In FormAzione
Indicazioni in materia di comunicazione sociale sui Disturbi del
Comportamento Alimentare e dell’Immagine Corporea
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INDICE
INTRODUZIONE
di Maria
Barbuto……………………….………………………………………………………………………
…….…...…..7
LA COMUNICAZIONE SOCIALMENTE UTILE
di
Fabiola
De
Clercq
e
Riva……………………………………………………………….…………….……11
Marco
I DISTURBI ALIMENTARI: COSA SONO?
di Dora
Aliprandi……………….…………………………………………………………………………
………….……17
DCA ED ETA’ DELLO SVILUPPO
di Valentina
Calcaterra…………………………………………………………………………………………
….…....27
TUTTO O NIENTE. LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSIA-BULIMIA
CONTEMPORANEA
di Maria
Barbuto……………………………………………………………………………………………
……….….…33
I SITI WEB PRO ANORESSIA
di Isabella
Usardi……………………………………………………………………………………………..
…..…….....41
ANORESSIA-BULIMIA AL MASCHILE
4
di Francesco
Bergamin…………..…………………………………………………………………….………….
……..53
IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLE PATOLOGIE ALIMENTARI
di Elena
Bruzzone…………………………………………………………………………………………….
…………...59
SUL FRONTE DEL CORPO
di Luisa
Stagi………………………………………………………………………………………………
…..…………….65
BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………………
………………………….71
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AUTORI
Maria Barbuto Psicoterapeuta, Psicoanalista. Membro della Direzione Scientifica dell’ABA e
Responsabile centro ABA di Milano. Docente presso L’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali
(ICLES). Tutor presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano.
Fabiola De Clercq Fondatrice e Presidente dell’ABA, Associazione per lo studio e la ricerca
sull'anoressia, la bulimia e i disordini alimentari, dal 1990. Direttore Responsabile di ABA News.
Direttore di collana edita da Franco Angeli.
Marco Riva Laureato in medicina e specialista in psichiatria e psicoterapia. Coordinatore del Centro
per la ricerca e la terapia dell’ansia e della depressione e dell’Ambulatorio di Psiconcologia
dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Psichiatra e Psicoterapeuta presso lo “Studio 12” e l’ABA
di Milano.
Dora Aliprandi Psicologa clinica presso l’ABA di Milano. Specializzanda in Psicoanalisi della
Relazione (SIPRE). Master di Secondo Livello in Mediazione conseguito presso l’Università
Cattolica di Milano.
Valentina Calcaterra Psicologa Clinica presso l’ABA di Milano. Specializzanda presso l’Istituto di
Ricerca di Psicoanalisi Applicata (IRPA).
Isabella Usardi Laureata in Psicologia Clinico-Dinamica con la tesi dal titolo: “Corpo, mass media
e disturbi del comportamento alimentare: una prospettiva psico-sociale” . Attività di tirocinio presso
la Sede ABA di Milano e di Verona.
Francesco Bergamin Psicologo Clinico. Psicoterapeuta presso l’ABA e l’ANFFAS di Milano.
Specializzato in Psicoterapia Breve Integrata dell’adolescente e dell’adulto presso l’ISERDIP del
prof. Zapparoli.
Elena Bruzzone Psicologa. Specializzazione a indirizzo Clinico e di Comunità presso l’Università
degli studi Bicocca di Milano. Attività di tirocinio presso la Sede ABA di Milano.
Luisa Stagi Docente di Sociologia dei processi culturali e Ricercatrice presso la Facoltà di Scienze
della formazione dell’Università degli Studi di Genova. Attività di ricerca sociale e valutativa, in
particolare di metodologia della ricerca e di problematiche giovanili.
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INTRODUZIONE
di Maria Barbuto
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I disturbi alimentari, spesso accompagnati da disturbi dell’immagine corporea, quali la
dismorfofobia (fobia che nasce da una visione distorta che si ha del proprio aspetto esteriore,
causata da un'eccessiva preoccupazione per l’immagine del corpo), sono un sintomo sociale1,
espressione radicalizzata di un disagio specifico, prodotto in primis nelle società del benessere, ma
anche un problema politico nel senso più ampio ed alto del termine.
Queste patologie hanno in comune fattori di rischio modificabili e di diffusione fortemente
influenzata e condizionata dal contesto sociale, dai condizionamenti del mercato e dalle politiche
commerciali, oltre che dai comportamenti individuali2.
I disturbi alimentari riguardano tutte le fasce d’età. L’informazione e la comunicazione
(commerciale e non) su tali disagi, veicolate attraverso i mezzi di informazione on e off line, non
rispondono sempre ai requisiti minimi di Comunicazione Sociale che consistono nel poggiare le
proprie scelte comunicative su basi tecnico-comunicazionali e scientifiche, in special modo
riguardo a tematiche come quelle dei disturbi alimentari che toccano aree inerenti la salute e la
prevenzione3. La comunicazione socialmente responsabile è tale se efficace e la misura
dell’efficacia è data dal contributo reale alla risoluzione dei problemi che assumono una forte
rilevanza sociale, come nel caso dei disturbi alimentari.
Dall’analisi dei contenuti di articoli di stampa e internet emerge un uso improprio di
immagini, concetti e termini, dovuta alla difficoltà di accedere a fonti informative autorevoli. Esiste
uno scollamento tra il mondo della comunicazione e chi si occupa professionalmente di studio,
ricerca e cura sui disturbi alimentari.
Inoltre, dalle Rassegne Stampa emerge che la popolazione italiana è passata da una totale
disinformazione da parte dei Mass Media, che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni, ad un
massiccio bombardamento allarmistico, scioccante, sui disturbi alimentari. Sono per lo più le pagine
di cronaca nera a parlarne, propagandando i casi di morte dovuti all’anoressia.
La componente culturale, estetica e mediatica è una con-causa ambientale di un disagio
clinico- psichiatrico che affonda le sue radici nella storia individuale delle persone che soffrono di
disturbi alimentari.
Le informazioni, i contenuti, le immagini che riguardano i disturbi alimentari e
dell’immagine corporea, veicolati attraverso i mezzi di comunicazione on e off line rappresentano
un fattore di rischio, ovvero un fattore in grado di aumentare la probabilità che questa sindrome si
verifichi e si moltiplichi.
1
Protocollo d’Intesa Ministero della Salute e Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, 19/09/ 2007.
Manifesto Nazionale di autoregolamentazione della Moda italiana contro l’anoressia. Ministero per le Politiche
Giovanili e le Attività Sportive, Camera Nazionale della Moda Italiana , Alta Roma –22/12/2006.
3
Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale44ª edizione, in vigore dal 21 gennaio 2008.
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La riduzione del fattore di rischio, attraverso un aggiornamento della comunicazione
mediatica, può influenzare e condizionare in positivo il contesto sociale e, di conseguenza, anche i
comportamenti individuali.
I Media rappresentano uno strumento fondamentale per elevare il livello di informazione
sui disturbi alimentari in tutto il territorio italiano, con particolare riferimento ad internet quale
strumento prediletto dai giovanissimi. La maggior parte delle persone che contattano strutture
specializzate per avere informazioni hanno effettuato ricerche su internet, molte di queste
denunciano le difficoltà di accedere facilmente alle informazioni ricercate e denunciano la facilità
con cui si incappa in siti pro ana4 durante la navigazione finalizzata alla raccolta di dati e di
suggerimenti.
Per questo motivo, oltre alla scuola e alla famiglia, occorre rivolgere attività di
informazione e di sensibilizzazione ad operatori del settore della comunicazione, cioè i
giornalisti (TV, Stampa, Internet, Radio), affinché siano culturalmente ben orientati a trattare
contenuti e problematiche inerenti ai disordini alimentari e dell’immagine corporea.
Questo lavoro è stato realizzato nell'ambito del Progetto Nazionale “Le buone pratiche di
cura e la prevenzione sociale nei Disturbi del comportamento alimentare” promosso dal Ministero
della Salute, del Lavoro e delle Politiche sociali e dal Ministro della Gioventù nell’ambito del
Protocollo di intesa “Guadagnare Salute”. Lo scopo specifico di questa dispensa informativa è
quello di offrire alcune indicazioni utili a coinvolgere gli operatori del settore della Comunicazione
non solo con lo scopo di ridurre i fattori di rischio e la probabilità di diffusione della malattia, ma
anche con l’intento di trasformare gli stessi fattori di rischio in fattori preventivi, poiché soltanto
favorendo una comunicazione socialmente responsabile si contribuisce a ridurre un problema di
rilevanza sociale. L’obiettivo è, dunque, quello di informare e sensibilizzare gli operatori
dell’informazione sul tema dei DCA e fornire loro indicazioni e conoscenze corrette e appropriate
in modo da aiutarli a veicolare messaggi più adeguati.
In questo compito, il lavoro del clinico - orientato scientificamente - incontra quello del
comunicatore proprio nell’intento di promuovere, attraverso il valore della responsabilità etica, una
buona qualità delle informazioni.
Nell’intento di fornire una lettura di questi disagi che tenga conto delle implicazioni
relazionali e affettivo-emotive, con lo scopo di promuovere un approccio integrato e flessibile,
abbiamo ritenuto opportuno articolare i contenuti secondo i seguenti parametri:
-
Mostrare la rilevanza dei dati statistici che riguardano i DCA.
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Ricerca sul fenomeno pro ana, svolta dal PASM2 dell’Asl di Reggio Emilia con la supervisione del prof. Umberto
Zizzoli di Giovannini Agostino, ricercatore presso Asl Reggio Emilia.
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-
Focalizzare alcune aree di competenza e alcuni concetti chiave su cui si basa la logica di
tali disturbi.
-
Fornire una definizione generale del quadro dei DCA nelle loro varie forme: anoressia,
bulimia e obesità psicogena.
-
Mettere in relazione il disturbo alimentare con altre forme di dipendenza contemporanee.
-
Valutare l’incidenza dei DCA nelle diverse fasce di età (infanzia, adolescenza, età
adulta) e nell’ambito della diversa identità sessuale.
-
Sottolineare l’importanza e l’influenza del ruolo e del trattamento della famiglia.
-
Mostrare la rilevanza clinica dei DCA nel suo legame con il discorso sociale e il mondo
dei media.
-
Riportare alcuni dati sui siti pro-anoressia e pro-bulimia con lo scopo di evidenziare la
portata, gli effetti, i rischi che questi siti possono avere sui visitatori.
-
Valorizzare il contributo della sociologia per una lettura aggiornata e integrata dei DCA.
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LA COMUNICAZIONE SOCIALMENTE UTILE
di Fabiola De Clercq e Marco Riva
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La comunicazione socialmente utile tratta temi di pubblica utilità con l’obiettivo di
modificare, disincentivare comportamenti negativi o dannosi per la collettività o per se stessi,
nonché per diffondere benessere ed eventualmente proporre soluzioni a disagi sociali. L’uso che se
ne fa è considerato uno strumento di un processo etico efficace per l’evoluzione della capacità di
scegliere, ossia di ragionare.
La comunicazione odierna, strumento per la diffusione capillare delle informazioni, occupa
infatti un ruolo rilevante nelle nostre scelte personali come nella gestione dei rapporti
interpersonali. Il suo ruolo ha esiti pragmatici: è in grado di guidarci nei nostri comportamenti, nei
pensieri e nelle vicende sociali ed economiche, arrivando a volte a modificare realmente gli
atteggiamenti degli utenti.
In quest’ottica, risulta estremamente delicato elaborare informazioni su temi delicati quali i
disturbi del comportamento alimentare: l’anoressia e la bulimia sono malattie gravi, che hanno
radici profonde nella vita delle persone. Malattie dell’amore si può dire, che richiedono un
trattamento lungo e specialistico. Nelle cause di questo disagio troviamo traumi, lutti, abusi
sessuali.
L’esordio consiste spesso in una banale dieta, una restrizione alimentare che si trasforma in
altro, per vite intere. Il controllo alimentare diventa ingovernabile, riduce gli affetti: nella solitudine
e nella diffidenza nei confronti della vita stessa queste persone si isolano negando la patologia e il
bisogno di cure. Sono ormai anche i bambini, gli uomini e donne mature a esserne le vittime.
Il professionista della comunicazione deve pertanto mostrare estrema prudenza e cautela
nel trattamento di tali concetti, considerando come utente anche chi è coinvolto direttamente in
questi disagi.
Egli deve innanzitutto conoscere le cause e gli effetti delle questioni trattate, comprendere
quali siano le informazioni prioritarie da diffondere, analizzare i segmenti di pubblico a cui si
rivolge, e solo in seguito produrre un’informazione che sia chiara ma attenta.
Allo stesso modo la pubblicità sociale dovrà adattarsi ad un codice di comunicazione
specifico a seconda del suo contenuto e del suo target. Una comunicazione disattenta, superficiale
può infatti essere nel migliore dei casi ignorata piuttosto che affrontata, ma anche produrre effetti
negativi.
Le informazioni, i contenuti, le immagini che riguardano i disturbi alimentari e l’immagine
corporea da essi colpita, veicolati attraverso i mezzi di comunicazione off e on-line rappresentano
un fattore di rischio in quanto possono essere in grado di aumentare la probabilità che un
determinato evento-malattia si verifichi realmente. La comunicazione che a tutti i costi vuole
stupire invece che informare costruttivamente si dimostra indifferente alle conseguenze che può
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realmente comportare. E ignora forse che stupire e stupidus condividono la stessa radice. Il rischio
che l’informazione non si assume ma crea è quello di produrre e diffondere modelli negativi ma
perversamente seduttivi fruibili dal lettore adolescente o fragile e privo di una critica specifica ed
evoluta.
Per questo motivo gli operatori del settore della comunicazione devono essere
culturalmente attrezzati. Se, infatti, il mezzo di informazione è il messaggio stesso, la
comunicazione è il comunicatore. Le parole dette durante una trasmissione radio, televisiva, scritte
su un giornale o via internet possono infatti promuovere dinamiche ignote e incontrollabili anche
senza volerlo. Pertanto, ogni comunicatore si deve ritenere responsabile del messaggio che invia,
soprattutto in relazione a argomenti complessi quali i Disturbi del Comportamento Alimentare
(DCA).
I canali che diffondono l’informazione oggi sono molteplici (la radio, la televisione, internet
con strumenti come facebook, ecc..), così come sono molteplici i target di riferimento. L’utente
odierno riceve l’informazione e la accoglie come una legge, usandola spesso come un farmaco
senza prendersi la cura di leggere le istruzioni. In questa logica di lettura senza filtri risulta quindi
ancora più delicato e complesso veicolare la comunicazione off e on-line.
L’anoressia-bulimia è una malattia mentale, ma spesso viene intesa più che altro come un
capriccio nei confronti del cibo, una questione estetica.
Nonostante l’estrema diffusione di disturbi legati al comportamento alimentare nella società
moderna, questo tipo di malattia non viene ancora sufficientemente inquadrata nell’immaginario
collettivo, né percepita come grave. E’ necessario avere la consapevolezza del disagio psicologico
implicito, di cui anoressia e bulimia sono l’effetto, la punta dell’iceberg. L’anoressia e la bulimia
sono i sintomi di un disagio psicologico che oggi si declinano sotto la definizione delle dipendenze.
