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La Grecia arcaica e i primi filosofi
I presocratici sintesi
� Paragrafo 1 �
I primi filosofi: Talete, Anassimandro e Anassimene
La ricerca dell’archè Secondo l’interpretazione aristotelica Talete, Anassimandro e
Anassimene, tutti di Mileto (colonia greca in Asia Minore), furono i primi tre filosofi ad
aver individuato un’archè (principio) per spiegare la realtà: il primo nell’acqua, il secondo
nell’àpeiron (parola greca che significa “indefinito”, “illimitato”), il terzo nell’aria. La ricerca dell’archè, come sostiene ancora Aristotele, rappresenta un ragionamento tipicamente
“filosofico”, che è alla base del futuro sviluppo della filosofia e della scienza occidentali:
significa pensare che la molteplicità e la complessità della realtà sono riconducibili a un principio unitario che ha valore fondativo.
� Paragrafo 2 �
Pitagora e il pitagorismo
Le comunità pitagoriche Associazioni religiose, e sovente anche politiche, le comunità
pitagoriche si basavano sull’idea che la dedizione alla ricerca della verità si coniugasse con la
condivisione di uno stile di vita “comunitario” fra gli adepti. Oggetto privilegiato del sapere
era la matematica, insegnata non tanto alla stregua di una sistematica disciplina scientifica, quanto piuttosto come tappa di un cammino di iniziazione verso misteri progressivamente più elevati. Secondo la tradizione, gli adepti si dividevano in due gruppi distinti: i
matematici (“coloro che apprendono”), e gli acusmatici (“coloro che ascoltano”). Quale delle due categorie rappresentasse il grado più elevato nel cammino iniziatico, è tuttora oggetto
di discussione. Certa è l’assoluta e indiscussa verità attribuita alla parola di Pitagora, come
pure l’obbligo degli iniziati di mantenere segrete le loro conoscenze con i profani. Il modo di
“fare filosofia” delle comunità pitagoriche fungerà da modello nei secoli successivi, soprattutto nell’era pagana.
I numeri come archài Anche nella dottrina pitagorica troviamo il medesimo tentativo dei
milesii di individuare un principio generale per spiegare la realtà molteplice. Per Pitagora
tale principio si identifica con i numeri. La numerabilità, infatti, può essere applicata a tutte
le cose, in accordo con il criterio dell’universalità del principio che caratterizza l’impostazione filosofica. In qualità di principio “semi-astratto”, i numeri sono, da un lato, gli elementi
di cui sono costituite le cose; dall’altro, i mezzi per rappresentare simbolicamente la
realtà non materiale. Un esperimento in tal senso i pitagorici l’hanno compiuto rappresentando la giustizia (che consiste nell’equa distribuzione) con quadrati perfetti come il 4 (2 x2),
o il 9 (3x 3).
Le serie di opposti La tradizione attribuisce a Pitagora l’elaborazione di due serie di
opposti, in cima alle quali vi è l’opposizione tra Limite e Illimitato (connotati anche
in senso morale, rispettivamente come bene e male), seguiti da altre coppie come dispari/pari, uno/molteplice, destra/sinistra, maschio/femmina, retta/curva, luce/oscurità
ecc. Se i numeri per Pitagora fossero i principi primi, o andassero subordinati anch’essi
alla coppia Limite/Illimitato, non è una questione del tutto chiarita. È lecito, comunque,
pensare che i Pitagorici ritenessero che tutte le cose, e in primo luogo i numeri, si generassero dall’unione di Limite e Illimitato, secondo il “pensiero polare” tipico della mentalità greca antica, in base a cui è possibile pensare ogni cosa come il prodotto di una delimitazione su uno sfondo illimitato.
L’armonia cosmica Una delle caratteristiche della filosofia pitagorica è la credenza in
un universo ordinato, armonico, buono, retto da una proporzione equilibrata tra i suoi
elementi, cioè i numeri; ne è prova, sostiene Pitagora, il fatto che esistano rapporti
matematici esatti tra le cose, riscontrabili sia nell’astronomia sia nella musica, dove la
gradevolezza di un suono si lega al rispetto di proporzioni precise tra le note. Corollario
di questa idea è il nesso, tipico della mentalità greca, tra il buono e il bello (buono è ciò
che è anche bello), nel quale sussistono rapporti armonici tra gli elementi che lo compongono.
