia sociale che significa “controllare” le emozioni, i sentimenti le implicazioni, oltre che il cibo. Si è trasferita nei rapporti tra le persone, nell’affettività nei consumi, nell’atteggiamento relazionale con il mondo. Non ci fidiamo e quindi ci chiudiamo, non rischiamo, cerchiamo solo disperatamente di difenderci da soli più che possiamo. Non solo, il corpo è uno dei modi che abbiamo per sentirci esistere: il dolore, sembra paradossale, ci fa sentire di “esserci”. Il corpo viene usato per ricercarne i confini, i limiti e per riprendere il contatto con la sua fisicità, con la realtà. Condotte a rischio, abuso di sostanze, abbuffate, autolesionismo non sono solo metodi per ottenere sollievo dalla tensione, ma anche per recuperare la percezione di sé, dei propri limiti e della presenza identitaria. Si tratta di una ricerca continua, disperata, affamata di sostegni e di riferimenti, attraverso un corpo “senza rete”, di cui ognuno ha la libertà e la responsabilità di gestione. Senza rete perché il contesto non fornisce punti di riferimento esterni, anzi ognuno è solo davanti alle sue scelte; l’ambiente è mutevole e non permette ancoramenti. L’incertezza e il rischio generano una serie di comportamenti difensivi che passano attraverso il corpo e il cibo. Se i più giovani hanno disturbi mutanti e le donne forme di bulimia multicompulsiva, gli uomini sono maggiormente legati alla ricerca di controllo. L’ortoressia per il cibo, la vigoressia e la dipendenza sportiva, sono fenomeni in grande espansione, che sembrano riguardare maggiormente i maschi adulti (un po’ più giovane la fascia di età interessata dalla vigoressia). È una lotta complessa, ma il discorso sembra suggerire che il corpo è il territorio idoneo per questa partita, perché ha assunto le stesse caratteristiche dell’ambiente circostante: è senza confini, senza più limiti è mutante anch’esso. È proprio la liquidità contemporanea, la sovrabbondanza - e quindi l’insignificanza dei messaggi e delle informazioni a spingere alla ricerca di codici e simboli alternativi a quelli verbali. Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore. In un sistema in cui 67 si è persa la possibilità di conoscere la realizzabilità e i possibili esiti delle proprie azioni, il corpo rimane l’unico materiale certo, permanente, ma anche sensibile all’agire del singolo. Non a caso le pratiche corporee sono anche state definite “sostegni identitari”; ciò non solo perché “il disegnare” il corpo consente di operare soggettività, ma anche perché tutte queste azioni sul corpo passano attraverso un dolore che ha valenze liberatorie, e proprio attraverso il dominio del corpo si riescono a ritrovare autenticità e senso rispetto alla propria esistenza. Molte delle pratiche di modificazione corporea, come ad esempio l’autolesionismo, agiscono sulla pelle in questo modo: se il corpo è una “materia di identità”, agire su di esso significa modificare la prospettiva, la natura del proprio rapporto con il mondo. La pelle rappresenta perciò un’inesauribile risorsa per fabbricare l’identità, non è un caso che ad essere più interessati a queste pratiche siano gli adolescenti e le donne perché più delle altre categorie hanno bisogno di “lavorare sul senso e sul controllo”. Si parla di “chirurgia del senso” riferendosi alla pratica degli adolescenti riguardo alle modificazioni corporee, proprio per sottolineare l’importanza, in questa fase evolutiva, di poter incidere sulla propria identità attraverso il corpo, in una fase quindi di cambiamento fisico in cui si rende ancora più evidente il peso di dover gestire il proprio destino. La lotta tra controllo e perdita di controllo è continua, assume la forma di un incessante passaggio da uno stato all’altro: tra forme di compulsività e ricerca di surrogati del controllo, per questo tali disturbi vengono definiti “mutanti”. La compulsività si esprime anche nello shopping, nel sesso, nell’abuso di alcool e di sostanze; la ricerca di controllo, invece, viene spesso ricercata attraverso condotte cosiddette “a rischio”. La malattia, in questa lotta, può diventare un modo per dare un nome a un disagio che non si sa riconoscere e confinare: certi comportamenti, allora, vengono estremizzati, ma gli altri permangono latenti, magari in forme non patologiche. Su un immaginario continuum di disagi legati al corpo e al cibo si possono collocare, in varie posizioni, tutte le altre pratiche: l’uso di sostanze psicotrope normalizzanti, la chirurgia estetica, il body building da un lato, le multiformi varianti dell’ortoressia dall’altro. Si può infatti affermare che malattie corrispondano alla punta dell’iceberg di comportamenti “limite”, ma ampliamente diffusi e declinati in molteplici varianti come pratiche corporee. Per tutti questi motivi è sempre più necessario, nello studio e nella cura di questi fenomeni, utilizzare insieme e in modo complementare diversi approcci disciplinari. Non si possono considerare di volta in volta solo gli aspetti psicologici o quelli medici o quelli sociali: è necessario pensare, ed accettare, che questi livelli siano ormai interdipendenti e reciprocamente condizionanti. 68 69 BIBLIOGRAFIA Andrea, Beautiful, No Reply, Milano 2008 L. Baglioni, M. Recalcati (a cura di), La domanda impossibile. Dai primi colloqui all’entrata nel gruppo, FrancoAngeli, Milano 1995 M. Barbuto (a cura di) La cura nei gruppi ABA. Elementi di teoria e di clinica, FrancoAngeli, Milano 1997 M. Barbuto, P. Pace, Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressico-bulimici, in M. 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