E’ l’elaborazione delle cause che permetterà una guarigione.
Se ci fosse una migliore “cultura della malattia psicologica” si avrebbe lo stesso pudore che
si ha nei confronti di malattie socialmente riconosciute e accettate quali il cancro o l’Alzheimer.
Questo tipo di disturbi, infatti, sono ad oggi ancora oggetto di esibizionismo mediatico.
Il soggetto stesso colpito da queste patologie non è ancora totalmente consapevole del fatto
che si tratti di qualcosa di davvero grave, e continua nel suo comportamento ignaro dei rischi che
corre.
Le immagini che vengono proposte dai vari strumenti di comunicazione sono anch’esse
focus potenti. Linguaggi universali che mostrano realtà spesso crude, senza veli, che ispirano chi li
guarda in misura più virulenta rispetto all’uso delle parole.
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Tutto ciò che è immagine è informazione e alcuni tipi di immagini possono innescare delle
devastazioni personali. Sarebbe forse necessaria una più forte monitorizzazione degli spot tv e delle
campagne pubblicitarie, ciò che spesso vediamo sullo schermo, è un inno a standard di bellezza e
magrezza non sani. E’ possibile, attraverso queste forme di comunicazione, consigliare
implicitamente l’uso di forme non convenzionali e patologiche per raggiungere tali modelli.
La disinformazione spettacolarizzata e brutale, come ad esempio la campagna pubblicitaria
di Oliviero Toscani “No Anorexia” per Nolita, rischia di appagare semplicemente una curiosità
spesso morbosa per poi suscitare una passeggera repulsione. Allontanando il lettore che non si sente
coinvolto poiché non toccato personalmente o direttamente dalla notizia/immagine. Senza parlare
del desiderio di immedesimazione nel soggetto della campagna da parte di chi soffre di anoressia.
La pornografia del dolore può essere utile a un’azienda che cavalca la tigre dell’argomento
dell’anno, ma non alla prevenzione, meno che mai all’invito per chi soffre a chiedere aiuto.
Declinare l’informazione in una lista sensazionalistica di quello che mangiano o non
mangiano le anoressiche-bulimiche, delle calorie, delle forme di digiuno, delle modalità che
vengono usate nel vomito autoindotto (vedi articolo del Corriere della Sera Magazine del 29
gennaio 2009), non fa altro che mettere in mano un “manuale d’istruzioni per l’anoressia-bulimia” a
chi soffre di disturbi alimentari, senza neanche dover cercare materiale utile allo scopo.
E’ indispensabile un’informazione che non suggerisca le modalità per mettere in atto un
progetto mortifero colludendo con il soggetto.
L’informatore dovrebbe essere informato in prima persona per non promuovere gravi
risposte patologiche nel lettore spesso psicologicamente fragile e alla ricerca di soluzioni che
escludano una vera e propria cura. La gente, infatti, spesso preferisce “poter guidare senza avere la
patente di guida”, raggiungere il risultato senza faticare e senza analizzare in maniera profonda ciò
che sta dietro al sintomo, poiché questo processo spaventa. Ecco che si sceglie una delle numerose
diete proposte dai media piuttosto che capire quale possa essere il disagio psicologico che sta alla
base di un complicato rapporto con il cibo. Le diete vengono proposte senza troppo pensare ai
lettori e alle loro reali domande, senza capire ciò che può stare dietro a chi si rivolge a una cura
dimagrante. In mancanza di filtri e consapevolezza, da una dieta non concepita per il singolo
soggetto richiedente, si può cadere in un grave disturbo alimentare, spesso in concomitanza di una
percezione di limite nei confronti degli standard sociali. In questo modo l’interlocutore, spesso
adolescente o privo di un pensiero critico si ispira, sceglie, va oltre, applica quello che prende come
istruzioni per l’uso e le mette in atto: passa dalla lettura all’atto. E si ammala.
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Molte persone si sono ispirate a interviste o fotografie che esibiscono un corpo ossuto,
scarnificato, precedute da titoli come “magre da morire”: queste presentazioni fortemente evocative
finiscono infatti per diventare un modello da raggiungere pena la banalità e l’indifferenza di una
società che sembra chiedere il sacrificio della propria salute, della vita dei soggetti. Danni
permanenti come osteoporosi, esofagite, calcolosi renali, ictus, arresto cardiaco, blocco renale,
decalcificazione dei denti, amenorrea …
Morire per vivere, morire per essere visti, morire per avere una identità che altrimenti la
società non concede. Si muore applicando la logica del kamikaze per colpire con il proprio “corpobomba” le figure genitoriali o altre che apparentemente non hanno saputo dare l’ascolto e lo spazio
d’amore che una figlia o un figlio chiede.
E’ così che la ‘cultura dell’horror’ entra nelle vite di persone fragili e rivendicative passando
attraverso le parole dei giornali e degli shows che spietatamente ignorano o dimenticano a chi si
rivolgono.
Non è importante colpire, angosciare, scandalizzare, quanto capire quale sia l’obiettivo e
quali possano essere gli effetti della comunicazione desiderata.
La diffusione del malessere di questa società colpisce i più deboli, i bambini e gli
adolescenti; questo deve renderci prudenti nella scelta delle parole e delle immagini.
L’informazione implica capire, prendere atto delle realtà sociali, evitare la superficialità,
interrogarsi, in altre parole, informarsi. Questa presa di coscienza significa aggiornarsi per non
rischiare di promuovere proprio l’opposto di quello che si vuole diffondere in nome di una
informazione corretta.
La fragilità psicologica esiste, la malattia psichica esiste, non è un invenzione dei creativi; è
tra noi, spesso in noi. Questo dicono gli atti che ci lasciano attoniti quando ascoltiamo le notizie
televisive o leggiamo la cronaca, quella nera in particolare.
La mente dell’uomo può essere segnata da eventi traumatici, da perdite affettive e non saper
trovare modi di organizzare la propria vita di “sopravissuto”. Questa situazione va quindi rispettata
perché è proprio qui che si rischia di fare delle “vittime” della cattiva informazione.
In assenza di modelli parentali e per molteplici altre ragioni, le donne e gli uomini cercano
nell’ideale della magrezza un’ identità perduta o agognata come status symbol che oggi si declina
attraverso la devastazione dell’anoressia e della bulimia e di altre condotte patologiche come abuso
di alcool, droghe e sessualità sregolata.
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Il redattore e il caporedattore, il fotografo e il direttore di testata hanno una responsabilità
alla quale non devono sottrarsi. La responsabilità riguarda i lettori che non devono essere ingannati,
ma anche gli effetti che produce una comunicazione senza regole etiche.
E’ necessario rendersi conto che le nostre parole lasciano un segno, esistono per dire e per
battezzare le cose, tutte le cose della vita. Non renderci complici delle conseguenze della nostra
informazione è pericoloso per l’integrità degli interlocutori.
La questione di una comunicazione socialmente utile si deve pertanto porre non solo in
termini di ottimizzazione di un’informazione esistente, cioè di ulteriori e più scientifiche
informazioni sull’anoressia e sulla bulimia, ma anche in termini di trasparenza.
Nel mondo dei disturbi alimentari un aspetto di criticità è rappresentato paradossalmente da
una chiarezza così eccessiva da essere accecante. Chiarezza dogmatica degli esperti, degli
psicoterapeuti, degli psicofarmacologi e di tutti gli “addetti ai lavori” che credono di essere in
possesso di risposte definitive sino a far la guerra tra loro in nome della più sorda assertività
scientifica. Ma come scrive il medico e filosofo della scienza Giorgio Cosmacini, la medicina non è
una scienza, è un’arte. Con queste parole che sono ben altro che un claim o un titolo, Cosmacini
invoca la nascita di un nuovo umanesimo nella torre d’avorio della scienza, una nuova e urgente
sensibilità da parte dei suoi operatori.
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I DISTURBI ALIMENTARI: COSA SONO?
di Dora Aliprandi
19
La dipendenza dal cibo
Il corpo è teatro della mente: esperienze profonde ed emotive trovano spesso nel corpo una
manifestazione esterna e visibile. E’ esperienza diffusa il provare mal di stomaco o soffrire di
cefalea quando si è tristi o arrabbiati; avere tachicardia quando si è ansiosi; sentire le ‘farfalle nello
stomaco’ quando si è innamorati. Questo accade anche nei disturbi alimentari: ciò che è interno, un
disagio profondo, trova nel corpo uno strumento per comunicare e manifestare il dolore. Al centro
di queste patologie accanto al corpo è l’oggetto cibo, da cui si dipende.
Il cibo: quell’oggetto tanto amato e tanto odiato… Il cibo è un oggetto complesso: non
costituisce semplicemente quella benzina necessaria per far muovere la macchina corpo, ma assume
un profondo significato simbolico. Non ha solo un importante valore nutritivo, costituisce qualcosa
di complesso e multisfaccettato. Il cibo entra e media le nostre relazioni: basti pensare al primo
contatto tra madre e bambino che avviene attraverso l’allattamento, durante il quale con il cibo si
passa anche l’accudimento e l’affetto. Il pranzo o la cena sono generalmente momenti in cui ci si
riunisce con la propria famiglia o momenti di incontro con le proprie relazioni significative. Il
rapporto con il cibo, inoltre, è spesso espressione delle nostre emozioni: quando si è nervosi, per
esempio, alcuni mangiano di più, mentre ad altri si chiude lo stomaco. Il cibo è anche un oggetto
sempre presente, disponibile: gli ‘spacciatori’ sono ovunque e può essere comprato o raggiunto in
qualsiasi momento della giornata. Per tutte queste complesse cause il cibo si presta a diventare
l’oggetto tanto amato e tanto odiato nei disturbi alimentari: oggetto da cui si dipende, sia
negandoselo – come nell’anoressia – sia abusandone – come nella bulimia e nel disturbo
d’alimentazione incontrollata (DAI) – .
In Italia circa 3 milioni di persone, pari al 5% della popolazione, si trovano a fare i conti
con i disturbi del comportamento alimentare (DCA): l’8-10% delle ragazze e l’0,5-1% dei ragazzi
soffrono di anoressia-bulimia. Il 95% sono donne, anche se sempre più numerosi sono gli uomini
che manifestano questi sintomi e si rivolgono a strutture specializzate. Queste patologie si
manifestano prevalentemente tra i 12 e i 25 anni: negli ultimi tempi emerge un preoccupante
allargamento delle fasce d’età che riguarda in particolare le bambine prepuberi e le donne in età di
menopausa5. Si tratta di patologie prevalentemente declinate al femminile: la ragione va ricercata
nel rapporto particolare e problematico con il proprio corpo, la propria identità e autostima.
Cosa NON sono i disturbi alimentari
I nomi di tali disturbi sono ormai noti: anoressia, bulimia e disturbo d’alimentazione
incontrollata. Attualmente si sta assistendo ad una complessificazione e diversificazione delle
manifestazioni del sintomo: spesso si osservano da un lato forme diverse da quelle classicamente
5
Dati Osservatorio ABA e ISTAT.
20
intese – è il caso per esempio della vigoressia o dell’ortoressia – ; dall’altro sempre più persone
soffrono di polidipendenze – come dipendenze da alcol, droga o farmaci – accanto al sintomo
alimentare.
Può sembrare una domanda paradossale, ma prima di cercare di tracciare un quadro e
descrivere le diverse modalità di espressione di questo dolore è importate sgombrare il campo da
fraintendimenti. Non si tratta di malattie dell’appetito: non c’è nulla nel meccanismo biologico
della fame che non vada. Non si tratta nemmeno di ‘patologie da imitazione’: spesso, infatti, si
sentono frasi come ‘è tutta colpa della società’; ‘è tutta colpa della moda’; ‘è per assomigliare alla
velina che mia figlia si è ridotta così’ etc. Non si intende misconoscere l’importanza del sociale in
queste malattie sempre più diffuse: il contesto offre un sintomo prêt-à-porter, una via già
tracciata attraverso la quale manifestare un dolore che nasce ed è frutto di una storia soggettiva.
L’importanza di una ‘buona ed etica’ comunicazione in questo campo non è in discussione:
indicativo per esempio è il dato per cui molte ragazze o ragazzi, nati e cresciuti in paesi non
occidentali, sviluppano a contatto con la nostra società un sintomo alimentare, espressione di una
difficoltà soggettiva di crescita e integrazione. Il contesto traccia la ‘strada’, il soggetto si imbatte in
essa e la percorre come unico modo per poter esprimere e trattare una sofferenza profonda.
Anoressia: “non mangio, dunque sono”
Il DSM IV (Manuale Diagnostico per i Disordini Mentali) distingue i disturbi alimentari in
tre categorie: anoressia, bulimia e DCA non altrimenti specificati.
L’anoressia è definita come rifiuto a mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso
minimo per età e statura. E’ caratterizzata da un’intensa paura ad acquistare peso o diventare grassi:
il modo in cui la persona vive il peso e la forma del corpo è patologicamente alterato. Esso influisce
eccessivamente sui livelli di autostima, c’è un rifiuto a prendere atto di una grave situazione di
sottopeso. Nelle donne fertili è caratterizzato da amenorrea (assenza di ciclo mestruale) per almeno
tre mesi consecutivi.
Di solito tutto ciò comincia con una dieta dimagrante: quello che si desidera,
apparentemente, è migliorare la propria immagine. In realtà poi la dieta si trasforma in un
imperativo interiore di nutrirsi di quantità di cibo sempre più irrisorie: la persona anoressica
persegue un ideale di magrezza irraggiungibile, rispetto al quale si sente sempre inadeguata.
Nonostante la magrezza estrema, il corpo viene percepito sempre grasso.
L’anoressia quindi si manifesta con una riduzione drastica dell’alimentazione e del peso
corporeo: la fame viene negata, viene effettuato un calcolo ossessivo delle calorie, un controllo
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spasmodico giornaliero del peso. La bilancia determina l’umore della giornata: quando il numero
che appare sul display diminuisce, l’umore è euforico, il progetto di una magrezza irraggiungibile si
sta realizzando; quando il numero sul display è in aumento, anche solo di qualche grammo, si cade
in una disperazione profonda e inesorabile.
L’anoressia è una patologia del controllo: dietro questa negazione tenace della fame c’è
una disperata bramosia, non solo di cibo. La persona anoressica ha fame di tutto: di relazioni, di
affetti ed emozioni. Per questa ragione, paradossalmente, rifiuta ogni cosa. E’ nel rifiuto che cerca
un’illusoria autonomia da ogni bisogno e desiderio. Il concedersi di provare fame incute nella
persona anoressica il terrore di perdere il controllo: è per arginare il contatto con le emozioni e le
relazioni che non si riescono a controllare, che l’equilibrio si istalla su un illusorio controllo del
corpo-cibo-peso. Si vive nell’illusione che, cambiando il proprio corpo, si possa cambiare la propria
vita, diventandone padroni assoluti, senza aver bisogno di nessuno. Il corpo diventa palcoscenico di
un dramma straziante: un corpo ridotto alla fame, scheletrico, che evoca l’immagine della morte e
provoca angoscia, anche negli stessi curanti.