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La Grecia arcaica e i primi filosofi
I presocratici
� Paragrafo 3 �
sintesi
Eraclito
I concetti di nous e lògos Introdotti per la prima volta nel lessico filosofico da Eraclito,
i concetti di lògos e nous sono fondamentali nello sviluppo del pensiero greco. Mentre il
lògos si identifica con la ragione, con il discorso razionale, il nous è l’intelletto, l’intelligenza, che è patrimonio comune di tutti gli uomini ma che, tuttavia, di norma i mortali, appellati come “dormienti”, usano di rado. Per Eraclito la vera conoscenza deriva
dal ricercare nelle cose l’elemento comune, universale, e può essere raggiunta solo tramite l’intelletto, che permette alla verità, sotto forma di lògos, di rivelarsi e manifestarsi. Ciò
che è vero, infatti, per Eraclito si impone anche come un discorso razionale dimostrabile
e coerente.
La distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale Eraclito è il primo
filosofo, nella storia del pensiero occidentale, ad aver operato la distinzione tra conoscenza
sensibile e conoscenza intellettuale, sostenendo la superiorità di quest’ultima. I principi
universali possono essere colti solo dall’intelletto, e non dai sensi, che forniscono
all’uomo conoscenze particolari, frammentarie, mutevoli: al massimo, la sensibilità può rappresentare un primo livello di conoscenza, utile per la raccolta di informazioni, ma appartiene solo all’intelletto la capacità di individuare le leggi generali della realtà.
Il conflitto «padre di tutte le cose» Eraclito sostiene che il conflitto (in greco pòlemos,
che significa anche “guerra”) è il padre di tutte le cose e che l’armonia della realtà
consiste in un perenne stato di tensione tra gli opposti. Il concetto viene espresso dal filosofo di Efeso con l’eloquente metafora dell’arco: questo oggetto può svolgere la sua funzione se, e soltanto se, la corda e il legno ricurvo permangono in uno stato di tensione,
mentre cessa di essere ciò che è e di funzionare se la tensione di una delle due parti si
allenta. Allo stesso modo, spiega Eraclito, ogni cosa, concreta o astratta che sia, è tale
solo in relazione al suo opposto: la giustizia si determina come virtù proprio in relazione
all’ingiustizia, che è il suo contrario. Il conflitto rappresenta, dunque, quell’armonia
invisibile che si cela nella molteplicità del reale e ne costituisce la sostanziale e profonda
unità, in accordo con la celebre espressione «tutto è uno» che rappresenta l’essenza della
filosofia di Eraclito.
Il divenire Eraclito è passato alla storia come il “filosofo del divenire”. Nei cosiddetti frammenti del fiume, il divenire come principio della realtà trova un fondamento, nonostante
non compaia in essi l’espressione “pànta rèi” (“tutto scorre”) che spesso gli viene attribuita.
Una possibile sintesi tra la tesi del “conflitto tra gli opposti” e quella del “divenire di tutte
le cose” consiste nel considerare quelle coppie di contrari che si oppongono “in successione”, come il giovane e il vecchio. In tal senso, allora, il divenire non è che una forma particolare di conflitto tra opposti, che non solo si determinano uno in relazione all’altro (il giovane
è tale solo in rapporto al vecchio, e viceversa), ma che sono in un certo senso la medesima
cosa (il giovane e il vecchio sono lo stesso individuo, seppur in due fasi diverse). Il divenire in
natura è simboleggiato per Eraclito dal fuoco: il fuoco, infatti, da un lato ha la caratteristica
di poter trasformare tutte le cose (tutte le cose possono prendere fuoco), dall’altro muta in
ogni istante, pur rimanendo la medesima cosa.
� Paragrafo 4 �
Gli eleati
Senofane
La critica alla visione tradizionale degli dei La parte più interessante del pensiero di
Senofane, poeta e filosofo anticamente considerato il fondatore della scuola di Elea, riguarda
la sua polemica contro la tradizione mitologica greca e la conseguente visione degli
dei. Le divinità olimpiche, sostiene Senofane, sono state concepite prendendo come modello
gli esseri umani che le hanno create, ed è per questo che agli dei sono attribuite azioni e qualità spesso sconvenienti e moralmente inaccettabili. Senofane, nel distinguere nettamente il
piano degli uomini da quello divino, concepisce, invece, un unico dio supremo che muove
il mondo e tutte le cose che ne fanno parte con la sola forza del pensiero. A questa divinità
egli attribuisce tratti simili a quelli che Parmenide conferirà all’essere.