E’ il ‘non mangio, quindi esisto’, che può assumere molti significati: un modo per affermare
se stessi nella propria vita, a seguito di profondi dolori e sofferenze esperite nel rapporto con gli
altri; un modo per trovare una propria identità; un’illusoria autonomia dal nutrimento delle
relazioni; un modo per diventare visibili rendendosi fisicamente invisibili. Anche se il sintomo si
manifesta in modi molto simili, porta impresse le impronte digitali di ciascuno: il significato che
esso assume è soggettivo e particolare, così come soggettivi e particolari sono i tempi e le modalità
della cura.
E’ raro che una persona anoressica chieda aiuto: ha trovato nel rifiuto del cibo la sua forza e
attua in questo modo il suo controllo. Ciò che la spinge a chiedere aiuto spesso sono i famigliari, il
rischio della vita o il suo scivolare nella bulimia, non essendo più sostenibile il progetto di mangiare
niente.
Bulimia: “mangio tutto, per mangiare niente”
Il DSM IV descrive fenomenologicamente la bulimia come caratterizzata da ricorrenti
abbuffate, durante le quali si ingerisce una quantità di cibo significativamente maggiore di quella
che la maggior parte delle persone mangerebbe nelle stesse circostanze e nello stesso tempo: la
sensazione prevalente che accompagna gli episodi è la perdita di controllo. A seguito delle
abbuffate vengono attuate inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso,
come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci, digiuno o
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esercizio fisico eccessivo. I livelli di autostima sono fortemente influenzati da questi episodi che si
verificano almeno due volte la settimana.
Come descritto dai criteri diagnostici del DSM, la persona bulimica ingerisce enormi
quantità di cibo che espelle subito dopo attraverso il vomito autoindotto o l’utilizzo di lassativi: si
tratta di un rituale, quello dell’abbuffata, che si ripete anche più volte al giorno. Il cibo, che viene
letteralmente ingurgitato, non ha gusto o sapore per la persona: si ingeriscono anche cibi che non
piacciono, dolci e salati, crudi e surgelati. Si arriva a rubare al supermercato per avere cibo, o rubare
soldi per poter comprare del cibo. Dopo aver mangiato, però, si è vittima di un senso di colpa
devastante: l’unica soluzione sembra essere quella di tornare indietro, rifiutare ciò che è stato
assunto. Inizia in questo modo il calvario del vomito autoindotto, che segue le abbuffate, spesso
fatte in segreto, quando si è da soli o di notte.
La bulimia ha tutte le caratteristiche della patologia da dipendenza: l’oggetto da cui si
dipende è il cibo. Mentre nell’anoressia si mangia tutto il giorno ‘con la mente’ – la persona pensa
costantemente al cibo che rifiuta nella realtà – , nella bulimia la persona cerca di riempirsi di quanto
più cibo possibile, per poi vomitarlo. La sensazione soggettiva è quella di ‘un pozzo buio e
profondo da riempire’: si tratta di un vuoto soggettivo incolmabile, disperato, che si cerca di
riempire attraverso un’assunzione di quantità eccessive di cibo. La persona vive nel momento
dell’abbuffata una totale perdita di controllo. Si vorrebbe rifiutare tutto, come nell’anoressia,
riprendere il controllo totale, senza però riuscirci. Si mangia e si vomita ‘tutto e tutti’: questo può
durare anni, e viene spesso accompagnato da una caduta dell’autostima. Il vissuto che accompagna
più frequentemente la bulimia è infatti la vergogna. Ci si ripromette di smettere da un momento
all’altro: “da domani, da Natale, dal mio compleanno etc. smetto”. Quello che manca non è la forza
di volontà: non semplicemente imponendosi di non farlo si può smettere, ma solo capendo ed
elaborando le cause profonde che hanno portato la persona a sviluppare questa patologia.
Gravi sono gli effetti della bulimia sul corpo: il corpo viene maltrattato con accanimento.
Possono verificarsi pericolose conseguenze che interessano l’apparato digerente, l’esofago, i
denti e i capelli. A differenza dell’anoressia, dove il corpo urla il proprio dolore e angoscia l’altro,
la bulimia non è così visibile: la persona è spesso normopeso. Questa aspetto accentua ancora di
più il vissuto di vergogna: un terribile segreto da nascondere, uno ‘schifo’ che deve essere tenuto
sepolto e deve rimanere invisibile a tutti.
Anche la bulimia, come l’anoressia, porta le impronte digitali della persona, quindi assume
significati soggettivi e peculiari: può essere un modo per vomitare la propria rabbia o dar voce
attraverso il cibo a emozioni esperite ma non espresse; un modo per dar voce illusoriamente a se
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stessi e trovare una propria identità; un modo per ritagliare un proprio spazio di fronte ad una
profonda sofferenza nelle relazioni ed un male di vivere.
La bulimia può essere considerata l’altra faccia dell’anoressia: è sempre più raro che
capitino in forma pura. La persona di solito attraversa fasi anoressiche e bulimiche: quando il
controllo sul corpo-cibo-peso non riesce più a reggere si scivola nella bulimia. Spesso ciò che
chiede una persona bulimica è quella di diventare o tornare ad essere anoressica: vorrebbe
riprendere il controllo della situazione. Attraverso un percorso di cura può trovare un suo modo
soggettivo e peculiare di gestire il vuoto personale, le emozioni e le relazioni, che non sia il
ripristino dell’anoressia o l’abbuffata.
Disturbo d’Alimentazione Incontrollata: “una soluzione per non esserci”
Il DSM IV inserisce il Disturbo d’Alimentazione Incontrollata (DAI) tra i disturbi
d’alimentazione non altrimenti specificati: viene diagnosticato quando la persona vive ricorrenti
episodi di abbuffate in assenza di condotte compensatorie.
Quando si parla di DAI è importante distinguerlo dall’obesità cosiddetta semplice,
conseguenza principalmente di disfunzioni metaboliche, e per tanto non annoverata tra i disturbi
dell’alimentazione.
La persona che soffre di DAI assume grandi quantità di cibo, non lo vomita, e spesso lo
sceglie con cura. La ruminazione anoressica attraverso la mente diventa una ruminazione reale: la
persona sviluppa una vera e propria dipendenza dal cibo, a cui pensa in ogni momento e che assume
costantemente, con modalità diverse rispetto alla bulimia. Il cibo ha in questo caso talvolta sapore e
gusto: il cibo viene selezionato e assunto fino ad aumentare di peso in modo sproporzionato.
Spesso si sente parlare di binge eating come un allarmante fenomeno in diffusione: in effetti
si tratta di una vera e propria malattia sociale, che interessa un numero sempre maggiore di persone,
anche in fascia pediatrica e adolescenziale. Da qui i tentativi di soluzione da parte del contesto: un
esempio è costituito dalla proposta di riduzione delle porzioni al ristorante o maggiore attività
fisica.
In realtà anche il DAI, come gli altri sintomi alimentari, porta il ‘peso’ della storia
individuale: l’adipe in molti casi costituisce una sorta di barriera che sembra proteggere dalle
emozioni e dalle relazioni. Il cibo diventa un anestetico al dolore di vivere, una soluzione magica
alle difficoltà. In realtà sembra innescarsi un circuito che ‘cortocircuita’: il cibo è la soluzione, la
persona ne assume a dismisura, ingrassa e ciò influisce negativamente sulla propria autostima,
creando depressione che, a sua volta, porta ad un sempre maggior ricorso al cibo.
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E’ difficile per le persone che soffrono di DAI poter chiedere aiuto: spesso si fraintende il
disturbo come golosità smodata o debolezza. C’è vergogna, si ha paura della derisione sociale. Si
ricorre più facilmente ad interventi sul corpo – come il bendaggio gastrico – , che si dimostrano ben
poco risolutivi del problema, il quale si ripresenta puntualmente dopo l’intervento. Solo
l’accoglimento del dolore può consentire alla persona di evitare il ricorso al cibo come modalità di
trattare la sofferenza.
Le nuove patologie dell’alimentazione
Si assiste oggi ad una diversificazione delle manifestazioni del sintomo: il trinomio corpocibo-peso si declina in molti modi diversi, non più inquadrabili con una definizione classica di
disturbi alimentari. Nella diversità delle modalità di espressione, vale qui ciò che è stato affermato
prima: ogni sintomo porta le impronte digitali del suo portatore. E’ frutto di una storia individuale,
di vissuti ed emozioni soggettive, di un modo peculiare di vivere e sentire le relazioni con l’altro.
Due esempi della diversificazione nella manifestazione dei sintomi alimentari sono la
vigoressia e l’ortoressia. La Vigoressia è l’ossessione per la perfezione del corpo, riguarda
prevalentemente i maschi che si percepiscono sempre come troppo magri e poco muscolosi. Un
ruolo importante è giocato dai modelli culturali di bellezza e prestazione fisica e, nei contesti
sportivi, dalle pressioni alla competizione da parte di compagni e allenatori. Alla base ci sono
spesso un senso di inadeguatezza e la paura di fallire.
L’Ortoressia si riferisce all’ossessione maniacale per i cibi sani. Scatta quando si passa da
un semplice interesse per l’argomento a non poter più toccare una pietanza sulla cui provenienza
non si abbiano certezze, modificando la propria alimentazione al punto da non avere quasi altro
pensiero. Controllare ciò che si mangia può essere l’espressione di un disagio più profondo come la
paura di affrontare gli altri.
I disturbi alimentari e il campo delle dipendenze
Si assiste oggi ad una complessificazione del quadro clinico nel campo dei disturbi
alimentari: è sempre più frequente osservare accanto al sintomo l’associarsi di uso e abuso di
alcolici e di droga, in particolare di cocaina. La sostanza, qualsiasi essa sia, diventa la soluzione
illusoria per trattare tematiche troppo angoscianti per la persona, per riempire il proprio vuoto
interiore, per rincorrere un’illusoria autonomia da tutti, dipendendo solo dall’oggetto.
Le sostanze diventano quindi l’auto-cura: sono dei farmaci che servono per lenire il
proprio dolore e perseguire una soddisfazione e un godimento autistico, in cui vive una passione
cieca per l’oggetto escludendo tutte le relazioni.
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E’ importante a questo punto effettuare un chiarimento sull’uso della parola dipendenza:
questo termine viene generalmente associato nel senso comune a dei mostri come la droga, l’alcol o
il gioco d’azzardo; richiama delle paure profonde, di perdita di controllo del sé e della propria vita a
causa dell’abuso di una sostanza. In realtà non tutte le dipendenze sono patologiche: gli esseri
umani, a partire dalla loro nascita e soprattutto nei primi anni di vita, sono dipendenti dal loro
contesto. Anche durante la vita adulta l’individuo è legato al sostegno affettivo degli altri: ci
realizziamo e affermiamo noi stessi attraverso le relazioni con i nostri simili. Tutto ciò non ha un
significato negativo, anzi è la trama che caratterizza le nostre esistenze.
La dipendenza diventa patologica nel momento in cui ciò che regna è una seduzione totale
che la sostanza esercita sull’individuo: è un oggetto o una serie di oggetti di cui non si può più fare
a meno. Si tratta di oggetti di cui la persona “si fa” per “disfarsi” degli altri, del legame che
viene percepito come pericoloso e rischioso, che non si riesce a gestire. Si tratta di un modo per
risolvere la propria sofferenza: per questo motivo le persone che soffrono di polidipendenze
difficilmente chiedono aiuto, proprio perché la sostanza è la soluzione, non il problema. Certo la
soluzione si rivela illusoria e altamente nociva, spingendo l’individuo verso gravi rischi di
intossicazione e di danni all’organismo di vario genere.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” rivela la volpe al Piccolo Principe. Allo stesso modo i
comportamenti alterati del cibo e dell’uso di sostanze sono solo ciò che appare e nascondono
l’essenza del problema: un disagio profondo, una sofferenza interiore. Le cause delle patologie
alimentari sono molteplici e vanno rintracciate nella storia della persona e nelle dinamiche
relazionali. Spesso ciò che si osserva è che il cibo o la sostanza costituiscono da un lato una
soluzione per la gestione di problematiche emotive, dall’altro una risposta prevalente ai bisogni di
cura e affetto.
Il pensiero ossessivo della sostanza sembra una soluzione, un’auto-cura per non pensare, per
riuscire ad affrontare le difficoltà esistenziali. Spesso si riscontrano nella vita di chi soffre di
disturbi alimentari perdite affettive importanti, abbandoni e traumi. E’ stimato che ci sia
un’elevatissima incidenza, in chi soffre di disturbi alimentari, di abusi subiti in età infantile e non
elaborati. La sostanza si pone quindi come una sorta di anestetico che impedisce di avvertire il
dolore, ma toglie così la possibilità di avvertire qualsiasi altra emozione di fronte alla quale ci si
sente fragili e vulnerabili.
La scommessa nel percorso di cura è quello di trovare una soluzione alternativa alla
dipendenza, che consenta al soggetto di uscire dall’autismo della sostanza per entrare in relazione
con l’altro e mettere parola alla sofferenza, prima espressa solo con l’uso smodato dell’oggetto.
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DCA ED ETA’ DELLO SVILUPPO
di Valentina Calcaterra
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DCA e infanzia : “no alla pappa!!!”
L’incontro con il cibo per il bambino è sempre anche un incontro con l’amore perché
l’esperienza del soddisfacimento del bisogno primordiale della fame accade all’interno di una
relazione con un altro che si prende cura di lui. Quindi il cibo ha sin dall’inizio anche una
dimensione psicologica, dimensione che rimanda al rapporto tra il bambino e i genitori, in primis la
madre.
L’atto nutritivo non è caratterizzato solo dal piano del bisogno ma si lega
indissolubilmente al piano della domanda d’amore. Il bambino, infatti, non si nutre solo del cibo
che soddisfa la sua fame fisiologica, ma anche di un altro particolare tipo di cibo, quello che
risponde alla sua domanda d’amore.
L’elemento in più che l’essere umano esige dall’altro e senza il quale non c’è crescita è,
infatti, il desiderio. Mentre il bisogno si soddisfa in maniera unilaterale attraverso il consumo
dell’oggetto, in questo caso il cibo, il desiderio implica qualcosa in più, implica il sentirsi desiderati
e riconosciuti dall’altro il quale ci attribuisce un valore affettivo e non semplicemente un
accudimento generico.
Il valore del cibo come luogo simbolico in cui convergono vissuti, esperienze ed
emozioni perdura per tutta la vita.
Alla luce di ciò emerge come il cibo e il comportamento alimentare siano da sempre
immersi all’interno di una scambio relazionale e abbiamo legami diretti e importanti con le
dinamiche affettive che li caratterizzano. Mangiare diviene, quindi, un atto che implica molteplici
significati: dire sì o no al cibo diviene un modo per accettare e rifiutare la relazione all’interno della
quale lo scambio alimentare è immerso.
Per questo il bambino, che è ancora incapace di servirsi del linguaggio per comunicare ciò
che prova, può servirsi del cibo come mezzo per comunicare un disagio, una sofferenza che
fatica a mettere in parole. Il cibo si sostituisce al pianto e alla parola e il bambino comunica con il
rifiuto o con la divorazione le emozioni che lo attraversano.
Il disfunzionamento del comportamento alimentare assume, dunque, il valore di messaggio
rivolto all’Altro, proprio in quanto mette in luce la discontinuità esistente tra il piano del bisogno e
il piano della domanda. Ma quando la risposta della madre valorizza esclusivamente il piano del
bisogno, il bambino può arrivare fino al rifiuto delle cure e del nutrimento materno.
I disturbi alimentari nell’infanzia vanno considerati come risposte sintomatiche che toccano
il cuore dei legami affettivi con le figure di riferimento che sono significative per il bambino. A
volte sono delle fasi di inappetenza o di voracità di tipo transitorio, altre volte assumono la
caratteristica di un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare.
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Secondo B. Brusset è importante differenziare tra l’anoressia da svezzamento e l’anoressia
fantasma o pseudo anoressia. Nell’anoressia da svezzamento la separazione tra madre e figlio, che
l’avvento dello svezzamento necessariamente introduce, si configura come centrale. Lo
svezzamento implica, infatti una rottura della diade madre-bambino che può portare, da parte del
bambino, al rifiuto del cibo proprio nella fase di passaggio dai cibi liquidi ai cibi solidi.
Nell’anoressia fantasma il disturbo esiste esclusivamente nella mente dei genitori che sviluppano
un’idea errata del reale fabbisogno nutritivo del figlio, dimenticandosi che esistono, in un bambino,
variazioni fisiologiche dell’appetito. Spesso le preoccupazioni dei genitori possono essere talmente
eccessive che inducono il bambino a sviluppare un’anoressia da opposizione, volta ad opporsi ai
loro persistenti tentativi di ingozzamento.
L. Kreiser distingue le anoressie mentali semplici da quelle complesse. Le anoressie mentali
semplici rappresentano le forme più diffuse. Si tratta di una condotta di rifiuto del cibo isolata che è
direttamente collegata con un atteggiamento inadeguato della madre di fronte al rifiuto espresso dal
figlio. Quest’ultimo può essere dovuto ad una brusca modificazione del regime alimentare, ad una
malattia, alla nascita di un nuovo figlio, ecc… In genere, se la madre è in grado di comprendere
come il suo comportamento incida sulla condotta alimentare del figlio e riesce a modificarlo, il
disturbo si risolve in breve tempo.
Le anoressie mentali gravi hanno un inizio simile a quelle precedenti ma con un quadro
psicopatologico che peggiora rapidamente associandosi a ulteriori disturbi quali quelli del sonno,
del comportamento, della relazione. Nonostante si provi a modificare sotto vari aspetti il
comportamento e l’ambiente circostante, il bambino persiste nel suo rifiuto verso il cibo mostrando
un totale disinteresse. Tale quadro clinico può arricchirsi progressivamente e in alcuni casi portare
ad un contesto psicopatologico che può sfociare in situazioni di grave denutrizione che comportano
il dover ricorrere a misure terapeutiche di emergenza, quali l’ospedalizzazione.
DCA e adolescenza: “il dramma del gambero”
L’adolescenza è la fase di passaggio che divide l’infanzia dall’età adulta ed è un
processo di costruzione dell’identità che si realizza affrontando e in qualche modo risolvendo
specifici compiti di sviluppo che trovano nel contesto e nella cultura di appartenenza del singolo
adolescente la loro concreta esplicitazione.
Essa ha come momento centrale la pubertà, la dimensione corporea dell’adolescenza.
L’aspetto, le forme, il corpo, si modificano. I cambiamenti corporei, per quanto attesi, colgono di
sorpresa l’adolescente che per molti aspetti è ancora legato ad una rappresentazione di sé infantile.
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La sensazione spesso è che “qualcosa stia sfuggendo di mano” e si assiste ad una difficoltà ad
affrontare un processo di revisione di sé e della propria immagine corporea.
Nell’adolescenza ci si costruisce un’immagine ideale di sé, basata spesso sui criteri del
gruppo, e ci si sente belli o brutti, adeguati o non adeguati nella misura in cui ci si avvicina o meno
a tale immagine ideale. Tutto questo è complicato dal fatto che spesso i messaggi veicolati dai
mass-media attribuiscono una centralità fondamentale al corpo e ne propongono un’immagine come
luogo che dovrebbe rispecchiare l’identità della persona, definire i suoi valori, le sue appartenenze
sociali e le sue dimensioni interne.
I cambiamenti fisici e corporei, inoltre, implicano l’acquisizione di un’identità sessuale e il
lavoro di ridefinizione della propria identificazione, maschile o femminile. Il corpo puberale
mette in evidenza nuove sensazioni e nuovi desideri con i quali è necessario, per la prima volta,
confrontarsi. Per l’adolescente tutto questo implica, quindi, entrare in rapporto con il proprio
desiderio, un rapporto che non potrà più essere strutturato sulla base delle precedenti identificazioni
infantili ma che deve essere finalmente soggettivato e assunto in prima persona.
L’adolescente, inoltre, è chiamato ad operare un processo di individuazione-separazione
nei confronti della famiglia d’origine, con l’obiettivo di emanciparsi e raggiungere una completa
indipendenza. Tale processo implica continui cambiamenti di rotta, dovuti all’ambivalenza e alla
difficoltà che accompagnano ogni processo di separazione. D’altro canto, i genitori devono essere
disposti a operare profonde trasformazioni del loro ruolo per promuovere l’autonomia dei figli,
sapendo che sia da parte loro che da parte dell’adolescente c’è una profonda impreparazione di
fronte a questo cambiamento. L’adolescenza, quindi, è come una “seconda nascita” che si realizzerà
in tappe progressive: é necessario abbandonare a poco a poco il guscio familiare protettivo proprio
come un tempo si è abbandonato il ventre materno. Lasciare l’infanzia, cancellare il bambino che
c’è in noi, è una mutazione profonda, veloce, in alcuni casi troppo veloce. Talvolta si ha
l’impressione di morire, bisogna sopravvivere e non si è sempre preparati: si sa che cosa muore, ma
ancora non si vede che cosa stia nascendo, verso quale direzione si stia procedendo. Qualcosa si è
incrinato, ma non si sa bene né come né perché, si sa solo che nulla è come prima, ma si tratta di
uno stato indefinibile. C’è insicurezza nell’aria, c’è il desiderio di venirne fuori ma anche la
mancanza di fiducia in se stessi.
Per capire la fragilità e la vulnerabilità dell’adolescente F. Dolto ricorre all’immagine dei
gamberi: essi cambiano il guscio e si trovano a perdere quello vecchio, restando senza difese
durante il tempo necessario per fabbricarne uno nuovo. Ed è proprio in questo periodo che sono
esposti ad un grave pericolo, così si nascondono sotto le rocce fino a quando non hanno costruito un
nuovo rivestimento che li difenda. Ma, se durante il periodo in cui sono vulnerabili, verranno
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colpiti, le ferite rimarranno visibili per sempre, il loro involucro coprirà le cicatrici ma non le
cancellerà.
Alla luce di quanto detto ben si comprende come l’adolescenza possa configurarsi come un
periodo di insorgenza di DCA. Innanzitutto anche in questo caso il cibo si inserisce all’interno di
una serie di relazioni e di rapporti affettivi e rimanda alle loro dinamiche e implicazioni
psicologiche. Inoltre i numerosi cambiamenti fisici e psicologici che l’adolescente si trova a dovere
affrontare, la ricerca difficoltosa e spesso dolorosa di un’identità e la centralità che l’immagine
corporea viene ad assumere all’interno di tali processi, pongono il corpo come il palcoscenico
ideale sul quale mettere in scena il proprio disagio interiore: scrivere sulla carne parole che non
posso essere dette. Il corpo diviene portatore di segnali evidenti, taciuti e spesso non facilmente
codificabili e comunicabili: marchi di appartenenza posti su un corpo vissuto come estraneo.
Si usa il cibo come le lettere dell’alfabeto: al posto di utilizzare il linguaggio per parlare, si
utilizza l’alimentazione. Il corpo diviene il mezzo che l’adolescente frappone fra sé e il mondo
circostante, è come una tela sulla quale viene dipinto chi si è e cosa si vive dentro, una tela che
conserva i segni di ogni vissuto e di ogni emozione, una tela che viene ogni volta ridipinta per
l’occasione e che si sostituisce a qualsiasi forma di comunicazione. Si vive nell’illusione che,
cambiando il proprio corpo si potrà cambiare anche la propria vita e il pensiero del cibo, sia nella
forma del rifiuto che in quella della divorazione infinita, terrà al riparo dal dolore e dalle emozioni,
consentendo un’utopica autonomia e un’illusoria anestesia da un dolore insopportabile e indicibile.
Si tratta di una comunicazione interrotta, di una comunicazione iscritta nel corpo, di una
comunicazione che chiede di essere vista, riconosciuta e ascoltata. Il gambero indifeso, in mancanza
del guscio protettivo, usa il suo stesso corpo come strumento di difesa e come mezzo di
comunicazione.
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TUTTO O NIENTE.
LE DUE PASSIONI DELL’ANORESSIA-BULIMIA
CONTEMPORANEA.
di Maria Barbuto
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I disturbi alimentari, nelle loro varie forme (anoressia, bulimia, obesità) continuano a
diffondersi su larga scala, nei vari ceti sociali, rappresentando una fetta del 5% della popolazione,
soprattutto femminile.
La consapevolezza della complessità e dell’enorme diffusione di tale disturbo cresce
parallelamente al grado di informazione che la società, attraverso i vari mezzi di comunicazione,
mette a disposizione della popolazione, permettendo un’operazione in cui il lavoro del clinico e
quello dell’informatore possono creare una sinergia utile a promuovere una vera prevenzione socioculturale dei disturbi alimentari.
Un lavoro di prevenzione così inteso diventa sempre più indispensabile, anche a fronte del
fatto che l’insorgenza di problemi inerenti la sfera del comportamento alimentare si colloca oggi,
sia in fasce di età ancora più basse rispetto a quelle adolescenziali (8-12 anni), che più alte (30-40
anni e periodo della menopausa). Inoltre, la conseguenza della cronicizzazione di tali disturbi, che
dalla più giovane età spesso accompagnano le donne fino all’età adulta, provoca consistenti
problemi nella sfera della fertilità femminile, anche a causa dei lunghi periodi di amenorrea che
rientrano stabilmente nel quadro dell’anoressia-bulimia.
In tutte quelle fasce di età considerate potenzialmente a rischio per l’esordio del disturbo
alimentare, si colloca in effetti un passaggio legato significativamente al corpo e alla sua
immagine ma anche all’identità del soggetto.
L’adolescenza, ad esempio, espone ad importanti cambiamenti che investono la forma
corporea, lo sviluppo dell’identità sessuale e la capacità di separarsi dalle figure genitoriali, tutte
esperienze rispetto alle quali l’adolescente si sente profondamente impreparato.
In particolare, la fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni corrisponde per le donne al
tempo della comparsa del menarca, segnale della funzionalità propria del corpo femminile, in
quanto corpo potenzialmente riproduttivo e materno, mentre la menopausa scandisce il tempo in cui
la donna si separa dall’età feconda.
In ognuna di questa fasi occorre che il soggetto ristrutturi il rapporto con il proprio corpo,
finendo inevitabilmente per interrogare la propria identità, la sessualità e, in generale, il campo
d’investimento del suo desiderio.
Corpo,
identità
e
desiderio
costituiscono
dunque
un’articolazione
complessa
e
interdipendente. Il contesto sociale attuale valorizza, in modo particolare, modelli estetici legati alla
magrezza del corpo al punto che, di fronte a situazioni di fragilità personali, il soggetto tende a
interiorizzare il modello estetico dominante per aumentare il senso di autostima, di sicurezza e di
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riconoscimento sociale. Il conflitto legato alla complessità dei rapporti tra il soggetto e la sfera dei
suoi desideri e delle sue scelte, può essere così risolto sul piano narcisistico, in linea col discorso
sociale, attraverso il culto del corpo adeguato al prototipo eletto come modello e stile di vita.
“Costruire” il proprio corpo, plasmarlo secondo una forma idealizzata, offre illusoriamente la
possibilità di rimuovere e riparare “artificialmente” il disorientamento che, in alcune fasi, si
accompagna al costituirsi dell’identità soggettiva.
E’ chiaro che il mondo dei media ha in questo caso un ruolo preponderante. Esso si fa
interprete del sociale promuovendo un ideale estetico in cui la magrezza del corpo rappresenta un
tipo di bellezza ideale che si coniuga con l’idea di successo, di felicità e di affermazione
individuale. Di fronte all’esaltazione di questi valori, molte persone possono sentirsi stimolate a
superare il loro senso di inadeguatezza e di inferiorità emulando i personaggi che sono resi
famosi dal fatto di incarnare questi stereotipi, come accade rispetto al mondo della moda e dello
star system.
Il discorso sociale e la componente mediatica possono, quindi, generare un comportamento
imitativo che da solo non basta a determinare una patologia, ma che può trovare terreno fertile in
momenti in cui il soggetto è esposto a situazioni di conflitto e di crisi, soprattutto per coloro i quali
hanno dei fragili punti di riferimento nella vita e nel contesto familiare.
A partire dalla storia personale di ciascuno, riteniamo che esistano dei fattori predisponenti
che possono scatenare il disturbo e che i mezzi mediatici possono, a volte, rinforzare degli
atteggiamenti patologici in quanto forniscono modelli che assumono velocemente una validità
globale. I media diffondono, in modo consistente e in tempi brevi, tendenze e valori che definiscono
i criteri di successo della società contemporanea. In questo senso, sono dei mezzi attraverso cui
spesso gli adolescenti apprendono modelli e valori considerati “vincenti” a cui pensano di doversi
omologare, come si evidenzia in modo particolare nella ridondanza del legame tra immagine
corporea e senso dell’identità personale.
Certamente il mezzo di comunicazione in se stesso non può essere considerato responsabile
del disagio, anche perché è d’obbligo riconoscere che il vantaggio dei media consiste nel veicolare
informazioni, cultura e promuovere aggregazione. Tuttavia il rischio è quello di fornire modelli che
nei più giovani, in cerca di un’alternativa al contesto familiare, finiscono per legittimare condotte
patologiche per il fatto che, in alcuni casi, l’imitazione dei modelli considerati di successo arriva ad
essere estremizzata.
E’ conseguente che, nelle personalità più fragili, le maggiori frustrazioni nascono dal senso
di insoddisfazione e di fallimento che scaturisce quando non si è sufficientemente adeguati agli
standards sociali, soprattutto in una società che si regge in modo specifico sull’apparenza e
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sull’esaltazione di uno sguardo che si diffonde gigantescamente a tutti i livelli, schiacciando il
valore della comunicazione su un piano principalmente narcisistico-immaginario.
Tra gli standards più diffusi il successo si coniuga spesso con la bellezza che viene ad essere
omologata tout court alla magrezza del corpo. Il raggiungimento di questi obiettivi, legati in modo
particolare al mondo femminile, produce delle condotte alimentari di tipo restrittivo e, più in
generale, un’attenzione marcata e comunemente diffusa nei confronti del proprio regime alimentare.
L’idea è quella di promuovere un criterio salutista che, nei casi più a rischio, arriva a produrre un
movimento in opposizione rispetto al connubio bellezza-magrezza-benessere. Come ci insegna
l’anoressia, col rischio di vita ad essa associato, l’imperativo sociale rivolto a rinforzare una pratica
del controllo può produrre una serie di comportamenti autolesivi che mettono a rischio la salute del
corpo, con gravi conseguenze anche da un punto di vista psicopatologico.