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La Grecia arcaica e i primi filosofi
I presocratici
sintesi
Parmenide
La via dell’affermazione come l’unica valida Nel proemio della sua opera Sulla natura,
Parmenide traccia le due vie di ricerca della verità che possono essere pensate: quella dell’affermazione, che in merito alla realtà afferma ciò che essa è, e quella della negazione, che
invece afferma ciò che essa non è. Delle due, soltanto una è percorribile, ed è quella dell’affermazione. Il non essere, infatti, per Parmenide non può essere né pensato né detto, e il
regno della verità coincide con quello di ciò che esiste. Chi vuole conoscere la verità e cogliere l’essere, quindi, non può percorrere la via della negazione.
L’essere In accordo con il suo metodo di ricerca della verità, le caratteristiche che Parmenide attribuisce all’essere non contengono alcuna possibilità di negazione. L’essere è
infatti definito come ingenerato, incorruttibile, omogeneo, immobile, intemporale, indivisibile, continuo, uno, senza fine. Per descriverlo, Parmenide usa la metafora di una “sfera
perfettamente rotonda”.
Fortuna del metodo parmenideo Che sia impossibile usare la negazione per definire
l’essere, come sostiene Parmenide, è una posizione ampiamente criticabile (Platone e Aristotele prenderanno, infatti, le distanze da essa); tuttavia, è comunque da sottolineare la rilevanza filosofica del ragionamento che egli per primo ha introdotto, e che godrà di ampia fortuna
nel corso della storia della filosofia e della scienza. Lo sforzo teorico di Parmenide è infatti
teso a stabilire la corrispondenza tra la “realtà” e la “verità” del pensiero che la descrive.
Ora, per conoscere la realtà è possibile sia partire da come essa appare per poi definire vere solo le affermazioni che la descrivono correttamente, oppure partire dal pensiero
razionale (lògos) e dalle sue regole interne, e accogliere come vero essere solo ciò che si attiene a tali regole. Quest’ultimo è il metodo privilegiato da Parmenide. Le scoperte astronomiche di Copernico e Galileo sono state possibili proprio grazie a quest’ultimo metodo, che ha
permesso di stabilire, in base a precisi procedimenti dimostrativi e nonostante le apparenze,
che è la Terra a girare attorno al Sole, e non viceversa.
Zenone e mElisso
Il “ragionamento per assurdo” o “paradosso” Gli autori antichi attribuiscono a Zenone
l’invenzione della “dialettica”, intesa come quel metodo argomentativo che, invece di partire
dalla descrizione della realtà, parte dalle asserzioni che su di essa si possono formulare. In realtà, ciò che a Zenone può essere legittimamente attribuito è la scoperta di quella parte della
dialettica che nel linguaggio matematico si definisce “ragionamento per assurdo” (o paradosso): esso consiste nel negare che una certa proposizione x sia vera, per poi mettere in luce
gli esiti assurdi e contraddittori che ne conseguono e giungere, infine, ad ammettere la necessità della verità dell’asserzione x. L’originale metodologia inventata da Zenone ha come scopo
principale la difesa delle posizioni parmenidee dagli attacchi dei suoi detrattori. Il più celebre
dei paradossi è quello di Achille e la tartaruga, ideato per dimostrare l’infondatezza delle tesi
che negano l’immobilità dell’essere sostenuta da Parmenide: esso afferma che, se Achille fosse
sfidato da una tartaruga nella corsa e concedesse alla tartaruga un piede di vantaggio, egli non
riuscirebbe mai a raggiungerla, dal momento che Achille dovrebbe prima raggiungere la posizione occupata in precedenza dalla tartaruga che, nel frattempo, si sarebbe spostata di un certo
intervallo di spazio; così la distanza tra Achille e la tartaruga non potrebbe mai arrivare ad
essere pari a zero.