Per raggiungere uno status adeguato, la donna deve corrispondere ad un ideale corporeo ben
definito dal gusto sociale e, nonostante i progressi sul piano di una sempre maggiore affermazione
del principio di autonomia femminile, l’identità delle donne rimane comunque fortemente ancorata
al corpo. E’ per questo motivo che la donna vive al suo interno una forte contraddizione essendo
costantemente divisa, sul piano della propria realizzazione, tra la sfera privata delle emozioni,
e quella pubblica del riconoscimento sociale.
L’anoressia, in una certa misura, vorrebbe obiettare a questa schiavitù dettata dal discorso
sociale contemporaneo, prendendo le distanze dall’idea del corpo oggetto, ma la logica del suo
discorso è fortemente connotata dal rifiuto della femminilità e dalla scelta di valori maschili come
l’affermazione, l’efficienza, la competizione professionale, etc. Non dimentichiamo che alcuni degli
aspetti caratteristici del quadro anoressico sono proprio l’idea del controllo e del dominio del corpo,
un forte senso di onnipotenza e di invulnerabilità che si accompagnano all’esigenza di poter
dominare totalmente anche i bisogni più elementari, tra cui la fame, con un atteggiamento di sfida e
di anestesia delle emozioni che, nei casi più gravi, si spinge al di là dell’istinto di sopravvivenza
stesso.
La bulimia, che all’osservazione clinica si presenta spesso come l’evoluzione del quadro
anoressico, mostra invece un’assuefazione fatale ai valori del consumismo contemporaneo. Questo
meccanismo è riconoscibile proprio nell’incapacità del soggetto bulimico a opporsi alla divorazione
sfrenata del cibo secondo un imperativo di “voracità” sociale, largamente diffuso, che invita a
godere illimitatamente dei beni di consumo, spesso divenuti oggetti di “dipendenza” tra i più
svariati. Il principio è quello della sostituzione incessante di un oggetto con un altro, secondo una
logica che mira a eludere il sentimento di mancanza con l’idea della moltiplicazione degli
oggetti che il mercato rende disponibili sul piano del possesso materiale. In quest’ottica, divorare,
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moltiplicare, possedere più “oggetti” possibili, sarebbe il criterio utile al raggiungimento della
felicità. In realtà, la valenza effimera e lo scacco di questo meccanismo sono all’origine di molte
depressioni a volte nascoste dal disturbo alimentare stesso.
Il cedimento bulimico e la conseguente abbuffata rappresentano il rovesciamento del primo
tempo, quello della restrizione anoressica. La fase restrittiva sottopone il corpo ad una privazione
che non ne cancella la fame. Il soggetto anoressico ne teme gli sviluppi a buon ragione proprio
perché nel
momento in cui il suo corpo cede alla fame, la voracità diventa assolutamente
incontrollabile. O niente o tutto. Da qui l’esigenza del vomito e di condotte espulsive finalizzate a
mantenere il corpo magro e, come spesso le pazienti dicono, “a riportarlo ad uno stato di purezza,
farlo essere nuovamente immacolato”.
La logica interna al discorso anoressico-bulimico è quella del tutto o niente, che scandisce i
due tempi, la bulimia e l’anoressia. E’ un sistema di contabilità rigoroso, tutto quello che entra nel
corpo deve poter essere espulso per ripristinare lo zero assoluto, l’attaccamento al niente che
cancella il tutto dell’impulso bulimico.
La rinuncia anoressica e la voracità bulimica evidenziano, dunque, due facce di una stessa
medaglia che si alternano secondo un andamento che scandisce anche nell’arco di una stessa
giornata il momento del digiuno e quello dell’abbuffata, in un’alternanza continua tra vuoto e pieno,
tra addizione e sottrazione, tra tutto e niente.
Se l’anoressica vuole ribellarsi alla materialità della pulsione, attraverso la disincarnazione
del corpo, favorendo la messa in valore della mancanza e del desiderio, la bulimica mostra bene,
attraverso la divorazione, il fatto che non c’è cibo che possa placare la “fame”, che c’è una “fame”
che il cibo non sazia.
Il cibo, infatti, non è un oggetto qualunque, è il primo oggetto che si pone tra la madre e il
suo bambino. E’ l’oggetto che per eccellenza veicola una domanda da parte del bambino, domanda
di essere sfamato, certamente, ma fin da subito il fatto di essere nutrito lascia dietro di sé l’obiettivo
della semplice soddisfazione del bisogno, per evocare nel suo fondo la domanda fondamentale di
ogni essere umano: “Che cosa sono io per te?” , interrogativo attraverso il quale il desiderio umano
mostra la sua dipendenza strutturale dal campo dell’Altro e dalle sue risposte.
E’ sullo sfondo di tale dialettica, tra l’Altro e il soggetto, che l’anoressia nevrotica ci insegna
qualcosa sul piano della domanda d’amore mostrando come la “fame di riconoscimento” sia ben
più forte e radicale della “fame del corpo”.
37
Il corpo e lo sguardo
Ecco come una paziente anoressico-bulimica descrive, dentro un percorso di terapia di
gruppo, il modo in cui che vorrebbe poter spiegare l’anoressia:
“Immagino che una telecamera riprenda un ombelico, attraverso un’inquadratura sempre
più ravvicinata al punto che l’ombelico arriva a deformarsi, divenendo una macchia nera, informe,
fino a sembrare una caverna. Due grandi occhi cupi, inquietanti, fissano questo punto opaco,
questa cavità, dentro la quale emerge il corpo di una bambina, rannicchiata come un piccolo feto
che piange.”
L’ombelico e la caverna, di fronte a due occhi perturbanti, sono i due elementi che
focalizzano questa rappresentazione dell’anoressia: il buco e lo sguardo. La bambina che piange,
rannicchiata come un piccolo feto, mostra tutta l’angoscia del soggetto, ancora corpo informe,
esposto, attraverso lo sguardo che l’invade, al desiderio dell’Altro, che le rimane enigmatico.
U. Galimberti sostiene che “il corpo è il nostro grande buco nero”, proprio perché non
riusciamo mai a vederlo per quello che è, e anche nello specchio ne abbiamo un’immagine
rovesciata.
Inoltre, la dimensione temporale, il fluire del tempo, ce lo sottrae costantemente. Vediamo,
infatti, come il tempo subisce un’involuzione nella figura statica e aggrovigliata del feto, chiuso in
una dimensione a-temporale.
Questi aspetti sono in effetti assolutamente centrali nella patologia anoressico-bulimica: sia
nel senso di un misconoscimento fondamentale dell’immagine del proprio corpo che il soggetto
vive davanti allo specchio, sia nel sogno anoressico di voler annullare la temporalità
custodendo il corpo come un corpo infantile, un corpo non sufficientemente separato dal corpo
materno, che esprime in modo inequivocabile il blocco del processo di crescita psichica e della
capacità di separarsi dalla dipendenza infantile.
Il soggetto anoressico di fronte allo specchio piuttosto che trovarla, perde la sua
immagine. Corpo e sguardo non possono incontrarsi. E’ quello che comunemente definiamo come
dismorfofobia o, come indicava Hilde Bruch (1962), una Body Image Distortion Syndrome (BIDS).
Di fatto, per molte anoressiche, quando il corpo non risulti sufficientemente filiforme,
asciutto, in linea con un certo tipo di magrezza, esso appare sulla scena in modo deformato, come
un’entità minacciosa, ingovernabile, estraniante e angosciosa, anche quando non si tratti di soggetti
38
psicotici. La sensazione di spaesamento, di estraneità che l’immagine speculare provoca al soggetto
anoressico rende ragione del fatto che lo sguardo emerge nella sua dimensione perturbante.
Perfino quando arriva a pesare trenta chili, lo specchio riflette all’anoressica un volume in
esubero, dove al posto dell’osso emerge il grasso. Il corpo del soggetto anoressico rivela, nel
superamento della barriera estetica del bello, qualcosa della dimensione tragica, antivitale che abita
il cuore dell’anoressia, mettendo a nudo come l’anoressia spinta all’estremo possa, in effetti, essere
una figura della morte.
Alcuni mesi fa, una foto di Oliviero Toscani mostrava in modo amplificato attraverso una
gigantografia, l’immagine senza veli del corpo emaciato di una giovane modella anoressica ridotta
pelle ed ossa, con l’intento di fare una campagna pubblicitaria contro l’anoressia. L’idea era che
quel corpo visibilmente al limite della sussistenza vitale, potesse suscitare l’orrore e il disgusto e
scoraggiare quanti nell’anoressia vedono ancora una sorta di progetto ideale o di soluzione ai
problemi esistenziali (vedi siti pro-Ana e pro-Mia). Molte pazienti anoressiche hanno riportato a più
voci la fascinazione prodotta in loro da quella stessa immagine. In quella magrezza raccapricciante,
che mostra lo scheletro al posto del corpo, nell’osso che affiora, nella vertebra sporgente,
l’anoressica vede compiersi la sua massima aspirazione.
L’esigua presenza di “un corpo senza carne” rimane il sogno all’orizzonte di ogni vera
anoressia. Questo sogno di immaterialità del corpo è spesso infranto da un sentimento di
estraneità e di orrore che affiora quando il corpo supera una soglia, quella in cui tra l’osso e la pelle
non si operi una sorta di appiattimento volumetrico il cui risultato sia pari a zero.
Occorre sottolineare che al centro del discorso anoressico il corpo assume uno statuto di
privilegio: è il corpo filiforme, etereo, evanescente, il corpo che flirta potentemente col niente. E’
l’idea di un corpo al di là della differenza sessuale, è l’immagine del corpo “ridotto all’osso”. E’ il
corpo spogliato da tutti gli orpelli che danno consistenza a un corpo fatto di carne.
Recenti studi nel campo dell’anoressia mentale sottolineano che l’errata percezione del
proprio corpo che mina, in modo particolare, l’adolescenza, viene amplificata nel caso di un
rapporto carente con la figura paterna, laddove il padre risulti particolarmente assente, immaturo e
incapace di gestire lo sviluppo psico-sessuale della propria figlia. La centralità del ruolo paterno
rispetto alla configurazione dell’immagine corporea è stata spesso trascurata a favore di una
maggiore attenzione alla relazione madre-figlia, cui il padre si affianca spesso come una figurasfondo, confondendosi a volte con l’elemento materno.
Di fatto, la consapevolezza della propria identità femminile dipende solo in parte
dall’identificazione con la madre, in quanto è da entrambi i genitori che essa viene
39
influenzata. Il padre rappresenta la prima esperienza che una bambina fa del maschile e,
conseguentemente, la figura paterna condiziona fortemente lo sviluppo della sua crescita e
l’avvento della sua identità femminile. Gli esiti della fragilità di questo legame mettono in luce che
sottovalutare l’importanza che ha per la figlie il potersi riconoscere nello sguardo del padre in
quanto soggetto degno di cure, attenzioni e premure amorose, può determinare il rischio
dell’anoressia.
Una serie di ricerche condotte su campioni di soggetti anoressici hanno registrato
un’incidenza elevata del malfunzionamento del legame padre-figlia come causa di conflitti che
investono la sfera dell’immagine corporea e prendono la forma dell’anoressia nervosa,
manifestandosi spesso con un esordio in epoca puberale6.
La qualità di un rapporto empatico e accogliente con la figura paterna risulta, dunque, essere
fondamentale per scongiurare il rischio di uno scatenamento dell’anoressia, promuovendo e
rafforzando nelle figlie un’identificazione femminile positiva e la possibilità di accedere ad un
corpo sessuato, che prenda il posto di un corpo che di fronte allo specchio è sempre estraneo,
ingombrante, sempre di troppo, sempre tutto o sempre niente.
6
Cfr. a questo proposito le ricerche condotte da Engel e Stienem 1988, K. Rowa, P.K. Kerig e J. Geller nel 2001, F.
Muratori nel 2004.
40
I SITI WEB PRO ANORESSIA
di Isabella Usardi
41
Secondo le stime del Rapporto 2007 – XLI Rapporto sulla situazione sociale del paese – a
cura del Censis, nel 2007 gli utenti complessivi di internet hanno raggiunto una quota pari al 45,3%
della popolazione. Prendendo in considerazione solo gli utenti abituali, quelli cioè che si connettono
almeno tre volte alla settimana alla rete, si è passati dal 28,5% del 2006 al 38,3% del 2007, con un
indice di penetrazione che ha raggiunto tra i giovani il 68,3% e tra i più istruiti il 54,5%.
Non solo chat, e-mail o sms, ma anche forum, siti di social networking (come MySpace e
Facebook) e blog.
Esistono differenti tipologie di siti; quelle su cui ci soffermeremo sono i Siti Web Pro
Anoressia i quali si sviluppano in due categorie parallele: i blog e i forum.
La prima tipologia consiste nell’utilizzo di blog – ossia un diario online – e la seconda
categoria, quella dei forum, è caratterizzata dall’instaurazione di discussioni online.
Soffermiamoci sulla definizione e nascita dei blog.
Il termine blog è la contrazione di web log, ovvero "traccia su rete", termine creato da Jorn
Barger nel dicembre del 1997.
Si tratta di un diario in linea sul web, nel quale ognuno ha la possibilità di pubblicare i suoi
scritti, disegni, suoni e filmati a costo zero. Ha iniziato a prendere piede nel 1997 in America e nel
2001 è divenuto di moda anche in Italia, con la nascita dei primi servizi gratuiti dedicati alla
creazione e gestione di blog (servizi di bloghosting).
I blog pro-Anoressia in particolare sono nati in America alla fine degli anni Novanta e giunti
in Italia nel 2002.
Se nel mondo sono 300 mila i siti a favore dell’anoressia, creati da persone che soffrono
di questo disturbo, in Italia si contano circa 260 blog che raccontano di anoressia, bulimia o in
generale di disturbi dell’alimentazione. E tutti sono creati da ragazze molto giovani: l’età media
delle autrici è infatti di 17 anni, ma non mancano dodicenni o tredicenni. La fotografia del
fenomeno arriva dall’Eurispes, che ha condotto un monitoraggio della rete.
Fra i blog monitorati, più della metà risultano ancora attivi (153), 10 sono sospesi, ossia non
aggiornati da almeno un anno, 62 sono stati privatizzati (cioè resi fruibili solo da una cerchia
ristretta di persone che accedono solo dopo l’approvazione dell’autore), mentre 36 sono stati
oscurati. Bisogna sottolineare che i blog privatizzati, così come quelli oscurati, non rendono noto il
contenuto del “diario”, per questo l’Eurispes ha ritenuto opportuno conteggiare solo quelli in cui
l’indirizzo web faccia esplicitamente riferimento all’anoressia o ai disturbi del comportamento
alimentare.
42
Alla base di questi siti è individuabile la filosofia pro-Ana e pro-Mia nella quale
l’anoressia e la bulimia non vengono concepite come patologie ma come un ideale verso cui
tendere.
Ecco di seguito un brano esplicativo tratto da un blog pro-Ana:
“Questo è un blog ‘a più mani’ di ragazze con una filosofiap pro-Ana. ANA NON E’ UNA
MALATTIA, ma una filosofia. Un modo di vivere, un modo di vedere le cose di questo mondo. In
particolare, per chi fa parte di questo blog, Ana è la filosofia della magrezza.”
Basta infatti digitare qualche parola chiave, come ad esempio i termini “pro-Ana” o
“thininspiration”, per entrare in un labirinto fatto di blog, chat e forum nel quale i partecipanti si
sostengono reciprocamente condividendo regole, consigli e trucchi su come ridurre la quantità
di calorie introdotte giornalmente e nascondere ai familiari ed agli amici il rapido
deperimento.
Riporto, a tale proposito, il post “di benvenuto”, per coloro che per la prima volta si
avvicinano a questi siti, contenuto all’interno di un blog pro-Ana:
“[…] Benvenuta nel mio blog… ti aiuterò io a diventare anoressica pura… insieme
riusciremo a raggiungere la nostra felicità e il nostro meritato posto al sole... puoi farti passare
l'appetito occupandoti la giornata e bevendo molte robe calde come thé non zuccherato, minestrina
light... naturalmente inizia gradatamente... inizia prima col dimezzare le porzioni poi ogni 2
settimane scali ancora… ti indirizzerò io! Sono appena uscita dalla clinica dove mi hanno
ricoverata e ingrassata, perciò ankio devo ricominciare daccapo... ce la faremo.... mettiamocela
tutta... per qualunque delucidazione sono a tua disposizione! [...]"
Esistono molti blog e forum privati ai quali è possibile accedere solo previa iscrizione ed
accettazione da parte del creatore del blog o del moderatore del forum. A questi si accede tramite il
cosiddetto passa parola: trovandone uno e linkando poi sui blog presenti tra i link consigliati.
Elemento distintivo che accomuna la maggior parte dei siti è la presenza di un diario
alimentare nel quale le autrici annotano tutto ciò che hanno ingerito, le calorie di ciascun alimento e
il totale delle calorie assunte nell’arco dell’intera giornata, tenendo conto anche dell’attività fisica
praticata.
“Una mela: 50 cal
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Pesce: 70 cal
Crackers con formaggino: 180 cal
Ho bevuto la solita tisana anche se mi fa veramente skifo… però vabbé
Mezz’ora di cyclette: 200 cal”
L’anoressia e la bulimia vengono concepite come la Dea Ana e la Dea Mia e non è inusuale
che i blogger, prevalentemente di sesso femminile, vi si rivolgano direttamente.
“Ora ho tutto il tempo che desidero per dedicarmi soltanto a te…
Perdonami in questi 9 mesi ti ho accantonata o ti ho messo in secondo piano..
Ti prometto che non accadrà più: ora sono solo ed unicamente tua..
Ti prego, mi riprendi con te, ANA?”
All’interno di questi siti ci si sostiene in un percorso volto alla ricerca della perfezione,
desiderosi di rispecchiare canoni estetici che richiedono di essere “magri da morire”. Si gioisce
insieme dell’emaciazione del proprio corpo, del sentire le ossa che sporgono, perché vuol dire che si
è raggiunto l’obiettivo – ossia la denutrizione – , dato che: “Quod me nutrit me destruit” ossia “Ciò
che mi nutre, mi distrugge”.
“Ho voglia di sentire le ossa del mio corpo
ho voglia di accarezzarle
voglio sentire ana vicino a me
voglio essere quella che non sarò mai
voglio pesare 38 kili e sarò felice…”
E’ riscontrabile un altro importante elemento, ossia la compra-vendita di braccialetti che
vanno ad attestare l’appartenenza e la condivisione della filosofia pro-Ana: costano dai 3 ai 20
dollari e sono rossi per chi soffre di anoressia e color porpora per chi soffre di bulimia.
Nei blog sono inoltre spesso presenti video e sondaggi come i seguenti:
Usate tagliafame?

Sì
44
No
Ci sto pensando
Quanto vi sentite pro-Ana?

Poco
Abbastanza
Molto
Ci sto mettendo tutta me stessa
Qual è la funzione principale alla quale assolvono i blog pro-Ana per coloro che li creano e
vi partecipano?
E’ possibile definire come all’interno dei siti pro-Ana i partecipanti cerchino un
rinforzo alle proprie motivazioni. Un rinforzo che avviene traendo forza, mediante la
condivisione con altri, delle proprie idee relative all’anoressia e alla bulimia come forma di
innalzamento spirituale, come ideale di bellezza e perfezione verso cui tendere (Ladogana, 2006).
I “thin commandments”
Si condividono i medesimi comandamenti, definiti “Thin Commandments” i
comandamenti per essere magra, qui di seguito riportati con traduzione a fianco:
“Ana Commandments – Comandamenti Ana
1. If you aren't thin you aren't attractive – Se non sei magra non sei attraente
2. Being thin is more important than being healthy – Essere magre è più importante di
essere sane
3. You must buy clothes, cut your hair, take laxatives, starve yourself, do anything to make
yourself look thinner – Devi comprare vestiti, tagliarti i capelli, assumere lassativi, ridurre te stessa
alla fame, fai ogni cosa che possa renderti più magra
4. Thou shall not eat without feeling guilty – Tu non puoi mangiare senza sentirti in colpa
5. Thou shall not eat fattening food without punishing oneself afterwards – Tu non puoi
mangiare cibi che ingrassano senza in seguito punire te stessa
6. Thou shall count calories and restrict intake accordingly – Tu devi contare le calorie
limitarne l’assorbimento di conseguenza
7. What the scale says is the most important thing – Quello che la bilancia dice è la cosa
più importante
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8. Losing weight is good/gaining weight is bad – Perdere peso è giusto, aumentare di peso
è sbagliato
9. You can never be too thin – Non potrai mai essere troppo magra
10. Being thin and not eating are signs of true will power and success – Essere magri e non
mangiare sono segni di vero potere e successo”
Colpisce come la scelta lessicale sia attenta ed accurata, basti infatti osservare come in
alcuni dei Comandamenti venga utilizzato invece che “You” il pronome personale “Thou”, d’uso
antico e oggi utilizzato ancora nelle preghiere allo scopo di conferire solennità e sacralità a quanto
espresso e assunto come valore.
“Lettera da parte di Ana”
Qui di seguito un estratto della “Letter from Ana” contenuta in numerosi blog pro-Ana.
“Permettimi di presentarmi. I “medici” mi chiamano Anoressia. Anoressia Nervosa è il mio
nome completo ma tu puoi chiamarmi Ana. Mi auguro che diventeremo grandi amiche.
Ti ricordi cosa dicevano i tuoi insegnanti e i tuoi genitori? Che eri così matura, così
intelligente e promettente? Non mi dirai che ti basta vero? Non ti può bastare, non ti deve bastare!
Non sei perfetta, non fai abbastanza fatica!...
Ti porterò a mangiare sempre meno e a fare sempre più esercizio. … Sono con te quando ti
svegli al mattino e quando corri alla bilancia. Dipendi dalle sue cifre.
Pregherai di pesare meno di ieri, della scorsa notte, di poche ore fa. Guardati allo
specchio! Strappa via quel grasso schifoso! Sorridi solo quando vedi spuntare le ossa. …
A nessuno importa di te. Sono l’unica che sta cercando di aiutarti. Lo so che a volte la
sofferenza ti può sembrare insopportabile ma è per il tuo bene. …
Svuoterò la tua testa da ogni preoccupazione tranne quella di contare le calorie. Sono la
tua unica amica, l’unica di cui hai bisogno. Ma non devi dirlo a nessuno: se ti metterai contro di
me, se racconterai a qualcuno di noi due, tutto l’inferno si libererà.
Io ho creato questa sottile, perfetta bambina di successo! Senza di me non sei nulla. Non
combattermi. Quando gli altri commentano, ignorali. Dimenticati di loro, dimenticati di chiunque
provi a portarti via da me.
Sono il tuo bene più grande.
E lo sarò sempre.
Con amore,
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Ana.”
Le icone pro-Ana
All’interno dei blog è inoltre usuale trovare le “icone pro-Ana”, delle piccole immagini
contenenti delle frasi che rappresentano dei motti sui quali si basa la filosofia pro-Ana.
Alcuni esempi:
La maggior parte dei blog è inoltre dotata di un indicatore di peso, il quale indica il percorso,
inteso come perdita di chili, per raggiungere il peso ideale a partire dal peso reale.
Alla base della cosiddetta “Thinspiration” è possibile individuare anche le immagini thinspo
e le immagini fatspo. Le immagini thinspo, da thin “magro” ed inspiration “ispirazione”,
dovrebbero incitare a resistere e desistere alla tentazione e al desiderio di mangiare, raffigurano
spesso attrici e modelle magrissime, al limite della denutrizione che divengono icone ed esempi da
seguire. Alcune immagini propongono invece fotografie di persone obese: queste immagini sono
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dette reverse thinspo o anche fatspo e dovrebbero a loro volta stimolare le ragazze a non mangiare,
a “continuare ad amare “Ana”, al fine di non divenire come i modelli proposti.
IMMAGINI THINSPO
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IMMAGINI FATSPO
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Per quanto concerne la veste grafica dei blog, ossia il template, l’iconografia è varia ma
riconducibile a pochi elementi. Ricorrono spesso immagini di farfalle, un insetto sentito come
modello ispiratore per la sua leggerezza e forse per il suo percorso di vita: da bruco a crisalide a
farfalla, proprio come le ragazze che soffrono di disturbi alimentari “costrette” dentro ad un
corpo che non riconoscono e che vivono come una prigione con la speranza però di riuscire
prima o poi ad incarnare l’ideale che rincorrono.
Altrettanto spesso ricorrono immagini di fate e ballerine, piume e petali ed altri elementi che
evocano leggerezza, purezza ed eleganza. Su alcuni blog si trovano inoltre immagini di tipo gotico,
tombe, croci, ed immagini cosiddette “dark”: vengono veicolati sentimenti depressivi, un generale
senso di oppressione, di solitudine e di forte dolore e le scelte grafiche di alcuni blog ne sono
palesemente la riprova.
E’ fondamentale sottolineare il ruolo ed il peso che la componente imitativa detiene nel
mantenimento e nel rinforzo di pensieri ed idee legati ai DCA.
Si tratta però di una componente imitativa caratterizzata da un profondo senso di acriticità
che richiama quindi l’importanza di accurati e mirati programmi di prevenzione e formazione in
grado di fornire degli strumenti che consentano la separazione tra sé ed il sintomo come ideale
verso cui tendere.
L’estrema pericolosità dei siti pro-Ana
E’ fondamentale, all’interno del discorso sui siti pro-Ana, avere la consapevolezza del
pericolo che questi rappresentano per gli adolescenti. Questi ultimi sono infatti a rischio rispetto
ai messaggi veicolati all’interno dei blog in quanto non hanno ancora strutturato adeguati
strumenti per farvi fronte criticamente e oltretutto sono soliti utilizzare molto internet anche
come strumento di socializzazione e vivono una fase dello sviluppo caratterizzata da profonde
trasformazioni somato-psichiche che rendono spesso difficoltosa l’accettazione del proprio corpo.
Molti di coloro che si avvicinano per la prima volta a questi siti tendono a visitarli, esplorarli
e poi a lasciare timidamente un commento. Il fatto di aver lasciato un messaggio li spronerà a
cliccare nuovamente sui blog o forum visitati per visionare se sia stata o meno fornita una risposta.
E’ un mondo di solitudine caratterizzato da profonda inquietudine quello in cui un
adolescente per passare il tempo naviga in internet e si imbatte in un sito pro anoressia che lo attrae
in quanto vi ritrova le proprie difficoltà, delle problematiche che sente vicine e che ha l’impressione
che in quella “realtà virtuale” possano essere ascoltate ed accolte secondo una modalità non
giudicante.
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“Quando arrivavo in una di quelle discussioni che non portavano da nessuna parte, ma che
evidentemente servivano, pensavo… quanta gente come me! Quante storie uguali! Ne leggevo una e
dicevo: "io questa la devo conoscere", perché anch'io facevo quella cosa orrenda… Se ci penso ora
realizzo che ero folle, folle e nient'altro …”
Decide così di lasciare un segno, un segno della propria presenza ed esistenza sperando che
qualcuno lo colga e vi dia una risposta. Viene così progressivamente e gradualmente calamitato in
un mondo, quello dei siti pro-Ana e pro mia nei quali ci si sostiene a vicenda e per dimagrire e
potersi finalmente piacere, dove vengono forniti semplici trucchi che porteranno presto ad essere
felici. Non viene colta la drammaticità e la pericolosità della situazione e la necessità di
parlarne e confrontarsi con adulti di riferimento che possano offrire un aiuto concreto e
professionale.
I creatori di questi siti inoltre non riescono a cogliere la responsabilità che hanno dato che
pubblicano sul Web scritti, filmati ed immagini visionabili da chiunque suggerendo e diffondendo
condotte alimentari altamente lesive. Non vi è la consapevolezza dell’importanza di assumersi la
responsabilità e di essere critici anche rispetto ai modelli e agli stili di vita che si contribuisce a
diffondere.
Il corpo all’interno dei post dei blog pro-Ana
Soffermiamoci su come viene veicolato il corpo all’interno dei post dei blog pro-Ana.
Dall’analisi dei post contenuti nei blog pro-Ana emerge chiaramente come vi sia una netta
distinzione, scissione tra corpo e mente. Il corpo è vissuto come una prigione che impedisce la
libera espressione di sé, della propria anima. Ecco perché si cerca di modellare, scolpire, controllare
il corpo.
Vi è l’idea che “costruire” il proprio corpo possa equivalere a cambiare la propria vita.
“…5 chili mi separano dalla felicità…”
Si evidenzia il rifiuto del corpo femminile, sessuato ed emerge un forte desiderio di
tornare a possedere un corpo infantile. Viene infatti attaccata la dimensione sessuata del corpo e
quella generativa a favore di una immagine del corpo molto primitiva ed indifferenziata.
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“Vorrei svegliarmi e trovarmi dentro un corpo piccolissimo…
…riuscirò ad avere un corpicino fragile, ed Ana ne sarà la mamma.”
Questo desiderio è individuabile anche facendo riferimento ad un nuovo “test” che consiste
nel fare shopping in negozi per l’infanzia 0-12 e se si riesce ad indossare abiti da 0 a 6 anni vuol
dire che si è raggiunto il peso concepito come ideale.
In questa religione l’ideale del corpo magro si feticizza, diventa idolo. Il sacrificio morale
e la spinta ascetica trovano così una loro compensazione in questa trasformazione del corpo in
fortezza.
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ANORESSIA-BULIMIA AL MASCHILE
di Francesco Bergamin
53
L’anoressia nervosa, e con essa la sua variante bulimica, è stata da sempre considerata una
patologia riguardante quasi esclusivamente le donne, a causa della preponderante incidenza nella
popolazione femminile. Anche i criteri diagnostici sono stati finora incentrati sulla donna; basti
pensare che uno dei più importanti sintomi della malattia è considerata l’alterazione del ciclo
mestruale. Molti casi di anoressia maschile, quindi, non sono riconosciuti come tali o non
vengono precocemente e preventivamente diagnosticati; l’incidenza della variante al maschile
di questa patologia, pertanto, è ancora molto sottostimata.