Differenza tra estensione in senso fisico e matematico Ciò su cui si fondano tutti i
paradossi di Zenone è la differenza tra estensione in senso fisico ed estensione in senso matematico: mentre una linea tracciata su un piano fisico ha una certa dimensione, e quindi
contiene un numero finito di punti, un segmento matematico-geometrico è invece composto
da infiniti punti. Quindi, tornando al paradosso di Achille e la tartaruga, se Achille corresse
su un piano concreto, e non lungo una linea matematica, raggiungerebbe con facilità la lenta tartaruga. Il senso implicito dei paradossi è quindi mostrare l’essenziale differenza tra
il piano della razionalità, espressa dalle discipline matematiche, e quello del reale.
Melisso Anche Melisso di Samo condivide i principi di fondo del pensiero di Parmenide.
Sostiene tuttavia, diversamente dai predecessori, che l’essere è infinito (se fosse finito sarebbe
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La Grecia arcaica e i primi filosofi
I presocratici
sintesi
limitato da qualcosa di altro da sé, e questo non sarebbe possibile). Inoltre Melisso è il primo a
dimostrare l’eternità dell’essere (se l’essere fosse generato prima di essere qualcosa sarebbe
stato nulla, il che è impossibile). Come ricorda Aristotele, che per questa ragione lo considererà un filosofo molto meno raffinato di Parmenide, Melisso tende a trasporre l’essere e le sue
caratteristiche dal piano metafisico a quello fisico, negando per esempio l’esistenza del vuoto.
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I “pluralisti”
Empedocle
La spiegazione del divenire Fedele alle posizioni parmenidee e al principio secondo cui
nulla si genera dal nulla né si distrugge nel nulla, Empedocle riesce, a differenza di Parmenide,
a spiegare il divenire che è manifesto nella realtà: sostituendo i termini inesatti di “generazione” e “distruzione” con quelli di “composizione” e “scomposizione” di elementi che
rimangono ingenerati e incorruttibili, Empedocle rende ragione del divenire della realtà che si
mostra agli occhi di tutti, senza contravvenire al contempo ai principi dell’eleatismo. Nulla si
origina e nulla si distrugge, dunque, ma tutto si trasforma, sostiene Empedocle. Probabilmente trova qui una spiegazione la credenza nella metempsicosi, sostenuta in qualche frammento.
I quattro elementi I quattro elementi ingenerati e incorruttibili – chiamati da Empedocle
“radici” – che si mescolano tra loro, dando origine al divenire delle cose, sono aria, acqua,
terra e fuoco. Essi corrispondono ai diversi stati in cui si presenta la materia: solido (terra),
liquido (acqua), gassoso (aria); il fuoco è invece inteso sia come calore sia come luce, e considerato una sorta di materia. Tale concezione dei quattro elementi godrà di ampia fortuna
durante l’Antichità e il Medioevo, e costituirà la chimica di base fino all’avvento della scienza sperimentale nel XVIII secolo.
Il ciclo cosmico Per spiegare il divenire, Empedocle introduce anche i due principi di Amicizia e Inimicizia, intesi come le due forze cosmiche che presiedono rispettivamente al moto
che spinge le cose a unirsi e a quello che le spinge a separarsi. Combinando le due forze
cosmiche con i quattro elementi, egli arriva a ipotizzare un ciclo universale, eternamente
reversibile, che oscilla tra lo stadio estremo in cui vi è il dominio massimo dell’Amicizia
(principio a cui Empedocle concede la superiorità) e quello in cui vi è il dominio massimo
dell’Inimicizia, e viceversa. Essendo tale ciclo di lunghissima durata, gli uomini non sanno in
quale momento del ciclo cosmico vivono, né in quale direzione esso si sta muovendo.
«Il simile conosce il simile» In merito alla questione di come sia possibile la conoscenza,
Empedocle sostiene la celebre tesi che «il simile conosce il simile»: essendo ogni cosa costituita dalle quattro radici, noi riconosciamo nelle altre cose gli stessi elementi di cui
anche noi siamo composti; in altre parole, è l’acqua che è in noi che ci fa conoscere l’acqua che c’è nelle cose, e così per tutte le altre radici. È lecito supporre che Empedocle, sulla
scia della sua teoria dei quattro elementi, non ammettesse distinzione alcuna tra piano sensibile e intelligibile, materiale e spirituale, fisico e psichico. Da qui le definizioni di un pensiero
“che è sangue”, o della ragione come una “cosa” capace di “dividersi”.