Secondo le più recenti indagini epidemiologiche il 5%-10% delle persone che soffrono di
anoressia nervosa sono soggetti di sesso maschile. Se invece consideriamo il disturbo da
alimentazione incontrollata (“Binge Eating Disorder”) ecco che la percentuale di popolazione
maschile sale di molto (30% del totale) e quindi le differenze di genere si assottigliano.
Se oggi iniziamo a riscontrare un incremento della domanda di cura al maschile, è perché
questa premessa di genere è stata ridimensionata e quindi è diventato socialmente più “lecito” per
un uomo chiedere aiuto. Non si tratta quindi propriamente di un incremento reale a livello maschile
di questa patologia, ma piuttosto si può supporre che ci siano più uomini che richiedono aiuto alle
istituzioni terapeutiche, venendo meno uno stereotipo di genere fortemente connotato.
Tuttavia permane una certa difficoltà da parte degli uomini a richiedere un aiuto psicologico presso
un’istituzione terapeutica, per una disposizione molto maschile a risolvere i problemi in modo
autonomo, e per una maggiore difficoltà a mettersi in discussione attraverso una relazione di cura
che preveda degli aspetti di dipendenza.
La fascia di età interessata comprende soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, anche se
l’esordio nei maschi avviene, di solito, più tardi rispetto al periodo puberale e non nella primissima
adolescenza come spesso avviene per le donne, forse appunto perché il disturbo non è legato in
questi casi ai tempi della maturazione sessuale femminile.
Anche per i giovani maschi, come d’altronde accade per le femmine, riconoscersi nel
proprio corpo naturale è un problema evolutivo complesso. A seguito dello sviluppo puberale il
preadolescente maschio deve costruire una immagine mentale del nuovo corpo. Si tratta di
riconoscere consapevolmente i cambiamenti avvenuti e di riconoscere le nuove emozioni prodotte
dalla maturazione sessuale. Sembra che molti giovani ragazzi siano alle prese con la necessità di
manipolare a volte violentemente il nuovo corpo. Le pratiche del piercing e del tatuaggio sono
sempre più diffuse tra i giovani, come del resto è in crescita il fenomeno dei “cutters”, di quei
giovani cioè che si praticano tagli superficiali sulla pelle.
Anche il doping e l’assunzione di droghe prestazionali che pretendono di incrementare
le capacità fisiche e psichiche perseguono l’obiettivo di imporre al corpo delle prestazioni
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artificiali. Ed è diventato comune lavorare direttamente sul corpo per raggiungere gli obbiettivi
imposti dalle mode e dai nuovi valori generazionali. E se per le ragazze l’obiettivo è una magrezza
spesso esagerata, è un’istanza specifica del maschio quella di scolpire le masse muscolari,
controllando il loro sviluppo e la morfologia complessiva. Questa declinazione al maschile di un
corpo investito di un controllo e di un valore estremizzati per il soggetto prende il nome di
“vigoressia”. Non si può parlare di un vero e proprio ideale di bellezza maschile, quanto piuttosto di
un ideale di virilità, che si definisce attraverso lo specchio e lo sguardo severo dei coetanei.
In alcuni casi può risultare scatenante, per quanto riguarda l’eziologia, l’incontro con
l’altro sesso, che risulta essere per varie ragioni traumatico. La soluzione anoressica maschile
può funzionare, allora, come “rimedio” a questo incontro. Sul versante femminile questa soluzione
viene utilizzata spesso sotto forma di una domanda muta e disperata rivolta all’Altro, per metterlo
alla prova con l’imperativo: “Amami a prescindere dal mio corpo, riconoscimi e desiderami come
persona”, o per tenerlo a distanza, rifiutando, attraverso la negazione del proprio corpo, anche la
sessualità. Sul versante maschile, al contrario, l’anoressia permette, secondo una logica distorta,
l’incontro sessuale: in un certo senso disinibisce il soggetto come succede con l’uso di cocaina – e
quindi in modo patologico – , e ristabilisce un alto valore di sé. Alcuni soggetti vivono infatti con
euforia la fase anoressica e in questa si sentono di conseguenza facilitati nelle relazioni con l’altro
sesso, perché hanno conferma del proprio valore nel riuscire a raggiungere e a personificare il
proprio ideale estetico e virile.
In altri casi, più gravi da un punto di vista psicopatologico, la spinta a dimagrire è
interpretabile come un modo per mettere a freno una pulsione interna che è vissuta in modo
persecutorio attraverso una forte iperattività e un controllo ossessivo.
Sicuramente negli ultimi anni c’è stato un cambiamento in ciò che definisce l’identità
maschile, e l’immagine corporea non è estranea a questo cambiamento. L’ideale estetico maschile
ha subito profonde mutazioni ed è stato ultimamente iperinvestito e sopravvalutato, tanto da
avvicinarlo a un modello femminile. Dobbiamo perciò riconoscere che il crescente culto del corpo
maschile a livello di media, testimoniato dal proliferare delle riviste per uomini che valorizzano la
forma fisica e la comparsa sul mercato di prodotti dietetici/dimagranti o di bellezza rivolti a un
pubblico maschile, hanno prodotto e accentuato una focalizzazione eccessiva e distorta rispetto
all’ideale estetico maschile. Fino ad assottigliare le differenze – anche a livello di espressione
sintomatica – rispetto all’utilizzo che ne fa l’altra metà del cielo.
Il corpo offre una possibilità di identificazione forte, immediata: controllarlo attraverso il
cibo e un’intensa attività fisica può restituire un senso che si fatica a ritrovare altrove (per esempio
nelle relazioni e nelle emozioni ad esse connesse che risultano molto più difficili da gestire).
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Il corpo anche per l’uomo è diventato un canale comunicativo privilegiato con cui esprimere
sicurezza o disagio tanto agli altri quanto a se stessi, dove trovare riscontro pratico di un senso di sé,
termine unico di confronto per un narcisismo che chiude all’Altro, radicalizza l’assoluto
autoreferenziale. L’aspetto fisico arriva ad assumere anche per l’uomo il valore di palcoscenico e
banco di prova con cui misurarsi con gli altri ma soprattutto con un idea di sé, e delle aspettative ad
essa connesse, connotata da un rigore estremo e da un perfezionismo spesso esasperato.
Questo rapporto frustrante con l’ideale da parte del maschio contemporaneo rimanda ad
aspetti narcisistici di inadeguatezza che riguardano la difficoltà, riscontrabile anche in altri ambiti –
e sintomi – , ad accettarsi e a riconoscersi.
Il corpo vissuto sempre in difetto rispetto a un ideale mortificante e raramente sazio,
soddisfatto, viene sottoposto a un’ascesi spaventosa e a dei regimi insopportabili, e spesso il
soggetto maschile reagisce con una perdita totale di questo controllo estremo rivelatosi impossibile.
Assistiamo così a un viraggio verso abbuffate compulsive e una continua ed estrema attività
motoria svolta con modalità frenetiche e volta a compensare l’eccesso calorico ingerito e i sensi di
colpa ad esso connessi. Il risultato è un circolo vizioso, una vita centrata sul pensiero del cibo e del
corpo, e dei rituali coatti svolti per controllarlo, connotata da una grande sofferenza che
difficilmente raggiunge la possibilità simbolica/espressiva della parola, intrisa com’è di corporeità e
concretezza.
L’ansia, l’insicurezza, l’incapacità di tollerare la frustrazione trovano per l’uomo
moderno un corpo-feticcio immediatamente disponibile su cui sfogare la propria rabbia
(spesso i pazienti maschi riconoscono un aspetto autopunitivo nel tentativo di manipolazione del
proprio corpo) o su cui trovare una facile compensazione (le abbuffate che arrivano a spegnere il
desiderio e il sentire, mortificante, di ciò che non si può avere). Questi aspetti di rabbia narcisistica
sono legati a un ideale ipertrofico e grandioso, irraggiungibile e demotivante per il soggetto
maschile e determinano una bassa autostima e uno scarso livello di autoefficacia percepita. Tutto
ciò più che una reazione positiva del soggetto produce una ripetizione acefala, ossessiva, che svuota
il sintomo stesso della sua valenza simbolica originaria, per diventare, infine, abitudine rigida e
necessaria, modus vivendi irrinunciabile, e pertanto non criticabile.
I soggetti maschi che arrivano a rivolgersi a un’istituzione specialistica per richiedere un
aiuto psicoterapico spesso sono portati e motivati da altri (genitori o fidanzate) e caratterizzati da
profonda sfiducia nel tentativo che stanno compiendo e da vissuti di grande, inaccettabile vergogna
per la propria condizione. Lo smascheramento di questa loro sofferenza può costituire di per se
stesso un fatto traumatico e viene pertanto, da parte di questi soggetti, a lungo rimandato o evitato.
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Grande isolamento affettivo, evitamento e un’idea grandiosa di sé che comporta dei risvolti
frustranti e inibenti; il tutto spesso coperto da una maschera (falso sé) fatta di pseudo-adeguatezza e
funzionalità; tutto questo non porta il soggetto a mettersi in relazione né con i suoi contenuti
intrapsichici né, tantomeno,
con quelli interpersonali, ma a creare un sistema autarchico e
autoreferenziale che si illude di bastare a se stesso, ma che, fin da subito, mostra tutte le sue
debolezze. Un sentimento profondo di disperazione e sofferenza si accompagna all’impossibilità di
esprimerlo o di riconoscerlo.
In questo ci sembra consistere la drammaticità della variante maschile dell’anoressiabulimia e la sfida rivolta alla clinica contemporanea dei disturbi alimentari: riconoscerne una
specificità propria a partire dalla tecnica e dalla teoria sino ad oggi sviluppata sui soggetti
femminili.
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58
IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLE PATOLOGIE
ALIMENTARI
di Elena Bruzzone
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Il disturbo alimentare costituisce una delle patologie più diffuse nell’attuale contesto socioculturale, suscitando continuamente l’attenzione dei mass-media.
Un filone interpretativo dell’anoressia ne rintraccia le cause sociali a livello di
condizionamento pervasivo operato dai media, che diffondono un’immagine ideale del corpo
femminile come corpo magro – attraverso messaggi che evidenziano ed esaltano la “figura perfetta”
– a cui le giovani anoressiche, accomunate da una fragilità profonda relativa alla propria identità,
aderiscono restandone intrappolate.
La cultura dell’immagine, catastrofica a volte nelle sue richieste, colpisce così
frequentemente gli adolescenti, perché vivono un momento evolutivo in cui sono più sensibili
all’approvazione e al riconoscimento da parte degli altri. Ma non va trascurato il fatto che, nella
maggior parte dei casi, esiste un impegno familiare non adeguato a sostenerli nell’evoluzione
dell’identità e, prima ancora, è venuta a mancare l’esperienza di un autentico sostegno affettivo.
Nella società attuale infatti è prima di tutto la dimensione del desiderio e dell’amore ad
essere cancellata a favore di quella del consumo. Vista l’enorme offerta di oggetti di godimento
dell’epoca contemporanea, i ragazzi, in particolare, sono dei soggetti a rischio per tutte le cosiddette
“patologie della dipendenza”, in cui un oggetto, una sostanza, diviene la soluzione illusoria alle loro
difficoltà esistenziali. L’inganno della società capitalista diventa pertanto l’illusione che gli oggetti
possano regalare la felicità: “Se hai quell’oggetto sei bello, felice, desiderabile, amabile,…”.
Il benessere tende quindi a sopprimere la dimensione della mancanza, che è insita nel
soggetto fin dalla nascita – e che tale deve rimanere per non creare degli squilibri irreparabili –
attraverso un’offerta continua di beni di consumo.
Il sistema del consumo e dell’identificazione di massa tende così ad annullare la
differenza soggettiva omologandola in una falsa universalità.
Alcuni sintomi specifici, come innanzitutto il rifiuto sintomatico del cibo, ma indubbiamente
anche la distorsione della percezione dell’immagine corporea e l’ossessione del controllo del peso,
troverebbero così il proprio terreno di coltura proprio nella cosiddetta “civiltà dell’immagine”, di
cui il corpo magro della donna diviene l’effigie emblematica.
Nella clinica dell’anoressia-bulimia spesso declinata come una clinica del disagio
femminile, potevamo constatare che la famiglia – molto spesso la madre – continuava a tenere la
figlia stretta in un abbraccio soffocante. Si parlava infatti di “madri tutte madri” che avevano fatto
della figlia l’unico oggetto di investimento e che, quindi, non potevano separarsi da lei. La “madre
tutta madre” è quella che ha sacrificato il codice femminile, il proprio essere donna, in favore della
supremazia del codice materno, con le sue caratteristiche di accudimento e di sacrificalità nei
confronti dei figli e della famiglia.
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In questa logica, la figlia diventava l’oggetto del totale investimento da parte della madre
che instaurava con lei un rapporto esclusivo, quasi simbiotico, spesso condividendo con la figlia
ogni sua esperienza, all’interno di un rapporto caratterizzato da una forte identificazione reciproca.
L’anoressia rappresentava perciò una risposta del soggetto all’Altro materno, un tentativo di
trovare uno spazio di separazione possibile, un modo per sottrarsi alla “divorazione” materna,
depotenziandone il “morso” attraverso il rifiuto più ostinato, a partire dal cibo.
Nella società attuale le nuove costellazioni familiari si caratterizzano per un nuovo
assetto dei ruoli e delle funzioni genitoriali.
Nel clima di omologazione che caratterizza le società postmoderne, si è sviluppata
un’indifferenziazione dei ruoli, dei comportamenti sessuali e delle funzioni, comprese quelle
materne e paterne, soprattutto per quanto riguarda le donne, che ricercano la loro completezza non
più, o non solo, nel rapporto simbiotico con il figlio, ma attraverso l’assunzione di modelli che fino
ad ora erano appartenuti alla sfera maschile.
Oggi, la madre è normalmente una donna che lavora, presente sulla scena sociale non
soltanto come madre, ma impegnata in realizzazioni professionali e considera l’indipendenza uno
dei valori fondamentali come donna spingendo la figlia all’autonomia e al successo sociale molto
precocemente.
Per il raggiungimento di questi ideali circonda la figlia di proposte educative varie che
possano garantirle molto presto competenza e competizione sociale. I modelli educativi e i
cambiamenti delle relazioni familiari influenzano fortemente la simbolizzazione della femminilità,
soprattutto nell’adolescenza, quando la figlia cerca nella madre una conferma della propria
crescita e una legittimazione della propria femminilità.
Il tema della relazione madre-figlia è stato senz’altro uno dei temi più investigati nell’ambito
dei disturbi alimentari ma ha certamente richiamato l’attenzione anche sul ruolo del padre, spesso
carente nell’esercizio di una funzione separativa nei confronti della diade madre-bambino.
Da qui l’esigenza di un lavoro con le famiglie che tenga conto dell’importanza del ruolo e
della funzione che entrambe le figure genitoriali hanno nell’ambito delle patologie alimentari.
Il trattamento della famiglia
Offrire ai genitori uno spazio consultoriale pensato per accogliere le loro problematiche
diventa essenziale nella cura con soggetti anoressici-bulimici. L’obiettivo di questa prima
accoglienza è dare avvio ad una serie di colloqui preliminari alla messa a fuoco della domanda.
È in realtà un vero e proprio lavoro di costruzione della domanda che, come tale, va distinta
dalla semplice richiesta iniziale di avere delle informazioni o un generico aiuto. Se, infatti, dal lato
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dei figli siamo sovente in presenza di un sintomo senza domanda, dal lato delle famiglie siamo in
presenza di una domanda senza sintomo. Il sintomo si colloca, infatti, nel figlio che soffre del
disturbo alimentare.
In questo senso, i genitori sono portatori di una domanda atipica, impropria in quanto
desoggettivata,
perché mira a normalizzare un terzo, il figlio, che con la propria patologia
alimentare rompe il quadro di un equilibrio familiare in verità spesso già compromesso7.
I genitori chiedono di avere sostegno, informazioni, indicazioni su come comportarsi con i
propri figli, fino a quel momento «perfetti», e la loro richiesta è prevalentemente dettata dalla
preoccupazione riguardo la salute fisica e dal bisogno di controllare e intervenire sul piano
dell’alimentazione8.
Spesso, il soggetto anoressico si fa portavoce, senza parole, di un malessere interno alla
famiglia che altrimenti non avrebbe mai potuto essere affrontato ed è pertanto l’indice e, allo stesso
tempo, un tentativo di soluzione di un assetto familiare disfunzionale9.
Sarebbe tuttavia semplicistico dire che è la famiglia ad essere malata, sarebbe come
accettare che è un tutt’uno, senza le particolarità e la specificità di ciascuno.
Il trattamento della famiglia implica la presa di coscienza, da parte del genitore, della
funzione che il disturbo alimentare viene ad assolvere nell’ambito delle relazioni familiari. Il passo
successivo è cogliere il grado di implicazione soggettiva nella costruzione di questo disagio.
Fin dai primi colloqui sarà quindi importante introdurre una divaricazione tra l’aspetto
immaginario della richiesta d’aiuto, rappresentato ad esempio dalle aspettative riposte dai genitori
nell’”esperto dei disturbi alimentari”, e l’aspetto simbolico della domanda, che riguarda invece la
verità della loro storia personale e familiare.
Si tratta, dunque, di avviare un’operazione di rettifica della domanda del genitore e, per
questa ragione – sebbene un contenimento pedagogico, all’inizio o in fasi particolarmente gravi e
drammatiche, sia necessario nel lavoro coi genitori – la logica del trattamento non deve rispondere
ad un criterio rieducativo o correttivo del sistema familiare, quanto a fornire degli strumenti che
possano consentire ai genitori di minimizzare il rischio di comportamenti collusivi che innescano la
ripetizione e il consolidamento del disturbo alimentare.
Gli spazi separati
7
Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998.
8
Cfr. De Marchi M., “Il rapporto con i genitori”, in ABA News, Anno III, Aprile-Giugno 1994, n°7, pag. 6.
9
Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998.
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La scelta di far incontrare separatamente genitori e figli con operatori differenti, in tempi
differenti, diventa necessaria per evitare che l’ascolto degli uni vada a sovrapporsi a quello degli
altri. Il setting separato ha la funzione di sancire simbolicamente un primo taglio e una prima
divisione. L’obiettivo di questa separazione è di accogliere il nucleo familiare, restituendo però ad
ogni componente la singolarità della sua parola.
Evitare qualunque tipo di sovrapposizione reciproca sottolinea il valore dell’intimità della
cura stessa che è tuttavia coordinata dal lavoro d’équipe degli operatori. Tale scelta metodologica
permette ai figli di non vivere la presenza del genitore come una presenza intrusiva, che
replicherebbe ulteriormente lo stile delle relazioni familiari.
Uno “spazio genitori” ben separato da quello già offerto ai figli è quindi importante per
interrompere l’invischiamento che rischia di riproporsi anche all’interno dello spazio deputato alla
cura.
Lo spazio separato va, quindi, nella direzione di delineare la dimensione di una separazione
e di un lavoro di simbolizzazione all’interno di questi sistemi familiari in cui i ruoli e gli ambiti di
ciascuno sono spesso sovrapposti, confusi o non definiti10.
L’apertura dello spazio dedicato alle famiglie ha un considerevole effetto di alleggerimento
della tensione all’interno del nucleo familiare, non soltanto perché viene offerto un luogo dove le
ansie del genitore possono essere espresse ed elaborate, ma perché ben presto i figli sono confortati
dal fatto che i genitori stessi siano riusciti a costruirsi un luogo per la propria parola11.
Nella cura con soggetti anoressico-bulimici il coinvolgimento dei genitori è pertanto spesso
decisivo per il successo o il fallimento della terapia; non è infatti pensabile una terapia che non
preveda il trattamento delle dinamiche familiari irrisolte e spesso a fondamento del disagio
alimentare.
Tuttavia, senza un lavoro preliminare sulla loro domanda, difficilmente il lavoro con i
genitori potrà incidere nella cura del disordine alimentare dei figli.
10
Cfr. Bossola E., “Un interrogativo sul padre”, in Menghi C., Pace P. (a cura di), Anoressia e bulimia: il trattamento
della famiglia. L’esperienza clinica dell’ABA, Franco Angeli, Milano 1999.
11
Cfr. Barbuto M., Pace P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia di soggetti anoressicobulimici”, in Recalcati M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Borla, Roma 1998.
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SUL FRONTE DEL CORPO
64
di Luisa Stagi
Perché oggi il corpo ha assunto questa importanza? Perché passiamo così tanto tempo a
curarlo, colorarlo, depilarlo, gonfiarlo in certi punti sgonfiarlo in altri, lisciarlo, tonificarlo? Ci basta
dire: perché è la moda che lo impone o c’è qualcosa di più? Che cosa rappresenta realmente oggi il
corpo?
Spesso si sente dire che il corpo magro è il corpo alla moda, poiché essa detta certi canoni e
che ciò è anche una delle cause del proliferare dei disturbi alimentari. La riflessione che invece
vorremmo sviluppare nell’incontro vuole ampliare un po’ il discorso.
Certamente l’idea di bello, di sano, di normale - o anche di buono - deriva da un gusto che è
prodotto culturalmente e che varia costantemente a seconda delle epoche storiche; per esempio, se
scorriamo le immagini di donne famose in diversi momenti del secolo scorso: da Marleen Dietrich a
Marylin Monroe, per arrivare a icone più recenti, vedremo come il modello di bellezza che loro
65
hanno rappresentato era fortemente legato al ruolo femminile che il quel momento dominava
socialmente e come le forme, e si intende sottolineare “conseguentemente” la moda, traducano poi
questo in “bellezza”.
Proprio per questo ci si riferisce al corpo come ad un “testo”, una superficie dove
rimane scritto tutto ciò che noi siamo, vorremmo essere o apparire, dove mettiamo a
disposizione i codici di come verremo “riconosciuti” dagli altri e allo stesso modo
“decodifichiamo” gli altri: quando incontriamo qualcuno la sua forma, i suoi abiti…i suoi segni, ci
danno delle informazioni su di lui anche se non lo conosciamo e questa decodifica viene operata
costantemente, spesso anche incosapevolmente. Si pensi a quanto questo è evidente nelle
popolazioni primitive, dove le marcature corporee (tatuaggi, perforazioni ai lobi o alle labbra,
collari e quant’altro) sono sempre servite per segnare gruppi d appartenenza, riti religiosi o
semplicemente per abbellire.
Sul corpo vanno a finire e si rendono evidenti tutte le prescrizioni culturali, le regole e le
aspettative, e per questo anche i disagi di una cultura. “Incorporazione” significa proprio che tutto
quello che ci circonda diventa parte di noi, del nostro corpo, dei nostri gesti: persino il rossore di un
viso, che potremmo pensare essere una reazione “naturale”, ha invece a che fare con la cultura e con
le aspettative (una donna negli anni 50’ arrossiva per motivi diversi da una donna di oggi: questo è
l’esempio di come le aspettative culturali diventano corpo, natura).
La pelle è il confine, il limite di questo lavoro di costruzione e di evidenziazione del sé. In
francese è efficace il termine “espeausition” che unisce appunto la parola pelle all’idea
dell’esposizione della fotografia, come viene “impressa” l’immagine nella pellicola, così sulla pelle
si rende evidente l’identità, che quindi poi la “espone”.
Se questo è sempre stato vero in tutte le epoche storiche e in un tutte le società, mai come
oggi assume un valore ancora più forte e significativo. Perché oggi utilizziamo così tanto il corpo
per dire chi siamo, per comunicare il nostro disagio o per rappresentarci al mondo? La risposta è
molto semplice: perché non abbiamo più null’altro di certo che il nostro corpo. In un mondo in
cui non posso più controllare nulla della mia vita (il lavoro, la famiglia, l’ambiente sono ambiti
costantemente a rischio), in cui un cibo può avvelenarmi, un disastro ambientale annientarmi o un
attentato spazzarmi via in un momento, il mio modo di vivere diventa più complicato, più instabile
e provvisorio. Sento che non posso in nessun modo oppormi a queste forze, ma posso nel mio
piccolo provare a controllare il mio corpo. Il corpo rimane l’unico terreno certo, affidabile su cui
posso incidere: se faccio una dieta il corpo si riduce, se vado in palestra si gonfia, se mi tatuo questo
sarà per sempre. In tutti gli altri ambiti, invece, non conosco gli esiti delle mie azioni: se prendo una
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laurea non è detto che ottenga il mio lavoro, se sposo una persona non è detto che sia per sempre, se
faccio un mutuo non so se manterranno le stesse regole e così via.…
Il corpo è anche il territorio in cui si rendono evidenti i disagi che questa incertezza
genera: i disturbi del comportamento alimentare sono state le prime forme - le più note - di utilizzo
del corpo per esprimere il proprio malessere ed hanno riguardato, inizialmente, soprattutto le
giovani donne. Oggi si sono diffusi in modo epidemico, hanno mutato forma e riguardano sempre
più persone: l’anoressia è entrata nel linguaggio, è diventata una malattia sociale che significa
“controllare” le emozioni, i sentimenti le implicazioni, oltre che il cibo. Si è trasferita nei rapporti
tra le persone, nell’affettività nei consumi, nell’atteggiamento relazionale con il mondo. Non ci
fidiamo e quindi ci chiudiamo, non rischiamo, cerchiamo solo disperatamente di difenderci da soli
più che possiamo.
Non solo, il corpo è uno dei modi che abbiamo per sentirci esistere: il dolore, sembra
paradossale, ci fa sentire di “esserci”. Il corpo viene usato per ricercarne i confini, i limiti e per
riprendere il contatto con la sua fisicità, con la realtà. Condotte a rischio, abuso di sostanze,
abbuffate, autolesionismo non sono solo metodi per ottenere sollievo dalla tensione, ma anche per
recuperare la percezione di sé, dei propri limiti e della presenza identitaria. Si tratta di una ricerca
continua, disperata, affamata di sostegni e di riferimenti, attraverso un corpo “senza rete”, di cui
ognuno ha la libertà e la responsabilità di gestione. Senza rete perché il contesto non fornisce punti
di riferimento esterni, anzi ognuno è solo davanti alle sue scelte; l’ambiente è mutevole e non
permette ancoramenti.
L’incertezza e il rischio generano una serie di comportamenti difensivi che passano
attraverso il corpo e il cibo. Se i più giovani hanno disturbi mutanti e le donne forme di bulimia
multicompulsiva, gli uomini sono maggiormente legati alla ricerca di controllo. L’ortoressia per il
cibo, la vigoressia e la dipendenza sportiva, sono fenomeni in grande espansione, che sembrano
riguardare maggiormente i maschi adulti (un po’ più giovane la fascia di età interessata dalla
vigoressia). È una lotta complessa, ma il discorso sembra suggerire che il corpo è il territorio idoneo
per questa partita, perché ha assunto le stesse caratteristiche dell’ambiente circostante: è senza
confini, senza più limiti è mutante anch’esso.
È proprio la liquidità contemporanea, la sovrabbondanza - e quindi l’insignificanza dei messaggi e delle informazioni a spingere alla ricerca di codici e simboli alternativi a quelli
verbali. Il disagio generato dal muoversi in un contesto di incertezza, di rischio, di complessità
porta a preferire strumenti di definizione che siano concreti, immediati, tangibili. Il corpo diventa
allora la superficie ideale per disegnare la propria individualità, per esprimere le proprie ossessioni
o il proprio disagio, per scrivere in modo indelebile e visibile il proprio dolore. In un sistema in cui
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si è persa la possibilità di conoscere la realizzabilità e i possibili esiti delle proprie azioni, il corpo
rimane l’unico materiale certo, permanente, ma anche sensibile all’agire del singolo. Non a caso le
pratiche corporee sono anche state definite “sostegni identitari”; ciò non solo perché “il disegnare”
il corpo consente di operare soggettività, ma anche perché tutte queste azioni sul corpo passano
attraverso un dolore che ha valenze liberatorie, e proprio attraverso il dominio del corpo si riescono
a ritrovare autenticità e senso rispetto alla propria esistenza.
Molte delle pratiche di modificazione corporea, come ad esempio l’autolesionismo,
agiscono sulla pelle in questo modo: se il corpo è una “materia di identità”, agire su di esso
significa modificare la prospettiva, la natura del proprio rapporto con il mondo. La pelle
rappresenta perciò un’inesauribile risorsa per fabbricare l’identità, non è un caso che ad essere più
interessati a queste pratiche siano gli adolescenti e le donne perché più delle altre categorie hanno
bisogno di “lavorare sul senso e sul controllo”.
Si parla di “chirurgia del senso” riferendosi alla pratica degli adolescenti riguardo alle
modificazioni corporee, proprio per sottolineare l’importanza, in questa fase evolutiva, di poter
incidere sulla propria identità attraverso il corpo, in una fase quindi di cambiamento fisico in cui si
rende ancora più evidente il peso di dover gestire il proprio destino.
La lotta tra controllo e perdita di controllo è continua, assume la forma di un incessante
passaggio da uno stato all’altro: tra forme di compulsività e ricerca di surrogati del controllo, per
questo tali disturbi vengono definiti “mutanti”. La compulsività si esprime anche nello shopping,
nel sesso, nell’abuso di alcool e di sostanze; la ricerca di controllo, invece, viene spesso ricercata
attraverso condotte cosiddette “a rischio”. La malattia, in questa lotta, può diventare un modo per
dare un nome a un disagio che non si sa riconoscere e confinare: certi comportamenti, allora,
vengono estremizzati, ma gli altri permangono latenti, magari in forme non patologiche.
Su un immaginario continuum di disagi legati al corpo e al cibo si possono collocare, in
varie posizioni, tutte le altre pratiche: l’uso di sostanze psicotrope normalizzanti, la chirurgia
estetica, il body building da un lato, le multiformi varianti dell’ortoressia dall’altro. Si può infatti
affermare che malattie corrispondano alla punta dell’iceberg di comportamenti “limite”, ma
ampliamente diffusi e declinati in molteplici varianti come pratiche corporee.
Per tutti questi motivi è sempre più necessario, nello studio e nella cura di questi fenomeni,
utilizzare insieme e in modo complementare diversi approcci disciplinari. Non si possono
considerare di volta in volta solo gli aspetti psicologici o quelli medici o quelli sociali: è necessario
pensare, ed accettare, che questi livelli siano ormai interdipendenti e reciprocamente condizionanti.
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