Anassagora
I “semi” Fedele anch’egli ai principi di Parmenide secondo cui nulla nasce e nulla perisce,
Anassagora spiega il divenire concependolo, al pari di Empedocle, come mescolanza e
disgregazione di elementi, ma, a differenza di Empedocle, chiama questi elementi semi: di
numero infinito, identici tra di loro e divisibili all’infinito, i semi corrispondono alle qualità
percepibili. In ogni cosa, sostiene Anassagora, sono presenti i semi di tutte le altre (da qui la
celebre espressione “tutte le cose insieme”) e, se una cosa è tale, lo è perché vi prevale un
certo seme in quantità. Aristotele chiamerà i semi di Anassagora omeomerie (“parti uguali”), per il loro essere divisibili all’infinito, mantenendo inalterato il proprio carattere.
Il nous Anassagora postula una forza che fa muovere e ordina i semi, imprimendo loro
l’energia necessaria alla trasformazione. Questa forza è chiamata nous, o intelletto, definito
“la cosa più pura e sottile” che governa i semi senza mescolarsi a essi. Secondo la
cosmologia ideata da Anassagora, il nous avrebbe trasformato il caos primordiale dei semi in
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La Grecia arcaica e i primi filosofi
un cosmo ordinato, imprimendovi un movimento turbinoso che ha portato le sostanze a
dividersi o aggregarsi tra loro secondo il più raro e più denso, dando così origine al mondo
com’è.
Democrito
Gli atomi e il vuoto Come per gli altri pluralisti, anche in Democrito troviamo l’esigenza
di rispettare i principi di Parmenide, cercando al contempo di spiegare la molteplicità e l’apparente divenire. L’essenza ultima delle cose, per Democrito, è costituita da particelle di
materia indivisibili (atomi), ingenerate, incorruttibili, che si muovono nel vuoto, anch’esso
concepito, al pari degli atomi, come una cosa che è. Sempre in accordo con Parmenide, Democrito postula gli atomi sostanzialmente uguali, privi di ogni determinazione qualitativa,
come colore, odore ecc., e differenti tra di loro solo nella forma. Combinandosi tra di loro,
gli atomi danno origine alle cose come le vediamo.
L’origine delle qualità Per spiegare la molteplicità delle qualità esistenti, Democrito postula che esse dipendano dalle caratteristiche geometrico-quantitative degli atomi: le qualità
non esistono in natura, né ineriscono agli atomi stessi, ma derivano dal contatto tra atomi che hanno una certa forma e l’organo di senso che li percepisce. Ne consegue una
radicale sfiducia, da parte di Democrito, nei confronti della conoscenza sensibile, per natura
irrimediabilmente soggettiva.
La conoscenza degli atomi Di contro alla scarsa affidabilità concessa alla conoscenza derivante dai cinque sensi, Democrito afferma la genuinità di un altro tipo di conoscenza, che
indaga ciò che è nascosto, cioè gli atomi e il vuoto, che la sensibilità non può percepire. Si tratta
della conoscenza razionale, basata sul metodo parmenideo improntato al rispetto di alcune
esigenze teoriche imprescindibili.
Il materialismo di Democrito In accordo con la sua concezione della realtà costituita da
particelle di materia indivisibili (atomi), Democrito concepisce anche l’anima in senso
materialistico, come composta di atomi sferici. Mediante la respirazione, il corpo reintegra di continuo gli atomi di vita, e muore al cessare della respirazione. Con il meccanismo
degli atomi sono spiegati anche i sogni e le apparizioni, di cui sono responsabili le pellicole di
atomi (èidola), che si staccano dagli oggetti e, muovendosi nell’aria, vengono infine percepite
dagli organi di senso.
L’euthymìa Democrito, di cui ci è rimasto un gran numero di frammenti di argomento etico, identifica la felicità dell’uomo con la “tranquillità dell’anima”, definita con il termine greco euthymìa. Essa è frutto della moderazione, di uno stile di vita modesto, attento al
controllo razionale degli impulsi, delle passioni e dei desideri.
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